La Terrazza
Inviato: 10/08/2018, 20:50
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LA TERRAZZA
Il 1970 aveva da poco fatto la sua comparsa nel grande ingranaggio del tempo, nell'aria l'eco del '68 ancora era viva e palpabile ma lontano da un ragazzino delle medie come me.
I racconti che ci giungevano comunque erano affascinanti ma poco pubblicizzati, c'era solo una misera TV in bianco e nero con appena due canali.
La terrazza era sopra il terzo piano di una palazzina, in fondo a Via La Maielletta. Il proprietario era un uomo di mezza età, rispettosamente da noi chiamato Signor Antonio. Al piano terra aveva un consorzio che oggi avrebbe il nome altisonante di "consorzio agro alimentare". Per tutti noi era solo "il consorzio". La via era chiusa appena dopo di esso dal muro di recinzione della casa di Ernesto.
Il Signor Antonio non ci guardava mai di buon occhio, aveva con noi sempre un aspetto burbero di rimprovero. Certo a impedire di cementare la nostra amicizia ci si metteva di traverso pure la malasorte.
Avete presente un albero? Si riveste a sua protezione di una corazza spessa e dura chiamata corteccia. Questa aveva il brutto vizio di rispondere con tutta la sua forza agli oggetti che la colpivano, incluso le pietre che scagliavamo con la fionda.
Orbene, fino a qui niente di strano. L'unico problema era che lui le deviava con traiettorie machiavelliche che sarebbero sfuggite anche a un redivivo genio come Leonardo. Parecchie volte queste traiettorie finivano per infrangersi contro la vetrina del consorzio mandandola in frantumi.
Inutile dire che dopo poco bussava alle porte delle nostre case chiedendo il corrispettivo in denaro dell'acquisto del nuovo vetro.
Mia madre faceva la sarta, passava tutto il giorno con la sua Singer a cucire. Lavoro che la impegnava molto infatti, io sono stato cresciuto da un scricciolo di donna che mi viene il magone solo a nominare, la nonna Rosaria "Rosa". Un metro e cinquanta con la forza di un gigante e un amore infinito nei miei confronti.
Mia madre come tutti i bipedi aveva ai piedi due ciambelle, le scagliava con una mira da fare invidia a uno "shooters", i cecchini dei Marines. Non riesco a ricordare, ma credo che non mi abbia mai mancato neppure una volta. Chi la pigliava in pazienza era il mio grande papà adducendo a giustificazione il fatto che fossi un ragazzino. Mio padre, persona che ho amato e stimato tutti i giorni della sua breve vita. Forse posso addirittura dire di essere a sua immagine e somiglianza per quanto lo ammiravo. Ma... niente, mia madre era convinta che era meglio flagellarmi a ciambellate.
Ma basta menare il can per l'aia, anche perché povera bestia non ci aveva disturbato affatto. Torniamo alla terrazza.
Il Signor Antonio pur non vedendoci di buon occhio ci lasciava andare perché con noi c'era suo nipote Giancarlo, detto "Pablo". Il soprannome era originato dalla profondità dei suoi pensieri e come omaggio a Pablo Neruda. Infatti oggi Pablo è uno stimato professore di filosofia negli istituti di media superiore, tant'è.
Il secondo si chiamava Ottorino abbreviato ad "Otto", due anni più grande di me. Ragazzo serio da Liceo Scientifico.
Il terzo era Fabrizio, anche lui abbreviato a "Brizio". Quando volevamo farlo arrabbiare, ai nostri tempo la espressione "girare le palle" non era ancora stata coniata ma rende l'idea, allora lo chiamavamo "mammuttello" per via di una leggera pinguedine che lo affliggeva da giovinetto. Ovviamente non si esagerava perché delle volte non la prendeva per il verso giusto e se ne andava. Non molto studioso tipo da Istituto Tecnico appena sufficiente.
Poi arrivo io soprannominato "Joe West". Il soprannome lo coniò Otto perché secondo lui guidavo la graziella come un selvaggio, a tal punto da ricordargli i personaggi che cavalcavano speditamente nei film di quel genere. Certo loro non erano da meno, aspettavamo la pioggia per andare a fare le derapate con le bici sul fango. Il risultato era che ci combinavamo come porci, ma il soprannome me lo tenevo io.
Sulla terrazza ci andavamo la sera dopo cena, nelle notti afose d'estate quando le scuole erano in vacanza. Come vista c'erano solo le campagne di "Zì Ursin" recintate da una rete, tantissime lucciole, olivi e ciliegi meta dei nostri raid a maggio. Zì Ursin, che lo sapeva, ci faceva gli agguati nascondendosi con un bastone, da qui la mia passione per lo sport. Facevamo gli 80 metri a tutta e poi il salto della rete, ma niente medaglie salvavi solo le chiappe dalle bastonate.
Per compagnia avevamo la chitarra di Otto, dire che suonavamo era sicuramente una esagerazione, “strimpellare” è il termine più adatto alla descrizione. Con un semplice giro dell'accordo di DO sono state coniate un’infinità di canzoni quindi, alla fine, qualcosa si riusciva a fare tutti. Cantavamo le canzoni di Lucio Battisti seguendo le parole sui libricini che acquistavamo nelle edicole a poche centinaia di lire. Anche per la radio era la stessa situazione della TV, solo due canali e per ascoltare una canzone di successo a volte non bastavano le giornate.
A una data ora dovevamo smettere per non disturbare chi cercava di riposare, le finestre delle camere erano aperte. I climatizzatori erano in là da venire.
Mettevamo via la chitarra e ci allungavamo supini con le braccia all'insù in modo da farci cuscino dentro il palmo delle mani infilate sotto la nuca. Così si cominciava a parlare, ognuno esponeva qualcosa e si discettava di varie argomentazioni. Ogni tanto c'era una battuta ricorrente quanto scontata, se si avvistava nel cielo un oggetto che si muoveva velocemente si faceva a gara a guardare l'orologio per dire "l'ufo delle ore 00:10", giochi innocenti…
Certo un argomento ricorrente delle nostre conversazioni era il futuro e tutto quello di grande che avremmo fatto per cambiare il mondo. Quando sei un giovinetto la vita la senti come un fiume in piena, possente nella sua corsa verso il mare, indomabile e capace di spazzare via tutte le ingiustizie del mondo in cui vivevamo. Avremmo fatto questo e quello perché era giusto, lo sentivi, era impellente dentro di te che ti esplodeva nel petto. Certo eravamo dei sognatori ma da giovani la vita “è” un sogno, dovresti avere un'altra possibilità dalla vita, rinascendo saresti molto più ponderato che sognatore. Mentre tutte queste parole sgorgavano senza sosta gli occhi erano fissi al cielo, anche per scoprire l'improbabile ufo delle 00:25, ma soprattutto perché il fascino di un cielo stellato ti rapisce. Io avevo la sensazione di potermi liberare della opprimente gravità terrestre e con leggerezza sollevarmi nell'aria. Avevo la sensazione che aprendo le braccia mi sarei librato nell'aria salendo verso il cielo come un Dio. Pensate, nel 2000 avrò 42 anni, questo numero 2000 ricorreva spesso anche perché influenzato dai racconti di fantascienza foriera di miracolosi aggeggi per smaterializzarsi o volare in un batter d'occhi su un altro pianeta.
Poi piano piano la vita asciuga il tuo fiume, gli toglie impeto e forza. Passi il 2000 senza che nulla sia cambiato, anzi a volte ho l'impressione che siano stati anni buttati al vento e che l'uomo non abbia voluto imparare nulla.
Guardi con nostalgia quello che oramai è un ruscello, l'acqua non è più quella limpida che potevi bere senza timore ma ha un colore scuro e limaccioso.
Ti volgi con gli occhi verso il cielo implorandolo di donarti ancora un sogno perché ti dia la forza di svegliarti domani e ancora domani. Cerchi la forza di sentirti leggero e di sollevarti su tutte le miserie che ti circondano e che ti stanno uccidendo. Lo preghi perché non vuoi, svegliandoti, essere di un giorno più vecchio e di un giorno più vicino alla meta finale della tua vita.
Lo prego tutti i giorni, perché il cielo è giusto. Se volgi gli occhi a lui vedi le stesse cose che vedo io, ti può dare la stessa forza che io gli imploro. Sono le persone a essere sbagliate, non lui…