Gara 68 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
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Alberto Tivoli
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Gara 68 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Alberto Tivoli »

La gelosia.

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Per gara 68 voglio proporvi di indagare il sentimento umano della gelosia.
Vi invito ad affrontare il tema in senso generale: ovvero non considerate solamente la gelosia nell’ambito delle relazioni amorose. I racconti potranno trattare della gelosia nei confronti di oggetti o di colleghi di lavoro, gelosia tra familiari, ecc...
Esplorate i casi di gelosia reale ma anche quelli di gelosia patologica, in cui si arriva a costruire prove di infedeltà o di rivalità ad hoc.
Al solito, potete riferirvi a qualsiasi genere letterario e usare qualsiasi punto di vista per raccontare le vostre storie.

Regole:
Valgono tutte le regole ufficiali, che trovate qui:
https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =80&t=2308

Vi ricordo le regole ufficiali, che trovate qui: viewtopic.php?f=80&t=2308
Riassumendo:
- lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%;
- chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio; in caso contrario verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione;
- ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in apertura del brano;
- voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5);
- i racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

I racconti potranno essere postati come risposta a questo messaggio fino alla mezzanotte del 10 gennaio 2018.
I commenti e i voti dovranno invece essere postati dal 11 gennaio fino alla mezzanotte del 25 gennaio 2018). a questo link: viewtopic.php?f=80&t=5170

Chi vincerà avrà l’onore e l’onere di organizzare la gara successiva.
I premi saranno:
1. Pubblicazione dei racconti in digitale, con il consueto e-book.
2. Il vincitore otterrà un abbonamento di 10 euro grazie al quale saranno scaricabili gli ebook integrali (pdf o epub) delle nostre pubblicazioni cartacee (vedi post "I premi delle gare" qui: viewtopic.php?f=80&t=2472
3. L'attestato stampabile che attesta la vittoria.
4. Nel caso in cui si abbia una buona partecipazione di concorrenti, con tutti i racconti sarà creato un libro acquistabile (per un periodo di tempo limitato) il cui ricavato andrà devoluto a BraviAutori.
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Il Club dei Recensori di BraviAutori.it
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Vincitore delle seguenti Gare di BraviAutori.it:
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Angela Catalini
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Re: Gara 68 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Angela Catalini »

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IL POVERO E L'AVARO

Quando anche l’ultimo cliente uscì dal negozio, Geremia si fregò le mani al pensiero del bottino che aveva ricavato quel giorno. Sotto Natale la gente non badava a spese e non stava a tirare sul prezzo, perciò, era riuscito a piazzare merce dell’anno precedente a un prezzo raddoppiato. Tanto i sui clienti erano dei bifolchi e non capivano niente di moda: avrebbe potuto vendergli stoffe del secolo precedente e nessuno si sarebbe lamentato. Controllò che la porta fosse ben chiusa e le tende tirate, prima di prendere la cassetta con il denaro e portarsela nel retrobottega per i consueti conteggi.
Faceva un freddo cane quell’anno, ma lui non era il tipo da spendere soldi per le legna, perché brucia troppo in fretta e non vale quel che costa. Così, si copriva le ossa con strati di indumenti vecchi almeno quanto lui e se non erano sufficienti, usava una mantellina che era appartenuta alla madre e che costituiva l’unica eredità che gli aveva lasciato.
Dopo un’infanzia in povertà, Geremia, che spaccava il centesimo in quattro, era riuscito a comprare un piccolo emporio e in breve tempo, grazie alla sua abilità e al suo ingegno, aveva accumulato una fortuna. Chiunque al suo posto avrebbe migliorato lo stile di vita, si sarebbe concesso qualche vizio ma, Geremia, che di soldi non ne aveva mai visti, era diventato avido e geloso di tutto ciò che possedeva a tal punto che una spesa, seppure modesta, gli avrebbe procurato un gran dolore.
Erano trascorsi molti anni e le sue ricchezze si erano accresciute a tal punto che Geremia non si sentiva più al sicuro e temeva di essere rapinato, così decise di nasconderle altrove, in un posto talmente lontano e impervio che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di recarvisi: il Bosco Dimenticato. Partì proprio quella notte, a pochi giorni dal Natale, perché, con la tormenta che flagellava il paese da giorni, era sicuro che nessuno lo avrebbe visto né seguito.
Indossò un cappellaccio nero, una sciarpa logora, un soprabito rattoppato e un paio di stivali che gli avevano regalato in gioventù e che non erano più della sua misura, ma con ostinata determinazione riuscì in qualche modo a calzarli e uscì zoppicando. Si allontanò a piedi, con un braccio davanti agli occhi per proteggersi dalle raffiche di vento e il malloppo sotto il braccio, nascosto in una valigia chiusa con il lucchetto.
Si inoltrò nel bosco camminando verso nord, perché il Bosco Dimenticato si trovava proprio lì, dove nasceva quel vento cattivo che toglieva il respiro e respingeva i viandanti ringhiando. Dopo qualche ora di quell’inferno, Geremia che era più vicino ai sessanta che ai cinquanta, era allo stremo delle forze. Disorientato, affamato, infreddolito e impaurito, si rese conto di essersi cacciato in un brutto pasticcio.
“Chi troppo vuole nulla stringe” gli diceva la madre e mai come allora quelle parole gli sembrarono vere. Il tesoro che teneva ben stretto sotto il braccio, era un pesante fardello che lo costringeva a rallentare e a fermarsi. Inoltre, durante la notte il freddo era aumentato e gli mordeva la carne come un cane affamato.
A un certo punto vide una luce fioca brillare tra gli alberi scuri, in un primo momento pensò potesse trattarsi di una lucciola, ma più si avvicinava e più si faceva nitida. Era la luce che proveniva da una casupola in mezzo al bosco che si teneva in piedi per scommessa e dal quale usciva un fumo bianco e un buon profumo di carne arrosto.
Geremia la raggiunse speranzoso e prima di presentarsi al padrone di casa, nascose il suo tesoro nel cavo di un albero. Bussò e si inginocchiò sulla soglia piagnucolando: “Oh, povero me! Oh, me meschino in mezzo alla tormenta!”
Con suo grande stupore venne ad aprire un vecchio commerciante al quale aveva acquistato per due soldi l’emporio, facendo il primo grande affare della sua vita. Aveva approfittato di un momento di difficoltà di quell’uomo che era malato e gli aveva fatto un’offerta misera, che aveva accettato subito.
Adesso mi caccerà, pensò. Me lo sono meritato in fondo. Invece il vecchio lo accolse con gioia e divise la cena insieme a lui e lasciò che si scaldasse e gli offrì un giaciglio per la notte. Quando il giorno dopo la tormenta cessò e arrivò il momento di ripartire, Geremia si sentì in dovere di scusarsi per avergli estorto il negozio con pochi denari. Con il cappello in mano e gli occhi bassi, gli chiese perdono. “Mi sento in colpa per aver approfittato di voi quando stavate male. Solo ora comprendo quanto sono stato meschino. Come potrò ripagarvi ora?”
Ma il vecchio commerciante lo esortò a non rammaricarsi. “Vedete, io ero come voi: non avevo amici, pensavo solo al lavoro e al denaro. Vivevo nel terrore di perdere ciò che avevo accumulato e conducevo una vita di privazioni e per questo motivo mi sono ammalato. Adesso sono povero, ma ho ritrovato la serenità e soprattutto il piacere di condividere con chi è meno fortunato di me, il poco che ho.”
Geremia lo salutò e gli promise che sarebbe tornato a trovarlo, ma non tornò mai, perché aveva paura di perdere le sue cose, di rimetterci.
Ma più di ogni altra cosa aveva paura che avesse ragione.
Ultima modifica di Angela Catalini il 28/01/2018, 13:03, modificato 1 volta in totale.
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Patrizia Chini
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Re: Gara 68 - Ma da che parte stai?

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Bianca, cinque anni, insieme alla mamma Pina trascorreva le vacanze estive dai nonni in un paesino dell’Appennino. La domenica, poi, la raggiungeva Gianni, il suo papà, che aveva un peschereccio con il quale durante la settimana andava a pesca per poi tornare al molo del porto della grande città, sulla costa adriatica, dove avevano anche la casa.
Non era la prima vacanza dai nonni ma fu certamente la prima occasione per conoscere meglio parenti e amici visto che ormai era, o meglio si sentiva, grande.
Trascorreva la maggior parte della giornata con Caterina una bambina di poco più grande di lei, figlia di Maria la donna che l’aveva tenuta a battesimo, insomma la madrina o come veniva comunemnte chiamata dai suoi paesani, la commare.
La casa dei nonni era vicina a quella della sua amica tanto da avere il cortile in comune dove, appena terminata la colazione, si trovavano entrambe pronte a giocare senza sentire il bisogno di una pausa anche breve.
─Bianca, è passato mezzogiorno da un pezzo, non vieni a mangiare?
─Caterina, dai che è pronto… la pasta si raffredda!
Naturalmente, come in ogni amicizia che si rispetti, prima o poi si litiga e le due bambine lo avevano fatto, discutendo più che altro, con le modalità proprie della loro età.
─Ѐ mio!
─No! Ѐ mio!
Il motivo del contendere non era un gioco né qualsiasi altro oggetto che potesse in qualche modo appartenere o rientrare nel mondo reale o di fantasia di quella bellissima stagione della vita.
Motivo del contendere era, invece, un uomo.
Sì, un uomo: Mario, il marito della commare, il compare di Bianca e per questo anche il padre di Caterina.
Un uomo giovane sulla quarantina che, col fascino e l’eleganza della divisa indossata dagli uomini della Marina Militare, lavorava nella capitaneria dello stesso porto dove Gianni attraccava il pescherecccio.
Alto, magro ma con muscolatura ben formata e soda; capelli scuri e occhi chiari, di un azzurro cangiante che seguiva le variazioni del tempo e il colore del cielo…
─Ѐ proprio bello il mio compare!─ affermava decisa Bianca rivolgendosi a Caterina.
─Sì, è bello papà mio…e è solo mio!─ ribadiva l’amica.
─… il mio compare! Ѐ mio!
Bianca ce la metteva tutta per dire l’ultima parola. E se per l’altra l’urlare “Ѐ mio!” poteva essere più che plausibile perchè giustistificato dal fatto che l’uomo era suo padre, Bianca era convinta che anche il suo “Ѐ mio!” era del tutto rispettabile e, senza dubbio, da rivendicare a spada tratta.
Innamorata? No, più che altro gelosa anche se viveva tutte le emozioni proprie di quel sentimento. Le piaceva essere presa in braccio da Mario, e una sua carezza la rendeva felice.
Al contrario se, come è giusto che sia, Mario prendeva in braccio Caterina, Bianca diventava verde per tutta la rabbia che le saliva dentro. A quell’età non si sa ancora dissimulare, nascondere ciò che si prova, e la bambina agiva di conseguenza.
─Pure io… prendi in braccio pure a me, compare!─ chiedeva a gran voce.
Poi, quando erano lontane dalla vista degli adulti e Caterina veniva a trovarsi nella sua sfera di azione, Bianca l’aggrediva con schiaffi e pizzichi, minacciandola…
─Se non la smetti di dire che è tuo il compare mio… ti do le botte!
Aggredita, la bambina non restava inerme, reagiva prima per difendersi e poi per attaccare e restituirle ciò che aveva ricevuto.
Un giorno, dopo essersi ricoperte di insulti, tipo “scema”, “cattiva”, “stupida”…, e ribadito, con veemenza i loro “Ѐ mio!” finirono per accapigliarsi.
Bianca stringeva nei pugni i lunghi ricci biondi di Caterina senza lontanamente pensare di lasciare la presa, allora Caterina allungò le mani, arraffò i riccioli mogano dell’amica procurandole un dolore atroce che la condusse alla resa.
Gianni, il papà di Bianca, uomo di poche parole, al racconto di questo eccesso, sminuiva il problema, prendeva la figlia se la metteva sulle spalle e correva imitando il trotto del cavallo per sviare i suoi pensieri.
Anche la mamma faceva del suo meglio per convincerla che quel signore gentile che la prendeva in braccio, la accarezzava e, solo dopo averle lasciato un bacio sulle guance, la riposizionava a terra, aveva diritto a rivolgere le stesse se non maggiori attenzioni alla figlia.
La piccola non poteva capire quale disagio provocasse il suo comportamento alla sua famiglia.
Con le sue reiterate richieste era diventata un problema e mentre il suo malessere colonizzava il suo stomaco e non accennava a sloggiare, il chiasso insopportabile delle sue urla, pianti e strepiti aveva raggiunto il culmine.
Mario sopportava a fatica le prediche della moglie che aveva espresso più volte la propria ricetta per uscire dall’impasse.
─Devi essere meno espansivo con Bianca... Per coccolare lei trascuri tua figlia. Ma da che parte stai?
Per Mario non era pensabile incontrare la bambina e non farle mille complimenti, abbracciarla…
─Mi piace essere espansivo con gli adulti figuriamoci se non lo faccio con tutti i bambini che incontro. Non vedo il problema.─ rimarcava alla moglie e sorrideva quasi andasse fiero per ciò che le due bambine orchestravano per lui.
Nessuno l’aveva mai sentito vantarsi di essere un tombeur de femmes ma in paese se ne parlava, magari sottovoce.
I rapporti tra le famiglie si stavano deteriorando e alle due bambine non fu più permesso di trascorrere tanto tempo insieme quanto meno per non vederle graffiate o con lividi.
Difficile da accettare sia per Caterina che per Bianca sempre più triste e nello stesso tempo più ostile verso l’amica che, poverina, non aveva alcuna colpa.
Sembrava non esistere soluzione…
Mancavano ancora due settimane alla fine delle vacanze, era domenica e le bambine si erano accapigliate ancora una volta.
─Pina prepara le valigie, stasera torniamo a casa─ ordinò Gianni, uomo di poche parole.
Ultima modifica di Patrizia Chini il 23/01/2018, 8:53, modificato 2 volte in totale.
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MicolFusca
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Veleno

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Veleno

<< Mia Signora, il vostro sposo è di ritorno. >>
La voce della domestica colse Veridiana alla finestra dei suoi alloggi personali. Scrutava l’orizzonte in attesa di distinguere con più chiarezza le figure dei due cavalieri che si muovevano in direzione del maniero.
Le fece cenno di congedo, infastidita nel notare che lo sguardo della ragazza indugiava oltre il consentito sulle boccette di cristallo disposte con ordine sulla mensola della toeletta. Sapeva cosa cercava.
Una piccola ampolla di vetro lavorato, contenente un liquido ambrato. Un filtro d’amore per richiamare le attenzioni di uno sposo assente. Neean l’aveva accompagnata dalla strega che lo aveva stillato dai petali di una rara rosa gialla. Veridiana aveva speso una fortuna per procurarsi il fiore: aveva pregato Nephelim, suo marito, di fargliene dono per l’anniversario di nascita.
Non aveva avuto difficoltà ad accontentarla: semmai, aveva accolto la sua richiesta con sorpresa. Era Veridiana a gestire il denaro di famiglia ed era solita acquistare quanto desiderava senza chiedere la sua autorizzazione.
Nell’avvicinarsi le figure iniziarono a prendere identità. Nephelim ancora cavalcava il vecchio pezzato che gli era stato donato dal Signore di una Contea confinante. Si era affezionato a quel ronzino mezzosangue. Uno dei suoi peggiori difetti: Lui, si “affezionava”. Ai contadini, ai domestici…a Lei.
Era lontano il tempo in cui le sue certezze erano solide quanto la roccia. Si era trasferita in casa dello zio, il padre di Nephelim, dopo che il suo aveva sperperato ogni spicciolo. La madre di Veridiana aveva afferrato con fermezza le redini della famiglia chiedendo aiuto al fratello.
Un buon accordo. Lei aveva bisogno di tetto sulla testa, lui di affidare un figlio orfano alle cure di una parente. Veridiana era cresciuta sapendo che il cugino sarebbe divenuto il suo sposo. Nelle famiglie elfiche di rango elevato era consuetudine combinare matrimoni fra consanguinei.
Era stata educata per diventare la padrona della casa, fiera del suo destino. Moglie del futuro Signore della Contea. Non le era pesato sapere che Nephelim intendeva arruolarsi appena raggiunta la maturità. Immaginava i loro incontri dolci e intensi: Lei, moglie devota, Lui, pago del suo amore. Fino alla nascita del “marmocchio”.
Dalain aveva fatto a brandelli il suo cuore. Prima quello di bimba, poi di donna.
Suo fratello era nato in una notte di malaugurio, destinato alla morte ancor prima del sorgere dell’alba. Nephelim si era opposto al fato fin dal primo respiro di quella creatura macilenta. Aveva sfidato chiunque e si era chiuso nella camera del piccolo nel timore che gli fosse fatto del male. Non lo lasciava se non per alimentarsi e liberare le viscere.
Il suo era sembrato il capriccio di un bimbo viziato. Crescendo, la natura del suo sentimento si era fatta palese. Due anime potevano riconoscersi a tal punto? Veridiana sentiva un nodo allo stomaco ogni volta che quel pensiero le sfiorava la mente.
Nephelim vegliava il sonno di Dalain da tre decine. Il destino, maledetto, aveva portato entrambi alla Capitale. Erano stati scelti per essere strumenti dell’Occhio di Zephirot: contrastavano la Magia che ammorbava le Terre dell’Ovest.
Soggiornavano al maniero di tanto in tanto, di ritorno dai viaggi che li portavano nelle Contee del Sud per volere del Dio cui erano votati.
Le cure costanti avevano assicurato a Dalain la possibilità di muoversi con minore difficoltà, ma non la guarigione. Accadeva raramente di udire il suono del campanello posato su uno dei tavoli da notte della sua camera. I domestici e il guaritore accorrevano in fretta al richiamo.
Veridiana sostava in corridoio, tendendo l’orecchio al rantolo spezzato del fratello. Attendeva muta, in un angolo, pregando gli Dei con le lacrime agli occhi. “Muori…muori in fretta…”
Dalain resisteva. Il corpo incurvato, bagnato, avvolto nel lenzuolo come in un sudario. Lo sguardo di Veridiana correva alla porta socchiusa, cogliendolo a fissare gli occhi grigi di Nephelim che gli ordinavano di prendere un nuovo respiro. Uno ancora. Uno ancora.
L’intensità della loro espressione impediva all’altro di rovesciare gli occhi per sfuggire ai suoi. Lo tenevano occupato mentre il guaritore imponeva le mani sul corpo spezzato per sedarlo.
Quando Dalain sveniva, esausto, Nephelim lo prendeva fra le braccia lasciando alla servitù il compito di cambiare le lenzuola zuppe di sudore. Si occupava di lui una volta rimasto solo con il guaritore.
Le labbra severe dell’elfo s’incurvavano gentili, mai aveva conosciuto il suo sorriso, per irrigidirsi non appena coglieva il riflesso di Veridiana nell’ombra.
Lei non poteva che arretrare, mentre l’ultima domestica chiudeva la porta.
Dalain era il suo veleno. Un veleno che la uccideva, goccia a goccia, nel peggiore dei tormenti. Come poteva contrastare un sentimento che non aveva nulla di fisico? Poteva opporsi alla carne, non a due anime legate per l’eternità. Nessun filtro d’amore le avrebbe concesso l’interesse di Nephelim. Lui era uno sposo attento ai doveri coniugali, ma i loro amplessi non erano che freddi incontri destinati a concludersi in fretta. La sua mente era altrove.
Lo sguardo di Veridiana tornò per un attimo alla toeletta. Si era assicurata il silenzio di Neean facendosi accompagnare dalla strega, sapendo che non ne avrebbe fatto parola a nessuno. Il suo era un segreto ben custodito.
Una volta versato in un liquido il siero era insapore al palato, incolore e privo di odore. Sapeva dove Dalain era solito riporre i medicinali da utilizzare prima di accostarsi.
La concitazione in cortile le fece intendere che i cavalieri erano giunti a casa. Scostò leggermente il pesante tendaggio che ostruiva parzialmente la vista dalla finestra, incontrando per primi gli occhi di Dalain.
Fragile come il cristallo, i lineamenti fini del viso che potevano competere ai suoi per delicatezza. Le sorrise. Provava per lei un sentimento puro, scevro da qualsiasi ombra.
Veridiana sollevò una mano, salutandolo con grazia. Ricambiò il suo sorriso.
Le piacque pensare di aver ricevuto la rosa in dono da Nephelim.
“Forse non oggi, Dolce Fratello.
Giungerà la notte in cui metterò fine alla tua sofferenza. Alla mia, sofferenza.”
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Lorenzo Iero
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TUTTO IL TUO AMORE IN UN ATTIMO

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TUTTO IL TUO AMORE IN UN ATTIMO
di Lorenzo Iero

Se dovessi spiegarti cos'è per me la gelosia, direi che è il sentimento che più si avvicina all'amore.
Io ti amo, e sono gelosa di questo amore tutto mio. È solo questo pensiero che mi dà la forza di lottare per averti, in modo da non dover vivere in futuro con il rimorso di non averci nemmeno provato.

… Chiara, dagli ultimi esami effettuati abbiamo purtroppo riscontrato un’anomalia nel suo bambino; vorremmo utilizzare un apparecchio ecografico ad alta risoluzione per capire il problema…

La paura di perdere la cosa che più ami ti rende coraggiosa e possessiva, al punto da voler difendere la vita che porti in grembo ad ogni costo, perché pensi ti appartenga per diritto. Non è egoismo, tesoro, di questo ne sono certa.
Ogni volta che vedo un’altra mamma passeggiare orgogliosa spingendo un passeggino, oppure un papà prendere in braccio il proprio bimbo, d'istinto porto la mano al ventre ormai pronunciato e, immaginandoti, provo una profonda invidia per quei genitori che sono così fortunati e non lo sanno.
In questi ultimi giorni mi ritrovo spesso a pensare al tuo futuro: come sarai da grande, amore mio? Sarai appassionato di libri anche tu? Ti innamorerai perdutamente di una ragazza tanto da non riuscire a vivere senza di lei?
Con Mattia non posso parlare di questi miei assurdi pensieri, perché lui non capirebbe. Direbbe che è da pazzi. Non ha mai accettato del tutto la mia decisione di voler portare avanti questa gravidanza a tutti i costi, eppure ha deciso di supportare la mia scelta per amore, e non lo ringrazierò mai abbastanza per questo.
Tra meno di una settimana nascerai, e anche oggi io e tuo padre siamo stati dallo psicologo che ci sta aiutando ad affrontare la situazione. Tornati a casa mi sento stranamente bene, al punto che mi viene voglia di condividere qualcosa con lui:
− Mattia, lo so che ne abbiamo parlato, ma non ho potuto resistere... guarda che amore! − Gli mostro un delizioso pigiamino azzurro, lui mi guarda dispiaciuto e ho la netta sensazione che mi stia giudicando, ancora.
− Chiara...
Sta per iniziare con la solita ramanzina, ma questa volta non lo lascio parlare.
− Chiara niente! Nostro figlio sta per nascere e non possiamo lasciarlo senza vestiti.
Lui abbassa gli occhi e si arrende per l’ennesima volta. Presumo mi comprenda; o compatisca. Non importa, comunque: tu sarai mio figlio; sono troppo gelosa di questo amore per lasciare che qualcosa lo turbi. Lo lascio stare e sistemo mortificata il pigiama insieme a tutte le altre cose che ti ho comprato in questi lunghi mesi: giocattoli, libri per l'infanzia, e tanti, tantissimi vestitini colorati.

… Mi duole informarla che si tratta di una malformazione piuttosto rara chiamata anencefalia. I bambini che ne sono affetti non vivono molto a lungo una volta fuori dal grembo materno, solo qualche minuto…

Non ci voglio pensare.
Seppellisco questa realtà in fondo al cuore, ma quando vado in centro e mi capita di vedere le mamme comprare oggetti prenatal mi assale un sentimento di competitività che mi fa pensare “perché io no?”
Perciò entro nel negozio e compro qualcosa solo per sottolineare che anche io ho il loro stesso diritto. Purtroppo però, dopo, finisco per chiudermi nel bagno più vicino a piangere di disperazione.
Piango sempre di nascosto, anche da Mattia; sono gelosa delle mie lacrime perché non voglio dare a qualcuno la soddisfazione di pensare che non ce la possa fare ad affrontare tutto questo. La verità è che piango perché sono invidiosa da morire della fortuna che hanno le altre mamme di poter abbracciare il proprio figlio, di sgridarlo per fargli capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, di accompagnarlo a scuola e magari poi ritornarci per parlare con la maestra della nota presa in classe.
Il poter dialogare con te è la cosa che più di tutte mi mancherà, lo so. Il non poter sapere che suono avrà la tua voce è un pensiero che già mi fa impazzire.
Esco dal bagno e cerco di mostrare un minimo di contegno, evidenziando fiera le mie forme rotonde per mettermi allo stesso livello delle altre donne.
In un certo modo sono riuscita a fare mio il risentimento nel vedere che agli altri è stato concesso un vantaggio che io non potrò avere; l'ho abbracciato e l'ho assimilato così tanto che l'ho trasformato in sentimento positivo. La gelosia mi ha donato la consapevolezza di non essere inferiore a nessun altro, e che il diritto alla maternità è così personale che non deve essere giudicato.
Mi sto convincendo che sono fortunata ad avere la possibilità di poterti conoscere, indipendentemente dal tempo che ci verrà concesso; perché la felicità, in fondo, è anche sofferenza.

… Mi dispiace Chiara, ci ho provato con tutto me stesso, ma non ho la forza per sopportare tutto questo. Ti auguro tutta la felicità del mondo. Mattia…

Siamo soli. Ma ce lo faremo bastare.

Il giorno della tua nascita è il più bello e anche il più triste della mia vita.
Poter finalmente vedere i tuoi piccoli occhi, la forma paffuta del naso e i lineamenti morbidi delle tue labbra mi ripagano da tutti quei mesi di attesa. Ogni tuo respiro lo faccio mio, e cerco di imprimere nella mia mente ogni più piccolo particolare del tuo corpicino così perfetto.
La gelosia improvvisamente svanisce, perché anche io adesso posseggo qualcosa che ho desiderato con tutta me stessa: niente e nessuno potrà mai competere con la felicità dell'aver ricevuto in dono tutto il tuo amore in un attimo.
Pochi minuti dopo un'infermiera posiziona il simbolo della farfalla viola di fronte alla tua culla, in modo che la gente non inizi a farmi domande inopportune e che provi invece a rispettare il dolore per la mia grave perdita.
Ti ho potuto amare per trentacinque, preziosi minuti. Sei stato un bimbo davvero coraggioso; anche i medici si sono stupiti di quanta forza hai dimostrato di avere per resistere così a lungo. Custodirò gelosamente nel mio cuore ogni singolo istante vissuto insieme.
Ora riposa Luca, la mamma veglierà su di te.

“La gelosia nasce sempre con l’amore, ma non sempre muore con lui.”
(Francois de La Rochefoucauld)
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Enrico Gallerati
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Re: Gara 68 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Enrico Gallerati »

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SENZA PAROLE


Ero tornato dopo due anni di mare, sconfinato mare. L'odore della grande balena d'acciaio era ancora sui miei vestiti, sulla pelle, dentro la mia mente. Mentre sistemavo i vestiti nell'armadio rivedevo la mia ombra del passato. Quel Guglielmo era rimasto nella stanza ad attendermi per undici lunghissimi mesi, immobile ora io ero entrato dentro quell'ombra rianimandola. In un certo senso ora mi sentivo rimesso nella mia vita di sempre, e quell'esperienza tra vento e solitudini mi pareva solo un sogno trapelato leggero nella mente.
Sentii mia zia giungere sui tre gradini, il tintinnio della sue collane, il suo respirare affannoso, e poi udivo il raspare sulla porta di Remì, il nostro cane di razza bassotto.
Appena mia zia Alma mi vide aprì gli occhi come se avesse davanti un alieno, la stessa identica espressione trapelò sul muso di Remì.
- Guglielmo! - esclamò avvicinandosi barcollante; per un attimo ebbi paura che cadesse sul povero Remì schiacciandolo, ma ciò fortunatamente non accadde. Accadde invece che mi riempì di baci. Le lacrime avevano portato il blu cobalto del trucco di zia lungo le rughe del viso, piangeva e continuava a mugugnare che le ero mancato, che non dovevo più ripartire, lo diceva con l'ansia di chi ha passato malinconie che lasciano graffi sul cuore.
- No zia stavolta non riparto, basta mare, basta -
Lo dicevo frattanto sentivo nel cuore una forte emozione, quasi quelle parole avessero suggellato la decisione che non mi sarei mai e poi mai più imbarcato sulla Oscar per davvero.
In due anni ero tornato a casa solo due volte: la prima era maggio ed ero rimasto due giorni, la seconda volta era il Natale dell'anno dopo e mi ero fermato sempre per solo due giorni.
Ricorderò per sempre quel Natale, e forse è stato proprio a causa di quel giorno se poi presi la decisione di smettere di fare il marinaio. Mia zia Alma aveva gli occhi lucidi. Fuori dalla finestra si intravedeva il paesaggio innevato. L'aria era di festa, tutto era grazioso e posizionato come in un presepe. Vedevo le impronte di piccole scarpe impresse nella soffice neve sul quadrato della piazzetta, i rami bianchi degli alberi, il campanile della chiesa che mi aveva visto crescere.
In fondo io non avevo avuto che mia zia Alma e Remì, ero cersciuto con quei due affetti, e anche se Alma non era mia madre per me lo era a tutti gli effetti.
Ho pochi ricordi dei miei genitori. So però che erano tossicodipendenti. Hanno deciso di ritirarsi in una strana comunità all'età di ventisei anni lei, e ventotto lui, io avevo solo cinque anni. Da quella comunità abbarbicata su una strada che sbucava da lugubri boschi non sono mai più usciti, e in nessuna occasione ci siamo rivisti né sentiti, ma so per certo che sono ancora in quella setta che proclama Satana come salvatore, cose che mi fa rabbrividire solo al pensiero.
Mia zia aveva preparato il pranzo di Natale con cura. La nostra piccola famiglia era riunita in quella angusta casa che dava una facciata sulla pittoresca piazzetta del paese. Tutto quel giorno doveva essere sereno e spensierato, ma negli occhi di mia zia c'era un dolore straziante; sapeva che l'indomani mattina sarei ripartito.
Mi servì i ravioli alla genovese, lo faceva con la sua solita semplicità, ma il suo viso era gonfio di angoscia.
Remì osservava attento poggiato sulle sue corte zampe. Ora scrutava me, ora Alma, e poco dopo anche lui aveva in muso due occhietti mossi dalla malinconia.
Verso la fine del pranzo mangiavo il pan dolce davanti a quelle due anime in pena che non facevano altro che scrutarmi come se fossi stato l'unica cosa in quella stanza.
- Adesso basta! Smettetela di guardarmi così! Mangia zia, e tu Remì vatti a farti un giro! - urlai picchiando un pugno sul tavolo.
Remì ora mi squadrava impaurito, vedevo il tubo del suo muso sbucare e scomparire da sotto il tavolo mentre mia zia piangeva a dirotto.
L'indomani sentii la sirena della nave che partiva. Presto questo suono mi avrebbe rapito nel mezzo dell'oceano, e lì avrei vissuto di ricordi.
La banchina si allontanava piano piano tra il rumore severo dei motori dell'imponente nave portacontainer. Il mare riniziava a cantare la sua litania, e io in piedi sferzato dal vento pensavo a mia zia, Remì e Davide, quest'ultimo l'unico vero amico che avevo, e poi a Ornella...
Era strano ma mentre le luci del porto si facevano piccole piccole io piangevo. Mare e cielo erano indistinti, e io sopra a quella nave che trafiggeva quel deserto di buio denso e freddo.
La piccola luce degli affetti, le abitudini, il mangiare di zia, le chiacchiere spensierate con Davide, e quell'amore che era come il sole, sorgeva e tramontava con la naturalità del tempo, tutto ora si stava stinguendo per la mia scelta.
Mentre mangiavo nell'asettica mensa della nave osservavo tutti quegli uomini persi nel mare, ognuno aveva nello sguardo qualcosa di tragico, dell'immenso era trattenuto nei contorni dei loro occhi, lì racchiusi in quegli ovali dal taglio diverso eppure tanto uguale l'uno dall'altro c'era lo stesso dolore, e io in fondo non ero diverso da loro.
Da quando Ornella si era messa con quel tipo io ero impazzito, odiavo quel ragazzo che in fondo era senza colpa. Così avevo deciso d'imbarcarmi, lo avevo fatto senza parole.
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Daniele Missiroli
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Medicina alternativa

Messaggio da leggere da Daniele Missiroli »

Medicina alternativa
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Diana andò in cucina e versò un po' d'acqua in un bicchiere.
Aggiunse della polverina bianca e la fece sciogliere, poi prese una pastiglia rosa e si diresse verso Luca.
– Ecco la tua medicina, tesoro.
Il marito le sorrise, dicendo: – Grazie amore.
Poi sbuffò e aggiunse: – Non mi piace avere a cena Carlo, il tuo ex.
– È stato dieci anni fa – rispose lei – non puoi essere geloso anche del passato.
– Vi baciavate, e questo non mi va giù. Andavate anche a letto?
– A vent'anni non ci si guarda solo negli occhi.
Luca era un bell'uomo di trent’anni. Capelli corti e neri, andava in palestra tre volte a settimana e per lui esisteva solo Diana.
– Che cosa hai fatto dopo averlo incontrato? Vi siete baciati?
– Gli ho detto che sono sposata da tre anni e lui mi ha detto che si è sposato l'anno scorso.
– Non mi hai risposto.
– Gli ho stretto la mano, posso fare almeno quello?
– Ti ha toccato, dunque, lo sapevo.
– Sei odioso – disse Diana, furibonda. – La tua gelosia è assurda.
– Io ti amo, non posso immaginarti fra le braccia di un altro.
– Devi smetterla con questa paranoia. Tu non sei geloso, sei malato. Carlo è uno psicologo e ti può aiutare.
– Gli hai parlato di me?
– È naturale.
– Cosa gli hai detto?
– Che sei troppo possessivo.
– È normale essere gelosi di una donna bella come te.
– La tua nevrosi non ha niente di normale, mi hai anche sequestrato tutte le gonne.
– Capelli lunghi e castani, occhi verdi e lo stesso fisico di Jessica Alba. Se un uomo ti vedesse con una gonna, come minino ti salterebbe addosso.
– Tu non ti fidi di me, ecco la verità.
– È dei maschi che non mi fido. Come mai Carlo viene qua stasera?
– Vuole parlarti, perché conosce una cura per la gelosia.
In quel mentre il campanello suonò. Diana si diresse alla porta, la aprì e si trovò davanti Carlo e la sua stupenda moglie Gemma.
– Che profumino – disse l’uomo, entrando. – Tacchino al forno con patate, direi.
– Grazie di essere venuti – disse Diana. – Accomodatevi pure a tavola, è già tutto pronto.

Dopo cena, mentre stavano prendendo il caffè in salotto, Carlo intavolò il discorso che gli interessava.
– Luca: mi ha detto tua moglie che sei molto geloso.
– Sciocchezze – rispose lui, scuotendo la testa.
– Io ho una terapia per questo tipo di problemi – continuò Carlo. – Ed è un sistema semplice e piacevole.
– Prendo già qualcosa per l'ansia – disse Luca.
– Non è un farmaco, è un... comportamento. Per guarire, una nevrosi deve essere controbilanciata da un senso di colpa.
– Non credo di aver capito – disse Luca, perplesso.
– Ok, sarò più esplicito: se vai a letto con un'altra donna, il senso di colpa ti guarirà dalla gelosia.
– Stai scherzando! – replicò Luca. – Io non tradirei mai Diana.
– Non sarebbe un tradimento, perché lei sarebbe d'accordo.
– Non sono mai andato a puttane e non inizierò certo ora.
– Non funziona così. Devi andare con un’amica di Diana, anche lei sposata.
– Tu sei matto.
Poi, rivolto alla moglie: – Hai sentito cosa dice il tuo amico?
– Anch’io sono convinta che sia l'unico modo, tesoro.
– Sei fuori? Mi daresti il permesso di scopare con un'altra donna?
– Non devi farti l’amante, devi andarci a letto solo una volta.
– Esatto – intervenne Carlo. – E dopo questo "rapporto sessuale concordato", tu non sarai più geloso di Diana.
– Peccato che nessuno dei nostri amici accetterebbe di prestarmi sua moglie. Figurati: non lo farebbero nemmeno se fossi in pericolo di vita.
– Beh, una coppia di amici disposta ad aiutarti esiste, ed è proprio davanti a te.
– Mi stai dicendo che dovrei fare l’amore con tua moglie? – disse Luca, sbarrando gli occhi.
– Chiediamo a Gemma che cosa ne pensa – disse Diana.
– Chiariamo subito – intervenne lei – che io non ho mai tradito Carlo.
– Lo so tesoro – disse lui – voglio solo sapere se ti piace Luca. Se non fossimo sposati, faresti l’amore con lui?
– Beh, come uomo mi piace, lo ammetto.
– Ottimo – disse Carlo. – Luca: a te piace Gemma?
– Voi siete tutti impazziti, e lo sono anch'io che sto qui ad ascoltarvi. Meglio che sistemi la cucina, mentre voi vi fate passare la sbornia. Non dovevo mettere in tavola un Barolo da quindici gradi.
Luca si alzò, imbronciato, e si diresse in cucina.
– Abbiamo fallito – disse Diana.
– Non è detto – disse Carlo.

Dopo cinque minuti, anche lui si alzò e andò verso la cucina.
– Senti Luca...
– Non insistere, non se ne parla.
– Come vuoi, ma hai pensato che fra poco la perderai?
– Che stai dicendo?
– Ho già visto situazioni del genere. Col passare del tempo si diventa violenti e un giorno si commette una follia. Si ferisce qualcuno o peggio. Finirai in prigione, Luca, è inevitabile. Lei ti verrà a trovare solo una volta a settimana, poi una volta al mese e alla fine ti lascerà.
L'idea sconvolse la mente di Luca, perché si rese conto che era uno scenario possibile.
– Per evitare tutto questo, devi solo andare a letto con Gemma. A proposito: ti piace o no?
– Scherzi? Una biondina con gli occhi azzurri, con un corpo come il suo e una minigonna vertiginosa è il mio sogno proibito.
– Un sogno che ora puoi realizzare con il permesso di tutti.
– Non riesco a capire come fai ad accettare una cosa del genere. Non sei geloso nemmeno un po'?
– Non è tradimento, se il partner acconsente. Lo faccio perché tengo a Diana, e di riflesso tengo anche a te. Ho guarito molte coppie con il mio sistema.
Dopo essere tornati in salotto, Carlo disse: – Luca ha capito che rischia di mettersi nei guai a causa della sua gelosia, quindi ha deciso di accettare.
– Davvero tesoro? – gli disse Diana, alzandosi e abbracciandolo.
– Te la senti Gemma? – le chiese Carlo.
Lei sospirò e disse: – Non immaginavo che la serata finisse così, ma lo farò per amor tuo.
– Grazie cara – disse lui, baciandola in fronte.
– Potete usare la stanza degli ospiti? – disse Diana.
– Non lo farei mai nella nostra – rispose Luca.
Gemma, prima di chiudere la porta, fece l’occhiolino a Carlo.

– Carina la ragazza, chi è? – chiese Diana, mentre abbracciava Carlo.
– Una escort da mille euro.
– Che adesso sta scopando con mio marito.
– Però noi abbiamo la tua camera libera e tutta la notte a disposizione.
– Non era più semplice andare in albergo?
– In una città dove mi conoscono tutti? Così poi lui mi mandava all’ospedale. Piuttosto: gli hai dato il farmaco?
– Sì, ma che cos'è?
– Roipnol, la cosiddetta droga da stupro. Domattina avrà mal di testa e non ricorderà nulla. Tu incolperai il vino e tutto finirà lì.
– E perché hai voluto che dimenticasse tutto?
– Perché sabato prossimo lo rifacciamo, amore mio!
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Eliseo Palumbo
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Tutti odiano le americanate ma allo stesso tempo tutti ne fanno uso.
Nell`azienda di Libero, trentenne laureato in marketing, l´americanata piu´ in voga (e che lui odiava come tutte le americanate) era appendere la foto de l`impiegato del mese. Per il quarto mese di fila il migliore era stato lui.
Il giovane fu assunto circa un anno prima e per un giovane partito dal basso, abituato alla gavetta, fu cosa facile meritarsi fin da subito il rispetto dei colleghi, rispetto ottenuto grazie alla sua umilta´ iniziale, mista a una certa ambizione. Libero aveva un talento innato nel essere il migliore.
Da ragazzino lavorava come porta-pizze e non avendo la patente per lo scooter consegnava le pizze in bici, nonostante cio´ le sue pizze arrivavano sempre puntuali e calde, i clienti erano soddisfatti e le vendite aumentarono.
Stufo della fatica, delle condizioni climatiche, spesso pioveva e consegnare le pizze in bici non era il massimo, e della paga non di certo appagante inizio´a lavorare presso un ristorante come lavapiatti, nei momenti liberi si dilettava a dare una mano nella preparazione dei piatti, le composizioni erano delle vere e proprie opere d`arte, ma anche li duro´ poco. Troppo lavoro in piu´ non retribuito.
All´eta´di diciassette anni inizio´a collaborare con una nota compagnia di fornitura elettrica facendo contratti porta a porta. La sua dialettica lasciava di stucco i suoi colleghi e i superiori, adesso era piu´che soddisfatto, piu´lavorava, bene, piu´guadagnava.
Fu allora che decise di intraprendere un corso universitario in marketing, era il suo posto, era nato per quello, pubblicizzare e vendere un prodotto, anche se quel prodotto fosse di dubbia primaria importanza, il suo carisma lo rendeva tale.
Dopo la laurea, acquisita con il massimo dei voti piu´ lode e menzione di merito, fu subito assunto presso una piccola azienda ma quel posto gli stava stretto, musi lunghi, troppi schemi e regole da seguire, si sentiva come un cucciolo in catene, lui voleva spaziare, esplorare ed escogitare nuovi metodi ma c´era qualcosa che gli legava le mani, finche´a ventinove anni la svolta.
Riceve una mail da una delle piu´grosse aziende della nazione, coglie la palla al balzo.
Tutto procede nel migliore dei modi. Dopo i primi sei mesi il suo contratto divento´ a tutti gli effetti a tempo indeterminato “Adesso iniziamo a fare sul serio” penso´.
Le vendite dei prodotti pubblicizzati da Libero ebbero un successo favoloso tanto da meritarsi la foto, per la prima volta, sulla parete dei migliori.
L´azienda, grazie anche a l´ottimo lavoro di Libero, inizio´ad avere piu´richieste e cio´implicava l´assunzione di nuovo personale.
Lo stesso giorno del primo trionfo di Libero arrivo´ un nuovo dipendente: Tiberio.
Tiberio era un ragazzo viziato che non aveva mai lavorato in vita sua, dunque il capo decise di affiancarlo a Libero in modo che potesse imparare il piu´possibile.
- Capo io apprezzo la sua stima e che secondo lei io sia in grado di poter istruire un novellino pero´ la mia non e´una scienza che puo´essere
insegnata e divulgata, il mio e´come un dono, io ci sono nato cosi´, non ci sono diventato.
- Libero. La mia decisione e´presa. Tu provaci, cosa ti costa? Nel caso dovesse andare male lo sbattiamo fuori.
Libero si sarebbe aspettato qualcosa in piu´da quel breve colloquio con il suo capo ma tuttavia non poteva far altro, questo e´uno dei prezzi da pagare per essere il migliore.
- Collega! Quindi che si fa dopo il lavoro? Beviamo una birra?
- Senti Tiberio, adesso dobbiamo lavorare. Concentrati sul tuo prodotto e se avessi delle domande ponimele pure.
Dopo qualche minuto la storia si ripete´.
- Incredibile! Ma tu ti rendi conto che vita fanno i calciatori? Donne bellissime, auto, orologi d´oro, non la faresti la loro vita?
- No, Tiberio, non la farei. Io odio l´attivita´ sportiva e per avere tutto cio´dovrei farne molta, quindi non la farei.
Passarono altri dieci minuti.
- Ma che figata! Guarda che bella questa spiaggia alle Maldive! Vorrei andarci tantissimo, ti va di venirci?
- No Tiberio! Non ci vado alle Maldive. In Italia abbiamo posti parimenti belli.
- Era solo una considerazione. Perche´mi tratti cosi´?
- Perche ´mi stai facendo perdere tempo, il tempo e´ denaro, quindi sto perdendo soldi. Dovresti darti una mossa pure tu in modo da guadagnare
soldi, permetterti le donne e le auto dei calciatori e pure le loro stramaledette vacanze alle Maldive! Nessuno ti regala niente, se vuoi ottenere
qualcosa devi fare dei sacrifici, non te l´ ha mai detto nessuno?
- Ma io voglio essere come te!
- Ma ci conosciamo da appena quaranta minuti, come fai a dire che vuoi essere come me? Non sai come sono io. Tu devi essere sempre te stesso e
non una brutta copia.
- Si ma tu sei il migliore.
- E allora osserva e impara. Ti ripeto, se hai delle domande o dei dubbi esponili e ti aiutero´
La storia si ripeteva da ormai quattro mesi, anche se fosse difficile lavorare in quelle condizioni, il rendimento di Libero non ebbe nessun calo come allo stesso tempo non ebbe nessun miglioramento il rendimento di Tiberio le cui preoccupazioni erano: “Quando avro´ un ufficio tutto mio?” “Quando avro´ la mia foto su quella parete?” “Perche´tutti amano questo stronzo e gli danno retta”.
Questi pensieri gli frullavano di continuo nella mente, gli toglievano persino il sonno.
Non riuscendo a capire il logico motivo del successo di Libero e del suo fallimento decise di distruggerlo iniziando a parlare male di lui con i colleghi, tra cui con Edoardo, loro collega che inizio´a lavorare presso l´azienda nello stesso periodo di Libero.
- Senti amico, io conosco Libero molto bene, e ti posso assicurare che non e´ il tipo da dire certe cose, specialmente ad uno sconosciuto, per lui
sei questo, quindi anche se dovesse pensare queste cattiverie su di me sono sicuro che gia´me le avrebbe dette perche´non ha peli sulla lingua e
poi come detto non le racconterebbe a uno sconosciuto, quindi dacci un taglio.
In quel istante Libero entro´nel bagno dove i due stavano parlando.
- Guarda un po´parli del diavolo …
- In che senso Edo?
- Niente si scherza. Allora stasera e´confermata la birra?
- Certo socio!
Tiberio era con le mani appoggiate sul lavandino, le braccia tese e tremanti. Quando Libero si avvicino´per lavarsi le mani Tiberio si volto´ di scatto e con gli occhi rossi dalla collera, in preda ad una crisi di nervi inizio´a colpire al volto Libero con il suo iPhone X. Libero non ebbe modo di difendersi da quel gesto inconsulto ed inaspettato. Dopo pochi secondi il suo corpo giaceva a terra in una pozza di sangue.
Mostrare ad altri le proprie debolezze lo sconvolgeva assai più della morte

POSARE LA MIA PENNA E' TROPPO PERICOLOSO IO VIVO IO SCRIVO E QUANDO MUOIO MI RIPOSO


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Claudio Lei
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Re: Gara 68 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Claudio Lei »

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RUOTE PER CRICETI

Alzò la tapparella nella remota speranza di interrompere la routine, nonostante fosse il gesto abituale con cui cominciava le giornate, da diversi mesi il suo compagno di lavoro era la noia. Tutta colpa dei suoi pazienti: troppo prevedibili e ripetitivi, benché gli avessero permesso di avviare il suo studio psichiatrico. Fu felice di accettarli, quando si presentarono in massa alla sua porta, invece di seguire il dottore che gli aveva ceduto lo studio. In seguito capì di non potersene prendere il merito, poiché si trattava solo di un sintomo: erano tutti ossessivo compulsivi.
Gli suscitava molto entusiasmo l'appuntamento delle nove, sarebbe stata la prima terapia di coppia affrontata con due uomini. Mario, quello più basso e rotondo, si assunse l'onere di esporre il loro problema: - È iniziato tutto tre mesi fa, quando ho scoperto la foto che ha postato su Facebook, in cui baciava una ragazza sulla spiaggia con il tramonto alle spalle.
“Che banalità!” Pensò il dottor Silvestri, chiedendosi se Fabio, l'altro paziente, fosse un conformista o avesse ceduto alla lusinga dei cliché solo quella volta. Si sentì un po' ipocrita per la considerazione successiva; se da giovane fosse stato come quel fusto, dalle spalle larghe e lo sguardo affilato, avrebbe contribuito volentieri a creare la moda di baciare ragazze sulla spiaggia.
- Fabio, come ha giustificato l'accaduto?
- Giustificato? IO?!
- Si calmi, la prego, non c'è bisogno di urlare.
- Dovrebbe essere lui a giustificarsi, gli chieda perché non è felice per me? Io e Aurora siamo innamorati.
“Un egocentrismo da antologia!” Sentenziò l'analista tra sé e sé, mentre i muscoli facciali afferrarono ogni lineamento del suo volto, nel tentativo di prevenire istintive espressioni di biasimo.
- Mario, secondo lei perché Fabio si aspettava una reazione di gioia?
- Guardi, dottore, io sarei anche stato contento, se lui non avesse preteso di uscire in tre.
Questa volta lo stupore sbaragliò ogni tentativo di autocontrollo, il sopracciglio destro di Silvestri disegnò un arco perfetto: - Capisco.- Rispose al paziente, invece non era mai stato così lontano dal comprendere.
- No, lei non può capire, - si lagnò Mario: - perché non conosce la vicenda più grave. Avevamo organizzato un pomeriggio speciale, ci eravamo anche comprati i vestiti per l'occasione, mi ero appena preparato, quando lui... lui...
- La prego, continui. - Esortò Silvestri, osservando i lineamenti dell'uomo tremolare per la tensione.
-... si è presentato con Aurora, anche lei vestita per l'occasione, ma quella doveva essere una giornata tra maschi, mi capisce? Tra maschi!
- Capisco che sia stato doloroso, forse umiliante, ma cerchi di calmarsi. - Il dottore stava per proporre una riflessione, quando la situazione gli ispirò un certo grado di audacia: - Sentite, mi sta venendo una idea. È solo una proposta, non vorrei vi sentiste obbligati. Se la terapia fosse gratuita, non è che mi permettereste di trarne un saggio sulle coppie disfunzionali?
Gli uomini che aveva di fronte si scambiarono occhiate cariche di rancore, per un attimo temette di rischiare una denuncia, finché Mario lo rassicurò: - E noi cosa dovremmo centrare con un simile saggio?
- Be', dal punto di vista accademico, mi sembra interessante che una donna partecipi alle dinamiche di una coppia omosessuale...
- Ecco, lo sapevo che finiva così! - Sbottò Fabio: - Ti avevo avvertito che ci avrebbe preso per gay anche l'analista e con lui sono tre... oggi...
- Non siete una coppia? - Si informò Silvestri perplesso.
Mario esaminò l'uomo seduto di fianco dalla testa ai piedi: - Non me lo farei nemmeno se fosse l'unica persona rimasta e per sopravvivere potessi mangiare solo Viagra!
- Scusi, ma allora, la giornata speciale riservata ai maschi, per cui vi eravate vestiti apposta?
- Vestiti da paintball, dottore, volevo una giornata di paintball senza donne!
- E siete venuti in analisi perché uno di voi ha la fidanzata?
- No, - rispose Fabio, alzando una mano in segno di stop: - io sto benissimo, è lui che è sta andando fuori di testa.
- Non guardiamo più The Walking Dead insieme, perché vai da Aurora a vedere Grace Anathomy, invece di giocare a Call of Duty ti dai allo shopping con lei, come posso fidarmi?
- Ma sei tu che non vuoi venire, noi ti avevamo invitato. - Si giustificò Fabio.
- Ecco lo vede: ricomincia! Pretende che vada a reggergli la candela.
Assuefatto ai pazienti imprigionati in una routine senza fine trovò discussione un po' frivola, perciò dovette respirare a fondo per rimanere professionale: - Non credete che dovreste venirvi incontro? Voglio dire: lei, Fabio, rispetti gli spazi dedicati al suo amico, senza includere per forza Aurora. E lei, Mario, deve capire che una relazione sentimentale occupa del tempo a chi ne è coinvolto.
Un aspetto della loro complicità era rimasto intatto, infatti le parole del dottore li fece reagire all'unisono: stavano entrambi scuotendo la testa.
- Se dico ad Aurora che esco con gli amici e non può venire, sospetterà un tradimento. Io non la lascio uscire da sola con le sue amiche.
- E io non posso accettare compromessi, altrimenti mi toccherà uscire in tre, almeno fino a quando non mi daranno il ben servito.
- Come fate a sapere che questo tentativo andrà male? Provateci almeno.
Occhi sgranati e mal celate risatine di scherno risposero alla domanda, il sottinteso era una accusa di ingenuità al dottore: - Non capisco perché troviate ridicola la mia proposta.
- Non ho mai incontrato una ragazza che si sia fidata a lasciarmi uscire con i miei amici, prima o poi diventava sospettosa, litigavamo e tanti saluti.
- Per me è più o meno lo stesso: se un mio amico trovava la ragazza finiva per sparire, anch'io feci così a parti invertite.
- Forse adottate uno schema di comportamento ricorsivo, vi aspettate dal prossimo le vostre reazioni, ma le persone non sono tutte uguali.
- Se sono diverse perché va sempre a finire nello stesso modo?
“Gli ossessivo compulsivi, almeno, ammettono di avere un problema.” Concluse sconsolato Silvestri.
Patrizia Chini
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Re: Gara 68 - Ma da che parte stai?

Messaggio da leggere da Patrizia Chini »

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Bianca, cinque anni, insieme alla mamma Pina trascorreva le vacanze estive dai nonni in un borgo medievale arroccato su un colle dei nostri Appennini. La domenica, poi, la raggiungeva Gianni, il suo papà, che aveva un peschereccio ancorato nel porto di Fano da dove, durante la settimana, prendeva il largo per andare a pesca.
Bianca giocava, per la maggior parte della giornata, con Caterina una bambina di poco più grande di lei, figlia della sua madrina Maria che l’aveva tenuta a battesimo e che chiamava “commare” come si usa da quelle parti.
Le case erano vicine da condividere lo stesso cortile e le due bambine, appena terminata la colazione, vi si trovavano pronte a giocare senza sentire il bisogno di mangiare ignorando i richiami delle mamme.
─ Bianca, è passato mezzogiorno da un pezzo, non vieni a mangiare?
─ Caterina, dai che è pronto… la pasta si raffredda!
Naturalmente, come in ogni amicizia che si rispetti, prima o poi si litiga.
─ Ѐ mio!
─ No! Ѐ mio!
Il motivo del contendere non era un gioco né qualsiasi altro oggetto che potesse in qualche modo appartenere o rientrare nel mondo reale o di fantasia di quella bellissima stagione della vita.
Motivo del contendere era, invece, Mario, il compare di Bianca, marito della commare Maria, e perciò anche il padre di Caterina.
Un uomo giovane sulla quarantina che, col fascino e l’eleganza della divisa indossata dagli uomini della Marina Militare, lavorava nella capitaneria dello stesso porto dove Gianni attraccava il pescherecccio.
Alto, magro ma con muscolatura ben formata e soda; capelli scuri e occhi chiari, di un azzurro cangiante che seguiva le variazioni del tempo e il colore del cielo…
─ Ѐ proprio bello il mio compare! ─ affermava decisa Bianca rivolgendosi a Caterina.
─ Sì, è bello papà mio…e è solo mio!─ ribadiva l’amica.
Bianca ce la metteva tutta per dire l’ultima parola. E se per l’altra l’urlare “Ѐ mio!” poteva essere giustistificato dal fatto che l’uomo fosse suo padre, Bianca era convinta che anche il suo “Ѐ mio!” fosse del tutto rispettabile, come lo sono tutte le convinzioni a quell’età.
Le piaceva essere presa in braccio da Mario, e una sua carezza la rendeva felice. Guai, però se Mario prendeva in braccio Caterina, Bianca diventava verde per la rabbia e, non sapendo ancora dissimulare, nascondere ciò che si prova, agiva di conseguenza.
─ Pure io… prendi in braccio pure a me, compare! ─ chiedeva a gran voce aggrappandosi ai pantaloni dell’uomo.
Poi, quando erano lontane dalla vista degli adulti e Caterina veniva a trovarsi nella sua sfera di azione, Bianca l’aggrediva con schiaffi e pizzichi, minacciandola…
─ Se non la smetti di dire che è tuo il compare mio… ti do le botte!
Capitava anche che mentre erano tranquille, intente al loro gioco, in Bianca si risvegliava all’improvviso il malessere che le cresceva dentro quando ripensava alle coccole che Mario destinava a sua figlia.
─ Cattiva! ─ le urlava Bianca spintonandola.
Aggredita, la bambina non restava inerme, reagiva prima per difendersi e poi per attaccare e restituirle ciò che aveva ricevuto.
─ Scema! Sei scema, io non t’ho fatto niente! ─ si lamentava Caterina
─ E invece tu sei stupida… il compare è mio!
Alla fine si accapigliavano.
Bianca stringeva nei pugni i lunghi ricci biondi di Caterina senza lontanamente pensare di lasciare la presa. Caterina allungava le mani, arraffava i riccioli mogano dell’amica procurandole un dolore atroce che la portava alla resa.
Non appena Gianni tornava a casa, sia la mamma che Caterina gli correvano incontro e cominciavano a raccontare, per filo e per segno, tutte le litigate della settimana.
Il papà di Bianca, uomo di poche parole, infastidito dal clamore alzato, sminuiva il problema. Prendeva la figlia, se la metteva sulle spalle e correva imitando il trotto del cavallo per sviare i suoi pensieri.
Anche la mamma faceva del suo meglio per convincerla.
─ Mario ti prende in braccio, ti accarezza e, solo dopo averti lasciato un bacio sula fronte, ti rimette a terra... è vero che prende in braccio anche Caterina ma è la figlia! Non credi che ne abbia diritto?
La piccola non poteva capire.
Con le sue reiterate richieste era diventata noiosa e mentre il suo malessere colonizzava il suo stomaco e non accennava a sloggiare, il chiasso insopportabile delle sue urla, pianti e strepiti aveva raggiunto il culmine.
Mario sopportava a fatica le prediche della moglie che aveva espresso più volte la propria ricetta per uscire dall’impasse.
─ Devi essere meno espansivo con Bianca... Per coccolare lei trascuri tua figlia. Ma da che parte stai?
Per Mario non era pensabile incontrare la bambina e non farle mille complimenti, abbracciarla…
─ Mi piace essere espansivo con gli adulti figuriamoci se non lo faccio con tutti i bambini che incontro. Non vedo il problema.─ rimarcava alla moglie e sorrideva quasi andasse fiero per ciò che le due bambine orchestravano per lui.
I rapporti tra le famiglie si deteriorarono.
Alle bambine non fu più permesso di trascorrere tanto tempo insieme per evitare soprattutto che si graffiassero o si riempissero di lividi.
Difficile da accettare sia per Caterina che per Bianca sempre più tristi e nello stesso tempo più ostili. Faceva male a tutti vederle in quello stato... e pensare che erano sempre state vivaci e allegre.
Sembrava non esistere soluzione.
Mancavano ancora due settimane alla fine delle vacanze, era domenica e le bambine si erano accapigliate ancora una volta.
─ Pina prepara le valigie. ─ cominciò Gianni...
Pina scoppiò a ridere
─ Che ridi? ─ chiese l’uomo.
─ Mi sento tanto la moglie di Fantozzi ─ rispose la donna continuando a ridere.
A Gianni caddero le braccia e cominciò a riderne insieme alla moglie.
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Veleno

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Veleno

<< Mia Signora, il vostro sposo è di ritorno. >>
La voce della domestica colse Veridiana alla finestra dei suoi alloggi personali. Scrutava l’orizzonte in attesa di distinguere con più chiarezza le figure dei due cavalieri che si muovevano in direzione del maniero.
Le fece cenno di congedo, infastidita nel notare che lo sguardo della ragazza indugiava oltre il consentito sulle boccette di cristallo disposte con ordine sulla mensola della toeletta. Sapeva cosa cercava.
Una piccola ampolla di vetro lavorato, contenente un liquido ambrato. Un filtro d’amore per richiamare le attenzioni di uno sposo assente. Neean l’aveva accompagnata dalla strega che lo aveva stillato dai petali di una rara rosa gialla. Veridiana aveva speso una fortuna per procurarsi il fiore: aveva pregato Nephelim, suo marito, di fargliene dono per l’anniversario di nascita.
Non aveva avuto difficoltà ad accontentarla: semmai, aveva accolto la sua richiesta con sorpresa. Era Veridiana a gestire il denaro di famiglia ed era solita acquistare quanto desiderava senza chiedere la sua autorizzazione.
Nell’avvicinarsi le figure iniziarono a prendere identità. Nephelim ancora cavalcava il vecchio pezzato che gli era stato donato dal Signore di una Contea confinante. Si era affezionato a quel ronzino mezzosangue. Uno dei suoi peggiori difetti: Lui, si “affezionava”. Ai contadini, ai domestici…a Lei.
Era lontano il tempo in cui le sue certezze erano solide quanto la roccia. Si era trasferita in casa dello zio, il padre di Nephelin, dopo che il suo aveva sperperato ogni spicciolo. La madre di Veridiana aveva afferrato con fermezza le redini della famiglia chiedendo aiuto al fratello.
Un buon accordo. Lei aveva bisogno di tetto sulla testa, lui di affidare un figlio orfano alle cure di una parente. Veridiana era cresciuta sapendo che il cugino sarebbe divenuto il suo sposo. Nelle famiglie elfiche di rango elevato era consuetudine combinare matrimoni fra consanguinei.
Era stata educata per diventare la padrona della casa, fiera del suo destino. Moglie del futuro Signore della Contea. Non le era pesato sapere che Nephelim intendeva arruolarsi appena raggiunta la maturità. Immaginava i loro incontri dolci e intensi: Lei, moglie devota, Lui, pago del suo amore. Fino alla nascita del “marmocchio”.
Dalain aveva fatto a brandelli il suo cuore. Prima quello di bimba, poi di donna.
Il fratello di Veridiana era nato in una notte di malaugurio, destinato alla morte ancor prima del sorgere dell’alba. Nephelim si era opposto al fato fin dal primo respiro di quella creatura macilenta. Aveva sfidato chiunque e si era chiuso nella camera del piccolo nel timore che gli fosse fatto del male. Non lo lasciava se non per alimentarsi e liberare le viscere.
Il suo era sembrato il capriccio di un bimbo viziato: aveva solo sette anni. Crescendo, la natura del suo sentimento si era fatta palese. Due anime potevano riconoscersi a tal punto? Veridiana sentiva un nodo allo stomaco ogni volta che quel pensiero le sfiorava la mente.
Nephelim vegliava il sonno di Dalain da tre decine. Il destino, maledetto, aveva portato entrambi alla Capitale. Erano stati scelti per essere strumenti dell’Occhio di Zephirot, manifestazione del Dio in terra: contrastavano la Magia che ammorbava le Terre dell’Ovest.
Soggiornavano al maniero di tanto in tanto, di ritorno dai viaggi che li portavano nelle Contee del Sud per volere della divinità cui erano votati.
Le cure costanti avevano assicurato a Dalain la possibilità di muoversi con minore difficoltà, ma non la completa guarigione. Accadeva raramente di udire il suono del campanello posato su uno dei tavoli da notte della sua camera. I domestici e il guaritore accorrevano in fretta al richiamo.
Veridiana sostava in corridoio, tendendo l’orecchio al rantolo spezzato del fratello. Attendeva muta, in un angolo, pregando gli Dei con le lacrime agli occhi. “Muori…muori in fretta…”
Dalain resisteva. Il corpo incurvato, bagnato, avvolto nel lenzuolo come in un sudario. Lo sguardo di Veridiana correva alla porta socchiusa, cogliendolo a fissare gli occhi grigi di Nephelim che gli ordinavano di prendere un nuovo respiro. Uno ancora. Uno ancora.
L’intensità della loro espressione impediva all’altro di rovesciare gli occhi per sfuggire ai suoi. Lo tenevano occupato mentre il guaritore imponeva le mani sul corpo spezzato per sedarlo.
Quando Dalain sveniva, esausto, Nephelim lo prendeva fra le braccia lasciando alla servitù il compito di cambiare le lenzuola zuppe di sudore. Si occupava di lui una volta rimasto solo con il guaritore.
Le labbra severe dell’elfo s’incurvavano gentili, mai aveva conosciuto il suo sorriso, per irrigidirsi non appena coglieva il riflesso di Veridiana nell’ombra.
Lei non poteva che arretrare, mentre l’ultima domestica chiudeva la porta.
Dalain era il suo veleno. Un veleno che la uccideva, goccia a goccia, nel peggiore dei tormenti. Come poteva contrastare un sentimento che non aveva nulla di fisico? Poteva opporsi alla carne, non a due anime legate per l’eternità. Nessun filtro d’amore le avrebbe concesso l’interesse di Nephelim. Lui era uno sposo attento ai doveri coniugali, ma i loro amplessi non erano che freddi incontri destinati a concludersi in fretta. La sua mente era altrove.
Lo sguardo di Veridiana tornò per un attimo alla toeletta. Si era assicurata il silenzio di Neean facendosi accompagnare dalla strega, sapendo che non ne avrebbe fatto parola a nessuno. Il suo era un segreto ben custodito.
Una volta versato in un liquido il siero era insapore al palato, incolore e privo di odore. Sapeva dove Dalain era solito riporre i medicinali da utilizzare prima di accostarsi.
La concitazione in cortile le fece intendere che i cavalieri erano giunti a casa. Scostò leggermente il pesante tendaggio che ostruiva parzialmente la vista dalla finestra, incontrando per primi gli occhi di Dalain.
Fragile come il cristallo, i lineamenti fini del viso che potevano competere ai suoi per delicatezza. Le sorrise. Provava per lei un sentimento puro, scevro da qualsiasi ombra.
Veridiana sollevò una mano, salutandolo con grazia. Ricambiò il suo sorriso.
Le piacque pensare di aver ricevuto la rosa in dono da Nephelim.
“Forse non oggi, Dolce Fratello.
Giungerà la notte in cui metterò fine alla tua sofferenza. Alla mia sofferenza.”
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