Mattoni
Inviato: 23/09/2019, 19:36
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Mio marito è morto nove anni fa, ora sono sola. I miei vicini, buoni quelli, da un po’ si discute per il muretto. Hanno messo la ringhiera, ma un pezzo è anche mio. Gliel’ho detto che il lavoro andava rifatto, che mi hanno preso una parte del giardino.
Una mattina ho incontrato la moglie e mi sono lamentata di suo marito che mi aveva trattato male perché volevo la mia parte. Lei mi ha risposto infuriata che venivo a comandare a casa d’altri. Ma io ho detto che semmai voglio comandare a casa mia, che se n’approfittano perché sono sola. Se c’era ancora mio marito…
A noi i figlioli non ci sono venuti. Forse perché li aveva fatti tutti mia madre, undici. Siamo rimaste solo io e una mia sorella, ma non la vedo mai, è molto malata.
Io lo dico sempre: sono nata in un pagliericcio, come Gesù Bambino. Allora si partiva con il treno, si portava quello che si poteva, un guscio, delle lenzuola e le federe, delle coperte. Il padrone ci dava due stanzette, delle balle di paglia, si faceva il letto con quelle, dentro il guscio. Mia mamma mi aspettava, ma andò lo stesso, a casa rimanevano i figli grandi e quelli piccini. Ecco perché dico che sono nata nella paglia.
I miei sono andati in Piemonte fino a quando avevo ventidue anni, poi hanno smesso anche loro. Erano ormai anziani, sulla sessantina. Forse sono andati un altro anno o due, mi pare.
Si partiva a maggio, per Moncalieri, a fare i mattoni eravamo tutti toscani. E veneti. I piemontesi lavoravano a fare le automobili. Poi è cominciata ad arrivare la gente del sud. Qualcuna, come una mia amica, andava alla fabbrica delle caramelle.
Sotto quel sole si stava tutto il giorno a mettere la terra negli stampi, era un lavoro come fare il pane, andava fatto l’impasto e messo nelle forme. Verso le cinque si cominciava a mettere i mattoni seccati in pile, uno sull’altro a quadrato. Si riempiva tutto il piazzale, finché li venivano a prendere per portarli alla fornace.
Per San Pietro e Paolo capitava sempre una burrasca. Noi si riparavano i mattoni come si poteva perché l’acqua li rovinava e ce li pagavano la metà. Più si lavorava e più si guadagnava. Di marchette ce ne attaccavano meno di quello che era giusto. Ma c’era poco da fare.
A Moncalieri non c’erano feste e domeniche, si lavorava tutti i giorni. A casa, invece, si andava anche a ballare.
La sala da ballo era al circolo, cento metri più avanti, sulla strada. Si andava accompagnate dalla mamma. Se suonavano un tango, si avvicinavano di più le guance, tutti dicevano: guarda che fa quella! I vecchi, lo dicevano. La mamma non apriva bocca, ci guardava, rimaneva sempre a sedere.
Mia sorella mi ripeteva: che aspetti? Hai ventun anni. Allora a ventun anni eravamo vecchie. Io li guardavo e rispondevo: quello è antipatico, quello ha il naso grosso, non mi piaceva nessuno.
Poi è arrivato lui, veniva in vespa o con il motore. Alto, bello, con le camicie pulite, tutto preciso, non aveva mai i pantaloni sdruciti, era simpatico, mi piaceva come parlava. Ballavo tutta la sera con lui. Quando c’era l’intervallo si rimaneva accanto, poi i suonatori ricominciavano e si ballava insieme.
A mezzanotte l’orchestra smetteva e si usciva. Una sera, finite le danze, andavamo a casa e lui mi veniva dietro. Mia madre ha detto: che vuole quello? Le ho risposto: mamma, io ho scelto. La domenica dopo è venuto a casa mia e ci siamo fidanzati.
Un giorno, per le ferie, me lo vedo arrivare a Moncalieri, erano quattrocento chilometri. È venuto con il motore, io ero a fare i mattoni, avevo già pranzato, lui, poverino, è rimasto con me senza mangiare. Avevo le mani tutte sporche di terra, me le strusciavo con la rena per pulirle, ma insomma, un po’ mi vergognavo. Mi ha fatto delle fotografie, lui era in ferie, io no, avevo da lavorare, non c’era tempo di fare all’amore. Una ce l’ho ancora, una fotografia dove ci sono io e dietro si vedono tutte le pile di mattoni.
Quello, per me, è stato l’ultimo anno. Siamo tornati con – mi sbaglio sempre, ora con l’euro – settecento cinquanta… mila lire e cinquanta. No, cinquecento.
D’inverno si facevano altri lavoretti, non si stava mai fermi, ma il grosso veniva dal lavoro in Piemonte. Il mio babbo tagliava i salici, servivano per legare le viti, poi si facevano i canestri, si rivestivano i fiaschi con la paglia, qualcosa si faceva sempre.
Le scuole le ho fatte tutte, fino alla quinta. C’era una maestra severa, dava certe bacchettate sulle mani con la stecca, a me non è successo quasi mai, solo una volta ne ho prese tante perché avevo fatto copiare il dettato a una mia compagna. A casa la mamma mi ha visto con quelle dita tutte rosse e mi ci ha messo l’olio, la notte non sono riuscita a dormire da quanto mi facevano male e piangevo.
Quando sono tornata da Moncalieri siamo andati alla tabaccheria, io e il mio babbo. Il capoccio ha detto: abbiamo preso due sorelle, si prenderà anche lei. Ci sono rimasta due anni, poi mi sono sposata. Si fece anche il viaggio di nozze, tre giorni a Portovenere, mica tutti se lo potevano permettere.
Siamo andati a stare a casa sua. Commerciava in biciclette e motociclette, le accomodava e le vendeva, l’ho scoperto dopo che ci eravamo fidanzati. Ecco perché veniva sempre in vespa. Lui lo sapeva quello che facevo, ma io non l’avevo capito, finché non ho visto l’officina.
All’inizio teneva la Beta, perché la fabbrica era vicina, a Firenze, come le vespe di Pontedera, poi le Gilera, le Bianchi, Garelli e tante altre marche.
Siamo stati bene, aveva la sua bottega di motociclette, la domenica ne prendeva una e si andava in giro, anche al mare. Dopo un po’ si prese la prima macchina, una millecento di seconda mano. Un’automobile gliel’ho comprata io, col mio lavoro.
Avevo cominciato a cucire a casa, facevo cinque cappotti alla settimana. Mi dicevano sempre: vieni a lavorare interna. E io: ci penserò. Una mattina mi sono decisa, sono montata in bicicletta e sono andata a lavorare alla Lebole, è stata la mia fortuna.
Ci s’aveva un divano grande, ci si sarebbe potuto dormire in due, allora usavano in quel modo. Si fece anche la camera nuova e si comprò il frigorifero e la televisione, senza chiedere nulla a nessuno.
Non avevamo tutto quello che c’è ora, ma non ci mancava nulla. C’era tanta armonia. Si usciva di casa e si scendevano le scale, in fondo c’erano le porte degli altri appartamenti. D’estate non le chiudevano mai, tanto non c’entrava nessuno. Se avevo bisogno di qualcosa me lo dava quella che mi stava accanto. E lo stesso facevo io, eh, s’intende. Quando preparavo da mangiare le portavo sempre un piatto di pasta o la panzanella. Avevano tre bambini, noi no, non ci sono venuti.
A fare i mattoni mi ha insegnato il mio babbo, fin da quando ero bambina. Lui era bravo, svelto e preciso. Gli venivano perfetti, tutti i lati uguali, li potevi misurare con il righello. Poi ho imparato anch’io, ma all’inizio… quante sgridate! Il mio babbo no, quegli altri. Il padrone non veniva quasi mai, si lavorava per conto nostro, per questo più si lavorava e più si guadagnava. Ogni tanto la pioggia ce li rovinava e li pagavano meno, la metà. A volte si andava la notte a coprirli, se si vedeva che stava per piovere.
Ma poi ho fatto tante altre cose. In confezione diventai brava a cucire a macchina, ero una delle migliori, il padrone veniva sempre da me per fare i modelli. Qualche anno dopo chiuse e ricominciai a lavorare a casa, in fabbrica non ci sono più andata.
Quando smise con il negozio mio marito dette una parte della vendita alle sue sorelle. Io non gli dissi nulla, gli ho sempre fatto fare quello che voleva. Lo sapevo che una delle mie cognate non mi poteva vedere, non voleva neanche che suo figlio ci venisse a trovare. Eppure era nostro nipote, per me acquistato, d’accordo, ma sempre nipote, me lo metteva contro. Però, quando è morta, al funerale ci sono andata. A suo fratello, che poi era mio marito, non gli avevo impedito di darle la sua parte, potevo andare a testa alta.
Mio marito aveva preso un lettino per tenerlo in officina, nel retro. Quando era stanco si stendeva lì. Il giorno che è andato in pensione l’ha portato a casa. Ogni tanto ci faceva un riposino, d’estate, diceva che ci stava più fresco. Era agosto, nove anni fa, lo rimandarono dall’ospedale, poverino, lo sapevo che era alla fine. Lo volevano mandare in un altro ospedale. Gli dissi: ma dove lo volete portare, lasciatemelo a casa. C’è morto in quel lettino.
Ora sono vecchia, sì, fino a qualche anno fa non mi sembrava, ma ora lo dico che sono vecchia. Non ho più paura di nulla, neanche di morire, ormai. In fondo anche del giardino non è che me ne importi un granché, è solo per non dargliela vinta. A volte, però, ripenso a quando andavo in Piemonte. Ho sgobbato tanto, ma ero giovane ed ero contenta di quel poco che avevo. Tornerei anche a dormire in quel pagliericcio ricoperto con le lenzuola, allora non mi pareva così scomodo. Forse perché ero tanto stanca, dopo una giornata sotto quel sole che bruciava me e i mattoni.