Ritorno
Inviato: 04/04/2019, 17:43
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Sono tornato dalla guerra, eppure è come se non l’avessi mai lasciata. Come se fossi semplicemente passato da un conflitto all’altro.
Spesso si dice che i civili non possono immaginare, perché non li hanno vissuti direttamente, gli orrori del fronte; ma io penso che ancora meno possano immaginare le difficoltà che deve vivere chi torna da quel fronte.
A volte ho l’impressione che gli altri diano per scontato l’esistenza di un qualche interruttore dentro di noi. Un interruttore che si può accendere e spegnere come se niente fosse, senza influenzare i nostri stati d’animo successivi. Vai in guerra e[i] tac![/i] Accendi quell’interruttore e diventi una specie di John Rambo. Torni dalla guerra e [i]tac! [/i]L’interruttore si spegne e tutto dovrebbe tornare come prima. Non è così.
La guerra ti cambia. In meglio e in peggio.
Innanzitutto, molto banalmente, ti fa maturare una nuova considerazione della vita. E scusate se è poco! Hai visto morire davanti a te decine e centinaia di uomini. Amici. Nemici. Compagni d’armi. Guerriglieri. Donne. Bambini. Vecchi. Brave persone. Pezzi di merda. Immacolati innocenti. Poco importa: li hai visti morire. Hai visto cosa significa esalare l’ultimo respiro dilaniati da un’esplosione o crivellati di colpi o in altri modi così poco piacevoli da farti capire che stai solo partecipando a un macello. E che in quel macello la prossima carcassa da macellare potrebbe essere la tua.
Hai potuto toccare con mano l’aspetto più orrendo e inquietante della morte: la sua democraticità. Perché alla morte frega poco se sei un adulto con una famiglia, un vecchio alla fine dei suoi giorni, una donna incinta, un bambino che ha ancora tutta la vita davanti, una vita fatta di speranze, di sogni e di desideri. Gliene frega poco se da grande vuoi fare il dottore o se vuoi andartene in pace nel tuo letto, circondato dall’affetto dei familiari e degli amici. La morte non guarda in faccia nessuno. Se vuole colpirti lo fa e di modi ne ha a bizzeffe: mine, proiettili, missili, bombe, fottuti kamikaze. È subdola e pericolosa, può piombarti addosso in qualsiasi momento. E non so se sia peggio quando ti porta via all’improvviso, senza lasciarti rivolgere un ultimo pensiero alle persone che ami, o se invece se la prende comoda, condannandoti a soffrire un’ultima volta prima di lasciare questa valle di lacrime.
Nel peggiore dei casi, poi, sei tu soldato quello che toglie la vita. Sei tu il dito, la mano, il braccio, il corpo, la mente, il cuore, l’anima dietro quel proiettile. E pensare che stai combattendo il Male non serve a nulla, anzi! Il Male è il fondamentalismo, è l’ideologia; ma chi porta avanti quell’ideologia, chi combatte per quell’ideologia, chi ne fa il proprio credo, la propria fede, il proprio mondo (spesso senza neppure esserne convinto fino in fondo, o solo perché costretto) non è altro che un uomo. Un uomo come te, che ama, odia, soffre, gode. Che ha un padre, una madre, dei fratelli, delle sorelle, magari anche una moglie, dei figli, delle figlie, dei nipoti. Un uomo che, direbbe un famoso poeta, ha occhi, mani, membra e passioni come noi, che si nutre dello stesso nostro cibo ed è ferito dalle nostre stesse armi, soggetto alle nostre stesse malattie e guarito dagli stessi rimedi, riscaldato dallo stesso sole e raffreddato dallo stesso inverno che riscalda e raffredda noi. E tu premi quel grilletto, ti pianti di fronte a lui e distruggi quella vita. Puoi ripeterti fino allo sfinimento, fino alla nausea che hai tutto il diritto di farlo, che in guerra funziona così, che combatti per la libertà contro l’oscurantismo dei fanatici, che si tratta di uccidere o di essere ucciso… puoi dirti tutto quello che vuoi, e magari hai ragione, ma di fatto stai stroncando una vita.
C’è un paradosso nell’omicidio (perché di questo si tratta, omicidio bell’e buono). Se togli la vita a un tuo simile, e non sei uno psicopatico o un serial killer, finisci per renderti conto di quanto la vita stessa sia preziosa, irripetibile, importante e irrinunciabile: la tua, quella dei tuoi cari, quella dei tuoi amici, persino quella della gente che odi.
Nel mio plotone c’era un ufficiale che era diventato addirittura vegano perché, dopo tutti quegli anni trascorsi in Jugoslavia, testimone degli orrori delle pulizie etniche, non riusciva a non provare un disgusto per l’idea stessa di mangiare un animale morto, ucciso semplicemente per il suo sostentamento. Non credo che seguirò mai il suo drastico esempio, ma se prima scalciavo lontano da me i cani e i gatti randagi che mi si avvicinavano per strada, da quando sono tornato a casa non sono capace di essere così duro e di tanto in tanto lascio sotto il portico una ciotola d’acqua e del cibo per gli animali di passaggio.
Non so come definirmi. Un eroe non di certo. Sopravvissuto mi sembra già un termine più adatto, se non fosse che alle volte mi sembra troppo pomposo. Un semplice uomo, allora?
Mio figlio Paolo non ha dubbi: ai suoi occhi sono un assassino, un bersaglio di odio e di livore. Non mi odia davvero, un padre queste sfumature le coglie, ma odia ciò che rappresento. E in fondo non riesco a dargli torto.
Non è venuto nemmeno all’aeroporto militare, il giorno in cui sono rientrato dall’Iraq. C’erano tutti, quella mattina. Mia moglie Greta, sempre sorridente, sempre luminosa, con un paio di piccole rughe in più ma la bellezza intatta. La mia piccola Anna, che aveva solo due anni quando partii per il Medio Oriente e adesso fa già le elementari. Mia sorella Lia e mio cognato Giosuè, la coppia più affiatata e innamorata che abbia mai conosciuto. Mio nipote Michele, che alla vista di suo zio in uniforme non ha potuto fare a meno di mimare un infantile e tenero saluto militare. C’erano Giuseppe e Carmine, compagni di scuola, di vita e di bevute. Ma non c’era Paolo.
L’ho potuto vedere soltanto quella sera, dopo molte ore, quando è rincasato. Ci siamo scambiati uno sguardo, un saluto freddo, nulla di più. Ormai è un uomo, l’anno prossimo andrà all’università e mi sono perso fin troppi anni della sua adolescenza, eppure una parte di me avrebbe voluto sopra ogni altra cosa vederlo tornare bambino, sgambettare nella mia direzione urlando “Papà! Papà!” e guardandomi come se fossi il suo eroe, prima di stritolarmi nel suo abbraccio.
La mattina dopo, a colazione, ha tirato fuori l’argomento tanto temuto.
“Come ci si sente ad aver fatto parte, nel tuo piccolo, del neo-imperialismo occidentale?”
Mia moglie l’ha fulminato con uno sguardo, ma lui ha continuato, imperterrito: “Parlano di esportare la democrazia, ma sappiamo benissimo come stanno le cose. Lo sappiamo e stiamo zitti. Gli americani vanno in Iraq e in Afghanistan per i loro interessi e noi italiani siamo pronti ad assecondarli. Siamo i cagnolini degli americani…”
“Paolo!”
“E’ la verità, ma’! Che diritto abbiamo di andare dagli altri a dir loro come comportarsi, come trattare le donne, come governarsi? È la solita spocchia occidentale, il nuovo fardello dell’uomo bianco…”
“Non parleresti così se ci vivessi tu in quei paesi e fossi io a portare il burqa!”
“Non sto dicendo che sia giusto trattare le donne in quel modo, ma’! Però andando lì a imporre le nostre usanze non risolviamo niente…”
“Quindi stai dicendo che tuo padre combatte per una causa sbagliata?”
“Perché, esistono cause giuste? In guerra si uccide, qualunque sia la motivazione! I soldati sono tutti degli assassini…”
Potrei intervenire, ma non lo faccio. Sospiro. Consumo in silenzio ciò che rimane della mia colazione e poi esco, per una passeggiata.
Dopo tutti questi anni, nulla sembra cambiato nella mia città. Ci sono nuovi negozi e bar, quelli vecchi non ci sono più, ma quella è solo l'epidermide di un mondo che ha continuato a vivere tutti questi anni nel mio ricordo e che ora ritrovo.
Un uomo mi ferma per strada. Porta a spasso il cane, un bel pastore tedesco. Non lo riconosco sulle prime. Lui lo nota dal modo indeciso con cui lo saluto.
“Non ti ricordi?” esclama “Sono Gino…”
“Gino!” esclamo.
Solo a quel punto riconosco uno degli avventori del bar solito che frequentavo prima di partire.
“Sono tornato dall'Iraq” continuo.
“Lo so, Carmine non parlava d'altro nei giorni scorsi! Come ti senti?”
Me lo domanda come se fosse un domanda come tante altre. Ma non posso biasimarlo, come può immaginare ciò che ho visto e ciò che provo?
[i]Come mi sento?[/i]
Non esiste domanda più difficile a cui dare risposta. Ci penso su qualche secondo, poi abbozzo un sorriso.
“Bene. Ora sono a casa”