Cambi di vocali
Inviato: 08/10/2019, 19:26
Resa.
Quello sguardo aveva segnato la sua resa, uno sguardo tenero, finalmente. Da mesi lo attendevo, mesi spesi a corteggiarla, a venerarla, a “farle il filo” come si dice qui da noi. E poi, finalmente, nel momento in cui il sole si trasferiva dietro le montagne per godersi la notte, gli occhi di lei avevano tradito l’abbandono. Nelle mani dell’amore, nelle mie mani. L’aria ancora tiepida dell’autunno le accarezzava il viso e le scompigliava timidamente i capelli. Nemmeno nei miei sogni più arditi l’avevo vista così bella. E un luogo così poco romantico come il parcheggio del supermercato si era trasformato pian piano nel castello delle fiabe. Le auto in sosta ci fecero da testimoni mentre lei piegava il suo viso verso il mio. Quando sentii il calore della sua pelle pensai che tutte quelle vetture avrebbero ricordato a lungo il nostro primo bacio. E sarebbero diventate tutte rosse per la vergogna.
Riso.
Varcammo la soglia. La luce abbagliante del mezzogiorno di luglio ci accecò per un attimo. Fu sufficiente per essere colti di sorpresa. Una nuvola bianca di chicchi di riso ci assalì. Tra i capelli, attraverso il collo della camicia troppo largo, persino dentro le scarpe di cuoio nuove di negozio. Amici e parenti sorridenti avevano atteso, fuori dalla chiesa, che firmassimo la nostra unione davanti a Dio e allo Stato per investirci bonariamente con quel lancio di cereali. Pensai che qualcuno la avrebbe poi dovuta raccogliere, tutta quella coltre bianca, ma immaginai non sarebbe stato il prete, troppo grasso per un lavoro così faticoso. L’auto addobbata a festa ci attendeva davanti al portale. E il ristorante aspettava tutti i nostri invitati. A settantacinque euro a testa.
Raso.
Finalmente la vidi. Era candida, liscissima, sensuale. La sottoveste di raso fece capolino da sotto il vestito da sposa. E in trasparenza si vedeva il completino intimo in pizzo. Lei si spogliò con lentezza, piegando l’abito con attenzione. La macchia di vino rosso, anche se minuscola, si notava, tutta sola com’era, dispersa nel bianco della stoffa. La lavanderia, nei prossimi giorni, l’avrebbe tolta e il vestito, appeso nell’armadio della nostra nuova casa avrebbe testimoniato il nostro amore eterno. Anche la sottoveste finì ben piegata sulla sedia e la sua pelle, così profumata e conosciuta, apparì per stregarmi in quella notte di nozze. La vidi entrare in bagno in mutandine e reggiseno di pizzo. Non l’avrei più vista uscire. Il dispettoso Morfeo mi abbracciò prima che potesse farlo lei, sottraendomi furtivamente la prima notte da sposi.
Rosa.
Lo scotch non tenne. Il fiocco rosa cadde ai miei piedi. Mi venne in mente un’imprecazione ma non uscì dalle labbra, rimase isolata nel cervello. Ritentai con una striscia più lunga. Finalmente il nastro adesivo fece presa sulla porta d’ingresso del condominio. Un biglietto bianco, scarabocchiato dalla mia calligrafia incerta, recitava “È nata Lucrezia”. Mi congratulai con me stesso per la scelta attenta delle parole e per l’originalità del testo. Anche se il nome che avevamo scelto per nostra figlia, ora, mi pareva tanto impegnativo per quella minuscola cucciola d’uomo. Lucrezia: sarebbe diventata bellissima, da grande, sarebbe stata la gioia del papà. Ah, e anche della mamma, dimenticavo! Decisi di tornare in ospedale per riempirmi gli occhi della bellezza della madre e della figlia. Le mie donne. In quel momento il fiocco rosa, abbandonata la stretta dello scotch, planò verso terra schiantandosi per l'ennesima volta sul piano dell’androne.
Risa.
Mi sentivo come la pantera rosa. Mi avvicinai alla stanza. Rumore di risa. Me lo avevano sempre detto gli amici. Ma era una battuta: “non si deve mai tornare a casa, dal lavoro, in anticipo”. E avevano ragione. La porta era semichiusa ma non riusciva a trattenere all’interno della camera i rumori di sospiri e di reti del letto cigolanti. Non credevo di avere bisogno che altri sensi, oltre l’udito, mi confermassero ciò che appariva chiaro anche da lontano. Ma, forse lo spirito masochistico, mi spinse a volere osservare l’interno della stanza. E osservare il suo corpo nudo, verticalmente appoggiato su di un orizzontale uomo, fu esattamente quello che avrei sperato di non vedere. Era bella, lì sopra, bellissima, rideva, sospirava e sembrava felice. Non li disturbai, mi pareva maleducato interromperli.
Rose.
Quante ne avevano messe i fioristi! Una corona gigantesca di rose. Per soli centosettanta euro. Bianche, candide, immacolate. Come lei. Non riuscivo a fermare le lacrime, le sentivo scendere sulle guance e bagnare la giacca. Non è una cosa originale piangere al funerale della propria moglie, ma non sono mai stato un tipo troppo eccentrico. Ci aveva lasciati troppo presto, come avevo fatto scrivere sul manifesto funebre, troppo. Il maresciallo dei carabinieri che mi aveva interrogato la sera prima era d’accordo. Troppo presto. E mi aveva chiesto dove mi trovavo alla tal ora e alla tal altra. Ho avuto l’impressione che sospettasse che avessi fatto del male io a mia moglie.
Non era vero.
Ero stato attento.
Molto attento a non farle del male.
Aveva sofferto pochissimo.
Quello sguardo aveva segnato la sua resa, uno sguardo tenero, finalmente. Da mesi lo attendevo, mesi spesi a corteggiarla, a venerarla, a “farle il filo” come si dice qui da noi. E poi, finalmente, nel momento in cui il sole si trasferiva dietro le montagne per godersi la notte, gli occhi di lei avevano tradito l’abbandono. Nelle mani dell’amore, nelle mie mani. L’aria ancora tiepida dell’autunno le accarezzava il viso e le scompigliava timidamente i capelli. Nemmeno nei miei sogni più arditi l’avevo vista così bella. E un luogo così poco romantico come il parcheggio del supermercato si era trasformato pian piano nel castello delle fiabe. Le auto in sosta ci fecero da testimoni mentre lei piegava il suo viso verso il mio. Quando sentii il calore della sua pelle pensai che tutte quelle vetture avrebbero ricordato a lungo il nostro primo bacio. E sarebbero diventate tutte rosse per la vergogna.
Riso.
Varcammo la soglia. La luce abbagliante del mezzogiorno di luglio ci accecò per un attimo. Fu sufficiente per essere colti di sorpresa. Una nuvola bianca di chicchi di riso ci assalì. Tra i capelli, attraverso il collo della camicia troppo largo, persino dentro le scarpe di cuoio nuove di negozio. Amici e parenti sorridenti avevano atteso, fuori dalla chiesa, che firmassimo la nostra unione davanti a Dio e allo Stato per investirci bonariamente con quel lancio di cereali. Pensai che qualcuno la avrebbe poi dovuta raccogliere, tutta quella coltre bianca, ma immaginai non sarebbe stato il prete, troppo grasso per un lavoro così faticoso. L’auto addobbata a festa ci attendeva davanti al portale. E il ristorante aspettava tutti i nostri invitati. A settantacinque euro a testa.
Raso.
Finalmente la vidi. Era candida, liscissima, sensuale. La sottoveste di raso fece capolino da sotto il vestito da sposa. E in trasparenza si vedeva il completino intimo in pizzo. Lei si spogliò con lentezza, piegando l’abito con attenzione. La macchia di vino rosso, anche se minuscola, si notava, tutta sola com’era, dispersa nel bianco della stoffa. La lavanderia, nei prossimi giorni, l’avrebbe tolta e il vestito, appeso nell’armadio della nostra nuova casa avrebbe testimoniato il nostro amore eterno. Anche la sottoveste finì ben piegata sulla sedia e la sua pelle, così profumata e conosciuta, apparì per stregarmi in quella notte di nozze. La vidi entrare in bagno in mutandine e reggiseno di pizzo. Non l’avrei più vista uscire. Il dispettoso Morfeo mi abbracciò prima che potesse farlo lei, sottraendomi furtivamente la prima notte da sposi.
Rosa.
Lo scotch non tenne. Il fiocco rosa cadde ai miei piedi. Mi venne in mente un’imprecazione ma non uscì dalle labbra, rimase isolata nel cervello. Ritentai con una striscia più lunga. Finalmente il nastro adesivo fece presa sulla porta d’ingresso del condominio. Un biglietto bianco, scarabocchiato dalla mia calligrafia incerta, recitava “È nata Lucrezia”. Mi congratulai con me stesso per la scelta attenta delle parole e per l’originalità del testo. Anche se il nome che avevamo scelto per nostra figlia, ora, mi pareva tanto impegnativo per quella minuscola cucciola d’uomo. Lucrezia: sarebbe diventata bellissima, da grande, sarebbe stata la gioia del papà. Ah, e anche della mamma, dimenticavo! Decisi di tornare in ospedale per riempirmi gli occhi della bellezza della madre e della figlia. Le mie donne. In quel momento il fiocco rosa, abbandonata la stretta dello scotch, planò verso terra schiantandosi per l'ennesima volta sul piano dell’androne.
Risa.
Mi sentivo come la pantera rosa. Mi avvicinai alla stanza. Rumore di risa. Me lo avevano sempre detto gli amici. Ma era una battuta: “non si deve mai tornare a casa, dal lavoro, in anticipo”. E avevano ragione. La porta era semichiusa ma non riusciva a trattenere all’interno della camera i rumori di sospiri e di reti del letto cigolanti. Non credevo di avere bisogno che altri sensi, oltre l’udito, mi confermassero ciò che appariva chiaro anche da lontano. Ma, forse lo spirito masochistico, mi spinse a volere osservare l’interno della stanza. E osservare il suo corpo nudo, verticalmente appoggiato su di un orizzontale uomo, fu esattamente quello che avrei sperato di non vedere. Era bella, lì sopra, bellissima, rideva, sospirava e sembrava felice. Non li disturbai, mi pareva maleducato interromperli.
Rose.
Quante ne avevano messe i fioristi! Una corona gigantesca di rose. Per soli centosettanta euro. Bianche, candide, immacolate. Come lei. Non riuscivo a fermare le lacrime, le sentivo scendere sulle guance e bagnare la giacca. Non è una cosa originale piangere al funerale della propria moglie, ma non sono mai stato un tipo troppo eccentrico. Ci aveva lasciati troppo presto, come avevo fatto scrivere sul manifesto funebre, troppo. Il maresciallo dei carabinieri che mi aveva interrogato la sera prima era d’accordo. Troppo presto. E mi aveva chiesto dove mi trovavo alla tal ora e alla tal altra. Ho avuto l’impressione che sospettasse che avessi fatto del male io a mia moglie.
Non era vero.
Ero stato attento.
Molto attento a non farle del male.
Aveva sofferto pochissimo.