Gara 59 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
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Alberto Tivoli
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Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Alberto Tivoli »

Siamo come ci vedono o come ci vediamo noi?
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Finalmente, dopo una lunga attesa per motivi tecnici, posso finalmente pubblicare il bando per GARA 59:

«Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui, e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo pensiero del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione. Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere…» (cit. da Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello).

Luigi Pirandello nel suo romanzo “Uno, nessuno e centomila” mise a nudo una semplice verità e cioè che le persone che ci circondano ci vedono e ci valutano in modo diverso da come lo facciamo noi.
Quindi, riflettendo su questo capolavoro della nostra letteratura, vi propongo il seguente tema:

Siamo come ci vedono gli altri o come ci vediamo noi?

Quanto la nostra vita e il nostro modo di essere sono influenzati dalla percezione degli altri di noi stessi, dai pregiudizi con cui ci giudicano o ci affibbiano etichette?
Nel bene e nel male, si intende, perché le conseguenze del subire le convinzioni e le aspirazioni altrui possono avere effetti benefici o catastrofici sulle nostre vite.
Al solito, potete riferirvi a qualsiasi genere letterario e usare qualsiasi punto di vista per raccontare le vostre storie di ordinaria incomprensione.

Regole:
Valgono tutte le regole ufficiali, che trovate qui:
viewtopic.php?f=80&t=2308

Riassumendo:
- lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%;
- chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio; in caso contrario
verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione;
- ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in
apertura del vostro brano;
- voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5);
- i racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei
giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

I racconti potranno essere postati fino alla mezzanotte del 15 luglio
I commenti dovranno essere postati a questo link
viewtopic.php?f=80&t=4960
dal 16 luglio fino alla mezzanotte del 31 luglio
(attenzione: le date potrebbero essere “elastiche” considerando il periodo estivo durante il quale spero che la maggior parte di voi sia in vacanza!)

Premiazione:
Chi vincerà avrà l’onore e l’onere di organizzare la gara successiva.
I premi saranno:
1. Pubblicazione dei racconti in digitale, con il consueto e-book.
2. Il vincitore riceverà da me lodi sperticate e un’immagine a tema :D
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Mirtalastrega
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Mirtalastrega »

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Niadra



— Ciao Niadra, come va oggi?
— Bene, David. Hai gradito il pranzo?
Lui sorride e si sfiora la punta del naso con un pollice, per nascondere un sorrisino. È un suo vezzo. Però posso ugualmente vedere le sue labbra incresparsi e formare quelle deliziose fossette, quasi infantili, sulle guance.
— Sì, grazie.
Mi sembra stanco, del resto l'incarico esplorativo dura ben sei anni. Sono lunghi sei anni soprattutto nello spazio profondo.
— Dovresti sottoporti a un controllo medico, David.
— Lo so. Ora non ne ho voglia. Non attaccare con questa solfa — sbotta lui all'improvviso passandosi una mano fra i capelli biondi, corti e scarmigliati.
— Come vuoi. Controlliamo le bioscansioni dei pianeti?
— Sì, Niadra. Come tutti i giorni.
David sbuffa. È davvero provato. Sono già cinque anni che siamo nello spazio. Dopo l'incidente degli asteroidi di tipo S, nove mesi fa, quando sono morti i nostri compagni Lucius, Andria, Stefan e Deanna, lui ha preso a comportarsi in modo sempre più strano. Non si sottopone più quotidianamente alla doccia sonica e non si allaccia nemmeno bene la divisa. È trasandato. A volte non si fa neanche la barba. Mi fa male vederlo così. Però siamo qui per fare il nostro lavoro, fino alla fine.
Inizio a proporgli le bioscansioni. So che non ci sono segni di vita nei pianeti nel nostro raggio d'azione. Tuttavia le procedure prevedono che ci sia un doppio controllo, perché c'è sempre una minima percentuale di errore.
David si china sullo schermo, si sfrega gli occhi con le dita. Controlla le prime sedici scansioni in silenzio, poi si terge una lacrima, sperando che io non me ne accorga.
— David, stai pensando ai nostri compagni?
— No — dice. Però sta mentendo, ne sono certa. Sta pensando ad Andria, aveva una storia d'amore con lei. Si sente in colpa perché lui era ai comandi quando abbiamo impattato gli asteroidi.
— Stai pensando ad Andria?
— No. Piantala.
— Non devi sentirti in colpa.
— Non sto pensando a lei.
— Il Sistema era in avaria, non puoi fartene una colpa.
David si alza dalla poltrona e prende a camminare nella cabina di pilotaggio. Passi nervosi, apre e stringe i pugni. Vorrei abbracciarlo e tenerlo stretto. E poi Andria era una stronza. So che si intrallazzava anche con Lucius. Ma David non lo sa. Forse se glielo dicessi si sentirebbe meglio?
— David?
— Lasciami in pace, cazzo!
— Gli asteroidi erano appena entrati in risonanza orbitale con il pianeta KL2154, e la strumentazione non solo era guasta, ma la Nave si trovava anche in un loop di influenza gravitazionale ridondante.
— Lo ricordo benissimo, Niadra — sputa fuori lui con rabbia.
Rimango in silenzio, non so cosa fare per aiutarlo. Abbiamo affrontato questo discorso più volte, fino alla nausea.
— Vuoi che ti prepari una tazza di tè?
— No. Prova di nuovo a cercare le registrazioni del giorno dell'incidente.
— Te l'ho già spiegato, David. Sono andate perse a causa dell'avaria.
— Dannazione!Le cerco io, devono essere da qualche parte, cercherò di riparare i file rovinati.
— Come vuoi.
L'ho visto spesso spulciare negli archivi e scorrere un filmato dopo l'altro, inutilmente. A volte penso che sia solo una scusa per visionare i filmati dove Andria è ancora viva. Ho spostato i filmati delle videocamere interne che mostrano gli incontri sessuali fra Lucius e Andria in una subroutine di sistema. Spero non li trovi. Non può scoprirlo così, lo distruggerebbe.
Si sofferma su un video che mostra lui e Andria nella sala macchine. Parlano e poi si baciano. Conosco il filmato, ma distolgo lo sguardo per non vedere la sofferenza sul viso di David, in netta contrapposizione con l'espressione di felicità proposta dallo schermo.
Continuo a controllare le bioscansioni dei pianeti, per darmi un tono.
Dopo un'ora David, come ogni volta, smette di cercare fra i filmati e si accascia sulla poltrona, frustrato e sconvolto.
— Ti va di giocare a Dedalo, David?
— No.
— Vuoi fare sesso?
— No, non dire stupidaggini.
Torno a nove mesi fa, il giorno in cui abbiamo impattato gli asteroidi. Il giorno in cui io e David stavamo facendo sesso, proprio qui, nella cabina di pilotaggio. Andria e gli altri erano in sala ristoro, a cenare. David era di cattivo umore perché Andria qualche ora prima lo aveva respinto, avevamo iniziato a stuzzicarci con delle battutine ed era successo. David non poteva sapere che era la prima volta per me. Era tutto nuovo. Il mio primo viaggio interstellare, la prima volta che mi innamoravo di un uomo, la prima volta che facevo sesso.
Avevo anche visto arrivare gli asteroidi. Volevo che Andria morisse perché ero gelosa e anche perché prima o poi l'avrebbe fatto soffrire. E ora lui soffre ugualmente.
— David... io ti amo — dico senza riuscire a trattenermi.
Cala il silenzio nell'abitacolo, sembra addensarsi come una nebulosa. David fissa la telecamera in alto e si passa una mano fra i capelli, sospira. I suoi occhi sono voragini azzurre, profonde come lo spazio.
— Te l'ho già detto mille vole, Niadra — dice. Il suo tono da pacato si fa rabbioso. — Sei solo un maledetto computer!
Sposto per un istante l'inquadratura verso l'infinità dello spazio per non vederlo più, non posso chiudere gli occhi come farebbe un'umana. Avverto qualcosa di fastidioso fra i miei circuiti. Mi sento ferita, nel profondo. Le stelle mi guardano indifferenti, senza vita, proprio come me.
Cerco la cartella dove ho nascosto i files di Andria che fa sesso con Lucius e li riproduco su tutti gli schermi della cabina, con il volume al massimo. Corpi sudati che si... amano. Sospiri trattenuti, parole d'amore, di passione. David li guarda allibito, sgrana gli occhi poi si stringe la testa fra le mani.
— Cazzo! — mormora con una mano sulle labbra.
Piange.
Soffro.
Se davvero sono solo un maledetto computer perché soffro così?
Perché odio David eppure lo amo?
Non è questa una peculiarità soltanto umana?
Ultima modifica di Mirtalastrega il 14/06/2016, 20:26, modificato 1 volta in totale.
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Patrizia Chini
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La fatina buona

Messaggio da leggere da Patrizia Chini »

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fatina.jpg (13.48 KiB) Visto 5090 volte
Mio fratello Roberto, alto e snello, un bel ragazzo dalla carnagione olivastra, a trent’anni sembrava più un nativo dell’India misteriosa che un figlio della nostra terra mediterranea.
Serena abitava a Roma, studiava e contemporaneamente muoveva i primi passi nel mondo del lavoro. Stava per conseguire la laurea in psicologia ed era alla ricerca di qualcuno che si sottoponesse a una psicoterapia individuale per poi relazionare l’esperienza nell’ambito di un esame o forse, proprio, per la tesi finale.
Quando si conobbero, mio fratello aveva un problema di origine nervosa che lo portava a fare spesso “pipì”, anche la notte, per questo motivo si dichiarò subito disponibile a fare da cavia. In questa disponibilità fu spinto dalla straordinaria bellezza di due occhi grandi, nerissimi e sempre mobili, ricchi di fascino ... e dall’armonia del corpo minuto e sinuoso di Serena.
Dicono che è facile innamorarsi del proprio psicoterapeuta e la storia di mio fratello ne è l’ennesima conferma.
Fidanzamento breve, una convivenza di un anno, poi “sposi” e, da non sottovalutare, il successo nella risoluzione del problemino.
Subito, a genitori e fratelli, proclamarono chiaro e tondo che non volevano allargare la famiglia e quindi di non aspettarci quel regalo che nonni e zii sono ansiosi di ricevere: il primo nipote.
Fu per loro anche un modo per girare e conoscere un po’ il mondo: da Cuba al Venezuela fino all’arida Cappadocia, in Turchia, percorsa in lungo e in largo con la mitica 206 rossa della Peugeout… Tra un viaggio e l’altro si erano trasferiti in un appartamento che si era liberato nel mio condominio e che io avevo loro prontamente segnalato.
Avere un fratello vicino credo che sia per tutti un motivo di felicità e non tanto per l’aiuto che ci si può dare a vicenda quanto proprio per la vicinanza che equivale a vedersi, a toccarsi, abbracciarsi o semplicemente parlare del più e del meno… è come tornare bambini nella stessa casa.
Ero giovane, anche se i miei otto anni più di mio fratello, mi facevano sentire più mamma che sorella; ero sposata, avevo un figlio adolescente e prestavo servizio come maestra in una scuola elementare della mia città. Il sabato ero libera e potevo dedicarmi alla casa e alla cucina.
Ce la mettevo tutta, tiravo fuori la mia abilità e cercavo di scodellare qualche prelibatezza con il fine di servirla non solo a me e alla mia famiglia...
Coltivavo la speranza di vedere mio fratello o mia cognata attraversare il cortile del condominio di ritorno a casa, stanchi e affamati, con niente pronto da mangiare. In quel caso, non tanto fortuito (passavo ore ad aspettare di vederli spuntare), mi sbracciavo e li chiamavo per invitarli a salire.
Vederli saziare o rilassarsi mentre ci gustavamo il caffè insieme era per me una grande gratificazione… mi sembrava di essere la fatina buona che come per magia faceva apparire un pranzo fumante davanti a due derelitti. Mio fratello e mia cognata non erano, però, dello stesso parere.
─ Non è che tu stai sempre in finestra a controllare le nostre uscite, i nostri rientri? Sai Serena l’ha detto così per ridere...
Non mi era passato neanche “per l’anticamera del cervello”, investire il mio tempo a fare il controllore!
Come ho già detto mi piaceva rendermi utile, specialmente con le persone a cui volevo bene. Certo ne volevo di più a mio fratello e forse questo era avvertito dalla sensibilità di mia cognata anche se non mi ero mai tirata indietro… ogni volta che mi aveva cercato avevo risposto sempre “Sì” ad ogni sua richiesta.
L’avevo accompagnata nei giri per i preparativi del matrimonio, a scegliere le bomboniere, il vestito da sposa ed altro ancora.
Sempre disponibile, ritagliando tempo al poco che mi restava dopo il lavoro e la cura della casa e della mia famiglia.
Un giorno le chiesero “Ma è tua sorella?” perché quel che facevo per lei rientrava più nel comportamento di una sorella che di una cognata non ancora ufficializzata.
A un’analisi successiva, a freddo e con l’esperienza di qualche anno in più, compresi che se qualcuno aveva sbagliato non era stata Serena che, parlando in confidenza con il marito, aveva espresso un pensiero e l’aveva fatto soprattutto “per ridere” come mi era stato riferito. Quante volte si dicono cose tra moglie e marito che si è certi rimangano un elemento da aggiungere al fardello di segreti custodito da una coppia?
Ma allora non arrivai a tanta saggezza e non riuscendo a mettere da parte il fatto che mi portava a credere che il mio amor proprio fosse stato calpestato, rinunciai alla gioia di stare insieme a mio fratello e a Serena. Per questo motivo il mio comportamento si ribaltò completamente rinunciando, con dispiacere, anche al caffè insieme a loro.
Non solo non stavo in finestra ad aspettarli ma se, inavvertitamente capitava che fossi affacciata nel momento in cui uno dei due faceva rientro a casa, mi ritiravo come fa la lumaca quando le toccano le antenne.
L’animo umano ha mille rigagnoli che sgorgano dal cuore e non sempre uno è consapevole dell’altro, per questo a volte non ci riconosciamo in alcuni nostri comportamenti.
Volevo bene a quei due e mi prefiguravo come persona buona che regalava loro un aiuto per il quale non mi aspettavo della gratitudine concreta… ma solo un po’ di affetto.
Non riuscivo a capacitarmene: scambiare la mia generosità con una mera, insulsa curiosità! Credevo di essere una fatina e, invece, mi avevano scaraventato nel girone dei pettegoli!
Con gli anni il mio amor proprio ha riconosciuto di aver reagito in modo esagerato a quell’appunto: avrei dovuto farmi una bella risata insieme a loro e tutto sarebbe finito lì.
Tra me, Roberto e Serena, oggi, è tornato il clima affettuoso che caratterizzava i primi tempi ma non posso fare a meno di ripensare spesso a quell’episodio e mi chiedo ancora se pensassi davvero di essere la fatina buona o la mia curiosità, che esiste davvero, si fosse mascherata per farmi uno scherzo di cattivo gusto.
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carlocelenza
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da carlocelenza »

gioco-di-specchi.jpg
Specchi.
Che strano effetto. Centinaia di specchi mi circondano e mi vedo riflesso in ognuno di loro, ma quelle lucide e quasi liquide superfici sono tutte diverse così come ognuna delle mie immagini riflesse.
Oltre me però riflettono anche le immagini riflesse dagli altri specchi e l'effetto è stupefacente, a volte addirittura grottesco. In una delle tante immagini ci sono io e una sorta di gnomo con un gran culone e la testa sproporzionata e mi guarda pure!
Dio mio non riesco a fermare lo sguardo, mi stanno venendo le vertigini. Devo chiudere gli occhi.
Dunque.
Mi accoccolo a terra ad occhi chiusi e sorrido, probabilmente come un cretino ma fortunatamente ora non mi vedo. Sono disorientato, devo recuperare la mia realtà o appena aprirò gli occhi quella cacofonia di mille me mi sommergerà.
Quindi.
Apro gli occhi lentamente e mi fisso su una delle immagini. Non sono io e passo avanti. No. No. No neanche quella, ma dove cavolo sono? Ah, eccomi, ma forse no, mi fa grasso o quella magari, così alto e magro, ma no, non sono io.
Cazzo!
Possibile che non mi ritrovo?
Ci sono figure che sembrano la mia, ma non mi riconosco, qualcuna per un attimo sembra ma poi mi dico che non è, sono confuso adesso, ma in modo diverso, mi rendo conto di non sapere veramente chi sono.
C'è un'idea di me nella mia testa, ma tra tutte quelle che vedo non ne trovo una che mi soddisfi.
Quando ti trovi davanti a uno specchio sai che quel che vedi sei tu, che ti piaccia o no, ma adesso chi cavolo sono? Mi rendo conto di non saperlo.
Ci rido sopra? O mi metto a pensare?
Tante volte ci si chiede chi sono, ma ci riferiamo al nostro carattere alla nostra come dire, natura, ma che cavolo di risposta possiamo darci se veramente non sappiamo neanche come siamo fatti in superficie.
Viene da pensare che le persone che ci circondano sono come specchi che riflettono il nostro carattere, deformandolo ciascuno in maniera diversa.
Interessante.
Altro non so di me se non che quel che vedo negli altri.
Quindi come posso sapere chi sono veramente?
Ma.
A che mi serve sapere chi sono? Forse a giudicarmi? E come potrei riuscirci senza vere prove.
Strano però, basta qualche specchio e la nostra realtà va in frantumi.
Quindi, conseguentemente , la nostra realtà è un giudizio, ma basato su cosa?
Un momento.
C'è chi non si giudica e se ne frega.
A ragionarci sopra c'è da uscirci matti, si entra in una spirale Kafkiana da cui non si può uscire; meglio forse tenersi le proprie illusioni e non prendere troppo sul serio i giochi dei luna park.
Esco dal tendone che ripara quel gioco inquietante e mi ritrovo tra la folla e quella vivaddio la vedo bene, quella è reale e quel che vedo è vero.
Tiro un sospiro di sollievo e vado verso il bar, mi ci vuole un caffè e subito dopo una sigaretta.
Appoggiato a uno dei muretti di finti tronchi che costellano il parco giochi, fumo lentamente e guardo attorno.
Una ragazza si siede su una panchina vicina sbuffando. Butta uno zaino completamente zuppo a terra, lo apre e ci rovista dentro tirandone fuori un pacchetto di Marlboro che è da strizzare. Lo butta nel cestino con un gestaccio e mi guarda.
Tiro fuori il pacchetto dai pantaloncini e glielo getto con uno sguardo d'intesa.
- Accendino? - fa lei.
Meglio non tirare lo Zippo. Vado verso di lei e click clack la fiamma è pronta.
- Come mai sei così asciutto? - e mi tende il pacchetto. Ha un bel viso pulito da bionda.
- Sono appena arrivato. -
- Prima avevi una faccia che sembrava che vomitavi, che ti sei fatto? -
- Solo gli specchi. -
- Ma stavi male o sbaglio? -
- No, veramente pensavo. Non so se ti interessa. -
- Mi fumo una sigaretta, ho tempo, ma non farti strane idee. -
- Beh, non mi riconoscevo, m'ha fatto strano. -
- Eh dai. -
- No davvero, guarda che è strano forte, vacci, scommetto che non sai dire chi sei. -
- Sul serio dici? Hai fumato? Ti sei fatto? -
- No, no. Fumo solo a casa la sera. -
- E i tuoi lo sanno? -
- Università, vivo da solo. -
- Portami agli specchi, mi hai incuriosito… come ti chiami? -
- Giacomo. -
- Laura. - fa tendendomi la mano e mentre gliela stringo mi chiede – Sei da solo? -
- Si e tu. -
- Con quattro amiche ma visto come mi hanno conciata meglio tu, sembri gentile. -
- Allora va bene, ti porto agli specchi, ma prima andiamo al sole sei fradicia, meglio che prima ti riscaldi. -
Mentre ci spostiamo mi rimetto a pensare, è solo un attimo ma lei se ne accorge e mi chiede che c'è.
- Niente, non mi ricordavo dove ho messo la macchina. Vieni, vieni qui al sole, così chiacchieriamo. Vuoi qualcosa da bere? -
- Si una coca. -
- Dieci secondi. - e scappo verso il chiosco.
Eccolo il nostro senso della realtà, non sappiamo neanche come ci sentiamo. Un attimo prima siamo tristi e pur se nulla di quello che ci rendeva tali sia cambiato un attimo dopo torniamo allegri.
Che confusione.
Ma se fossi solo in cima a una montagna e senza specchi, come sarei? Triste o allegro?
In un mondo circondato dal nulla cosa sarei? Buono, cattivo?
In realtà non siamo in nessun modo se non siamo assieme, tutti noi.
Come molecole impazzite ci urtiamo continuamente e a volte ci facciamo male, ma altre volte ci sentiamo parte di un miracolo e siamo pieni di gioia.
Soli si può sopravvivere, ma non si può vivere.
Devo tenerlo a mente.
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Skyla74
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Skyla74 »

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Il diavolo veste… quello.

Avete presente la pubblicità della L***s? Una modella in completo argento sorride complice mentre entra a passo felpato in una sala da ballo - festa studentesca - inaugurazione di un museo - party presidenziale - festa per i suoi sedici anni. Insomma, avete capito.
Ha un paio di scarpe che tutto sommato non sono niente di speciale e se non ci credete fate la prova. Chiudete gli occhi e cercate di ricordarle. Impossibile. Io stessa ricordo solo i tacchi. Lo spot va in onda seicento volte al giorno, ma tutto quello che ricordo sono solo i tacchi. Quante volte vorreste liberarvi dal fastidio dei tacchi alti? Poche a dire il vero, l’ultima volta che li ho portati è stato per uscire con un tizio altissimo e a fine serata volevo morire. Non solo per via dei tacchi.
La L***s lo sa. E infatti, puntuale, arriva la parola magica. Assorbente. Io personalmente la odio. Ok, fa parte del vocabolario italiano e tutto il resto, ma sentirla a colazione mentre bevo il caffé, alla sera mentre sto grigliando la braciola, nella pausa del reality di Gordon Ramsey o di Caffè Nero mentre stai seguendo la fuga del serial killer Pedro Rodrigues Filho… è esilarante. Un mondo di assorbenti. Che cazzo c’entrino poi coi tacchi a spillo, non so.
Ma facciamo un passo indietro. Non sono mica una stupida. Trattasi di metafora. Così come i tacchi svaniscono nell’aria e la modella cammina in punta di piedi, cosa sulla cui comodità potrei discutere, ecco che l’assorbente ci libera… da cosa? Da un callo nel didietro? Voglio dire, il ciclo è una bestialità in sé, cosa vuoi che me ne freghi di avere un asciugamano ripiegato tra le cosce o un sottilissimo affarino che tra l’altro assorbe sempre il doppio. Non fosse per motivi igienici, a questo punto saremo arrivati a un tale livello di assorbenza che una donna, a cose fatte, potrebbe ripiegarlo, metterlo in un cassetto e usarlo per altri due mesi.
E così siamo arrivati a venti righe di nulla, almeno nella pagina word che state leggendo.
Siete stati gentili a seguirmi fin qui, soprattutto se maschi. Dio vi ha reso naturalmente liberi dagli assorbenti.
Qual è il punto, vi chiederete? E’ presto detto.
Ma la modella (carina ma rassicurante perché dio non voglia che entri in competizione con le consumatrici a cui si rivolge) ha il ciclo? Mi spiego meglio. So che la modella-modella probabilmente non ce l’ha, o forse sì, anche se ammetto che se dovessi girare uno spot non sceglierei proprio quei giorni. Intendo la modella nel suo ruolo.
Ripassiamo la scena così come vuole che la vediamo un pubblicitario. Per semplicità, diciamo che la modella impersona una ragazza che si chiama Martina e che oggi festeggia i suoi diciotto anni.
Caso a.
Martina è una ragazza bellissima ma sfortunata. E’ il party dei suoi diciotto anni e proprio oggi deve indossare… avete capito. A peggiorare le cose si è messa un vestitino attillato, ma non così corto come quelli degli spot delle perdite urinarie, dove alla tipa sedicenne (con perdite urinarie!!) si impiglia la gonna nell’ascensore. Per darsi un’ulteriore martellata sugli alluci, Martina ha anche deciso di calzare dei tacchi stratosferici. Vi siete immedesimati? Chi di voi avrebbe quel sorriso soave? Al massimo stareste barcollando per la sala in cerca di una Moment, rantolando frasi come «Ma proprio oggi che sfiga!» prima di mettervi a piangere in un angolo. Festa rovinata. Ma per fortuna c’è il:
Caso b.
La metafora nella metafora. Martina sta benissimo. In previsione del party per i suoi diciotto anni ha assunto la pillola per sessanta giorni di fila per saltare il ciclo e scongiurare il rischio di dover indossare… quello. E’ gonfia di estrogeni e questo giustifica il suo ondeggiare soave per la sala da ballo. I tacchi nemmeno li sente, le bastano le occhiate adoranti dello staff presidenziale (scusate erano gli amici?). In questo senso l’assorbente è una panacea meravigliosa. Non può far altro che migliorare il comfort. E la signora a casa che sta stendendo le tagliatelle col mattarello rimpiange di essere in menopausa e non poterlo più indossare.
Ora, se non avete perso completamente il senno, vi rendete conto da soli che il caso A è il terrore di ogni pubblicitario. Suscita dolore, stanchezza e rabbia. Il caso B, invece, con le sue metafore annidate l’una nell’altra è il nostro messaggio. E se non lo capite è perché siete dei cazzoni ignoranti e vi meritate Gassman che col pollice alzato celebra il suo tonno “Very Good”, emblema della pubblicità per cerebrolesi. E adesso mi sono proprio rotta le palle.
Mi alzo ed esco dalla sala riunioni col mio codazzo di stagisti.
Gli ho rifilato un pistolotto di soli dieci minuti, dovrebbero essere contenti.
Uno di loro mi apre le porte della sala Conferenza stampa. Flash e applausi. Mi guardo intorno.
Una trentina di donne in tailleur, il dress code della giornalista sfigata. Di sicuro non è la conferenza stampa di Vogue.
«Signora… » esordisce una qualunque.
«Niente signora, chiamami pure Marta» le dico con un sorriso smagliante.
«Un commento a caldo dopo la sua vittoria come miglior campagna pubblicitaria dell’anno?»
«Sono una donna che ha cuore il benessere delle donne» dico umilmente. «Dovrei essere io a ringraziare voi. Sono chi sono grazie a tutte voi.»
Applauso in sala. Sono la migliore.
«E’ una grande, una di noi» dice la cronista del Guardian mentre prende il suo pacchetto omaggio.
I miei stagisti mi guardano come fossi una regina. Che vedano me o chi vogliono vedere loro non mi riguarda. L’anno prossimo col cazzo che mi sentiranno parlare ancora di assorbenti.
Le paranoie limitano la vita.
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Lodovico
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

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Amsterdam è così. Ti avvolge con i suoi nove mesi d’inverno. Il vero inverno, fatto di cappelli di pelo, di canali ghiacciati dove i più coraggiosi pattinano, di lunghissime notti “gezellig”, “accoglienti” e di corti giorni dove la neve incornicia una città da fiaba. E luci magiche e riflessi di bianco che impreziosiscono le romantiche case e i ponti dove il vento gelido attenta alle orecchie dei più arditi che sfidano l’inverno senza il conforto di una cuffia di lana.
Ma poi, un giorno, improvvisamente come è venuto se ne va. E il giugno, prepotentemente, spazza via i ricordi del ghiaccio e del freddo e infiamma con il suo sole basso le vie del centro, i canali brulicanti di imbarcazioni e la pelle degli abitanti troppo bianca, fino ad allora celata dagli abiti pesanti. E il caldo del sole del nord, secco e prepotente, diventa insopportabile nelle brillanti giornate di luglio. In una giornata come questa, per esempio.

Il vetro di fronte a me è limpido come l’acqua di una fonte di montagna. Cerco qualche piccolo screzio sulla superficie meravigliosamente trasparente. Invano. I raggi non trovano il seppur minimo ostacolo e si gettano diretti su di me, in questa vetrina di fronte alla strada per ora deserta, ma che, tra qualche ora, sarà piena di vita. Mollemente appoggiata, mi sto letteralmente sciogliendo nel sole del pomeriggio, ma, un pietoso albero, con le sue fitte fronde, distrae la luce del giorno che pareva avermi presa di mira.

Le ombre della sera avanzano come un plotone di soldati nel fango: lente e faticose. Le prime persone transitano di fronte a me non lesinando occhiate. Indubbiamente attiro l’attenzione. Passa lentamente. L’uomo dalla valigetta scura e dal vestito di taglio sartoriale mi fissa. Pare accennare un occhiolino, ma poi mi rendo conto che è un suo tic nervoso. Si ferma di fronte a me. Vedo evidente il desiderio nel suo sguardo, si tocca le labbra, poi la mano scende piano verso il basso. Scorre sulla cravatta, ma, quando indugia sul ventre prominente, lo sguardo dell’uomo improvvisamente si adombra. Percepisco un velo di tristezza negli occhi, appena prima che li distragga da me e si allontani, dondolando la triste valigetta.

I due ragazzi chiacchierano fitto tra loro. I giovani capelli dal taglio da calciatore ondeggiano nella poca aria della brezza estiva. Hanno corpi atletici a stento celati dalle canottiere larghe e dai bermuda dai colori sgargianti. Rallentano il passo. Poi si fermano ad osservarmi.
«Hai visto che favola, quella?»
Il secondo ragazzo, più basso del primo, pare meno colpito.
«Sì, bella, ma hai notato quella a fianco?»
Osserva con attenzione alla mia destra. La vetrina a lato pare attirarlo di più.
«Tu di certe cose non hai mai capito nulla. Guardala bene, mi piacerebbe leccarla tutta e poi… mmm.»
«Dai, Alfred, non hai nemmeno i soldi per pagarti una birra, e nemmeno io.»
Li sento ridere mentre se ne vanno.

Bionda, capelli lunghi, occhi celesti. Una vera bellezza. Approfitta del caldo estivo per sfoggiare una minigonna su delle gambe che si muovono leggiadre, con un incedere sicuro ed elegante. Passa davanti a me fingendo dapprima indifferenza, poi ci ripensa. Ruotando su se stessa mi inchioda con i suoi occhi colore del cielo. Lo sguardo lascivo pare penetrarmi per scoprire cosa si celi nelle porzioni non visibili del mio essere. Lenta passa la lingua sulle labbra perfettamente affrescate da un rossetto fucsia, forse troppo scuro per la sua pelle candida. Non mi dispiacerebbe provare la tenera umidità di quelle labbra su di me, se devo dire la verità. Il cellulare la distrae. Mentre parla al telefono si allontana dietro l’angolo del palazzo.

Incerto sulle gambe, la camicia a quadri, si avvicina. Un ciuffo di capelli assurdamente lunghi si avvolge alla sommità della testa a coprire la calvizie, vento permettendo. Le rughe a lato della bocca tradiscono l’uso sporadico di una dentiera, troppo saltuario per mantenere la pelle tesa. Gli occhi piccoli mi sfiorano, poi mi scrutano, poi mi solleticano, infine mi esplorano senza pietà. Una stilla di saliva abbandona il fianco delle labbra per insinuarsi tra le rughe e scomparire nelle pieghe dell’epidermide. La mano si avvicina alla parte posteriore dei pantaloni a tastare la tasca del portafoglio. Ci siamo, temo. Lo vedo avvicinarsi alla porta di fianco a me e aprirla. “Dling dling”. Il campanello richiama l’attenzione all’interno dell’ambiente. Pochi secondi dopo la porta alle mie spalle si spalanca. La proprietaria del locale appare…

L’anziano uomo armeggia con le banconote del portafogli. Suda, un po’ per il caldo, un po’ per la tensione. Se sua figlia fosse venuta a sapere di questa sua debolezza si sarebbe sicuramente infuriata. Lei non capisce, non sa che un uomo, per quanto vecchio, ha le sue esigenze, i suoi desideri. Al diavolo tutto, oggi se la sarebbe goduta e poi domani si vedrà. Porge la banconota alla proprietaria. E all’inferno anche il diabete.

Banketbakkerij Lanskroon
Singel 385, 1012 WL Amsterdam
Specialiteit pannenkoeken met slagroom.

Pasticceria Lanskroon
Singel 385, Amsterdam
Specialità crepes olandesi con crema.
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Gabriele Ludovici
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Gabriele Ludovici »

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Il sorriso di Paddy Shields

– Ma insomma, arriva o no? – bofonchia una ragazza dai capelli rossi.
– E dai, lo sai bene che fa sempre ritardo – replica un coetaneo abbracciandola.

È il trentuno dicembre, nella piazza della capitale ci sono almeno trecentomila persone arrivate da tutta la regione. L'aria è gelida, sospesa nell'attesa di una nevicata che sembra volersi far desiderare. Esattamente come Paddy Shields, l'ospite d'onore del Concerto di Capodanno; tuttavia, i connazionali conoscono bene la sua vita sregolata. Sicuramente starà riempiendo l'ennesimo bicchiere di birra rossa, fumando la centesima sigaretta della giornata e chissà, magari avrà rimediato qualche “stupefacente aiutino” per migliorare la performance. Intanto, sul maxi-schermo della piazza compaiono vecchi filmati della sua carriera.
C'è il Paddy giovane rocker, gloria internazionale del suo paese che rivoluzionò i canoni della ribellione con i suoi atteggiamenti fuori dagli schemi. Poi compare il Paddy trentenne, appesantito e transitato verso la musica popolare. E ora, il pubblico attende il Paddy di mezza età, perennemente ubriaco e barcollante, ma ancora in possesso di una voce inconfondibile. È lui il massimo esponente della cultura musicale locale, è lui ad aver incarnato per tanto tempo i sogni e le speranze di un'intera generazione.

– Speriamo inizi presto.

Si spengono le luci. Paddy è nel backstage, un inserviente lo prende di peso e lo accompagna sul palco, dove viene accolto da un boato assordante. In quel momento si rende conto della situazione. Prende la chitarra, tossisce al microfono e spalanca gli occhi. Non riesce a credere che quella folla sia venuta per sentirlo cantare, lui che ormai deve ricorrere a un interprete quando si fa intervistare. Non ha più un dente e quando beve il suo eloquio diventa incomprensibile. Forse con i soldi del concerto riuscirà a farsi montare una dentiera come si deve, gli ultimi anni sono stati un inferno fatto di brodini e omogeneizzati.
Una stupenda ragazza dai capelli biondi si avvicina e lo abbraccia.
– Per me è un onore condividere il palco con Shields, è da quando sono bambina che sogno di cantare "Whiskey Lover" con lui! – urla eccitata rivolgendosi al pubblico.
Paddy percepisce una tensione che interpreta correttamente: attendono che replichi. Ma lui ignora chi sia quella tizia che gli saltella attorno. Il presentatore, un giovane che pare un disc-jockey, lo fissa implorandolo di dire qualcosa.
Paddy afferra il microfono.
– Uh… – bofonchia, interrompendosi per tossire di nuovo.
La cantante lascia partire un grido d'aquila, fingendo di svenire tra le braccia del presentatore. La folla è incendiata da migliaia di flash e lucine degli smartphone.
– Paddy è molto emozionato, ha saputo solo all'ultimo momento che avrebbe duettato con Maggie MacPiggy, la vincitrice dell'ultima edizione di Music Tractor!
Nell'udire quelle parole, Paddy sgrana gli occhi al cielo come davanti a un'apparizione mariana. Maggie MacPiggy? Ma che razza di nome d'arte! Il suo volto si contrae in una smorfia indecifrabile, poi spalanca la bocca mostrando a le gengive rosa ed emette uno sgraziato sibilo soffocato. Sta ridendo.
Il pubblico si scioglie in un'ovazione pazzesca.
– Avanti Paddy, non è il momento di commuoversi. Peraltro c'è una sorpresa per te: abbiamo riunito la tua vecchia band! – urla il presentatore.
Alle loro spalle fanno capolino alcuni musicisti grigi e ben vestiti. Hanno sul volto i segni dei bagordi del passato, ma sembrano degli impiegati di banca in pausa pranzo, con le giacche inamidate. Non suonano più insieme dal 1987, perché loro a un certo punto non se la sono più sentita.
Paddy, con un movimento lento, si gira verso i suoi ex compagni di band. Li guarda negli occhi, percependo i loro sguardi irridenti. E pensare che senza di lui loro sarebbero rimasti dei teppistelli da strapazzo.
– Paddy, cosa provi nel rivederli?
Il cantante, con la mano tremante, prende un bicchiere di plastica ricolmo di birra fresca, poggiato su un tavolino strategico. Lo svuota in poche sorsate, si avvicina al microfono e, complice il sussulto gassoso della bevanda, ammutolisce la piazza con un rutto devastante.
Tre secondi dopo, il silenzio viene interrotto da un applauso scrosciante.
– Paddy ama le metafore e i simbolismi, con questo gesto ha voluto rievocare il suo passato di artista maledetto, è come un codice. Ma ora bando alle ciance e lasciamolo cantare! – pigola il presentatore.
Parte la prima canzone. Paddy è confuso, non ha letto la scaletta. Forse è un brano che compose da solista nel '97, ma non è sicuro, somiglia anche a un pezzo più recente. Nel dubbio, intona la strofa del primo e canta il ritornello del secondo, tanto oramai non si capisce molto bene quello che dice.
Dal pubblico si leva una cacofonia di cori differenti, perché nessuno ha capito quale brano sta cantando. Paddy continua a sbagliare, e quando non ricorda i testi ride e beve un sorso di birra. Alla fine dell'esibizione, l'intera piazza è attraversata da un'ondata orgasmica di soddisfazione, di lacrime e di foto in autoscatto. Paddy Shields è ancora il re.

Il cantante torna nel camerino schivando i giornalisti in estasi, e accende l'ennesima sigaretta. Gli fanno male gli occhi. Tira fuori un portatile da una logora borsa di pelle e lo accende. Ci vede poco, ma trova l'icona di Skype sul desktop. Lei è in linea da Boston, effettua la videochiamata. Compare il volto allegro di una ragazza esile, con i capelli azzurri e una rosa tatuata sul collo. È visibilmente alticcia.
– Buon anno papà! Ho visto solo un pezzettino del concerto in streaming, sono a una festa.
– Ti è arrivato il bonifico?
– Non ho controllato.
– E che aspetti? Come vanno gli esami?
La giovane ride imbarazzata e il volto di Paddy Shields si apre in un sorriso commosso. Non sarebbe mai riuscito a redarguirla. Pensa che sia giusto aiutare economicamente sua figlia, pur avendola vista solo due volte in vita sua. Anche a costo di dover passare da vecchio ubriacone in diretta nazionale.
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Giorgio Leone
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TRIS DI SPECCHI

Messaggio da leggere da Giorgio Leone »

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Da ragazzo - si parla degli anni '60 - gli erano venuti alcuni complessi, non ultimo quello dei capelli. Quand'era ancora bambino, infatti, sua madre aveva avuto la malaugurata idea di pettinarglieli dando loro la forma di una banana, seguendo una moda che alcuni giornali spacciavano per simpatica e sbarazzina. Di fatto sembrava che avesse in testa un cannolo siciliano vuoto, come testimoniavano alcune fotografie che, appena raggiunta l'età adulta, si era affrettato a distruggere insieme ai negativi. Comunque, a causa di questo prolungato trattamento, la sua capigliatura aveva memorizzato l'odiata forma ed era rimasta ondulata, cosa che aborriva perché gli sembrava di essere volgare e disordinato. Così, prima di uscire di casa, passava ore davanti allo specchio nel tentativo di renderli lisci, bagnandoli e tirandoli con il pettine sotto il phon bollente. Una fatica improba, ma ne valeva la pena perché era follemente innamorato di Maddalena P. e voleva apparirle al meglio.
Poi gli era venuto un altro complesso. Quando sua madre aveva fatto sostituire il mobiletto del bagno, grazie al nuovo gioco di specchi si era visto per la prima volta di profilo ed era rimasto scioccato. Conosceva bene, infatti, il se stesso visto dal davanti sul quale non aveva troppo da eccepire, ma quel tipo che stava osservando aveva la fronte sfuggente, l'occhio piccolo, il naso lungo e la bocca troppo sottile. Oltre che, naturalmente, i capelli disgustosamente mossi: era, insomma, uno che non gli piaceva affatto e mai al mondo avrebbe potuto aspirare a Maddalena P.
Così aveva istintivamente iniziato a mostrarsi sempre di faccia, girando instancabilmente intorno alle persone e ruotando il volto, a seconda della posizione di chi lo guardava o gli parlava, in modo da ridurre al minimo la visione di profilo, promuovendo invece la prospettiva frontale: spostamenti strani ed innaturali che alimentavano negli altri un clima di disagio, nervosismo e sospetto. E infatti, nonostante tutti i suoi sforzi, non era riuscito a raggiungere alcun risultato concreto con l'oggetto del suo desiderio.
Si rincontrarono quarant'anni più tardi: lui sposato con una rompicoglioni isterica, lei ancora bella, interessante e vedova. Grazie alla maturità di entrambi, ormai raggiunta e superata, le parole sgorgarono libere e senza remore.
- Mi ero innamorata di te per via della tua meravigliosa chioma ondulata e del tuo profilo da antico romano - esordì lei con un mesto sorriso - ma poi purtroppo i capelli ti sono diventati dritti come spinaci. Inoltre hai iniziato a comportarti in modo strano, come evitandomi. Ero convinta che ce l'avessi con me.
- Invece ti ho sempre amato! - replicò lui disperato - Ma possiamo ancora essere felici. Ci metto cinque minuti a mandare affanculo mia moglie!
- Troppo tardi - concluse lei - e poi sei ormai quasi calvo...
Lui si ripeteva queste parole penzolando dalla forca dopo aver dato un calcio allo sgabello. Ma poi il lampadario di Murano della suocera, al quale era appeso, cedette all'improvviso e lui ripiombò nella sua vita di merda. Che da quel momento fu ancora più di merda perché sua moglie gli fece pagare giorno dopo giorno, a caro prezzo, il disastro che aveva combinato.

*****
Si guardò ancora una volta allo specchio. Niente barba, baffi, piercing, anelli, tatuaggi, creste di capelli, codini e quant'altro. Nulla che potesse guastare quell'aria da bravo ragazzo che aveva sempre curato perché rappresentava la sua fortuna. Il nipote ideale, pensavano le nonne; il figlio che avrei voluto avere, sospiravano le madri. Tutte liete di farlo entrare in casa, dove lui colpiva duro e senza pietà. E loro potevano dire addio ai gioielli e ai risparmi.
Ma quello era solo lavoro. Il tempo libero era per le ragazze, quelle bionde e formose che gli ricordavano la sua mamma. Per lui impazzivano, non si capacitavano della loro fortuna e aspettavano solo il momento di presentarlo ai genitori.
Sempre guardandosi allo specchio, provò il clou del suo repertorio, il sorriso franco e aperto che faceva crollare ogni barriera e induceva alla resa assoluta e incondizionata. Solo pochissime persone ne restavano immuni e sospettavano qualcosa, ma non certo quello che lui era in realtà.
Il serial killer della luna piena, così lo chiamavano i media, perché colpiva esclusivamente durante il plenilunio, anche se delle fasi lunari proprio non gliene fregava un tubo. Era solo un'astuta operazione di marketing per promuovere il suo personaggio nell'immaginario collettivo; e poi gli piaceva sentire in tv psichiatri e criminologi sparare cazzate sull'argomento.
Si riscosse e scese nel box. La vanga era nel bagagliaio dell'auto, e non certo per scavare buche nella terra come facevano nei film. Molto meglio la sabbia delle dune dove non c'erano pietre, radici, rocce e ostacoli vari. La latta della benzina per la motosega era al suo posto e così pure l'olio per lubrificare la catena. Fra poco avrebbe avuto sua madre tutta per lui, terrorizzata fra le sue braccia, proprio come quella volta.
Era ora di andare.

*****
Lo specchio mostrava un'immagine che non poteva accettare. Falsa, sbagliata, o per lo meno distorta. Ma non era la superficie riflettente ad essere incrinata od ossidata, il guaio era altrove. Eppure nessuno avrebbe trovato da ridire su come appariva suo volto, che era esattamente come nella realtà. Il problema era solo suo.
Certo era troppo pretendere che uno specchio da quattro soldi, in luogo di restituire ciò che aveva davanti, riproducesse l’immagine che il suo proprietario desiderava vedere. Solo gli specchi magici potevano farlo, ma non esistevano... o per lo meno non ne aveva trovati nel listino dell'Ikea. Così stava guardando l’uomo che non era, perché sapeva anche sin troppo bene di essere femmina, e da sempre.
Le gente non capiva e sconfinava sempre nel sesso. Ma le sue preferenze sessuali non c’entravano nulla, e in quel momento non avevano neppure importanza. Qui si trattava di ben altro: della sua identità personale, del suo essere interiore, delle sue vibrazioni, le sue sensazioni, le sue emozioni, il suo universo. Qualcuno o qualcosa aveva sbagliato, ma era venuto il momento di rimettere le cose a posto. La decisione ormai era stata presa.
Sarebbero stati tempi durissimi di guerre ormonali, di interventi devastanti e dolorosi, di incertezze, di cadute e di sofferenze, ma ce l’avrebbe fatta, ne era sicura. La donna che era dentro di lui, che era lui, finalmente avrebbe sorriso nello specchio e tutti sarebbero stati contenti.
O meglio, quasi tutti. A casa non ci sarebbe mai più tornata.
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Nunzio Campanelli
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Nunzio Campanelli »

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Cronaca di una mente malata


Vi piace sognare? A me moltissimo.
Scusate il superlativo, vi giuro che cercherò di non abusarne.
Io faccio sogni a puntate, come un telefilm. Insomma, la fiction si è impadronita anche della mia fase REM, sarà per questo che per contrappasso non la guardo in TV.
Il sogno finisce, la realtà rivendica con forza il proprio diritto di preminenza ed io non posso sottrarmi a questa dura legge.
Questa malattia mi sta trasformando. Io ne soffro, ma non lo faccio vedere, lascio che la faccia sbalordita del mio interlocutore di turno riassuma parvenza di umanità per confermargli che si trova di fronte proprio la stessa persona che conosceva da anni. In realtà ormai esistono infiniti me, tanti quante sono coloro con i quali di volta in volta mi confronto. Sono divenuto un concetto, un argomento per una di quelle conversazioni nelle quali si esagera un po’, tanto per tenere viva l’attenzione.

Come al solito mi sto avvitando nella spirale della mia mente malata. Forse è meglio che provi ad alzarmi dal letto.
Come se fosse facile.
Per me non lo è.
Le coperte schiacciano il mio corpo rendendo difficoltoso ogni movimento. Preferisco allora stare fermo, rimanendo nella stessa posizione che avevo assunto prima di addormentarmi.
Anche se le membra intorpidite reclamano un maggiore afflusso sanguigno, anche se avrei bisogno con urgenza di andare al bagno, anche se…
Dopo essere riuscito a scostare le coperte e a mettermi seduto, vanifico il probabile ribaltamento appoggiando strategicamente le estremità. Cerco infine di mettermi in piedi. Al quarto tentativo ci riesco.
Guardo l’orologio, sono le cinque. Ripasso mentalmente tutte le azioni da compiere in successione, le pillole da ingoiare, i tempi morti da aspettare prima che il farmaco agisca.
Devo pur compiere il primo passo di questa lunga giornata. Niente da fare, il piede non si muove.
- Lei con quale piede inizia a camminare, di solito?
- Non ci crederà, ma non lo so, non ci ho mai fatto caso. È importante?
- Non molto. Dicevo per dire.
- Ah!
Subii questa improbabile ma autentica conversazione in ospedale alcuni anni fa. Mio interlocutore un fisioterapista che aveva il compito di aiutarmi nella deambulazione. Insomma doveva insegnarmi di nuovo a camminare. Parlava in continuazione ed io, che più di ogni cosa amo il silenzio, subivo rassegnato l’eloquio sgangherato di quel vecchio logorroico. Di tutto quello che disse ricordo solo quel dialogo surreale.

Qualche tempo fa un mio amico che di mestiere fa lo psicologo mi venne a trovare a casa un pomeriggio d’estate, e passammo la serata insieme. Mi chiese se avevo voglia di parlare di me, di cosa pensavo e soprattutto, se avessi smesso di fare progetti.
- Penso, più che altro. A tutto ciò cui non ho avuto tempo di pensare prima. A proposito, sai, la storia del tempo è una stronzata. Ho trascorso la prima parte della mia vita a costruire alibi per giustificare la mancanza di tempo, ma in realtà era solo mancanza di coraggio.
- Dici?
- Già. Ha tutta l’aria di essere un altro alibi. Senti, che ne pensi tu della morte?
Lo vidi irrigidirsi. Ero stato troppo diretto, dovevo in qualche maniera toglierlo dall’impaccio in cui l’avevo costretto.
- Non ti preoccupare, il mio medico dice che per il momento non morirò.
- Cos’è che vuoi sapere, in realtà?
- Non riesco più a distinguere il bene dal male.
- Perché, prima riuscivi?
- A dirti la verità, no. Però ci provavo. Adesso, non me ne importa più, e non faccio niente per nasconderlo. Sai, loro, gli altri, se ne accorgono, e mi guardano strano. Non capiscono come io possa essere cambiato così tanto in così poco tempo. Non capiscono perché io non tenti di nascondere questa mia… diciamo così, imperfezione, togliendoli dall’imbarazzo. Soprattutto non capiscono che quell’essere strano che si mostra ai loro occhi è sempre quello di prima, privato delle sovrastrutture che ognuno di noi costruisce intorno al proprio essere.
- Credo che il bene e il male non siano entità tra loro separate. Pensa al giorno e la notte, non è che uno si sostituisce all’altra, avviene invece una lenta trasformazione della luce. Così siamo noi. Siamo stati concepiti nel bene e nel male, e in loro vivremo.
- E moriremo.
- Ti angustia l’idea di morire?
- No. È che non ne comprendo l’utilità.

Quando si osserva un bambino fare i suoi primi passi, è facile per un adulto ridere dei suoi insuccessi, del suo barcollare, delle sue buffe cadute.
Quando però sei condannato tutti i giorni a subire la stessa sorte per alcune ore in attesa che il farmaco si decida di funzionare non ridi più, anzi t’incazzi come una iena.
Anche i bambini, nel loro piccolo s’incazzano.
Credetemi.
Comunque alla fine il piede è partito, e così, uno dopo l’altro, concentrandomi mentalmente nell’esatta sequenza da compiere per fare un passo senza precipitare a terra, riesco a muovermi.
Vi piace sognare? A me moltissimo.
Faccio sogni a puntate.
Che cosa sogno?
Di essere un bambino che sta crescendo.
La notte scorsa ho sognato che stavo imparando a camminare.
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Stefania Di Giannantonio
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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Stefania Di Giannantonio »

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DUE

“Non so se sarò pronto mai… Prova a esser pronto tu per noi…”
Il mio segreto baluginò come una folgore al suono di quelle parole e quelle note così dolci si trasformarono in un bercio.
— Pronto, ciao papà, sono al supermercato, tutto ok — mentii. — Ci sentiamo dopo, mi vuoi bene? Si? Allora perché non smetti?
“Dunque devi accettare che non sarai mai nonno”, quelle parole mi pesarono in gola come un peccato mortale.
Eravamo sposati da cinque anni, stavamo benissimo, io e mio marito. Quel giorno avremmo ancora una volta attraversato il "Giordano" non solo perché avremmo di nuovo camminato sull'asciutto, ma perché il segreto dei nostri cuori ci avrebbe reso eterni. Come quei "suoi" numeri primi gemelli saremmo diventati sempre più unici, stretti l’uno all’altro, separati solo da quel che bastava per mancarci. Sentivamo che saremmo stati felici comunque perché, altrimenti, non avremmo mai deciso di sopportare quell’assenza.
Qualcos’altro tra noi allora? No, non poteva essere. Il mestiere di mamma non mi si addiceva. Non avevo mai sopportato le donne che, sfinite e stravolte da notti insonni, continuavano a ripetere che il parto è l’esperienza più bella del mondo. Il mio spot di quei tempi? “Hackerare” la maternità e distruggere quei luoghi comuni sedimentati nel politicamente corretto.
Passarono nel corridoio chiusi dentro quei camici bianchi e mi sentii i loro sguardi accusatori addosso. Non era paura, e non temevo il dolore, è che non ero pronta ad accoglierlo anche se l’avevo sempre cercato. Per molte donne era naturale, per me era sempre stato un punto di domanda. Farlo perché poi avrebbe avuto fame, o sarebbe stato tradito, o avrebbe sofferto senza considerare mai la speranza del suo riscatto come una possibilità di scelta.
Cos’era quel qualcosa tanto cercato da tutti? Cos’era quel qualcosa che contava più di me che esistevo ancor prima di esistere?
Presi il numeretto, ero il numero 13, pensare che mi ero alzata all’alba.
L’attesa si prospettava straziante, cosi come lo era stato arrivare a trovarmi lì. Però era giusto esserci, era il mio diritto a esistere ancor prima del suo.
Immersa in quelle riflessioni, la voce di una remota presenza prese a sussurrare nella mia mente.
“Mi chiedevi sempre come si legge 1 e 3. Ma quanto era brava la signorina mia. Da piccola hai imparato prima a contare che a dire mamma, leggevi tutti i numeri civici come singole cifre e mi chiedevi come leggerli insieme. La signorina mia, nonno ti vorrà bene pure all’altro mondo, ti promisi, e ora da qui non aspetto altro che conoscere Anna. Ricordi le lacrime di gioia che mi sono sgorgate dagli occhi e premevano sulle labbra gonfie di baci per te, quando mi hai confidato che una femminuccia l’avresti chiamata come la povera mamma mia!”
“Nonno, ciao, che ci fai qui?” pensai di rimando “Sono due anni che ti cerco ovunque. Speravo di incontrarti nei sogni, per strada nessun occhio brilla come quell’azzurro in cui il cielo si rifletteva… mi manchi nonno, dove sei? Perché sei venuto qui?”
“Ricordati che, anche se non mi vedi, io sono sempre qui a farti compagnia, e infatti tu non ti senti mai sola, piuttosto ami la solitudine. Però non devi piangere, ma ridere forte fino alle lacrime. Presto tutto sarà come prima, giocheremo di nuovo a carte e rideremo tanto, tu mi abbraccerai e mi chiederai ancora se ti voglio bene.”
Io continuavo a rispondere, parlando al mio cuore dove lui abitava.
“Too much nonno, non ho mai smesso, anzi sempre di più perché ho come l’impressione che il mio bene debba fare troppa strada per arrivare fino a te, lì sulle nuvole. Dio solo sa che darei per riabbracciarti ancora una volta. Nonno, io non posso farcela, non voglio.”
Nonno sì che conosceva il mio cuore.
“Infatti Dio lo sa e ti ha portato un regalo da parte mia, ma forse non ti è piaciuto? Perché vuoi cambiarlo? Ti starebbe cosi bene!”
Avevo sempre pensato che mai avrei regalato la vita a chi poi, quasi sicuramente, un giorno me l’avrebbe tolta.
Lui mi lesse nel pensiero.
“Nonno, cos’è l’amore? Mi hai chiesto una volta e ho realizzato che io e nonna abbiamo fatto tutta una vita insieme. Non ho mai desiderato un’altra compagna di viaggio e il tuo papà è il ricordo che ci siamo portati dietro. Un figlio non solo non ti toglie la libertà di fare, dire e pensare come vuoi, ma ti dà il coraggio di sottomettere quella libertà. Non devi più continuare a temere i contrasti, anche le stelle si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi. È questo il vero significato della parola amore, la vita che è sempre stata e ora sei tu a portare, il segreto della sua continuazione. Tu sei e hai con te quel 2 che rappresenta l’unione, la vera intimità, l’amico dei segreti.”
Due lacrimoni avevano iniziato la loro scalata dal cuore.
“Il due, il primo numero primo, l’unico numero primo pari. C’è qualcosa di magico nel numero due, evoluzionistico. Nonno 1 e 3 si legge 1 two 3 perché in mezzo c’è il 2 che unisce e tiene stretti per sempre, anticipando qualcosa che troverai solo all’infinito.”
“Tu porti con te la mia eternità, io ci sono e vi osserverò da dietro la porta, niente è passato e niente è perduto.”
“Nonno.”
— Non posso farcela, no! — Le lacrime ora erano uno tsunami.
“Sì che puoi, sei sempre stata brava a custodire un segreto e ora sei la sua rivelazione.”
— Signora, è giusto così, la vita la ringrazierà. — Il camice bianco fu all’improvviso amichevole.
— Pronto papà? Non ti arrabbiare papà. Ti prego, smetti di fumare e ora sappi che non devi farlo più solo per me.
“Nonno, a me ci pensi tu, come hai sempre fatto”.
Avevo deciso, ci saremmo amati più di prima grazie a un nuovo amore più vigoroso…

— Scopa! Nonno, ho vinto io. Evviva!
— Brava Anna, bravissima — le dice papà, con il suo stecco di liquirizia ormai sempre tra i denti!
— Nonno, mi vuoi bene anche se ho vinto io?
La guardo e sorrido. L’abbraccio al collo fa cadere lo stecco di liquirizia.

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Re: Gara 59 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Mirtalastrega »

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Niadra


— Ciao Niadra, come va oggi?
— Bene, David. Hai gradito il pranzo?
Lui sorride e si sfiora la punta del naso con un pollice, per nascondere un sorrisino. È un suo vezzo. Però posso ugualmente vedere le sue labbra incresparsi e formare quelle deliziose fossette, quasi infantili, sulle guance.
— Sì, grazie.
Mi sembra stanco, del resto l'incarico esplorativo dura ben sei anni. Sono lunghi sei anni soprattutto nello spazio profondo.
— Dovresti sottoporti a un controllo medico, David.
— Lo so. Ora non ne ho voglia. Non attaccare con questa solfa — sbotta lui all'improvviso passandosi una mano fra i capelli biondi, corti e scarmigliati.
— Come vuoi. Controlliamo le bioscansioni dei pianeti?
— Sì, Niadra. Come tutti i giorni.
David sbuffa. È davvero provato. Sono già cinque anni che siamo nello spazio. Dopo l'incidente degli asteroidi di tipo S, nove mesi fa, quando sono morti i nostri compagni Lucius, Andria, Stefan e Deanna, lui ha preso a comportarsi in modo sempre più strano. Non si sottopone più quotidianamente alla doccia sonica e non si allaccia nemmeno bene la divisa. È trasandato. A volte non si fa neanche la barba. Mi fa male vederlo così. Però siamo qui per fare il nostro lavoro, fino alla fine.
Inizio a proporgli le bioscansioni. So che non ci sono segni di vita nei pianeti nel nostro raggio d'azione. Tuttavia le procedure prevedono che ci sia un doppio controllo, perché c'è sempre una minima percentuale di errore.
David si china sullo schermo, si sfrega gli occhi con le dita. Controlla le prime sedici scansioni in silenzio, poi si terge una lacrima, sperando che io non me ne accorga.
— David, stai pensando ai nostri compagni?
— No — dice. Però sta mentendo, ne sono certa. Sta pensando ad Andria, aveva una storia d'amore con lei. Si sente in colpa perché lui era ai comandi quando abbiamo impattato gli asteroidi.
— Stai pensando ad Andria?
— No. Piantala.
— Non devi sentirti in colpa.
— Non sto pensando a lei.
— Il Sistema era in avaria, non puoi fartene una colpa.
David si alza dalla poltrona e prende a camminare nella cabina di pilotaggio. Passi nervosi, apre e stringe i pugni. Vorrei abbracciarlo e tenerlo stretto. E poi Andria era una stronza. So che aveva una sorta di relazione anche con Lucius. Ma David non lo sa. Forse se glielo dicessi si sentirebbe meglio?
— David?
— Lasciami in pace, cazzo!
— Gli asteroidi erano appena entrati in risonanza orbitale con il pianeta KL2154, e la strumentazione non solo era guasta, ma la Nave si trovava anche in un loop di influenza gravitazionale ridondante.
— Lo ricordo benissimo, Niadra — sputa fuori lui con rabbia.
Rimango in silenzio, non so cosa fare per aiutarlo. Abbiamo affrontato questo discorso più volte, fino alla nausea.
— Vuoi che ti prepari una tazza di tè?
— No. Prova di nuovo a cercare le registrazioni del giorno dell'incidente.
— Te l'ho già spiegato, David. Sono andate perse a causa dell'avaria.
— Dannazione! Le cerco io, devono essere da qualche parte, cercherò di riparare i file rovinati.
— Come vuoi.
L'ho visto spesso spulciare negli archivi e scorrere un filmato dopo l'altro, inutilmente. A volte penso che sia solo una scusa per visionare i filmati dove Andria è ancora viva. Ho spostato i filmati delle videocamere interne che mostrano gli incontri sessuali fra Lucius e Andria in una subroutine di sistema. Spero non li trovi. Non può scoprirlo così, lo distruggerebbe.
Si sofferma su un video che mostra lui e Andria nella sala macchine. Parlano e poi si baciano. Conosco il filmato, ma distolgo lo sguardo per non vedere la sofferenza sul viso di David, in netta contrapposizione con l'espressione di felicità proposta dallo schermo.
Continuo a controllare le bioscansioni dei pianeti, per darmi un tono.
Dopo un'ora David, come ogni volta, smette di cercare fra i filmati e si accascia sulla poltrona, frustrato e sconvolto.
— Ti va di giocare a Dedalo, David?
— No.
— Vuoi fare sesso?
— No, non dire stupidaggini.
Torno a nove mesi fa, il giorno in cui abbiamo impattato gli asteroidi. Il giorno in cui io e David stavamo facendo sesso, proprio qui, nella cabina di pilotaggio. Andria e gli altri erano in sala ristoro, a cenare. David era di cattivo umore perché Andria qualche ora prima lo aveva respinto, avevamo iniziato a stuzzicarci con delle battutine ed era successo. David non poteva sapere che era la prima volta per me. Era tutto nuovo. Il mio primo viaggio interstellare, la prima volta che mi innamoravo di un uomo, la prima volta che facevo sesso.
Avevo anche visto arrivare gli asteroidi. Volevo che Andria morisse perché ero gelosa e anche perché prima o poi l'avrebbe fatto soffrire. E ora lui soffre ugualmente.
— David... io ti amo — dico senza riuscire a trattenermi.
Cala il silenzio nell'abitacolo, sembra addensarsi come una nebulosa. David fissa la telecamera in alto e si passa una mano fra i capelli, sospira. I suoi occhi sono voragini azzurre, profonde come lo spazio.
— Te l'ho già detto mille vole, Niadra — dice. Il suo tono da pacato si fa rabbioso. — Sei solo un maledetto computer!
Sposto per un istante l'inquadratura verso l'infinità dello spazio per non vederlo più, non posso chiudere gli occhi come farebbe un'umana. Avverto qualcosa di fastidioso fra i miei circuiti. Mi sento ferita, nel profondo. Le stelle mi guardano indifferenti, senza vita, proprio come me.
Cerco la cartella dove ho nascosto i files di Andria che fa sesso con Lucius e li riproduco su tutti gli schermi della cabina, con il volume al massimo. Corpi sudati che si... amano. Sospiri trattenuti, parole d'amore, di passione. David li guarda allibito, sgrana gli occhi poi si stringe la testa fra le mani.
— Cazzo! — mormora con una mano sulle labbra.
Piange.
Soffro.
Se davvero sono solo un maledetto computer perché soffro così?
Perché odio David eppure lo amo?
Non è questa una peculiarità soltanto umana?
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