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Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 21/07/2012, 1:43
da Simone Pelatti
MOM
storie di madri (e figli)


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"di mamma ce n'è una sola"... "fatti mandare dalla mamma a prendere il latte"... "tale mamma, tale figlio"
ed ecco il tema della gara 32: la mamma, o meglio, il rapporto madre figlio/a/i/e/u(per chi ha genitori sardi e per completare le vocali).

Per questa gara, dato che le regole le faccio io, oltre al racconto saranno apprezzati scritti in forma di diario e lettera. comunque il racconto breve va sempre bene.

inoltre, e qui vi voglio, all'inizio di ogni racconto dovrà essere scritta una breve (meno di 10 versi) poesiola che rimandi al racconto che la segue. non importa che la poesia sia una sintesi completa del racconto, ma che trasmetta o enfatizzi le emzioni che si troveranno nel testo. perchè vi voglio belli emotivi e senza paura di farlo vedere.

ah, non c'è nessuna scusante per evitare la composizione e la scrittura della poesia, che deve essere farina del vostro sacco e non di qualche sito di biglietti d'auguri (controllerò personalmente).
La poesia NON partecipa al conteggio delle battute. vi chiedo però di non approfittarne. 10 versi al massimo.


qui sotto scoppiazzo bellamente quello che era scritto nel bando della gara precedente.

MODALITÀ
Valgono tutte le regole ufficiali: viewtopic.php?f=80&t=2308
Una volta postati i racconti non potranno essere modificati, se non al termine della gara per la pubblicazione sull’ebook.
Ricordo che la lunghezza massima del testo è di 1000 parole o 6000 caratteri con una tolleranza del 10%.
I racconti in Gara vengono postati di seguito a questa discussione fino alle 24'00 del 31/08/2012.
In questo Topic inserite solo i racconti.
Per i commenti, le chiacchiere e le votazioni: viewtopic.php?f=80&t=4053
Si potrà commentare e votare dalle 00'00 del 01/09/12 alle 24'00 del 07/09/12

GENERI
Sono ammessi tutti i generi: noir, fantascienza,ecc... purché venga rispettato il tema della Gara.

un appunto:IL NOSTRO CARO MASTRONXO, DOPO LA VELATA DICHIARAZIONE DI PREFERENZA DEL GENERE HORROR (vedi post viewtopic.php?f=80&t=4047), E' CALDAMENTE INVITATO A REDARRE IL SUO RACCONTO IN SUDDETTO GENERE. ALTRIMENTI... non lo so, ma ricordo che il mio potere su quanto accade in questa gara rasenta quello del master di una partita a D&D :smt074

PUBBLICAZIONE E PREMIO
La pubblicazione dei racconti avverrà in digitale, con il consueto ebook.
il vincitore avrà onore e onere di organizzare la gara successiva.
inoltre riceverà da Ser diplomino, segnalibro e la mitica ACCOMPAGNATORIA.

IMPORTANTE:
A Lorella15 verrà sommato un punto aggiuntivo a quelli ottenuti dal suo racconto per avere risolto il tototema di Gara 32.

Al racconto postato va allegata una immagine a vostra scelta

La partecipazione a questa Gara (che presuppone la lettura completa del bando) mi autorizza a usare il testo solo ed esclusivamente per la pubblicazione nella modalità dell’ebook.

Chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio. In caso contrario verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione.

Chi organizza la Gara (io) questa volta non vi partecipa, potrei scrivere lo stesso un racconto, ma sarebbe fuori gara, commentabile ma non votabile.

I voti saranno, come da regolamento, da 1 a 5.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 21/07/2012, 13:34
da Nathan
poesiuola


Dolce come lo zucchero,
Forte come la roccia,
Buona come una angelo,
Coraggiosa come un eroe,
Unica come nessuno mai.


“Ama…mamm…Ama!”


Se c’è una cosa che mi fa imbestialire è quando mi svegliano di soprassalto. Quel maledetto campanello non fa altro che trillare. E se non è il campanello è il telefono. E se non è il telefono è il Mucco, come in questo caso.
Il Mucco proprio non lo sopporto. Suona ogni due ore con quello strano verso che dovrebbe risultare divertente. Io lo odio. Sembra il verso di … bah, non so nemmeno cosa potrebbe essere. In effetti non so cos’è. Io lo chiamo Mucco. Dopo poco che suona ecco che compare lei.
Lei è alta, non quanto lui, ma è alta. Ha una bella voce, ma fisicamente non è tanto bella. Soprattutto quando fuori è buio e deve accendere la luce, ha una faccia che non vi dico. Però di giorno è diversa, anche la sua voce è diversa, più calda, più piacevole. Ed è anche molto più bella.
Adesso è giorno, meno male, perché certe volte mi mette un po’ di paura. Una volta è comparsa davanti con la faccia tutta verde e appiccicosa! In testa aveva dei cosi colorati che gli avevano mangiato i capelli! Non esagero a dirmi che me la sono fatta sotto. Letteralmente, e credetemi non è un bello spettacolo.
E poi non ho dormito tutta notte dalla strizza. Meno male che il giorno dopo è tornata normale, gli sono ricresciuti i capelli e la sua pelle era morbidissima e profumava di buono. Ecco, non sarà bellissima, ma ha un buon odore. Molto buono.
Non come quella bestiona che si prende cura di me quando sono a casa da solo. Lei non mi piace per nulla. E’ grossa, grossissima! E poi è vecchia. Quando arriva la prima cosa che fa e venire da me e urlare cose senza senso con una voce stridula e gracchiante.
Poi c’è la donna in mignatura. Deve essere nana. Somiglia a lei, quella alta intendo, non quella grossa. Non mi sembra molto sveglia, e cammina male. Non è cattiva, ma nemmeno buona credo. Ogni tanto mi ruba le mie cose e lei la sgrida un po’. Mi sa che l’avrò tra i piedi per molto tempo.
C’è né in giro di gente strana… prendi invece lui. Lui che sta con lei intendo, quella che ha un buon odore. Alto, molto molto moooolto forte, parla poco e quando sta con me fa discorsi strani. Ogni tanto mi prende e mi solleva fino al soffitto. La prima volta gli ho vomitato addosso anche quello che ho mangiato il giorno prima. Pensavo mi volesse lanciare contro un muro!
Poi invece ho visto che, pur non lasciarmi cadere quando mi sono dimenato, ha sfondato l’armadio dei bicchieri tagliandosi un braccio. Così ho capito che non voleva farmi male. Quella volta lei si è arrabbiata un sacco. Ho detto che ha una bella voce, ma non sempre. Quando si mette a urlare è cento volte meglio il Mucco. Oddio, anche io se mi dò da fare sono capace di urlare mica male. Una volta ho urlato tanto forte mi hanno trascinato fuori da un ristorante. D’altra parte state voi imprigionati per due ore a vedere gli altri che mangiano quello che vogliono, mentre tu sei costretto a ingurgitare quel maldetto intruglio puzzolente. E non sei solo costretto a mangiarlo, ma devi mangiarlo tutto. Te lo cacciano in bocca fino a quando non ti intoppano! E poi non devo perdere le staffe…
Anzi, da quel giorno ho capito che perdere le staffe serve! Adesso, ogni volta che me le fanno girare, urlo come se mi rincorresse il Baobao. Funziona benissimo, in un attimo tutte le attenzioni sono per me!
Però con il Baobao non si scherza, no no! Io non l’ho mai visto, ma c’è sicuramente, visto che lei non fa che ripetermelo. E di lei mi fido. Ha un odore così buono… E anche una bella voce.
La sera canta per me prima che chiudo gli occhi. Le voglio bene, più che a tutti perché lei mi ama. Gli ho anche trovato un bel nome, ma non riesco ancora a dirlo bene.
Eccola che arriva, ora farà star zitto il Mucco, mi porterà del latte caldo, mi farà una carezza e mi riempirà di baci. Si, le voglio proprio bene.
“Ama…mamm…Ama!”

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 22/07/2012, 2:51
da Umberto Pasqui
Quella signora antica, col ventaglio
È lei: chissà se è ver oppur mi sbaglio.
No, no, la vedo triste, è là seduta:
e piange e nel suo dolore è muta.
La mamma che distante egli rimira
causò la fine sua, la sua ruina;
ma ora al suo calore forte aspira
perché ella è pur sempre la mammina.


Ci siamo guardati solo un attimo

Uno sguardo. Poi il buio. Poi di nuovo la luce. Ma tu non c’eri. Eravamo in due dentro il tuo corpo, poi abbiamo avuto due diverse possibilità. Ci siamo guardati solo un attimo ma ora non so se saprei riconoscerti. Chi sei? Chi c’è dietro quegli occhi? Per qualche istante non ho capito niente: ero al caldo, con mio fratello, in te. Mio fratello è uguale a me: siamo gemelli, così si dice. Mi avresti visto ridere così, con le stesse sue attitudini, quello sguardo ironico e quella gestualità calorosa e accentuata. I nostri piedi si accarezzavano ogni momento, ci sentivamo inseparabili, avvinti assieme a te. E poi più niente. Hai scelto. Hai compiuto una scelta che non dovevi fare, non ho nemmeno un nome. E poi ho capito, perché da qui si vede tutto e meglio. Hai agito con leggerezza, non eri consapevole delle tue azioni, forse. Volevi questo? Pensavi di liberarti di un problema? La libertà non è questa e ora lo sai anche tu, tu che ora sei seduta triste, con gli occhi spenti, con la pelle del colore della morte. Rossetto e orecchini non distraggono dalla tua miseria interiore, ti sei resa schiava del rimorso al traino di decisioni irragionevoli, ti sei arresa alla strada facile del pensiero dominante. Non sapevi che nessun mortale può decidere sulla fine della sua e dell’altrui vita. O forse i nonni te l’avevano detto ma poi, lungo la strada della vita, ti sei smarrita. Non so quali ragioni ti abbiano spinto a gettarmi in un cassonetto, non ti giudico, ti aspetto, mamma. Come sei bella! Ti ho visto per qualche istante, ci siamo guardati solo un attimo, e poi giù tra i rifiuti. Ora ti osservo e ti seguo, rido quando ridi e cerco di confortarti quando sei triste. Certo, non è facile dal momento che siamo in due stanze diverse. Ci provo; questa lettera, scritta a distanza di anni, è uno dei modi: spero che riuscirai a leggerla. Non piangere più, anzi, poi ti racconterò chi ho incontrato e che cosa mi è successo. Credo di assomigliarti, forse per il profilo del naso, forse per il taglio della bocca: non so esattamente perché, ma si vede che sono tuo figlio. Ho tanto anche del babbo, che mi saluterai, di cui non ho sentito mai nemmeno il respiro. Dovrai scontare tanta sofferenza e sarai giudicata per quello che hai fatto, qui e là. Ma rimani sempre mia mamma, quindi ti aspetto per abbracciarti. Qui si sta bene, le tue angosce saranno sanate. Non ho fretta, prenditi cura di mio fratello: quando accadrà, ci abbracceremo e sarà davvero per sempre.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 22/07/2012, 17:33
da Arditoeufemismo
“Nun fa la vittima, nun te piagne addosso!”
Me ripetevi tu pe rendeme più forte
Scusame però, Ma, se contro questa sorte
oggi senza piagne, sta proprio nun posso.


NON ANCORA

Giornata drammatica oggi. È passata per fortuna.
Corro via lasciandomi dietro un cielo nerissimo, nervato da scariche elettriche bluastre come vene in rilevo sulle braccia di un vecchio.
Alla mia destra l'arancio rosato del tramonto proietta una luce irreale sui palazzi di fronte.
La strada è un asfalto fatto di piccolo brecciolino pressato. Somiglia al finto carbone zuccherino che porta la befana.
Nella testa rimbomba la cronaca lucida che lei mi ha reso.
Mi ha raccontato come ci si sente a vedere la morte in faccia.
Il suo riportare è fatto di spilli gelidi e metallici nelle dita di mani e piedi. È fatto di scintille dorate che si sono sovrapposte alla realtà. Fatto di panico. Di respiro che manca. Dell'annaspare convulso. E fatto di stanchezza e di voglia di addormentarsi.
Finalmente.
Non ancora.
Sveglia. Signora? Mi sente? Su! Un bel respiro. Apra gli occhi! Mi sente?
Duemilasei.
Esiste uno specialista per ogni malattia. Esiste un’analisi specifica che ricostruisce il nostro dna, che conta le colonie di batteri. Eppure sei sola, mamma. Ti lasciano morire sola. Sei una statistica che ha significato solo se riportata in una specifica casistica. Altrimenti, boh?, dato non pervenuto. Esistono medici sempre più lontani da Ippocrate. "Non sono un mago" mi ha detto quella faccia arrogante sopra un camice bianco. "Io infatti non sono a Hogwarts ma in un ospedale" gli
ho rigettato io.
Sorrido quando penso alle periodiche telefonate che mi arrivano a domicilio chiedendo dell'attuale esistenza in vita. Stanno aggiornando le statistiche.
Basta.
Quel che resta del giorno non voglio inquinarlo con questi pensieri che non cambieranno di una virgola il destino che è scritto per ognuno di noi.
Il mio Ipod riproduce la colonna sonora che cercavo e che ho trovato. Lezioni di piano. Bellissimo film. Dolcissima musica.
Tutto comincia a scorrermi intorno al rallentatore. La mia ruota anteriore solca la corsia di emergenza di questa autostrada che penetra la città. Strisce bianche veloci e intermittenti si muovono come i tasti pigiati con leggiadria sul pianoforte che rapisce il mio udito.
Quiete.
Intorno il mondo corre impazzito.
Ma sto bene. Sono calmo. Caldi cromatismi crepuscolari. Vento tiepido in faccia. Musica di velluto a carezzarmi. Torno a casa.
Mamma sta meglio. Io pure.
E domani è un altro giorno.

ACQUEMARINE
Gli occhi di mia madre sono acquemarine.
Il colore vacuo e liquido dei due gioielli è esaltato dal pallore innaturale del suo viso tagliato a metà dai tubicini dell'ossigeno.
Non sono abituato a vederla così, mamma. Lei sempre vitale, energica, vulcanica, propositiva e ironica. Lei sempre attentissima al trucco e alla mise.
Il sorriso, che non l'ha mai lasciata neanche durante questo periodo duro, da qualche giorno è scomparso.
Sembra una bambina impaurita. La fronte un po' accigliata. Non parla ma i suoi occhi scrutano tutto. Soprattutto i nostri volti.
Ogni tanto torna lei e il suo carattere forte si fa sentire materializzando improperi verso la badante rumena più rincoglionita del mondo. Ogni tanto, ma sempre più raramente, con un filo di voce, da brava romana, se ne esce con la battutina ironica.
Mamma sembra un uccellino indifeso.
Prima la nostra presenza bastava a tranquillizzarla. Ora ha capito che anche noi siamo impotenti di fronte al fato segnato e impietoso.
Non voglio dirti, qui, tutto l'amore che nutro per te, nonostante i nostri caratteri simili spesso si siano scontrati.
Voglio invece dirti che, anche così, costretta su quel letto, tra le cose che ami, nella casa che hai reso unica fin quando hai potuto con la tua creatività e il tuo gusto, voglio dirti mamma: sei bellissima.

PANTA REI
Platani arrossiti carezzati dal vento si spogliano come lapdancer. Lentamente, dosando malizia e sapienza, ondeggiano a Eolo lasciando cadere foglie come mille paillettes di un costume di scena. Ho fermato lo scooter argentato. Le manopole sono gelate ma non ho voglia di mettere i guanti.
A Roma non è mai così freddo, a Roma non è mai così brutto.
La strada è animata.
Il peso della cultura racchiuso in uno zaino di wrestling grava le spalle di un apatico ragazzino che una frettolosa mamma trascina.
I palazzi ocra hanno per tetto un cielo roseo e striato.
È presto e ancora qualche finestra è illuminata. Come quella del terzo piano, le cui persiane sono aperte. Dietro a una vetrata all'inglese di piccoli riquadri bianchi, una fronte si appoggia a guardar fuori. È una donna che se ne sta al caldo, coccolata da un grande maglione. Tiene in mano una tazza fumante. Non vedo bene il suo viso. Solo una figura dolce, attenta e distratta al contempo alla scena a cui assiste.
Vorrei essere li vicino a lei. Per assistere da lassù a quest'alba romana e non sentirmi così maledettamente solo.
Tutto passa.
Anche questa prima alba senza di te, Mamma.
Non ci sarai più per me.
Roma ha perso il tuo sorriso.
Ma non lo sa.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 23/07/2012, 12:34
da Lodovico
Lilith.

Pianto di madre
muore nel vento.
Fine del tempo.

Mater Lacrimarum.
Una goccia calda e salata percorre la mia guancia fino a giungere all’angolo delle labbra. Osservo il tuo corpo, figlio mio, farsi sempre più piccolo. Non piangi o, almeno, non lo sento. La distanza che ci separa cresce sempre di più. Ho ancora le braccia tese sopra la rupe, quelle stesse braccia che, pochi secondi fa, ti sorreggevano. Tra poco il mare ti riceverà, dopo la lunga caduta. Addio, bambino mio, addio. Possa il dio del mare accoglierti tra i suoi flutti e cullarti durante il tuo ultimo viaggio. Troverai nell’aldilà qualcuno che ti desideri, non io.
Ti ho sentito crescere dentro me come un cancro che si mangiava la mia giovinezza e la mia bellezza. Ti sei appropriato del mio corpo e, in nove mesi, lo hai sfigurato, distrutto. Hai fatto di me una donna diversa, non mi riconosco più. Hai ucciso la ragazza che ero. Non te lo perdonerò mai. A mai più, figlio mio.

Mater Suspiriorum.
Tossisco, respiro a stento. Ormai la luce fioca della lampadina del garage è talmente attutita dal fumo da risultare impercettibile. La puzza del gas di scarico diventa sempre più insopportabile. Lo faccio per te, per il tuo bene. Mi volto verso il tuo viso. Tu dormi. Ho allacciato le cinture del tuo seggiolino come per il timore che un incidente possa farti del male durante il nostro ultimo viaggio. Ma non sentirai dolore, te lo prometto. Qui nella stanza chiusa l’automobile accesa ci porterà a fare il viaggio più lungo della nostra esistenza. Ti amo, piccolo mio. Ma la vita è crudele. Le speranze sono finite. Non ti posso mantenere, bambino mio. Niente lavoro, né soldi, né casa. Ce ne andiamo in punta di piedi da questo mondo in cui nessuno ci compiangerà. E staremo insieme. Sempre insieme, io e te.

Mater Tenebrarum.
Metto in tasca le chiavi della casa che era stata la mia casa e salgo le scale senza fare alcun rumore. Buio. Ti vedo appena. Ma non accenderò la luce. Sveglierei tuo papà che dorme nel letto matrimoniale vuoto per metà. Conosco la stanza. Quella stessa stanza che ha accolto me e tuo padre, i nostri corpi e i nostri sogni. I progetti e le speranze. E poi te. La nostra vita, la mia vita. Ma ora tu non ne fai più parte. Ho sbagliato, lo so. Ma ho sbagliato per amore. Sono fuggita, ma non da te. L’altro uomo pensavo mi potesse dare quella felicità che con tuo padre non provavo più. Lo so che un anno è tanto. Sono stata lontana così tanto tempo da non ricordare il velluto della tua pelle, il mare dei tuoi occhi. Ma ora avrei voluto tornare. E farmi perdonare per il mio errore. Troppo tardi. Quel giudice dai capelli bianchi ti aveva affidato a lui. Che ne può sapere quel vecchio della nostra vita, di me e di te? Tu sei mio. Tuo padre non ti può amare tanto quanto me. Ma io non ti posso abbracciare. Una volta alla settimana, ha sentenziato. Può bastare così poco tempo alla tua mamma per amarti? Non avrà la soddisfazione di tenerti con se. Se non sarai mio non sarai di nessuno. La luce è poca, scarsa. Solo una lama di coltello, sorretta dalla mia mano, brilla sopra il tuo corpo.

Mater Inferorum.
La vendetta, finalmente, è iniziata. La tua stirpe, Adamo, si estinguerà, e per mano proprio di chi la dovrebbe conservare. Hai creduto di liberarti di me, Lilith, scacciandomi dall’Eden. Ero io la prima donna, quella da cui si sarebbe dovuto originare il genere umano. E mi hai preferito Eva, la sottomessa Eva. Ti facevo paura. Avevi ragione. La tua stirpe patirà l’ira del demone Lilith. Sì, demone, perché in questo mi sono trasformata, un demone immortale, con un sogno: quello di sterminare tutta la tua progenie. Ho atteso millenni, ora è giunto il momento. Saranno le madri stesse a sopprimere i propri figli maschi, ognuna avrà i suoi motivi, basta governare le loro anime e guidarle sulla giusta via. Alle prime tre ne seguiranno altre, tutte le altre. La fine è iniziata, amato Adamo.

Un grido di civetta copre il suono del vento nella boscaglia. Un pianto di donna si leva in lontananza.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 24/07/2012, 9:36
da Ser Stefano
Pochi nel creato
mancan di virtù
a un nuovo nato.
Ma anche Dio tace
per le blasfemie
di cui l'uomo è capace.


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SMAMMA

Ciao.
Ecco, adesso mi blocco.
Avrò scritto cinquanta fogli finora. Riempiti solo di un "ciao". La penna si gela sul punto e non so andare oltre. Eppure avrei tante cose da dirti, ma rimangono imprigionate nella testa e non ne vogliono sapere di scendere lungo il braccio.
Ho riempito il cestino di palle di carta, arrotolate con rabbia e frustrazione, fallimento.
Non lo svuoterò fino a che non avrò scritto tutto. Ci conto, ci spero.
Allora... ciao.
Sono tua madre.
Ecco.
Avevo giurato a me stessa di non piangere e sta già venendo giù il diluvio universale.
Mi sono presa un fazzoletto e lo tengo premuto sotto gli occhi. Non voglio sporcare queste pagine. Sarebbe così difficile superare nuovamente quel ciao.
Da dove partire? Da dove iniziare? Non ha importanza.
Non so cosa ti hanno detto o cosa ti hanno taciuto. Non so quanto capirai del caos che sto riversando sulla carta.
Avevo solo il terrore di averti rovinato la vita. Tutto qui. Questa paura mi ha accompagnato per molto tempo, troppo.
Sono finita in clinica sai?
Quando gli anni si sono accumulati e il mio guasto cervello ha cominciato a percorrere binari più sensati, quando ho capito i veri valori, allora sì che è iniziato il mio veloce declino.
È più di un decennio che dormo solo poche ore per notte. Che ardo nella recriminazione.
No, no, no. Non voglio scusanti. Non voglio impietosirti.
Non devi sorbirti le mie giustificazioni.
Volevo solo farti capire il mio stato mentale, quando ho iniziato a cercarti. Perché il tarlo mi rodeva così forte da costringermi a letto, priva di forze, con gli occhi aridi, senza più lacrime da versare. Se esiste un confine con la pazzia, ti giuro che io l'ho attraversato.
Ci sono voluti diversi anni per rintracciarti. Cercavo sollievo. Volevo sapere che non ti avevo distrutto l'esistenza. Desideravo solo un po' di pace. Sì, dirai tu, egoista fino alla fine. E non sbagli di molto. Mi serviva, o sarei morta.
Sono riuscita a scoprire dove vivi, che stai bene. Ti sei da poco sposato, e nonostante le quotidiane avversità, so che sei felice. Tua moglie porta in grembo il primo figlio.
Mi piace pensare che sia mio nipote, ma so che ho perso questo diritto da tempo.
Dio mio. Non puoi immaginare la gioia che ho provato quando ho sentito tue notizie. Ho saltato come una pazza in ogni stanza dell'appartamento. Sono riuscita pure a piangere, ma questa volta erano lacrime di felicità, di una gioia che non pensavo potesse appartenere a questo mondo.
Tu stavi bene. Ed eri cresciuto anche senza di me. Non potevo essere più felice. Amara felicità, certo, ma pur sempre meglio della follia in cui affogavo prima.
Scusami. Ho cambiato fazzoletto e ho perso il filo.
Non voglio annoiarti ulteriormente.
Sappi che sono felice per te. Voglio dirti che la colpa è mia. Solo mia. Tu non c'entri. Ero giovane. Stupida.
Non finirò mai di pagare i miei errori. Stanne certo. I pensieri di ciò che poteva essere e mai sarà, il dolore che ti ho provocato, la vergogna nei confronti di tuo padre.
Ma tutto questo è ininfluente. L'importante è che tu non abbia pagato più del dovuto, che io sia rimasta alle spalle, come un brutto ricordo. Ringrazio il fato per averti dato una vita degna di essere vissuta. Non posso dire lo stesso della mia.
Sento di volerti bene, nonostante tutto. È ingiusto nei tuoi confronti, ma non posso farci niente, è quello che provo, anche se non ti conosco. Suona strano, stridulo, falso, ma non lo è. So che mi odi. So che non ne vuoi sapere di me. Hai ragione. Come darti torto?
Se può farti sentire meglio posso dirti che il dolore di non poter mai vedere mio figlio, la nuora, o il mio futuro nipotino, mi sta portando nell'abisso da cui è stato così difficile uscire.
Me lo merito. Ho fatto quello che una madre non può fare. Quello a cui nessun umano dovrebbe essere concesso. Ne rendo conto a te, e a Dio.
Rendo conto a me stessa. Credimi, non sarò meno severa delle punizioni che potrai infliggermi tu, o Dio stesso.
Voglio solo farti sapere che se ti servono spiegazioni, se vuoi sfogarti su chi è il solo responsabile... io ci sono. Che ironia: assente per tutta la vita e appaio ora che non ti servo. Sono sicura che non mi vorrai, e lo capirò. Ma io ci sono. Anche uno schiaffo, un insulto, uno sputo. Non mi scanserò. CI SONO. ESISTO!
Ecco. Il fazzoletto è di nuovo pieno. Per ora basta. Devo riordinare la mente. E devo permettere a te di fare altrettanto.
Smetto di scrivere prima di imbrattare una lettera che sembra avere una parvenza di senso compiuto.
Mi resta solo da dirti: ciao.
Ma ora non vorrei più smettere di scrivere. Mai più.

12 Gennaio 1999


Non ho mai commentato/spiegato i miei racconti. Stavolta ci tengo farlo.
Questa lettera è di pura fantasia, ma i fatti sono tristemente reali. Ho cercato di immedesimarmi nella nonna, che ha abbandonato mio padre da piccolo perché immersa in un giro vizioso di alta società. Bella vita, belle auto, viaggi... e un piccolo non voluto.
Si è fatta viva ormai anziana. Ha scritto e telefonato.
Mio padre è stato accondiscendente, andando pure a trovarla, ma so che in cuor suo non l'ha mai perdonata. Lo ha fatto solo per dare sollievo a una persona morente e di questo lo stimo. Io non l'ho mai vista mia nonna, se non in foto. Non so se provare rancore per il dolore che ha causato. Fortunatamente non so cosa significhi crescere senza un genitore, ma mi basta leggere gli occhi di mio padre, quando mi racconta degli altri bambini, di come chiedevano dove fosse sua madre e di come non sapesse rispondere.
È mancata a me una nonna, figuriamoci a lui.
Tutti commettiamo degli errori, anche grandi. Ma si può realmente perdonare una madre che abbandona un figlio?
Davvero, non lo so.
Ormai non ha più importanza. Lei non c'è più.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 25/07/2012, 19:34
da Maria92
LA MIA PICCOLA STELLA

Guarda in alto, lontano.
Guarda nel buio, nella notte.
Osservale bene, ancor meglio.
E' quella la stella.

Se hai paura, lei ti è accanto.
Se la notte non dormi, lei ti culla.
Se sei malata, è lei la tua cura.
Ancora una volta, è quella la stella.

Questa è una storia molto particolare. Chiedo solo un briciolo di attenzione e, forse, riuscirete a capire cosa c’è di speciale.
Questa storia ha inizio esattamente 25 anni fa. Miriana era una donna forte, dolce: una grande donna. Purtroppo, non aveva ottima salute. Era affetta da diabete in stato molto avanzato.
Le cose peggiorarono durante la sua unica gravidanza.
“E’ una notte molto buia e fredda. In un ospedale locale, una donna piange forte. I suoi singhiozzi fanno eco nella piccola stanza, avente al suo interno solo un letto, un paio di sedie, un comodino e un televisore di seconda scelta e, quindi, di pessima qualità.
Le lacrime scendono sulle guancie pallide della donna.
Al suo braccio, un filo vi è legato. La donna lo osserva per qualche istante: un liquido biancastro che nasce da una sacca, termina all’interno del suo braccio.
La donna piange ancora; lo sguardo perso nel vuoto.
Di scatto, volta il capo verso la finestra. I suoi occhi verdi, profondi, scrutano l’oscurità della notte.
La donna solleva la schiena. Resta seduta ai bordi del letto, i piedi sfiorano il pavimento.
Lo sguardo ancora rivolto verso il cielo, stavolta attratto da qualcosa.
In effetti, un qualcosa c’è.
Una piccola stella più luminosa di tutte rischiara il buio della notte.
La donna la osserva meglio: piccola, bella, dotata di forza immensa. Una forza che le permette di vivere in quella distesa di nero intenso.
D’istinto, la donna porta le mani verso la sua pancia. Piange ancora più forte. I singhiozzi alti e spezzati, coprono quasi ciò che la donna sussurra:
<< La mia piccola Stella >>.”
Lascio così la mia narrazione.
Preferisco raccontarvi in prima persona il seguito.
Il mio nome è Stella. Quella donna è mia madre.
Purtroppo, lei non è più con me. Sì, avete capito bene, ha sacrificato la sua vita per regalarmi la gioia di un sorriso.
Se oggi sono libera dalla malattia, dal terribile diabete, è tutto merito suo.
Se la mia vita è pura, se riesco a raccontarla, lo devo a lei.
Non sarei affatto sopravvissuta senza il suo dono. Purtroppo, il diabete avrebbe, senza dubbio, contaminato anche me, sin dalla nascita. Ma, grazie al suo sacrificio, la malattia si è dissolta.
Forse un miracolo, forse una magia. Forse la luce immensa di quella stella che mi ha regalato il suo nome.
Io sono libera e con me anche la mia mamma lo è, finalmente. Lo so, ne sono certa!
Non smetterò mai di ringraziarla: lei mi ha donato molto più della vita. Ho con me la sua anima.
Un’anima pura, vera, dolce. Un’anima carica dell’amore che solo una madre può capire.
Un amore che nasce, esattamente, al primo battito del cuore di un bambino.
L’amore che esiste solo fra madre e figlio!

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 30/07/2012, 22:53
da Lorella15
Le parole sono fruste
Sulla tua pelle impreparata
Sulle tue spalle fragili
Cresce questo figlio
Non c’è scuola né apprendistato
E il cuore non sempre è un buon maestro

MAQUILLAGE

Quando devo incontrarla mi chiedo sempre quale delle due vedrò. La Sonia perfetta, quella fresca di parrucchiere, che fuma con la parte interna delle labbra per non sciupare il rossetto oppure la Sonia con i capelli raccolti, i jeans e le scarpe da tennis?
Sonia è decisamente una bella donna, alta tanto da non farti sentire a disagio ma nemmeno bassa. È vicina ai 50, ma il suo corpo non se ne è accorto. È snello e nervoso come quello di una ragazzina. Anche il seno è quello di un'adolescente, nonostante l'aiuto del push up resta sempre piccolo.
È mora di capelli ma l'incarnato è chiarissimo e i suoi occhi neri spiccano sul volto pallido.
Le labbra sottili si aprono spesso al sorriso, riuscendo a spostare l'attenzione dal naso piuttosto grande.
Ho assistito varie volte alla metamorfosi del trucco, segue un rituale preciso, scandito da gesti sicuri. Con una mano si passa il fondotinta e con l'altra già cerca il fard dal beutycase fornitissimo. La pelle, spessa e pallida, lentamente assume un aspetto compatto e liscio. Usa sempre gli stessi colori, ametista per gli occhi, il rigo dell'eyeliner nero e le labbra accese.
Anche questa volta è riuscita a nascondersi.

**************

— È tutta colpa tua! Mi hai sempre soffocato! Non ne posso più, me ne vado e non cercate di farmi cambiare idea, ormai ho deciso!
La giovane donna era sconvolta per la discussione e le occhiaie tradivano diverse notti insonni a rimuginare su quella decisione. Nonostante questo era bellissima e il turbamento la rendeva finalmente viva, non più la bambolina perfetta che appariva nelle foto di qualche pubblicità o a chi la incontrava per strada.
Altrettanto turbata era sua madre. Michela aveva quasi 30 anni ma Sonia non riusciva ad accettare che volesse andarsene di casa. Michela era nata che Sonia aveva solo 17 anni e si era dedicata completamente a lei, quasi un'espiazione alla colpa di questa maternità così precoce. Aveva accettato un lavoro sicuramente al disotto delle sue possibilità, ma quel lavoro c'era e in quegli anni le aveva permesso un'esistenza più che dignitosa, anche quando l'altrettanto giovane marito si trovava più o meno volontariamente disoccupato.
Adolescente aveva giocato come alle bambole con Michela. Cullata, lavata, vestita come una miniatura. Era così carina, i capelli di seta neri che si allungavano a vista d'occhio. Il nasino appena accennato così diverso dal suo naso importante, le graziose mossettine, i vestitini pieni di gale e trine. Si meritava una bambina così perfetta? Sonia esaudiva ogni suo desiderio, ogni capriccio trovava ascolto se non nella mamma nel papà che per evitare qualsiasi scocciatura era pronto a dire di sì.
La bella bimba diventò una bella ragazzina. Poi una donna. Sempre più bella, sempre più viziata e capricciosa.
Apparentemente tutto era perfetto. Anche Sonia curava molto il suo aspetto. Vestiti all'ultima moda, accessori sempre abbinati, il trucco curatissimo, un corpo ancora giovanile, sembrava davvero la sorella di sua figlia. Ogni occasione era buona per esibire una famiglia da spot pubblicitario. Due genitori ancora giovani e una figlia universitaria che nel tempo libero faceva la modella. Ma questa famiglia esisteva solo nei suoi sogni.
Mai un lamento o una confidenza. Riusciva a nascondere agli occhi di tutti la delusione di un ennesimo tradimento del marito come le preoccupazioni per la figlia. Michela non era più una bambolina da vestire, era una donna che non riusciva a trovare la sua strada e Sonia non sapeva aiutarla. Con gli studi era arenata, qualche foto, qualche sfilata ma ormai nel mercato locale era inflazionata. Ma non era questo che la preoccupava. A volte si scambiavano i vestiti e Sonia li aveva trovati sporchi. All'inizio aveva pensato a qualche bevuta fra amici e la conseguente nausea. Ma la cosa si era ripetuta e Sonia cominciò a osservarla meglio. Dopo pranzo andava sempre in bagno ne usciva pallidissima. Si mise dietro la porta e riconobbe i conati del vomito. Un sudore freddo scendeva nella sua schiena, impietrita dietro la porta, mentre nella sua mente si stampava la parola "Bulimia". Aveva letto per caso e con distacco un articolo in una rivista, vorticosamente cercava di ricordare quella superficiale lettura. L'altra faccia dell'anoressia, ricordava solo questo.
Da quella rivelazione erano passati litri di lacrime, fiumi di parole, schiere di medici che avevano messo più o meno in discussione il suo ruolo di madre. E ora Michela le sbatteva in faccia la sua responsabilità — È colpa tua!! — stava ancora urlando mentre Sonia rivedeva come in un film gli ultimi 3 anni della loro vita. Come era stato difficile andare avanti, uscire di casa sempre perfetta e fare finta di niente mentre una morsa di ghiaccio le stringeva il cuore. Nel passato aveva agito d'istinto, come qualsiasi animale con il suo cucciolo, ora ogni azione, ogni decisione venivano sviscerate mille volte, in un autopsia senza fine. E il cadavere era sempre il suo. Sua la colpa di essere stata troppo presente o troppo assente, troppo permissiva con lei e troppo debole con il marito. Sua la colpa di aver sempre mostrato quello che non c'era, di essere vissuta di apparenze. L'illusione era finita da tempo e Sonia era di fronte alla vita vera. E da sola, il trucco disfatto dalle lacrime, si stava chiedendo cosa aveva fatto della sua vita.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 06/08/2012, 20:53
da Mastronxo
La risata della Strega

Tra fresche fronde
verdi,
magre zampe di ragno
tessono placide
la tela.
Si fermano paurose
quando l’aria cigola
atroce, rotta
da risate di vecchia.


In un bollente sabato d’agosto, mi ritrovo disciolto sul divano a riflettere su come riempire questo maledetto schermo bianco. Il fatto è che, quando sono costretto a ricordare un qualunque episodio dove compare anche la mamma, mi vengono sempre in mente quelle due nitide immagini che paiono risorgere dalla terra come gli alberi, e che agli alberi sono immancabilmente legate. Queste due immagini, guarda caso, hanno entrambe a che vedere con l’infanzia.
La prima fotografia del passato mostra un bambino seduto comodo al tavolo della cucina.
«Mamma, io andrò a vivere nel bosco!» afferma con fierezza quel bambino, ancora lontano dal compiere il decimo anno di età, mentre strimpella sulla pesantissima macchina da scrivere ignobili storie di lucertole parlanti e di gnomi torturati dai troll delle foreste. «Sarò come Tarzan, avrò un pitone per amico, e poi sposerò una Ninfea!»
Be’, quel bambino sono io. E la mamma, è la mia mamma. Ma questo si è capito, no?
«Che bravo» risponde la mamma intenta ai fornelli, paziente come (quasi) sempre, infagottata nel suo grembiule rosa. Non si volta e neppure perde tempo a spiegarmi la differenza tra Ninfa e ninfea. È il lavoro del papà, quello.
Proprio mentre il mio piccolo stomaco inizia a lamentarsi del vuoto dentro di sé, ecco la figura di lei che si volta con un piatto strabordante di risotto. «Se non ti va tutto lascialo lì: fa male sforzarsi» consiglia quella voce dal timbro inconfondibile mentre io, abbandonate le storie delle lucertole che si sono messe a divorare i troll delle foreste, mi avvento sulla cibaria ancora prima che la ceramica tocchi la tovaglia. «Pr-f-f-f-iamo…»
«Ales! Non si parla con la bocca piena! Che t’insegnano a scuola le maestre?!»
«Ecco,» riprendo, dopo aver trangugiato un boccone grosso come un pugno, «vedi? Non ci devo più andare, a scuola. Sei te che mi ci mandi! A proposito» continuo, già scordatomi dell’interruzione, «l’altro giorno ho sentito un botto fortissimo, proprio nel bosco. Dev’essere caduto un gigante! Se ci muoviamo forse riusciamo a vedere le impronte.»
Lei sorride, con quell’espressione che assumono spesso i grandi quando hanno a che fare coi bambini, quasi tornino bambini pure loro e debbano impegnarsi per convincere i propri volti a non essere più adulti.
«Non ci credi?» faccio l’offeso, a volte aiuta ad apparire convincenti. «Lo sapevo, nessuno mi crede! Neanche quella scema di sorella!»
«Ales!» urla lei di nuovo, tornando adulta all’improvviso.
«Non è colpa mia! Me l’hanno insegnato a SCUOLA!» me la svigno sperando che le mie parole facciano breccia e la inducano a pensare che a scuola sarebbe meglio non mandarmici mai più.

***
La seconda fotografia, scattata subito dopo la prima, riporta due bambini – il maschietto sono io – che camminano tra gli alberi, armati di bastoni. Quei bastoni ce li ha intagliati il papà, ma non ci ha mai insegnato come farli.
«Non andare così veloce!» urlo a quella scema di sorella, «potrebbero esserci i serpenti sotto i sassi!»
In realtà, non voglio che sia lei la prima a scoprire le impronte. Quando ha saputo della caduta del gigante, è voluta venire a tutti i costi.
La mamma è rimasta un po’ indietro. È da tempo che per muoversi usa solo l’automobile. Per questo, nella foto sembra – e sottolineo sembra – cadere in secondo piano.
«Guarda quello,» afferma la sorella con fare sicuro, «è il segno delle chiappe del gigante! È scivolato qui!» mi metto a ridere nel sentire la parola “chiappe”, ma subito dopo vengo colto da un sentimento arcigno e ancestrale che mi stringe le costole attorno ai polmoni. Scoprirò più avanti il suo nome: Invidia.
Cavoli, ha ragione. Sotto di noi, due strisciate di terra contigue segnano in profondità una breve scarpata e terminano in un paio di marmitte tondeggianti, piene d’acqua. Solo un sedere di gigante può dare origine a un simile fenomeno.
«Ma figurati,» cerco di essere più convincente possibile per non darle questa soddisfazione, «l’ho sentito cadere molto più avanti! Cosa…» mi interrompo. Lei sta guardando a bocca aperta un punto al di là dello smottamento. Tra i castagni, nascosta da un basso velo di nebbia, si intravede una capanna scalcinata che dà tutta l’impressione di essere abbandonata da anni.
«Guarda cos’ho trovato!» sussurra, cominciando a scendere con cautela per avvicinarsi all’abitazione, «è la capanna della Strega!»
Io resto di pietra. È verissimo. Del resto, sono stato io a informarla che in quel bosco vive una strega tanto brutta da trasformare in sale chiunque la veda. Le ho pure descritto per filo e per segno la stamberga in cui abita, ed è precisa identica a quella che ora abbiamo sotto gli occhi.
«Fermati!» comincio a inseguirla. «Se diventi di sale poi la mamma ci sgrida… Aspetta!»
Niente, finge di non sentire. Odio quando fa così.
È quasi arrivata di fronte alla finestrella, ed ecco che il bosco si riempie all’improvviso di un rumore stridulo, come il gracchiare di una sedia a dondolo usurata. Oh, è orrendo, spaventoso. È la risata di una vecchia!
Quella risata… Non viene forse da dentro la capanna? E non si scorge una figura dal naso adunco, oltre i vetri oscurati dalla polvere e dal tempo?
«Scappa!» grido tanto forte da grattarmi la gola. «Mamma! Mamma!» chiamo disperato, mentre risalgo il pendio a quattro zampe e mi butto sul sentiero del ritorno. «Mamma!»
«Ah, eccovi qua!» una voce dal timbro inconfondibile mi blocca le gambe, mentre la sorella ci raggiunge trafelata.
«Mamma! Oh, mamma, l’hai sentita anche tu?» piagnucolo, tirandola per la camicia. Tutta la mia spavalderia s’è dissipata come fumo. «Era la Strega! La Strega che rideva!»
«Io non ho mica sentito niente» è stranamente tranquilla, ricordo bene il suo sorriso. A quel tempo, non siamo proprio riusciti a capirne la ragione. «State bene? Siete tutti sporchi, non è meglio andare a cambiarsi?»
Dico la verità, non ho più molta voglia di stare nel bosco, almeno per oggi. Preferisco tornare sul divano, con uno schermo tra le mani. Uno schermo un po’ meno bianco di prima.
Ripensandoci a distanza di anni, è probabile che la mamma neanche se li ricordi, questi piccoli fatti. Eppure, mi sono rimasti dentro così vividi che potrei descrivere ancora tutto quanto nei minimi dettagli. Ci sarebbero altri particolari da raccontare, altre fotografie, ma rischierei di diventare nostalgico. Meglio lasciarli sepolti, certi fantasmi. E non lo dico certo per paura.
Tanto, si è capito benissimo che è stata la mamma, a imitare la risata della Strega. Voleva farci piacere, farci trovare veramente qualcosa nel bosco.
Le Streghe esistono soltanto nelle storie per bambini. Lo sanno tutti in fondo, bambini compresi.
… Giusto?

La cucina di Sophia

Inviato: 14/08/2012, 17:51
da Monica Porta may bee
La cucina di Sophia

Ti sentivo sempre accanto
viva dentro me
come solo io potevo
ma era lo specchio
mamma sbagliavo
sola nella cucina
il vano ricordai
fu allora che ti vidi
intera prendermi le dita


La cucina di Sophia aveva dieci vani esposti, quattro chiusi, uno nascosto.
D'estate, la luce colpiva l'amaranto delle sue vetrine e un caleidoscopio di colori copriva il pavimento.
Io allora sorridevo, lasciavo il buio sotto il tavolo per rincorrerne le macchie. Ne amavo il viola, il ciclamino, il rosa. Non so perché ma le adoravo, e mi affannavo sfidando i riflessi diabolici di micia.
Era una tentazione irresistibile che il tuono forte nella voce di papà interrompeva.
Se non riusciva l'urlo, arrivavano i coltelli della mamma.
In realtà li sentivamo solo fendere l'aria ma bastava a entrambe per farci scappare.
Raggiungevamo le betulle dietro casa, e restavamo a fissarci indecise se piangere o ridere di noi.
Nel dubbio, micia spesso miagolava.
Quando accadeva, mia madre poi lo raccontava a tavola finché le lacrime mi luccicavano nel piatto; lei allora si fermava. Perché c'era una cosa che più di tutte amava fare, era guardarci gustare le sue cose.
Intorno al mogano dalle venature oro sedevamo sempre in quattro: mamma, papà, Tommaso e io.
Si mangiava alle 18.00 la sera, tranne il lunedì.
Mia madre descriveva la pietanza principale che dalle venti avrebbe poi servito per la cena in sala, di solito si trattava del secondo. Non ripeteva mai l'ordine delle sue spezie, avevo capito che era il suo segreto, ma a volte m'impigrivo nel descrivere le sensazioni che provavo, così mamma si arrabbiava.
Voleva un giudizio, e lo voleva onesto, reclamando più attenzione.
— Mi hai osservato tutto il pomeriggio, che hai imparato, oggi? Niente — diceva.
Socchiudeva piano gli occhi e il suono secco dello schiaffo mi scricchiolava addosso.
Il ricordo mi abbandona; continuo a leggere.
L'incontro è per l'indomani alle diciotto, dice ora la lettera notificatami dall'avvocato.
Passo la notte insonne cercando il modo per sottrarmi, ma il mattino arriva e devo arrendermi.
Mio padre mi accoglie con un abbraccio. Sembra essersi ripreso dal funerale.
Tommaso invece si limita a un sorriso, beffardo come il solito.
Siamo di nuovo in quattro intorno al tavolo di mogano.
Ancora lei mi obbliga a sedermi, ancora mi comanda, penso stizzita.
Nella cucina di Sophia la luce torna, e dentro quella guardo, ma lascio i colori a terra.
Il mio sguardo è più alto ora, sfiora le finestre aperte, vede il cortile, dove in piedi ad attendere ci sono i dodici dipendenti della trattoria. I fedelissimi, qualcuno dice.
L'avvocato rompe i sigilli e la sorpresa esplode.
Mio padre urla il suo nome, Tommaso ha un tonfo, o meglio, la sua sedia che non si aspettava il brusco movimento. Io sola rimango seduta ad ascoltare.
Mia madre parla ancora.
Mi prendo tempo; ora lo sguardo di papà è perso nel vuoto.
Oddio… la vuole tenere, e lo comprendo, ma io non posso.
I dodici continuano a fissarmi quieti, fin troppo, penso. Se io rischiassi il lavoro, sarei con loro pronta a dar battaglia?
Mamma però mi conosce, ha già elencato tutto, persino il fondo d'incentivo all'esodo per i suoi sottoposti.
Devo soltanto dire sì. Solo io posso decidere se vendere o tenere "La cucina di Sophia", e non me lo aspettavo.
Guardo i vani, poi il suo pavimento.
Lo so che è qui, dentro le macchie di colori mi sta cercando.
La cosa mi consola, ho voglia di sentirla.
— Potreste darmi un minuto? — mormoro soltanto.
Mio padre scuote la testa, anche lui non sa spiegarsi l'ultima follia di mamma.
— Elsa, tu le somigli tanto. Forse è questo che intendeva nel lasciarti l'onere — mi dice prima di seguire gli altri.
Ero nata castana come lei, con le lentiggini, la pelle alabastrina e un carattere terribile. Mia madre preferiva dirlo "inossidabile" perché quando mi mettevo di traverso non c'era modo di scostarmi.
Quando la somiglianza tra di noi divenne insopportabile, decisi di andarmene. Volevo studiare lontano dalla sua influenza per trovare la mia strada.
— Ho solo bisogno di più tempo — le dico ad alta voce.
Lei non mi risponde ma una luce nuova tocca la cucina.
Allora ricordo. Nei pomeriggi liberi sedeva al tavolo e scriveva tutto il bello che le era successo a cucinare.
Per ogni cena ben riuscita c'era una lettera datata ma io non potevo leggerla.
Mi avvicino al mobile, le dita scorrono il fondo del ripiano contenente le tovaglie. Sotto il vano chiuso, la molla scatta ancora con un rumore sordo, quasi soffice in caduta.
Mia madre aveva fatto aggiungere al progetto il nascondiglio per le sue ricette.
L'anta si apre lasciandomi annusare.
Arancia, zenzero, rosmarino, li riconosco subito, poi è il calore del suo abbraccio, il profumo di lavanda. Infine, la mia preferita. La cerco, la trovo, l'unica con il mio nome sopra.
Apro la busta, le dita dentro la filigrana avana sembrano smarrirmi negli effluvi di cannella.

Elsa,
scommetto che ora sei seduta sul pavimento.
Sai che non lo sopporto. Alzati, prendi una sedia e usala tesoro.
Ti offro una scelta. Mi ascolti?
Nel bene o nel male, oggi deciderai del tuo futuro.
Molti amici perderanno il lavoro, è un brutto giorno per alcuni, ma è la tua vita, tu pensala serena.
Sii gentile, però, nel liquidarli, perché non tutti nascono nell'oro.
Prova a crederci Elsa. Per una volta, credici sul serio.
Vedrai che a farlo seriamente qualcosa arriverà, lo vorrei tanto.
Anzi, io voglio che ti accada.

mamma

Non c'è data sulla lettera.
Le lacrime mi prendono alla sprovvista mentre ripenso a quanto mi aveva compreso.
— Non è la somiglianza, non lo è mai stata, è così? —.
Riesco solo a dirle questo.
Passa il tempo, non saprei dire quanto.
Quando mi rialzo incrocio lo sguardo di Mattia, il caposala.
Per anni, prima della mia partenza per Albabarolo gestivamo insieme la sala, lavoravo bene con lui.
Il dubbio gli scompare dalla fronte corrugata e mi sorride, mi ha già capito.
Sorrido anch'io, poi lo decido.
Le dico no ma lei non se la prende.

Immagine

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 23/08/2012, 14:37
da Exlex
"Nelle mani umane
gocce calde d'amore
offerte"


IL GHIACCIO E IL LATTE

Fa freddo.
Cadono dal cielo fiocchi bianchi, si posano leggiadri sull’erba ghiacciata.
La piccola avanza incespicando, gli occhietti sono semichiusi, gli arti corti non le permettono un’avanzata veloce.
La mamma l’ha lasciata.
Crudelmente.
Lì, a congelarsi sul ciglio della strada, perché non l’ha ritenuta abbastanza forte da sopportare la vita.
Grida. Piange.
Il cuoricino sembra scoppiare di dolore e di urla. Non capisce, non sente nient’altro che il vuoto lasciato dalla madre.
E il freddo. Che le attanaglia le costole.
Offuscamento bianco come il ghiaccio, nero come l’oscurità.
E’ così freddo, freddo…
Piange, quel corpicino perso nel buio.
Nessuno lo sente.
Nessuno.
Si addormenta, raggomitolato per recuperare più calore possibile. Singhiozza nel sonno.

La piccina si sveglia di soprassalto. E piange. Le luci le vengono incontro, ma non capisce.
Ha fame, ma non lo sa. Piange e basta.
Delle mani la raccolgono. E’ così spaventata e affamata che comincia a ciucciare le dita dei suoi salvatori come se fossero il seno della madre.
Viene avvolta in uno straccio caldo, e si sente rinfrancata. Le viene avvicinato del latte tiepido, e lei lo ciuccia con avidità.
Una mano umana e calda l’accarezza dolcemente.
«Mamma, dobbiamo dargli un nome. Anzi, darle. E’ una femminuccia!»
«Di solito sei tu quella che da i nomi, tu cosa ne dici? E’ stata fortunata… dalle un nome che rimandi a questo».
«Fortunata. C’è una stella che si chiama Nashira, in arabo o qualcosa del genere vuol dire proprio “la Fortunata”».
«Allora, sarà Nashira!»
La gattina chiuse gli occhi, sembrava che il nome l’avesse soddisfatta. Come il latte. Come le coccole.
E si addormentò tra le braccia della sua nuova mamma.
Testimone del fatto che è una storia vera :D
Testimone del fatto che è una storia vera :D

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 29/08/2012, 20:05
da Tuarag
Brillano.
Di notte o con il sole, brillano.
E quando poi si spengono,
ti brillano dentro... per sempre.



Al matt

La sua casa non era agghindata come le altre. I muri erano scarni e con grandi macchie di umidità dovute alla copertura fatiscente di quella catapecchia.
Tonio non ci faceva più caso, era ormai abituato a vivere lì. E solo lì dentro lui si sentiva sereno, tranquillo. Era la sua protezione dall’esterno, dagli stolti che non perdevano occasione di prenderlo in giro per le sue fattezze sgradevoli e i suoi modi goffi e impacciati.
“Al matt” lo chiamavano, anche se lui non ci faceva più caso.
L’importante era ricevere un pezzo di pane e una fetta di formaggio che qualcuno, impietosito dal suo aspetto degradato e malnutrito, gli offriva.
Durante le sue passeggiate lungo il fiume, la sua fantasia volava alta, più alta di qualunque offesa e di qualunque malattia che si era pur accanita contro di lui.
Una sera si sdraiò sul prato e iniziò a guardare il cielo.
Le nuvole cominciarono ad addensarsi e diventare sempre più scure. Le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere e Tonio socchiuse le labbra per catturarne e assaporarne alcune. Era il suo modo di vivere e fondersi con la natura, di sentirsi ricco perché quelle sensazioni nessuno poteva portargliele via.

All’improvviso sentì un fruscio dietro di lui, si voltò e vide una fanciulla, si mise seduto e con la sua voce fioca, a causa della bocca deforme, domandò: “Chi sei?”
“Sono io, non mi riconosci?”
Agitando le mani come se fosse investito da un nugolo di api, replicò alterato: “Vai via, via.”
La ragazza lo affiancò, fermò le sue braccia e poi gli prese una mano, sussurrando: “Non devi aver timore. Sono tua madre.”
Tonio strabuzzò gli occhi: “Mia madre? Mia madre non c’è mai stata. Io non ho mai avuto una madre.”
“Tutti l’abbiamo, anche tu.”
“Non è vero. Io non ho mai avuto una madre.”
La fanciulla lasciò la presa della sua mano e gliel’avvicinò al viso, accarezzandolo dolcemente. Lui reclinò la testa come a voler sentire di più quel contatto. Non ricordava di aver mai ricevuto carezze e quel gesto gli aprì il cuore emozionandolo e facendogli sgorgare una lacrima dagli occhi.
“Perché non sei venuta prima? Perché mi hai lasciato solo?”
Il viso della donna smorzò il sorriso che aveva tenuto fino a quel momento: “Non ho potuto figlio mio. A volte la vita sceglie al posto tuo e si è costretti a ubbidire. Non puoi opporti. Ma devi sapere che non ti ho mai dimenticato, ti ho sempre portato nel mio cuore. Sapevo che ti avrei rivisto e che ci saremmo riuniti per non lasciarci più.”
Tonio poggiò la testa sul grembo di lei e scoppiò in un pianto dirotto. Avvertì le carezze sulla sua nuca e la strinse a sé come non aveva mai fatto con nessuno.
Quando riuscì a calmarsi le chiese: “Perché sei più giovane di me?”
“Dove vivo io il tempo non ha importanza.”
“E allora portami con te, non lasciarmi di nuovo solo.”
“Non posso farlo. Non è ancora il momento ma presto mi raggiungerai e staremo sempre insieme.”
Tonio la cinse ancora più forte scuotendo la testa come a rifiutare un altro distacco.

Le piccole gocce iniziali s’intensificarono e la pioggia divenne insistente, inondando le labbra socchiuse e il viso di Tonio scuotendolo.
Aprì gli occhi e si guardò intorno senza scorgere nessuno. Girò i palmi delle mani che presto si riempirono di acqua che si scaraventò sul viso, come abitualmente faceva al mattino per svegliarsi dal torpore notturno.
Comprese di aver sognato quell’incontro e, ormai fradicio, si alzò per far ritorno verso la sua misera dimora.
Il temporale cominciò a diventare sempre più intenso e si affrettò per rifugiarsi al coperto.
Appena dentro cercò di togliersi con rapidità gli indumenti inzuppati e stenderli su una sedia. Poi raggiunse il letto e s’infilò sotto le coperte per proteggersi dal freddo.
Ci vollero alcuni minuti per far smettere il tremore del suo gracile corpo, mentre il maltempo, all’esterno, infuriava sempre più violento e le raffiche di vento sibilavano furiose, insinuandosi attraverso le numerose fessure di quella bicocca.
Una folata d’aria, più intensa delle altre, scoperchiò il tetto della sua baracca e subito dopo il temporale si placò di colpo.
Tonio alzò lo sguardo verso il cielo e vide le nuvole diradarsi rapidamente, lasciando spazio prima a una miriade di stelle e poi a una magnifica falce di luna che illuminò la sua stanza.
Tra tutti quegli astri luminosi ne individuò due più brillanti degli altri. Fissandoli gli sembrò di rivedere gli occhi della madre e avvertì un gran calore che gli pervase il corpo. Il suo volto si distese nel guardare l’insolito soffitto della sua dimora e sulla sua bocca deforme si disegnò un dolce sorriso.
Tonio, felice come non era mai stato nella sua vita, chiuse gli occhi per sempre.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 30/08/2012, 17:12
da Licetti
Mamma,
ti scrivo perché a te ho voluto bene
non perché non hai visto le mie pene.
Brava sono stata perché ti ho onorata,
ma, mamma, sempre ti ho amata.


Cara mamma,
Mi dispiace, ma non ce l’ho fatta nemmeno stavolta, all’ultima chance, anche se sentivo di dovertele, queste mie parole. Mi incutevi timore e forse anche paura, è vero. Ora però non potrai sottrarti al dovere di ascoltarmi.

Scusami quindi se diligentemente ho chinato la testa sui libri, soprattutto quelli di scuola, solo per essere la prima o per lo meno tra le prime. Non dovevo sfigurare, mai!
Tanto, se mai fosse stato qualcosa, lo avresti saputo dopo pochi attimi.

Scusami se non ho mai fiatato alle tue sgridate o ramanzine: non ne ho mai trovato la forza né avevo argomenti da contrastare.
Tanto era così e basta.

Scusami se spesso e volentieri non ero curata nel vestire o nella pettinatura: anche le bambole a volte vengono bistrattate o dimenticate nude e scapigliate.
Tanto era solo colpa mia!

Scusami se ho chiesto di uscire con le amiche, da sola, senza nemmeno la sorellona al fianco, di guardia: avevo bisogno di stare con delle coetanee che Tu non avevi scelto per me.
Tanto il prezzo del biglietto non era mai caro!

Scusa se non ti ho mai detto di quel ragazzo dagli occhi verdi con il quale condividevo il tragitto verso l’autobus: era dolcissimo e ci scambiavamo solo quattro chiacchiere sugli insegnanti, sulla giornata.
Tanto l’Amore non l’avrei di certo trovato a 16 anni!

Scusa se altrove mi comportavo meglio che in casa: me l’hai insegnato tu a vivere nell’ordine, nella pulizia e nel rispetto, anche di altre culture.
Tanto comunque sarei dovuta rientrare nel tuo regno!

Scusa se sono stati altri a insegnarmi ad andare in bicicletta: il giardino di casa era troppo piccolo!
Tanto poi il lucchetto e la catena erano sempre in mano tua!

Scusa se non ero così brava al pianoforte, da non riuscire nemmeno a tentare l’ammissione al conservatorio: avevo anche la scuola da seguire, per costruirmi un futuro ben saldo e proficuo.
Tanto era solo un passatempo!

Scusa se non ti ho confidato le mie paure e le mie speranze, i miei timori o le mie gioie: mi avresti giudicata solo secondo i tuoi canoni.
Tanto poi non sarebbe cambiato nulla.

Scusa se non ti ho mai chiesto consiglio: quando ne avevo bisogno le alternative erano poche.
Tanto bastava radunare i pezzi per decidere.

Scusa se non ti sono stata vicina: anche io non avevo molta esperienza come figlia.
Tanto le carezze erano solo un “atto dovuto”.

Scusa se ora sono qui a dirti questo, a togliermi quel peso dallo stomaco che rallentava la mia corsa verso la felicità. Se le lacrime che ho versato fossero state raccolte, ora l’Africa non sarebbe deserta.
Tanto tu non le hai mai volute vedere!

Scusa se non ho sempre seguito il tuo esempio, ma il mio cuore. Talvolta ho fallato, talvolta avuto ragione. Tanto in entrambi i casi ero solo testarda e cocciuta.

Scusa se non ho risposte né giustificazioni. Ho voluto di proposito andarmene per non soccombere.
Tanto so che hai sempre pensato che sarei tornata a testa bassa, un giorno!

Scusa se ho trovato la mia strada senza di te: me la sono sempre saputa cavare. Ora sono piena di interessi e cammino sempre a testa alta.
Tanto non è per merito tuo

Scusa se non ho rimpianti e per ora, mi basta.

Ne avrei ancora da appuntare, ma i miei occhi, in silenzio, abbandonano la via.
Devo andare. Si è fatto tardi. Mi aspettano.

Un ultimo bacio, un abbraccio, con tutto il mio affetto di sempre. Nonostante tutto.

Tua figlia.

Re: Gara 32 - bando e racconti

Inviato: 30/08/2012, 21:09
da Angela Di Salvo
LA PROMESSA (fuori concorso)

Quante volte ti ho detto, dopo averti ascoltata,
che avrei scritto un romanzo sulla tua vita.
Ripenso a quanto sia stata ardua e intricata
e non so se riuscirò a mantenere la promessa.
So solo che ti ho mantenuta viva dentro di me
Al di là del tempo, della morte e di ciò che mi resta di te.



Può esistere al mondo una persona che sia gioiosa, vitale, che ama raccontare le barzellette facendo morire dalle risate tutti quanti, e nello stesso tempo essere travolta dalle malattie, dai fallimenti e dalle sventure? Ebbene sì, mia madre è stata una di queste persone.
Raccontare la sua forza e la sua fragilità, il suo carattere e gli eventi della sua vita, è un’impresa titanica, ma certo non impossibile. Forse un giorno lo farò.

- Mio Dio, Totò, Totò che hai? – gridava a squarciagola disperata.
Nel mio lettino situato in fondo alla camera, a soli sette anni, ricordo che balzai di colpo in piedi, e mi misi a piangere.
Vedevo mio padre squassato dalle convulsioni, la bava sulla bocca, tremare e sbattere i pugni sulla coperta.
Fuori pioveva a dirotto. Le imposte sbattevano mosse da un vento lamentoso e insistente.
Lei si alzò e, a piedi nudi e in camicia da notte, si avviò come una pazza per le scale gridando:
- Aiuto! Mamma, mamma!
Intuii che stava recandosi a casa della nonna che abitava a qualche isolato da noi, sfidando quel rabbioso temporale che pareva ingigantire ogni cosa, rendendola più cupa e persino tragica.
Mi aveva lasciata sola ad assistere a una scena sconvolgente per una bambina così piccola.
Ma smisi di piangere e in un silenzio inorridito l’attesi, mentre il lettone cigolava sotto i colpi che il corpo di mio padre, come scosso da un male misterioso, infieriva al suo giaciglio scomposto.
Accorsero tutti, anche il medico. Ma nessuno mi spiegò niente. Mi portarono via ingannandomi con le solite fantasiose bugie che si raccontano ai bambini.

- Angela, posso coricarmi nel tuo letto, vicino a te?
Le sue parole accorate mi svegliarono una notte, quando avevo dieci anni e stavo diventando una bella signorinetta. Di solito è una figlia che va nel letto della madre per la paura e mai il contrario.
Eppure lei venne da me, senza vergogna alcuna.
- Domani scade l’avviso della banca. Se non rientriamo, si prendono tutto. Pignoreranno i mobili, la casa, l’azienda….- mi sciorinò mille altri scenari, sapendo che io non avrei potuto far niente per impedire la catastrofe imminente, ma a lei bastava tenermi stretta a sé e sfogarsi con l’unica persona che sapeva ascoltarla e che, da quel giorno in poi, sarebbe diventata “sua” madre, e lei una figlia per quella bambina che sarebbe cresciuta in fretta, troppo in fretta.

La osservavo stesa nel suo letto, pallida, con gli occhi fissi nel vuoto. Non mi guardava, non mi parlava. Capivo che era sconvolta e disperata per la morte della nonna. Ma non sapevo ancora che la sua non era stata una morte naturale. Si era suicidata ed era stata la mia mamma a trovarla immersa in un lago di sangue con un affilato rasoio in mano. Si era tagliata la gola, forse afflitta per l’infelicità della sua unica figlia con un marito epilettico e per il disastro economico che aveva colpito la mia famiglia decimando anche i risparmi di tutta la sua vita.
Avevo diciotto anni e stavolta i parenti non esitarono a raccontarmi come stavano realmente le cose.
Ancora una volta fui io a prendermi cura di mia madre per aiutarla a uscire dalla sua tremenda depressione.
Quel calvario che durò due anni fece di me una donna forte e invincibile. Niente e nessuno avrebbe potuto scalfirmi. Imparai a non aver paura di nulla e ad affrontare la mia vita futura con grinta e coraggio.

- E’ una bambina meravigliosa!- esclamò mia madre quando uscii dalla sala parto otto anni dopo, dopo un travaglio lungo e doloroso che mi aveva regalato una splendida neonata, la mia primogenita.
Mi teneva la mano, rideva, era felice. Finalmente la vedevo sorridere, dopo i giorni della tempesta. Mio padre, invecchiato e provato, le stava dietro ed esitava ad avvicinarsi. Viveva nella sua ombra e l’adorava per tutte le umiliazioni che aveva subito a causa sua.
- E’ mio marito. Qualsiasi colpa o malanno lui abbia, è mio marito ed è tuo padre. Un matrimonio è per sempre - era solita ripetermi
Poverina, non sapeva ancora che invece io mio marito lo avrei lasciato e che non mi sarei immolata come lei in nome dell’unità familiare e del vincolo sacro del matrimonio.
Anche questa delusione ha dovuto patire nella sua vita così difficile e sempre in salita.
Ma era fiera di me, della mia intelligenza e della mia bellezza e conosceva anche il mio carattere deciso e caparbio.

-Un giorno scriverò un romanzo sulla tua vita - le promisi una sera di alcuni anni dopo, mentre le leggevo le mie poesie e i racconti che scrivevo per passatempo.
- Lo so che sei brava a scrivere, Angela. E so che arriverai lontano. Peccato che sei sola e non hai un marito accanto a te… - ripeteva sconsolata.
- Zitta, mamma, non ci pensare. Io non ci soffro a non avere un compagno. Ho il mio lavoro e le mie figlie che per me sono tutto - tentavo di convincerla per attutire la sua amarezza.
- Tu meritavi di essere amata. Sei capace di donare tanto amore…e non hai avuto fortuna – concludeva accarezzandomi i capelli.
Poi interrompeva il dialogo e si chiudeva come un riccio. Forse pensava al cancro che la divorava e che presto l’avrebbe portata via da me.
- Mamma, ma tu hai paura della morte?- le chiesi una sera d’impulso.
E lei, scuotendo il capo, sussurrò:
- Io ho qualcosa che tu non hai ancora, figlia mia. Io ho la fede e so che Dio mi ha messo alla prova per rendermi degna del posto meraviglioso in cui mi aspetta.
- In questo mi hai battuta, mamma. Io non so credere come te.

Potrei scrivere tante altre cose su mia madre. Ma sono tanti, troppi gli eventi che l’hanno resa protagonista dei miei ricordi. Non so se riuscirò un giorno a essere capace di scrivere il romanzo che le ho promesso. Mi porto ancora dentro il senso di vuoto e di lacerazione che mi ha lasciato.
Chissà perché adesso non mi sento più invincibile come un tempo.