Ottagono
Inviato: 26/09/2018, 18:07
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Stavamo viaggiando da molte ore. Mi avevano svegliato all’alba dicendomi che dovevo essere pronto entro dieci minuti. In carcere non occorre molto tempo per radunare le tue cose, visto che non ti appartiene nulla. Ero però preoccupato per i libri, dei quali potevo disporre in discreta quantità grazie alla generosità di alcuni amici.
- Non perdere tempo con quelli. Dove stai per andare saranno inutili. Aprite questa porta! –
Il tintinnio delle chiavi, gli scatti della serratura, il battere del chiavistello contro il fine corsa, il cigolio dei cardini che accompagna la porta mentre si apre. Rumori che ormai avevo codificato in una sequenza logica che ritenevo indissolubile dalla mia esistenza. Erano bastati diciotto mesi per fare di me un perfetto alienato.
Il direttore, autore di quelle poche parole, entrò nella cella con la solita aria di superiorità che adottava nei momenti ufficiali. Era così anche il giorno del mio arrivo; credo inoltre che indossasse lo stesso vestito. Un alienato anche lui, solo che non se ne rendeva conto. Prese un libro dallo scaffale guardandolo come se fosse trasparente, che infine gettò sopra il letto dopo averne letto ad alta voce il titolo e l’autore.
- Io Claudio, di Robert Graves…di che parla?
- Di un uomo che fu costretto a fare ciò che non voleva.
- Curioso. Sembra quasi la tua storia.
Ero l’unico ospite di quel furgone. Mi avevano fissato delle catene alle mani e ai piedi, e la tortuosità del percorso mi stava procurando una forte nausea. Il mio colorito doveva aver assunto una ben strana tonalità, tanto che l’agente di scorta fece fermare immediatamente il veicolo consentendomi di avvicinarmi al finestrino laterale per prendere un po’ d’aria. Eravamo in una zona arida con poca vegetazione. Di fronte a me, a una distanza di un paio di chilometri, una collina tonda e levigata come un teschio ospitava sulla sua sommità una costruzione di forma quadrangolare, lunga di lato e di modesta altezza. I miei occhi interrogarono in silenzio quelli del mio custode, che confermarono i miei timori. Era dunque quello il posto in cui avrei trascorso i prossimi cinque anni.
Arrivammo che il sole stava tramontando dopo aver percorso le ultime curve di quella strada maledetta. Ringraziai il cielo per la fine di quel viaggio, ma appena sceso dal furgone capii subito che forse ero stato precipitoso.
Fronteggiavo una lunghissima parete in mattoni la cui altezza appariva limitata solo se rapportata alla vastità della base. In effetti la costruzione raggiungeva un’elevazione di almeno una ventina di metri. La facciata era del tutto priva di aperture, con l’unica eccezione di una porta. Guardai allontanarsi il furgone, ritrovandomi solitario al cospetto di quell’edificio, la cui sinistra presenza si materializzava in modo preoccupante nell’oscurità che nel frattempo si stava impadronendo della scena. Mi avevano persino liberato delle catene, avrei potuto tentare la fuga. Succube di quel posto, però, rimanevo lì a osservare quell’immenso muro che stava esercitando su di me la medesima influenza con la quale il carnefice soggioga le proprie vittime.
Feci alcuni passi in direzione della porta di entrata e muovendomi mi resi conto di essere stato vittima di uno strano fenomeno ottico. Quella che sembrava un’unica, gigantesca parete era in realtà la proiezione sul piano prospettico di tre lati dell’edificio, di cui quello centrale, sul quale insisteva l’unica apertura, relativamente corto in confronto dei due laterali che dipartivano obliquamente dalle sue estremità estendendosi fino a perdersi nel buio. Mentre stavo cercando di raffigurarmi in pianta quella costruzione, udii dei rumori metallici provenire dalla porta d’ingresso. Mi approssimai per comprenderne la natura, e fui investito dalla luce accecante di una lampada. Mi fermai, coprendo gli occhi con le mani.
- Dentro.
A quell’ordine perentorio, pronunciato da una voce che sembrava provenire dall’interno, fece seguito un forte scatto. Accompagnai con lo sguardo la porta mentre si apriva fino a quando non si fermò.
Mi avvicinai.
Le gambe divennero molli, sostenendomi a stento mentre entravo. Da qualche oscuro angolo della mente riemersero antichi versi che mi sembrarono adeguati alla realtà che stavo vivendo.
“ …Le mura stesse della prigione sembrarono d’un tratto crollarsi, e il cielo sulla mia testa divenne come un casco d’acciaio scottante…”.
Dall’entrata ci s’immetteva direttamente in un vasto ambiente di forma ottagonale. I lati del poligono, uguali tra loro, avevano la stessa dimensione di quello su cui insisteva la porta. Nel ricordare l’ampiezza del resto dell’edificio smarrii il senso delle proporzioni.
Fatti alcuni passi che sentii risuonare nel silenzio, la porta si richiuse dietro di me. Sulle pareti insistevano delle arcate continue sia in linea che in colonna, conferendo a quel posto l’aspetto di un’arena. Il soffitto si chiudeva in una volta emisferica, al centro della quale era un foro circolare che sembrava comunicare direttamente con l’esterno. L’arditezza delle raffinate scelte architettoniche richiamava le antichità romane e la vetustà dei luoghi faceva pensare che molto probabilmente quella costruzione risaliva a quell’epoca. Sapevo che era impossibile, ma ormai avevo smarrito anche il senso del tempo.
Gli innumerevoli archi di cui era composta l’ossatura portante di quell’arena poligonale avevano il fondo chiuso con una parete in mattoni, tanto da sembrare delle edicole, tipo quelle costruite sulle facciate delle chiese per contenere delle statue. Questi, però, erano molto più grandi e invece di statue contenevano libri. Sostenuti da strutture lignee, se ne potevano contare a migliaia per ogni singolo arco, e di archi ce n’erano a centinaia. Quelli del primo ordine potevano essere raggiunti direttamente dal pavimento, quelli superiori tramite balconate collegate tra loro da scale. Pensai che se non fossi stato imprigionato non avrei mai visto un luogo come quello, e me ne rallegrai. Evidentemente avevo smarrito anche il buon senso.
Il posto sembrava solitario, ma ero consapevole di essere osservato. Abituato alla confusione del penitenziario da cui provenivo, il silenzio quasi ascetico che regnava in quel luogo reprimeva in me ogni istinto di ribellione. Sembrava di essere più in un monastero che in un carcere, dove espiare le proprie colpe nella meditazione. I miei sensi superstiti mi avvertivano però che non poteva essere così.
- Mi segua, prego.
Mi girai rapidamente. Vidi un uomo esile vestito di scuro incamminarsi verso la parete opposta all’entrata. Lo seguii. Entrammo in una stanza priva di arredamento con l’eccezione di alcuni scaffali ricolmi di libri e di una scrivania che subito raggiungemmo.
Sui sessant’anni, calvo, una leggera barba biancastra, occhiali con lenti brunite, quell’uomo mi stava osservando in silenzio. Decisi di prendere l’iniziativa.
- Posso porle una domanda?
- Certamente! A una sola condizione.
- Quale?
- Prima dovrà rispondere sinceramente alla mia.
- Va bene.
- Guardi che non la obbligo.
Avevo accettato volentieri quella condizione, anche se quella puntualizzazione mi rendeva inquieto. Decisi comunque di proseguire in quello che ormai sembrava uno strano gioco.
- Avanti. La sua domanda, prego.
- Bene. Al suo processo lei ha dichiarato di essere innocente. Giusto?
- Sì!
- Perché?
- Perché!? Io sono innocente. Non ho commesso il reato di cui sono stato imputato.
- Lei crede di essere innocente. Si è mai posto il problema del giudicare?
- No. Io non ho mai giudicato nessuno.
- Quindi, in estrema sintesi, lei si dichiara vittima di un errore giudiziario.
Senza darmi tempo di rispondere, si alzò in piedi, andò verso la libreria addossata alla parete retrostante, ne trasse un libro che iniziò a sfogliare mentre ritornava verso di me, finché non trovò quello che stava cercando. Con aria soddisfatta richiuse il libro, un’edizione ottocentesca, segnando però la pagina, ponendomi una domanda volutamente retorica.
- Conosce Voltaire?
- Un poco.
- Bene. Questo è il Trattato sulla tolleranza. L’ha letto?
Non capivo bene quali fossero le sue intenzioni. Decisi di rimanere sulla difensiva.
- In parte, ma è trascorso molto tempo.
- Lei sa, comunque, che fu Voltaire con il suo trattato a introdurre il concetto di errore giudiziario.
- Sì, ma quando scrisse il libro la giustizia era amministrata non certo liberamente, bensì con tutto il peso del giogo fanatico della confessione imperante.
- Guardi che Voltaire non ha bisogno di giustificazioni. Non delle sue almeno.
L’ultima esternazione mi consigliò di usare maggiore prudenza. Si rialzò in piedi riaprendo il libro nel punto segnato.
- Voltaire sbagliava. Non esiste l’errore giudiziario.
L’espressione che assunse il mio viso lo rese consapevole della necessità di spiegarsi.
- Il sacerdote, ogni volta che celebra la messa, permette il compiersi del mistero. Allo stesso modo il giudice celebrando la legge consente alla giustizia di compiersi. Prima può avere dei dubbi. Dopo, no.
- Se fosse come dice lei, esisterebbe un solo grado di giudizio, non tre!
- Esiste un’opinione laica sulla giustizia… un’opinione situata al di fuori. Per questo i tre gradi di giudizio. Ma la possibilità dell’errore no. Non esiste!
Terminò l’ultima frase in piedi con l’indice della mano destra puntato verso l’alto, una posizione statuaria che durò pochi istanti, riacquistando in breve la sua naturale compostezza.
- Le concedo ora due possibilità. Ritirare la sua presunzione d’innocenza, dichiararsi colpevole e ritornare al penitenziario dal quale proviene per finire di scontare la sua pena o restare qui dove potrà avere tutte le risposte che desidera. Attenzione però, chieda solo ciò che è sicuro di volersi sentire rispondere. Le domande non sono mai pericolose; le risposte, a volte, lo sono…
- Se scelgo di rimanere qui, quanto tempo…
- Vedo che ha scelto la seconda ipotesi.
Quella frase, pronunciata con voce gelida, acuì il mio nervosismo.
- No! Io non ho scelto niente. Volevo solo sapere…
- La prego! Deve solo scegliere.
- E se scelgo di non scegliere?
- Anche questa è una domanda.
Restai in silenzio per lunghi minuti, a pensare se quello che stava accadendo fosse reale o parto della mia fantasia. Poi guardandomi intorno ritornai col pensiero al momento in cui ero arrivato in quel posto, alla conformazione di quelle mura, di quel primo vastissimo ambiente in cui ero entrato, alla sua eccezionale biblioteca.
- In effetti sono ancora in credito di una domanda. Ricorda?
Senza mostrare alcun tipo di reazione l’uomo vestito di scuro continuò a fissarmi da dietro le sue lenti annerite. Quella staticità prolungata stava alterando il mio sistema nervoso, finché non notai un leggero movimento della testa, che io interpretai come un cenno di assenso.
- Che posto è questo? Voglio dire, com’è possibile che non mi sia mai capitato di sentirne parlare, che non ne abbia trovato traccia nemmeno nei più seri testi di architettura da me consultati. Fin da quando l’ho visto è insorta in me una prepotente voglia di sapere, di conoscere. La prego…
L’altro, che aveva ascoltato le mie parole perseverando nella sua immobilità, disegnò con le labbra un sorriso di vaga consistenza.
- Le uniche domande lecite, mi consenta, sono quelle di cui si conoscono le risposte. Le era stata concessa la possibilità di restare qui per poter avere le risposte di cui crede di aver bisogno. Le era stata usata anche la cortesia di metterla in guardia. Ma lei non ha saputo, o voluto, approfittarne. Lei conoscerà, certo, anche molto di più di quanto possa pensare. Ha già veduto la prima sala, ne vedrà delle altre. Sa quante sono in tutto? Altre otto. Uguali alla prima come struttura, certo, ognuna collegata alle altre, ma ognuna diversa dalle altre. Lei vuole sapere, e le sarà concesso. Qui troverà tutto ciò che è stato scritto dall’uomo, sia esso stampato, manoscritto o inciso. Potrà consultare libri, pergamene, rotoli, papiri o tavolette di argilla. Ma dovrà fare molta attenzione, perché potrà andare solo avanti, di sala in sala, senza poter tornare indietro, e l’edificio dispone di una sola porta che comunichi con l’esterno, che è quella dalla quale lei è entrato.
- Se le uniche domande consentite sono quelle delle quali conosciamo le risposte, per quale motivo dovremmo porle?
- Mi perdoni, ma la sua domanda è inutile.
Capii infine che continuare quel dialogo ormai era veramente inutile, visto che qualsiasi questione io ponessi immancabilmente segnava un punto a mio sfavore. Era già stato deciso che io dovessi restare in quel posto che, per quanto avevo capito, assomigliava a un labirinto. Dove non si poteva tornare indietro, e avanti si andava solo se si ponevano le giuste domande, quelle di cui conosciamo già le risposte. E qui si entra in un altro labirinto. Mentale.
Nel silenzio, rassegnato seguii quell’uomo.
Citazioni: - La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde
- Il Contesto di Leonardo Sciascia