L'amante
Inviato: 01/10/2019, 11:49
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
L’avvocato Santo Corbera era un uomo meticoloso, preciso e abitudinario, d’indole riflessiva: medio di statura e piuttosto seccagno di corporatura, aveva i capelli con la scriminatura di lato; la riga, continuando, sfociava su di un cocuzzolo pelato, che pareva una radura priva di vegetazione. E dedito alla famiglia non meno che alla sua attività, di pomeriggio svolta nella quiete ovattata dello studio, in via Giovanni Argiropulos, nella cuspide più occidentale dell’isola di Ortigia, a Siracusa, dove si ritirava ad ascoltare la voce irrequieta e nervosa dei propri clienti.
Lasciato il vestibolo adattato a sala d’aspetto, superato un breve corridoio disadorno, venivano introdotti nella stanza color malva, affacciata su di una strada poco frequentata, e invitati a sedere dietro l'ampia scrivania di palissandro nero sulla quale crescevano, come casermoni di periferia, pile di fascicoli traboccanti solerzia e laboriosità certo, quanto una vaga indolenza; e il cui vero scopo era d’attrezzare una barriera, o un confessionale, tale da impedire il reciproco scambio di sguardi quando si rimaneva seduti l’uno di fronte all’altro.
E anche in quel frangente continuò a dissentire dando ragione a voce all’anziano cliente, il quale da mezz’ora si sfogava sciorinando tutte le sue fantasie riguardo a una servitù di passaggio che aveva causato più guai di quanti avrebbero potuto mai essere i vantaggi.
La professione gli aveva regalato una certa praticaccia del mondo: sapeva bene che contenziosi di tal genere esistevano, e resistevano al passar dei lustri, perché per molti una causa in tribunale rimaneva una di quelle occupazioni in grado di dar un senso alla propria esistenza.
Una sorta di [i]litigo ergo sum[/i], per adoperare la più famosa locuzione cartesiana, dove l’autocoscienza e l’esserci sono il risultato diretto del numero di cause incardinate in un’aula di giustizia.
E, in casi del genere, a nulla sarebbe servito opporsi, e l’unica azione possibile non poteva che cercar di soddisfare il patrocinato, e condurre innanzi la controversia, con accanimento, per anni, decadi, [i]sine die[/i].
Dopo aver congedato il vecchio, che arrancava con l'aiuto d'un bastone e pure strisciando i piedi, tornò nella sala d’aspetto che credeva deserta; lo fece più per abitudine che per vero scrupolo, e s’accorse che, invece, vuota non era.
Una donna d'una bellezza avanti negli anni e ormai sfiorita – a cui aveva rimediato con un trucco pesante e di cattivo gusto – sedeva col cappotto ancora indosso in perfetto silenzio.
Valentina, l’eterna praticante tutto fare che lo seguiva da anni nella speranza di associarsi un giorno allo studio, l’aveva lasciata entrare e poi abbandonata s’una seggiola in compagnia di un “Gente” del 2004.
Quindi era andata via – perché il suo indefinito orario di lavoro era trascorso da un pezzo, o perché s'era stufata di montare la guardia alla Fortezza Bastiani –, ma senza dire neanche una parola; né a lui né alla donna, rimasta senza proferire un bah e ad attendere fiduciosa l'arrivo del suo turno.
Da due giorni dormiva poco e male.
Forse a causa di un paio di memorie di replica piuttosto complesse, per le quali non riusciva a tirar fuori il classico ragno dal buco; per cui vagava tra gli impalpabili spazi che dividono un contratto nullo da uno inesistente, ossia la finzione dall'apparenza, e le astruse formule matematiche necessarie a stimare il valore di un diritto di abitazione. Tuttavia lo macerava anche dell’altro, e il suo viso pareva più scarno di quanto non fosse di solito, pur se riempito da una barba di tre giorni; tanto da sembrare invecchiato, appassito, un po’ come la cliente sulla seggiola, sebbene, nonostante l'anello al dito, fosse ancora discretamente corteggiato da alcune colleghe rimaste – o diventate – zitelle sulla soglia della mezza età; per non accennare delle occasionali clienti che approfittavano dell'atmosfera rarefatta del suo studio, e dei suoi modi vagamente premurosi, per farsi audaci.
Quella sera ringraziò i suoi ossessivi rituali, senza i quali avrebbe lasciato la donna chiusa dentro l'appartamento per tornare a casa dalla moglie, e le diede il benvenuto.
«Piacere di conoscerla. Sono l'avvocato Santo Corbera…» si presentò, con affettato ossequio, e le mostrò il cammino.
«Adelina Mancuso sono» ricambiò lei, e si lasciò condurre.
Esercitava la professione da tanti di quegli anni da recitare ormai con sicurezza il suo brogliaccio, in cui aveva scritto che le donne sole frequentavano gli studi legali per tre unici motivi: corna o soldi, o, più di frequente, corna e soldi assieme.
Anime pragmatiche, gli balenò per la mente, e poco inclini alle speculazioni.
Pensiero che gli uscì quasi fuori dai denti, con un sibilo, che riuscì, prima che fosse tardi, a trasformare in un sospiro.
Certo di aver già fatto centro intonò la sua avemmaria: «Mi dica… come posso aiutarla?»
«Mio marito… » esordì lei.
Suppose d’averla già vista tutta quella dolente rappresentazione, con corna reiterate e conseguente richiesta di alimenti stratosferici e fuori dal mondo.
Non che fosse un presuntuoso, ma considerava quello dell’azzeccagarbugli un mestiere che costringeva a conoscere, prima della norma fissata in codici, le persone: ciò che volevano e cosa avrebbero preferito evitare, i loro desideri. Perché dentro al suo studio aveva sentito raccontare storie che la maggior parte della gente non avrebbe confessato neanche in punto di morte. E dunque riteneva, nei confronti del cliente, che l’avvocato avrebbe posto maggiore diligenza comportandosi da adepto di Freud o da seguace di Jung, o di uno di quei nuovi terapeuti cognitivo comportamentali – i quali attendono alla pratica quotidiana, alla soluzione dei problemi, più che indagare sui motivi che determinano tali comportamenti –.
E pertanto, il lavoro che egli ogni volta riteneva di dover svolgere fosse quello di vivisezionare le anime: disassemblarne i pezzi, smontarle per comprenderne il funzionamento e trarne i vari elementi, utili per distinguere il vero dal falso, il bene dal male, l’apparenza dalla realtà, ciò che sarebbe risultato convincente da ciò che non lo era per niente.
«Come faccio a dirglielo… » tentò di spiegare Adelina Mancuso. «Ecco, mio marito da un po’ di tempo… »
«La trascura!» azzardò, con il piglio del [i]sottuttoio[/i].
«No» lo contraddisse. «Il contrario, l’esatto contrario, avvocato. Fefé, Filippo voglio dire, mio marito, lui da qualche tempo è… [i]stracanciatu[/i]» aggiunse, e le venne fuori una sgradevole, gracchiante, vocetta stridula; come se il ricordo avesse suggerito alle corde vocali una diversa, e più acuta, intonazione.
«Ah, si tratta d'un cambiamento, dunque, che lei ha avvertito in suo marito» chiarì a se stesso più che altro.
«[i]Sesé[/i], avvocato… ma prima di questo [i]canciamento[/i], neanche mi parlava. Né [i]mmi sintìa[/i]. Non chiedeva come stavo, né che facevo tutto il santo giorno. Non gli importava… E anche a letto, da un bel pezzo ormai non gli interessava. Che poi, si figuri quanto interessa a me» aggiunse, con sostenuta sufficienza.
E scrollò pure le spalle, come se pure l'idea la disturbasse.
«Ho capito, continui. Vada pure avanti… »
«Ma sempre così è stato, sa? Da poco maritati… indifferente era con me e pure al... ecco… al sesso» sottolineò, con un pudore ipocrita e finto come il biondo platino della sua chioma mossa. «E adesso, invece, si occupa di me, s’informa, gira per casa cortese e gentile, fa il premuroso… e anche a letto... uhhh… sapesse com'è diventato focoso.»
«Ahi, ahi» si lamentò. «Ma che mi dice? Signora, ma che dice?» balbettò, tra l’incredulo e il pensieroso.
Certo stavolta d’aver afferrato tutto e, quindi, di non aver capito nulla.
«Ecco, mi deve credere. Le dico la verità. È diventato... [i]su fi sti ca tu[/i].»
«Sofisticato» recuperò ogni sillaba, l’avvocato.
E con un colpo secco di braccia diede una spinta alla seggiola munita di ruote su cui stava come appollaiato, che s’allontanò dalla scrivania come una barca s’allontana dalla riva per affrontare un mare sconosciuto.
«Signora Mancuso, faccia capire anche a me» provò a domandare, con la veemenza di un procuratore da film americano.
Perché alle otto di sera la sua pazienza s’era ammosciata, e aveva necessità di fatti concreti, più che di sostantivi fumosi e aggettivi ambigui.
«Dunque suo marito, dopo anni di… diciamo distaccato e… infruttuoso matrimonio, finalmente pare accorgersi di lei, le mostra il suo affetto… il suo ardore di uomo. E lei, lei che fa? Viene a lamentarsi da un avvocato?»
«Sissi, proprio» rispose la donna, tutta seria e imbronciata.
«Va be’, va be’, signora Mancuso. Ma da me che è venuta a fare, si può sapere? A farmi perdere il sonno?» la pungolò.
E già aveva preso a selezione varie modalità di punizioni adatte a infliggere una lezione senza pari a Valentina, colpevole di aver fatto entrare una pazza [i]strammata[/i] in studio senza darsene conto.
«Ma lei che ha capito, avvocato?» fece risentita.
E prese a dondolargli in faccia la destra, con le dita giunte al pollice a formare una piramide in movimento.
«Io, come andavano le cose prima, contenta ero, e con lui meno ci stavo… Dall'altro, però, adesso so che quel porco [i]fedigrafo[/i] le corna mi mette!»
«Finalmente! E allora le corna ci sono» tracimò Corbera, giubilante.
E interruppe la conta delle staffilate da assestare alla sua assistente sotto forma di straordinario non pagato.
«Ma che mi viene a dire finalmente, avvocato?»
«È un modo di dire legale, carissima signora Mancuso. Non stia a preoccuparsi dei tecnicismi. Ma ora, torniamo al merito della questione. Come fa a dire che sono corna, se testé m’ha riferito che a suo marito gli è persino ritornato l’appetito sessuale?»
«Appunto! [i]Stracanciatu[/i] per colpa di [i]fimmina[/i] è. Io voglio il divorzio» confermò la signora Mancuso, con un tono risoluto, espressione d'una volontà incrollabile.
«È sicura?»
«Sicurissima, certissima. Chi gliele ha insegnate a quel [i]fedigrafo [/i]quelle cosacce che fa con me? Del tutto nuove sono. Di sicuro prima non le faceva… ‘ste porcate. E poi, come spiegarle, avvocato?»
«E lei ci provi… »
«Mi pare a [i]mmia[/i] che mi usasse per fare… come si dice?» E rimase con la lingua a penzoloni, muta, per qualche attimo, alla ricerca del termine esatto. «Ripetizione!» straboccò, simile a una colata lavica dal cratere di Sudest.
«Ripetizione? E che viene a dire?»
«Ma sì, quella cosa che fanno i carusi a scuola.»
«Ripasso.»
«Ripasso, quella è la parola. Ecco, [i]cu’ mmia iddu[/i] ripassa» esclamò.
«Signora Mancuso, signora Mancuso… » strillò a due riprese, rosso in viso. «Magari [i]du mischineddu[/i] guarda solo qualche [i]filmi[/i] porno.»
Non gli era mai capitato di provare a rimescolare le carte.
«Ma che filmi porno e filmi porno. Prima, ogni tanto, con le [i]bbuttane[/i] ci andava. L’omo è omo, anche ‘n’omo come a [i]llui[/i]. Fotteva e io me ne fottevo, e nulla tra noi era mai cambiato. Adesso, invece... ciò le prove, avvocato!» si difese a tono la donna, ed estrasse dalla borsa, grande come la sacca di un marinaio, un cellulare. «È il telefono del porco [i]fedigrafo[/i], gliel'ho fregato questo pomeriggio e tanto è rimminchionito che pensa d’averlo perso. Ci sono [i]puru[/i] gli [i]semmesse[/i] della [i]bbuttana[/i]. Monica si chiama, la[i] bbuttana[/i].»
«Ahi, ahi. Monica ha detto? Ne è sicura?»
«Sicurissima. Come so che lavora all'[i]inpisi[/i], la[i] bbuttana[/i]. Li vuole vedere gli [i]semmesse[/i]? Qua sono. E c’è pure il numero di telefono… »
«Magari dopo. Magari dopo ne parliamo, signora Mancuso» la fermò ansimante l’avvocato Santo Corbera. «Ma lei nella vita che fa? Lavora?»
«Io no, il porco fa il camionista per i Caleca e basta per tutta la famiglia. Mai nulla ci fece mancare.»
«Accursio Caleca?» chiese pensieroso.
«[i]Sissì[/i], lo conosce?»
L’avvocato accennò un sì con la testa.
«E figli ne avete?»
«Due. Grandi.»
«Suo marito si chiama?»
Adelina Mancuso ripeté il nome.
«È proprio sicura di volersi separare? Sa, glielo dico perché a volte è più comodo voltare la testa, fare finta di niente. Accomodarsi con quello che c’è. Immaginare che nulla sia successo, fingere di non sapere. Chiudere un occhio, mantenere lo statu quo. E col tempo uno neanche ci fa più caso.»
«Eh? Ma che viene a significare, avvocato?»
«Le sto dicendo che alle volte per una coppia l’odio è un collante più forte e duraturo di qualunque altro sentimento. Lo dico contro i miei interessi.»
La donna guardò l’avvocato Santo Corbera contrariata, con la faccia feroce e disgustata.
«Ma che collant e collant, avvocato. In giro mi piglia? Qua di corna parliamo! Io a quel porco maiale lo voglio [i]squartariare[/i]. Mi devo vendicare! Solo così le cose si rimettono a posto e io posso essere felice.»
«Felice... cara signora. La felicità è un vago momento, che poi diventa un ricordo. Vale la pena sacrificare la tranquillità, anche economica, sua e della famiglia per un ricordo?»
«No. Cioè… »
«Sì o no?»
«In effetti ora… sono confusa. Anzi è lei che mi confonde.»
«Signora Mancuso. Non c’è fretta. Vediamo come va con suo marito. Lei gli faccia credere che tutto va bene, ignori i sintomi, aspetti che la malattia svanisca, che il malato rinsavisca, e cerchi di dimenticare» disse, e si alzò.
Si avvicinò alla sedia e accompagnò la signora Adelina alla porta, con nervosa sollecitudine.
È proprio vero, pensò Adelina Mancuso mentre la porta si chiudeva dietro di lei. M'aveva avvertita la mia amica Mariuccia: non andare da un avvocato[i] masculo, picchì ‘ncosciamente[/i] sempre per l’uomo fa il tifo. [i]Fimmina[/i] cercatela... e divorziata per giunta,[i] accussì è cchiù arraggiata[/i].
Anche quella sera l’avvocato Santo Corbera andò a coricarsi prima della moglie.
Prese dal comodino il saggio su Rosmini che stava leggendo e lo aprì al punto segnato.
«Un uomo si riconosce per i libri che possiede» lesse.
Tra gli occhi e la mente si era alzata come una palizzata. Si accorse dopo qualche istante solo della presenza della moglie; alzò lo sguardo e la vide con i soli slip indosso, le braccia alzate ad accogliere la maglietta che stava per infilarsi.
Gli si risvegliò il desiderio.
«Accursio Caleca» disse.
E sentì la propria voce distante, come se fosse un altro a parlare.
La faccia della donna si raggelò in una smorfia di sorpresa.
«Chi te l’ha detto?»
«Ci sono cose che si capiscono senza bisogno che qualcuno debba dirtele.»
Lei cadde in ginocchio, ai piedi del letto, e affondò il viso nelle coperte piagnucolando.
«Dovevi dirmelo! Dovevi fermarmi! Dovevi fare qualcosa.»
«Tu dovevi dirmelo!» la rimproverò.
«Credi che se te lo avessi detto sarebbe stato come se non fosse mai avvenuto?» rispose lei.
Santo Corbera parve non afferrare, e cominciò a dirle del suo amore, nonostante tutto, e della sua sofferenza. A rassicurarla che nulla sarebbe cambiato tra di loro.
Alla fine si avvicinò per abbracciarla.
«Eleonora» disse. «Io ti amo.»
E le sfiorò il braccio.
Ma appena toccata lei si alzò. Prese a ridere; e aveva un ghigno demoniaco, sprezzante, stampato in faccia. Tese la mano destra verso di lui; l’indice e il mignolo si alzarono dal pugno chiuso. Gli occhi si fecero fessure, dalla bocca le uscì il verso del caprone: «Beee… Beee… Beee...»