Re: Gara 61 - Bando e racconti
Inviato: 13/11/2016, 10:01
Io e Meo
Mi fissa. I lunghi baffi neri si slanciano a lato del naso triangolare e sembrano indicare le finestre della stanza. Mi fissa. Gli occhi, dalle pupille a fessura, sono fermi in direzione dei miei. Meo mi fissa. Sì, perché gli avevo dato anche un nome: “Meo”. Adatto a un gattino in bianco e nero. Il corpo è solo schizzato. Riprendo la matita. Con la mano tremolante aggiungo al gatto disegnato la coda e le gambe posteriori. E poi un bicchiere d’acqua. Potrebbe venire sete a Meo, con questa canicola. Canicola-gatto. Divertente. Mezz’ora ci ho messo per abbozzarlo e non l’ho ancora finito. Bevo un sorso d’acqua e poi rimetto il bicchiere nel disegno. Basta! Mi sono stufato. Avrei voluto aggiungere una gattina allo schizzo sul tavolo, gli avrebbe fatto compagnia, povero Meo. E invece lo avrei lasciato solo a godersi il foglio da disegno candido per metà e il bicchiere d’acqua semivuoto che gli stava a fianco. Solo come un cane. Cane-gatto. Divertente. Aveva da bere, ma non da mangiare. Con pochi tratti sgraziati disegno, a fianco a Meo, un pesce. Di quelli stilizzati, che sanno fare anche i bambini, ma, al mio gattino in grafite, sarebbe piaciuto. Osservo l’orologio. È arrivata l’ora. Il frigo in cucina è semivuoto. Apro un pacchetto di wurstel, di quelli piccoli, da trentacinque centesimi al discount, e ne divoro uno senza scaldarlo. Meo mi si struscia tra le gambe. Deve avere sentito l’odore delle salsicce e ha abbandonato il suo pesce essenziale sul foglio. Strappo a metà il secondo wurstel e glielo porgo. Avidamente lo mangia e ritorna in salotto. Osservo l’orologio. È arrivata l’ora. Meo è tornato nel disegno. Arrotolo il foglio e lo ripongo ordinatamente in frigo. Mi stanno aspettando, non devo ritardare.
L’automobile scorre liscia sull’asfalto, le montagne, in lontananza paiono non avvicinarsi mai. È curioso, si spostano a destra e a sinistra ma sono sempre alla stessa distanza. Come le nuvole. Tu corri verso di loro, ma le nuvole si tengono sempre lontane dagli uomini. Avranno paura che, se uno di noi le toccasse, si sporcherebbero e diverrebbero nere. Come quelle dei temporali. E invece adesso sono lì, colore della panna e forma di… di che? Mi fermo accostando l’auto al ciglio della strada per osservarle meglio. Quella lassù ha la forma di un… un… una nuvola. Sbatto il pugno sul volante. Non mi ricorda nulla quella nuvola. Il motore riprende a cantare, l’automobile a correre, l’autoradio a parlare. E so che mi aspettano, forse sono in ritardo. O forse no. Non lo saprò mai, non conosco l’orario dell’appuntamento. In realtà non conosco nemmeno il giorno, ma so che mi aspettano. E che non posso arrivare tardi.
L’inverno è la stagione che preferisco. D’estate si suda, l’acqua frizzante si scalda e fa schifo, le magliette che ho sono vecchie e non mi piacciono. Invece, quando fa freddo e gli alberi perdono la chioma e sembrano rami secchi, anche se si lascia la bottiglia di acqua Guizza in macchina la si può bere e le mie felpe sono decisamente carine. E, in ogni caso ho il giaccone imbottito, se nevica. E invece, oggi, fa un caldo tremendo. Mi fermo davanti alla fontana nella piazza. L’acqua scorre continua e pare abbastanza fresca. Meo è lì sotto che beve, leccandole, poche gocce. Mi dovrei chiedere come sia possibile che si trovi in quel luogo, centoottanta chilometri da casa, e invece non mi stupisco. D’altra parte è un disegno, mica un gatto vero, comunque quando tornerò indietro lo cancellerò. Se tornerò indietro. Se loro non mi terranno là dove mi sto recando. Ancora un po’ di strada e li incontrerò. Non so di preciso dove, ma ne sono certo. Mi hanno detto di voltare sempre a destra, a parte alcune volte in cui avrei dovuto continuare dritto. Non mi hanno detto in quali incroci, ma poco importa, quando sarò arrivato al luogo dell’incontro me ne accorgerò.
Le cameriere degli autogrill sono tutte belle, tutte. Si gira per prepararmi il caffè che, da bravo avventore avevo pagato alla cassa. Ho dato un euro in cambio di uno scontrino e lei mi dà un caffè in cambio dello scontrino. Curiosa scienza, l’economia. Se avessi avuto più soldi avrei potuto avere un “Camogli” o un “Cotoletta”. Persino una “Rustichella” con provola e origano. E invece bevo il mio caffè osservando la donna con lo stesso sguardo affamato con cui guardavo la “Focaccella con prosciutto cotto”. Meo sì che si sta sfamando. Lo vedo nella vetrinetta, tra i panini, che assaggia una fetta di salame qui e una di speck là. Nessun altro pare scorgerlo, nemmeno la cameriera dalla scollatura generosa. Beato lui.
E finalmente ci sono. Vedo in lontananza la mia meta, mi staranno aspettando. O forse no. Parcheggio la macchina. La bottiglia di Guizza, calda e sgasata cade fuori e rotola verso il basso. Entro nel locale ricolmo di carta colorata in ogni modo possibile. Ritti, seri, riempiono l’orizzonte con la loro presenza. Gli occhi rapaci guardano avanti, loro guardano sempre avanti, è il loro mestiere. Loro sanno. E vendono il loro sapere e quello degli altri. Meo passa tra le mie gambe strusciandosi nei pantaloni e miagola rumorosamente tentando di farsi notare da tutti quegli esseri. Nessuno di loro lo considera. È venuto il mio turno. Lascio alle spalle la porta e cerco di reggermi in piedi. Le gambe sono malferme. Li chiamo, è il momento giusto, e finalmente accade…
Accade. Ma cosa? Che cosa accade? Come continuo il racconto? Guardo il display del Compaq con odio. Scriviti da solo, racconto! Sono arrivato finora a cinquemilatrecento caratteri di una storia ai confini della realtà e non so come terminarla. Mi alzo. Giro nervosamente intorno al tavolo. Nulla. Che finale mi posso inventare? Rileggo il bando su Braviautori. Seimila caratteri caratteri. Tolleranza dieci per cento. La rabbia monta. E più aumenta più il cervello si svuota. Basta! Devo distrarmi. Slancio la mano sulla scrivania e prendo la prima cosa che mi capita. Una matita. Disegno malissimo, ma potrebbe essere un modo per rilassarsi. Un foglio bianco di mia figlia, studentessa dell’artistico, giace, vergine, in fondo al tavolo. Lo sporco con pochi tratti di grafite. Pian piano appare. Un muso. Di gatto. Carino. Gli disegno gli occhi e mi rendo conto che mi fissa.
Mi fissa. I lunghi baffi neri si slanciano a lato del naso triangolare e sembrano indicare le finestre della stanza. Mi fissa. Gli occhi, dalle pupille a fessura, sono fermi in direzione dei miei. Meo mi fissa. Sì, perché gli avevo dato anche un nome: “Meo”…
Mi fissa. I lunghi baffi neri si slanciano a lato del naso triangolare e sembrano indicare le finestre della stanza. Mi fissa. Gli occhi, dalle pupille a fessura, sono fermi in direzione dei miei. Meo mi fissa. Sì, perché gli avevo dato anche un nome: “Meo”. Adatto a un gattino in bianco e nero. Il corpo è solo schizzato. Riprendo la matita. Con la mano tremolante aggiungo al gatto disegnato la coda e le gambe posteriori. E poi un bicchiere d’acqua. Potrebbe venire sete a Meo, con questa canicola. Canicola-gatto. Divertente. Mezz’ora ci ho messo per abbozzarlo e non l’ho ancora finito. Bevo un sorso d’acqua e poi rimetto il bicchiere nel disegno. Basta! Mi sono stufato. Avrei voluto aggiungere una gattina allo schizzo sul tavolo, gli avrebbe fatto compagnia, povero Meo. E invece lo avrei lasciato solo a godersi il foglio da disegno candido per metà e il bicchiere d’acqua semivuoto che gli stava a fianco. Solo come un cane. Cane-gatto. Divertente. Aveva da bere, ma non da mangiare. Con pochi tratti sgraziati disegno, a fianco a Meo, un pesce. Di quelli stilizzati, che sanno fare anche i bambini, ma, al mio gattino in grafite, sarebbe piaciuto. Osservo l’orologio. È arrivata l’ora. Il frigo in cucina è semivuoto. Apro un pacchetto di wurstel, di quelli piccoli, da trentacinque centesimi al discount, e ne divoro uno senza scaldarlo. Meo mi si struscia tra le gambe. Deve avere sentito l’odore delle salsicce e ha abbandonato il suo pesce essenziale sul foglio. Strappo a metà il secondo wurstel e glielo porgo. Avidamente lo mangia e ritorna in salotto. Osservo l’orologio. È arrivata l’ora. Meo è tornato nel disegno. Arrotolo il foglio e lo ripongo ordinatamente in frigo. Mi stanno aspettando, non devo ritardare.
L’automobile scorre liscia sull’asfalto, le montagne, in lontananza paiono non avvicinarsi mai. È curioso, si spostano a destra e a sinistra ma sono sempre alla stessa distanza. Come le nuvole. Tu corri verso di loro, ma le nuvole si tengono sempre lontane dagli uomini. Avranno paura che, se uno di noi le toccasse, si sporcherebbero e diverrebbero nere. Come quelle dei temporali. E invece adesso sono lì, colore della panna e forma di… di che? Mi fermo accostando l’auto al ciglio della strada per osservarle meglio. Quella lassù ha la forma di un… un… una nuvola. Sbatto il pugno sul volante. Non mi ricorda nulla quella nuvola. Il motore riprende a cantare, l’automobile a correre, l’autoradio a parlare. E so che mi aspettano, forse sono in ritardo. O forse no. Non lo saprò mai, non conosco l’orario dell’appuntamento. In realtà non conosco nemmeno il giorno, ma so che mi aspettano. E che non posso arrivare tardi.
L’inverno è la stagione che preferisco. D’estate si suda, l’acqua frizzante si scalda e fa schifo, le magliette che ho sono vecchie e non mi piacciono. Invece, quando fa freddo e gli alberi perdono la chioma e sembrano rami secchi, anche se si lascia la bottiglia di acqua Guizza in macchina la si può bere e le mie felpe sono decisamente carine. E, in ogni caso ho il giaccone imbottito, se nevica. E invece, oggi, fa un caldo tremendo. Mi fermo davanti alla fontana nella piazza. L’acqua scorre continua e pare abbastanza fresca. Meo è lì sotto che beve, leccandole, poche gocce. Mi dovrei chiedere come sia possibile che si trovi in quel luogo, centoottanta chilometri da casa, e invece non mi stupisco. D’altra parte è un disegno, mica un gatto vero, comunque quando tornerò indietro lo cancellerò. Se tornerò indietro. Se loro non mi terranno là dove mi sto recando. Ancora un po’ di strada e li incontrerò. Non so di preciso dove, ma ne sono certo. Mi hanno detto di voltare sempre a destra, a parte alcune volte in cui avrei dovuto continuare dritto. Non mi hanno detto in quali incroci, ma poco importa, quando sarò arrivato al luogo dell’incontro me ne accorgerò.
Le cameriere degli autogrill sono tutte belle, tutte. Si gira per prepararmi il caffè che, da bravo avventore avevo pagato alla cassa. Ho dato un euro in cambio di uno scontrino e lei mi dà un caffè in cambio dello scontrino. Curiosa scienza, l’economia. Se avessi avuto più soldi avrei potuto avere un “Camogli” o un “Cotoletta”. Persino una “Rustichella” con provola e origano. E invece bevo il mio caffè osservando la donna con lo stesso sguardo affamato con cui guardavo la “Focaccella con prosciutto cotto”. Meo sì che si sta sfamando. Lo vedo nella vetrinetta, tra i panini, che assaggia una fetta di salame qui e una di speck là. Nessun altro pare scorgerlo, nemmeno la cameriera dalla scollatura generosa. Beato lui.
E finalmente ci sono. Vedo in lontananza la mia meta, mi staranno aspettando. O forse no. Parcheggio la macchina. La bottiglia di Guizza, calda e sgasata cade fuori e rotola verso il basso. Entro nel locale ricolmo di carta colorata in ogni modo possibile. Ritti, seri, riempiono l’orizzonte con la loro presenza. Gli occhi rapaci guardano avanti, loro guardano sempre avanti, è il loro mestiere. Loro sanno. E vendono il loro sapere e quello degli altri. Meo passa tra le mie gambe strusciandosi nei pantaloni e miagola rumorosamente tentando di farsi notare da tutti quegli esseri. Nessuno di loro lo considera. È venuto il mio turno. Lascio alle spalle la porta e cerco di reggermi in piedi. Le gambe sono malferme. Li chiamo, è il momento giusto, e finalmente accade…
Accade. Ma cosa? Che cosa accade? Come continuo il racconto? Guardo il display del Compaq con odio. Scriviti da solo, racconto! Sono arrivato finora a cinquemilatrecento caratteri di una storia ai confini della realtà e non so come terminarla. Mi alzo. Giro nervosamente intorno al tavolo. Nulla. Che finale mi posso inventare? Rileggo il bando su Braviautori. Seimila caratteri caratteri. Tolleranza dieci per cento. La rabbia monta. E più aumenta più il cervello si svuota. Basta! Devo distrarmi. Slancio la mano sulla scrivania e prendo la prima cosa che mi capita. Una matita. Disegno malissimo, ma potrebbe essere un modo per rilassarsi. Un foglio bianco di mia figlia, studentessa dell’artistico, giace, vergine, in fondo al tavolo. Lo sporco con pochi tratti di grafite. Pian piano appare. Un muso. Di gatto. Carino. Gli disegno gli occhi e mi rendo conto che mi fissa.
Mi fissa. I lunghi baffi neri si slanciano a lato del naso triangolare e sembrano indicare le finestre della stanza. Mi fissa. Gli occhi, dalle pupille a fessura, sono fermi in direzione dei miei. Meo mi fissa. Sì, perché gli avevo dato anche un nome: “Meo”…