Port Elizabeth

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'autunno 2019.

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Saviani
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Port Elizabeth

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Port Elizabeth


Su quella strada sconosciuta, tra sguardi misti, tra tolleranza e rifiuto, tra compassione e odio, solo camminavo nei miei pensieri per non sentirmi forestiero. Pensavo ai miei amici a migliaia di kilometri, pensavo al mio quartiere, al tram, l’undici, al palazzo Lamperini e così facendo la mente si annebbiava e poco realizzavo di quello che mi circondava, come se fossi in una specie di sogno o forse un incubo. A piedi nudi con indosso la mia giacca pesante, mi sembra di ricordare di un colore rosso intenso e verde come la cravatta, pantaloncino grigio - sotto un sole accecante. La cravatta allentata per il caldo asfissiante, ma devo dire che tra i miei ricordi al caldo non do un peso negativo, anzi.
Quanto dolore nell’anima in quello sconfinato supplizio tra il chi ero e perché ora sono lì e chi sono ora, cosa devo fare, come mi devo comportare. Ma non posso solo evaporare, no, non posso, mia madre ne morirebbe dal dolore. Questo non è il mio mondo, non è la mia gente. Solo, solo, solo. Solo dovrò affrontare la sfida. Solo dovrò combattere le mie paure, mentre mia madre versa fiumi di lacrime, sola, in una casa sconosciuta. Sola, in una sconosciuta vita, sola, in una sconosciuta città.
Le strade mi sembravano deserte e le basse case popolate di misteriosi esseri. L’angoscia di arrivare a quella scuola e trovare il coraggio di entrare senza conoscere una parola della loro lingua, mi distruggeva. Avrei voluto fermarmi, lì, in mezzo a quella via e girarmi, girarmi per correre più veloce del vento da mia madre e unirmi al suo pianto. Ma no, non potevo, le avrei dato un altro problema da affrontare, dovevo farcela. Eccola, la scuola.
Prima di entrare indossai le lunghe e pesanti calze e m’infilai le scarpe.
Entro.
Un vasto spazio con diversi disegni in terra, - col tempo compresi che erano le linee che definivano un campo da cricket, - mi divide dall’austero edificio della scuola. Dove devo andare, cosa devo fare, continuo a camminare e finalmente una suora esce e mi viene incontro. Vero, c’ero già stato qualche giorno prima a visitarla con i miei ma avevo rimosso quel ricordo pensando che non fosse destinata a me, così lontana dal mio concetto di scuola fatta di rumori, di spinte, di risa, di abbracci e di sicurezza, specialmente quando entrava lui, il maestro Sini.
Questa invece era silenziosa, cupa, seria, antica. Un edificio imponente, non alto, ma imponente, come una chiesa inglese del ‘500.
La suora con gentilezza si piega a prendermi le mani e sussurra qualcosa che sa di rassicurante ma che non capisco, e sempre tenendomi per mano mi accompagna in quella che comprendo essere una classe. Tutti si girano a guardarmi e, tra sorrisini e occhiatacce dei maschi, mi presenta a tutti.
Dice il mio nome, Renato, l’unica cosa che capisco.
Da un banco in fondo si sente prima sommessamente e poi, una volta ricevuta l’approvazione della classe con risa e eco ad un volume sempre più alto, quello che da allora in poi sarebbe stato il mio nomignolo, Renato Tomato. La suora reprime questa escalation e mi fa sedere in un banco di solido legno con una bambina, mentre continuavo a sentire in bassofondo quel fastidioso ritornello, Renato Tomato, Renato Tomato.
My first school day.

Tutti i giorni si ripeteva la storia, partivo da casa solo, toglievo scarpe e calze, camminavo, camminavo, camminavo fino alla scuola. Renato Tomato per un’altra mattinata e poi per fortuna il gioco, all’inizio degli altri, ma sapevo che col tempo avrei conquistato un piccolo spazio. Stavo, lì, seduto a guardare, guardare, guardare.
Con il passare dei giorni, la maestra comprese che era impossibile che io venissi colto da illuminazione divina e iniziassi a comprendere l’inglese e l’afrikaans in modo mistico, quindi decise di staccare me e la mia compagna di banco dalla classe, dando a lei il compito di farmi da insegnante seduti su un muretto nel giardino della scuola. Un sollievo per la mia sofferente anima, e lei era veramente simpatica e paziente.
L’avevano munita di libri per bambini della materna, credo, pieni di figure che rappresentavano vari oggetti, lei si metteva lì e indicando il disegno diceva: book, bottle, bicycle, bed, broom e così via, io dovevo ripetere finché non lo dicevo bene. Avevo voglia di uscire da quella situazione di sordo assordato da suoni incomprensibili e così nel giro di poco appiccicavo parole adatte a farmi capire un minimo, aumentando le mie capacità di giorno in giorno con grande stupore della suora.
Purtroppo più aumentavano le mie capacità di comprensione più tempo mi facevano stare in classe. Comunque avevamo conquistato uno spazio fuori durante le lezioni, specialmente di afrikaans, il che suscitava la rabbia di alcuni dei miei compagni. Persino chi era bullizzato prima del mio avvento si riteneva idoneo a bullizzarmi, avevano fatto squadra e anche se a volte la rabbia e la frustrazione mi attanagliavano, dovevo subire o me li sarei trovati tutti contro. Finché un giorno…
Quel giorno, epico e doloroso.
Dietro di me sedeva uno stronzetto afrikaner malvagio che passava la mattinata a punzecchiarmi e a darmi fastidio, sempre, fisso, come una malattia incurabile, costringendomi a maggiori sforzi per comprendere quello che veniva insegnato. Beh, quel giorno mi ribellai. La maestra non guardava mentre tutta la classe era attenta alla scena mi girai sfidandolo apertamente e dandogli una spinta. A quel punto la maestra si rese conto di qualcosa e ci richiamò all’ordine, tornammo nelle nostre posizioni, ma lui non poteva accettare questo mio atteggiamento, rischiava di essere preso in giro e di perdere una posizione dominante nei miei confronti, allora mosso dalla rabbia dell’affronto mi infilò una matita nella schiena per diversi centimetri.
Tutti guardavano la scena mentre io in assoluto silenzio e la maestra, girata verso la lavagna, sembravamo non aver avvertito nulla. Ricordo il dolore lancinante, le lacrime e il grido soffocati e non so chi mi diede la forza, ma portai il mio braccio dietro la schiena, afferrai la matita e la tirai via sporca di sangue, posandola sul banco del mio vigliacco assalitore. Finii la lezione come se nulla fosse. Ancora ricordo che, per fortuna, quel giorno non c’era il doposcuola, quindi presi la strada di casa e una volta solo iniziai a piangere, piangere, piangere, mentre camminavo. Una volta raggiunta casa smisi, mi asciugai il volto, attesi un po’ e poi entrai senza dire nulla a mia madre che vedendo il sangue sulla camicia mi chiese spiegazioni, sostenni di essermi fatto male cadendo. Mi disinfettò, mi mise un cerotto e la cosa per lei finì lì. Per me no. Continuai per giorni ad avere dolore e mi tenevo isolato dagli altri, questo mio atteggiamento involontariamente suscitò un maggiore rispetto nei miei confronti e molti, i più deboli, smisero di intonare Renato Tomato, Renato Tomato. Avevano iniziato ad avere paura di me.

Un giorno uno dei ragazzi più grandi mi chiese di giocare nella sua squadra di palla avvelenata, si giocava esattamente come da noi l’unica differenza era che la palla era quella del cricket, dura come un sasso. Io ero secco e veloce, facevano fatica a beccarmi e quindi diventai in breve tempo la scelta obbligata nella squadra dei più grandi, il problema era che quando ti beccavano faceva veramente male.
Scoprii in seguito che non c’era via di scampo, dovevo mantenere alto il rispetto che mi ero conquistato. Mia madre vedendomi tornare sempre pieno di lividi, decise che era giunto il momento di darmi un’arma per difendermi, decise quindi di interpellare una specie di capoccia della comunità italiana il quale ritenne che il karatè fosse la via giusta per me, così dopo aver conquistato il rispetto a scuola dovevo ripartire da capo in palestra. Botte su botte. Piano, piano, piano crescevo. Port Elizabeth era violenta, io no.
In tutto questo avevo suscitato un certo interesse anche in quei facinorosi ultranazionalisti africani che ci vedevano come feccia comunista e non era raro che andando ad aprire la porta mi arrivassero un paio di cazzotti da gente che aveva più del doppio della mia età, come quella volta che decisero che il mio colore era sbagliato e quindi doveva cambiare. Un bel giorno, un giorno in cui ammiravo animali straordinari come scoiattoli o giganteschi millepiedi o uccelli dai mille colori, mentre rientravo a casa colmandomi della gioia che mi dava un sole splendente, i prati verdi e la rigogliosa natura piena di fiori dai colori esagerati, quel bel giorno, fui catturato da una specie di banda di bianchi locali. Portato a forza in un cortile, mi spogliarono gettando la mia roba in terra e mi legarono ad un palo. Come fossero dei Sioux presero a girarmi intorno e mi davano delle manate che si erano precedentemente cosparse con grasso lucido da scarpe nero. Bel sistema per prendere una abbronzatura che tendeva dal nero al violaceo grazie agli schiaffi.
Io, muto, accettavo, passivo, nella speranza che finissero il prima possibile. Stanchi, e forse poco soddisfatti a causa della mia sopportazione, decisero di rimandarmi a casa un pochino più pulito gettandomi secchiate di acqua addosso, calda. A mia mamma raccontai che era un gioco che si faceva a scuola, tanto sotto i vestiti apparentemente puliti non si vedeva nulla e forse non voleva vedere. Sarebbe stata comunque impotente.
Ricordo che due anni dopo quell’evento tornai a quel giardino e a quella casa, spaccai molti dei vetri e avvelenai l’acquario; forse questo non dovrei dirlo per il rischio di passare dalla ragione al torto ma fui motivato da alcuni, ormai divenuti fedeli amici, molto più grandi di me, che sapendo dell’accaduto ritenevano giusta una vendetta e io non potevo esimermi.

Rimanevano alcune sacche di resistenza, come un bullo grasso e grosso che sedeva tutte le mattine sulle scale di un negozio dove io solitamente compravo una bibita o della carne secca, che puntualmente quando passavo mi faceva lo sgambetto tentando, anche con delle spinte, di gettarmi a terra. Per un periodo non entrai più nel negozio perché altrimenti mi toccava il doppio smacco, in entrata e in uscita, allora ci passavo solo davanti senza però mai dargliela vinta cambiando strada - come lui mi consigliava tutte le volte.
Mi facevo fare lo sgambetto e passavo oltre, tutti i giorni per un tempo infinito. In compenso per comprare le cose che mi piacevano - come appunto la carne secca oppure una grossa arancia con una specie di grossa cannuccia in dotazione, che infilata a forza nel frutto ti permetteva di succhiarlo come una bevanda,… fantastico!, andavo in una specie di negozietto, più adatto ai neri che ai bianchi, dove c’era un sacco di roba strana che non c’era nell’altro negozio organizzato più come un minimarket. Questo cambiamento forzato mi piacque molto, adoravo quel negozio e poi non c’era bisogno di parlare, la tipa sapeva quello che volevo, lo prendevo, pagavo e via senza una parola, tutte le mattine.
Ma un giorno, un bel giorno, con il vento che accarezzava la pelle rendendoti un tutt’uno con quella straordinaria natura, beh quel bel giorno scattò qualcosa che fece cambiare a lui strada. Passandogli davanti accettai l’ennesimo sgambetto e poi mi fermai a guardarlo, senza pronunciare una parola, lo guardavo e lui mi minacciava, ma io non capivo, era come se i suoni fossero attutiti, e poi il vuoto, il vuoto assoluto. Quando mi ripresi lui era disteso in per terra in un mare di sangue, dolorante e piagnucolante, io sopra di lui con tre o quattro ragazzi che cercavano di tirarmi via. Avevo dolore ovunque, non per i colpi presi ma per i colpi dati. Da quel giorno quando io arrivavo lui si alzava e andava via. Forse fu il karatè o forse la nera rabbia a darmi il coraggio di quella reazione, ma mi promisi che non dovevo cedere più a quel nero che offuscava la mente, tanto che ne ebbi paura anch’io - e solo a 10 anni.
Port Elizabeth era violenta e io mi stavo adattando.

E poi la conquista pianificata della fiducia delle suore
Poi le frustate della madre superiora
Poi i primi amorini
Poi il bagno nella vasca con la sorella di Michael
Poi le sassate
Poi il rugby
Poi il serpente affamato
Poi l’amicizia col ragazzo di colore
Poi il tentato furto e tentato omicidio
Poi la storia della ragazza di colore che aiutava mia madre
Poi il delirio della febbre
Poi le arrampicate sugli alberi
Poi i baci che mi davano le ragazze in strada
Poi i giochi in strada, il picchio
Poi la conquista della bici da corsa di Owen
Poi la pesca dello squalo
Poi la raccolta delle ostriche/Poi le scimmie
Poi la prima sigaretta e la caduta nel fiume
Poi l’arrampicata sulla parete di roccia e il lancio nel vuoto
Poi il negozio italiano e l’attesa del nuovo Topolino
Poi il dito tagliato, rotto, schiacciato e poi l’intervento per ricucire il tendine
Poi la violenza/Poi la partenza/Poi San Lorenzo
Poi Renato
Ultima modifica di Saviani il 25/11/2019, 18:34, modificato 5 volte in totale.
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Messaggio da leggere da Lodovico »

Devo dire che avevo cominciato a leggere questo racconto con poca fiducia, nel senso "12.000 caratteri, solo se mi prende ce la faccio" e poi mi ha spiazzato.
Premetto che, per ora, non ho dato e non darò un voto finché non lo avrò metabolizzato. Renato Saviani pare essere il protagonista del racconto e, insieme l'autore. Sarà autobiografica come suggerisce il nome? Spero di no, per Renato Saviani. Ma, andiamo al di là del problema. L'autore, che ne sia protagonista oppure no, apre uno sguardo su quello che è essere straniero in terra straniera, al di là del fatto che si sia africani in terra europea, europei in terra africana o altro. Saviani (scusa se ti chiamo così, ma è il tuo nick) esprime il suo disagio per il fatto di trovarsi in una "Terra" non sua, ma, questa volta, vista dal nostro punto di vista, di chi, per qualche motivo, dalla ricca Europa si sposta in sudafrica (credo di aver capito che sia stato uno spostamento).
Dal punto di vista "letterario" mi aveva preso più il primo paragrafo degli altri, secondo me più sentito. Ma quello che mi è piaciuto di più è tutto il resto della storia che non racconti, ma fai capire con i paragrafi " Poi il", "Poi il".
Come ti ho detto il voto non l'ho ancora dato, ci penso (e non mi capita spesso).
Al di là di questo, complimenti!
Ultima modifica di Lodovico il 17/10/2019, 4:06, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

Bella scrittura, bel racconto.
Straniero in terra straniera, con le differenze e le diffidenze da superare, il duro percorso di formazione che il ragazzo deve affrontare è disegnato in maniera avvincente. Parteggio per lui che, in qualche modo, si sta adattando.
Mi piace lo stile e quell’insistere su parole ripetute per rafforzare i concetti; nel contesto funziona bene. Apprezzabile anche il cambio di tempo passato-presente, rende più dinamica la narrazione, ma perché lo utilizzi solo nell’episodio del primo giorno di scuola?
Diversi refusi, per esempio “disinfetto”, “disinfettò” e ci vedrei bene una virgola, “finché” con l’accento grave invece che acuto, qualche nome proprio con la minuscola, alcune imprecisioni nella punteggiatura.
L’elenco finale sembra la scaletta di un romanzo che si preannuncia molto interessante.
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
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Intervista su BraviAutori.it: https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =76&t=5384
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Massimo Baglione »

Ho come l'impressione che questo sia un autore che "partecipa" solo per farsi commentare, senza partecipare nella lettura e nei commenti verso gli altri autori.
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Giorgio Leone
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Messaggio da leggere da Giorgio Leone »

Massimo sospetta che questo nuovo autore, Renato, sia qui solo per farsi commentare, e allora commentiamolo.
Nell’estate 1991 andai a stare da un amico tedesco in Namibia. Prima, però, feci un lungo giringiro in Sud Africa. Spostandomi da Capetown a Durban, passai solo per Port Elizabet, dedicando molta più attenzione alla Garden Route e alla ferrovia storica, ora in disuso, da George a Knysna via Wilderness. Questo a dire che i posti un po’ li conosco e, anche se Mandela era libero da un anno e l’apartheid ufficialmente finita il 27 aprile, ricordo bene il clima di odio, la sensazione palpabile di violenza repressa, la tensione e il rancore che aleggiavano nell'aria. Per cui non ho nessuna difficoltà a immaginare questo ragazzino, spaesato e impaurito che cammina pensando al tram undici – se si parla di Milano lo stesso che prendevo io a Città Studi quando mi veniva a noia il ventuno – verso il suo destino con un caldo pazzesco. Per sei mesi, infatti, le petroliere che doppiano il capo di Buona Speranza - dove l’Oceano Atlantico "scontra" quello Indiano -, a partire da di Port Elisabeth sentono gli effetti dei monsoni che arrivano dall’India. In città arrivano abbastanza “scarichi”, ma c’è poco da scherzare.
Venendo al racconto mi è piaciuto moltissimo, sia per il contenuto che per la forma. È stupendo avere tante cose da raccontare e avere il dono di raccontarle così bene.
L’elenco finale dei “poi”, sembra un promemoria per altrettanti racconti, magari da cucire infine in un libro. Speriamo di leggerli presto!
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Saviani
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Saviani »

Perchè dire che voglio solo essere commentato? Cosa altro dovrei fare? Questa è la mia prima pubblicazione su un sito a parte uno di poesie, mi sto perdendo qualcosa? Se è così è solo mia ignoranza, quindi, aiuto, aiuto.
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Massimo Baglione
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Massimo Baglione »

Intanto, presentarsi gioverebbe a renderti partecipe e simpatico/a alla comunità :-)
Sei arrivato/a e hai sparato questo tuo testo nella sezione del calendario, dando prova di non esserti minimamente speso/a nel capire cosa, come e perché esistesse quel concorso.
Ti ho scritto in quella sezione del calendario e hai rimediato spostando qui il racconto, senza rispondere nulla in merito al mio messaggio, né chessò, scusarti, o roba simile.
Di solito, ovunque si vada per partecipare a qualsiasi cosa, ci si informa su come fare e ci si presenta.
Così, lo dico solo perché lo hai chiesto, e te lo dico in amicizia, senza alcun tipo di rancore o di attacco personale. Siamo una comunità libera e gioviale, ma seria. Un minimo di etichetta, insomma, è auspicata ovunque, sia qui che nel mondo reale.
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Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Ho letto tutto, racconto e commenti. Devo dire di essere completamente d'accordo con quanto scritto da Massimo, un certo modo, una certa etichetta va tenuta eccome, soprattutto se si considera che il racconto pubblicato parla del dolore che il protagonista della storia ha dovuto subire proprio per la scorrettezza degli altri (diciamo pure per una mancanza totale di etichetta). E allora che si fa? Ci si lamenta, A RAGIONE, e poi... e poi...
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Isabella Galeotti
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Messaggio da leggere da Isabella Galeotti »

Lascio stare le mancanze che sono state fatte dall'autore, che sicuramente provvederà a rimediare. Due parole, solo due perchè il racconto è stato lunghissimo da leggere. Una è che all'inizio mi sono detta " chissà se riesco a terminarlo?" Poi (avverbio a te molto congeniale) poi mi sono ritrovata a divorarlo. Già l'ho divorato, mi è piaciuto, con i suoi refusi e altre anomalie. Molto coinvolgente. Argomento sviscerato da un altro punto di vista. La seconda è: ma l'autore ha vermante vissuto tutto questo? Spero di no per lui povero figliolo. Per terminare, devo pensare a quel numero maledetto che si chiama voto.
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Namio Intile
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ho trovato moltissimi refusi, troppi. Maiuscole per minuscole e viceversa, do con l'accento, trattini dove non servono, puntini di sospensione e, soprattutto, virgole non messe o, peggio, infilate nei posti sbagliati, tanto da rendere difficoltosa la lettura.
Tieni in scarsa considerazione i tempi verbali, e passi di continuo dal presente al passato e viceversa.
Adoperi il PdV del protagonista, e quindi anche il narratore, la voce narrante, è quella del protagonista. Non so però fino a che punto sia un scelta consapevole.
Ti ricordo che il protagonista è un bambino, mentre le considerazioni sembrano essere sempre quelle di un adulto.
Nel finale infatti abbandoni la scelta del PdV del protagonista, e lo fai con quella serie di "Ricordo", dove è appunto l'adulto, in modo definitivo, che ricorda, che sa, considera e interpreta a posteriori, da adulto per l'appunto.
Molta confusione quindi. Ti consiglio una revisione radicale: o il bambino o l'adulto a narrare.
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Saviani »

grazie dei consigli Intile, li terrò in considerazione.
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Messaggio da leggere da Stefyp »

I racconti lunghi sono difficili da gestire. Bisogna tenere alta la curiosità del lettore fino alla fine. I racconti lunghi a volte rischiano di essere racconti brevi mancati. Voglio dire che spesso si può dire quel che si vuole dire in un numero di righe inferiore, basta togliere quel che non serve davvero. Io qui lo avrei fatto e secondo me il tutto ne avrebbe guadagnato. Perchè la storia è una storia che val la pena di essere raccontata. L'uso dei tempi non mi convince sempre.
"Mi infilò una matita nella schiena per parecchi centimetri" difficile da credere...
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Saviani »

"Mi infilò una matita nella schiena per parecchi centimetri" difficile da credere...

Purtroppo Renato paga ancora le conseguenze di quel gesto insano e violentò.
A volte è difficile credere a cose che sono o lontane dal nostro modo di vedere o semplicemente narrate, a volte è solo più semplice non accettarlo. Grazie ogni commento è una crescita.
Saviani
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Saviani »

Ciao Namio,
ho scritto questo pezzo di getto, come spesso succede. Cerco di scrivere secondo l'emozione che il racconto mi suggerisce nel momento stesso in cui lo butto giù. Riconosco i miei forti limiti, ma a volte penso che l'ignoranza sia una parte sottile dell'emozione quando non è stupida. L'emozione è quello che cerco di trasferire e ovviamente non sono uno scrittore, smile. Non so se si capisce. Insieme ad una amica ho rivisto il testo secondo indicazioni da te e da altri ricevute. Ora vi chiedo una cortesia, vorrei sapere da voi se in questo modo, cioè nella versione rivista e corretta, provate lo stesso feeling o se il colore è cambiato. Sarebbe per me un onore sapere cosa ne pensate.
ciao e grazie
Namio Intile
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ho rinvenuto qualche integrazione, che non muta la sostanza di quanto avevo già rilevato.
Quando si trasportano le proprie esperienze personali in un racconto - mi pare questo il tuo caso - , è necessario seguirne le regole. Ho già scritto qualcosa in proposito nel commento al racconto di Isabella Galeotti. Prima di cominciare bisogna aver ben chiaro come si articolerà la narrazione, chi sarà il protagonista e come racconterà la voce narrante, che nel tuo racconto coincidono (l'io narrante). Simili, però non uguali, e pertanto andranno tenuti distinti graficamente; la loro unione genera sempre confusione in chi legge.
E poi, nel racconto biografico, si annida sempre la tentazione di intervenire in prima persona.
Per esempio: "La cravatta allentata per il caldo asfissiante, ma devo dire che tra i miei ricordi al caldo non do un peso negativo, anzi."
Quel devo dire significa che l'autore, tu stesso, aggiungi un'informazione. Non il protagonista, o l'io narrante, ma tu. Se proprio non puoi evitarlo - secondo me nuoce sempre al racconto - inseriscilo tra trattini.
Altro punto debole è quello della concordanza dei tempi. I tempi verbali devono allinearsi tra loro in questo modo: passato e passato, presente e presente. Sebbene in italiano la sua osservanza non sia così tassativa come in latino, è comunque sbagliato passare dal presente al passato (imperfetto, passato remoto, ecc.) e viceversa.
Quanto alle emozioni, concordo con te: l'arte (un racconto in questo caso) deve evocare emozioni; ma saper raccontare è già di per sé un'emozione, anzi è la prima, dietro la quale vanno tutte le altre.
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Saviani »

Grazie.
osservazioni che terrò in considerazione, tutto aiuta a crescere e dovrò sicuramente pensare di unire le emozioni ad una giusta e corretta narrazione. Mi sento più portato alla poesia. Generalmente non condivido nulla di quello che scrivo. Di norma scrivo, rileggo e butto. Questo è un tentativo di condivisione e se sarò all'altezza continuerò, altrimenti sarà come sempre un privato report.
I will take note
Selene Barblan
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Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Leggere questo racconto è stato come vedere una storia attraverso due paia di occhi; quelli del Renato bambino e quelli dell’adulto che scrivendo degli eventi del passato li rivive e ancora ne rimane, comprensibilmente, colpito. Una storia personale è difficile da descrivere; in questo caso posso dire che, nonostante le imprecisioni di cui si è già discusso, il messaggio, almeno per me, è passato. Non solo, ha suscitato in me anche pensieri, ricordi, riflessioni. Secondo me è una buona base sulla quale lavorare (ancora, dato che a quanto pare hai già dato una rilettura al testo). Secondo me la prima parte è quella meglio riuscita, mentre l’elenco finale a me sembra un po’ ridondante (ma è solo un mio parere). Secondo mio giudizio il racconto si lascia leggere e sarebbe bello con un’ulteriore “ripassata”. Voto 3 per me (non stracciarli i racconti, tienili da qualche parte e più riesumali in un secondo momento piuttosto).
Saviani
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Saviani »

Voto 3 per me (non stracciarli i racconti, tienili da qualche parte e più riesumali in un secondo momento piuttosto).
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Selene grazie, ho letto il tuo racconto e per questo apprezzo ancora di più la tua analisi. Temo di snaturare il mio racconto rettificandolo ancora, ho fatto una revisione ma secondo me ha perso un poco di colore anche se ora è meglio di prima in tutto.Mi puoi spiegare meglio cosa intendi per ripassata?
Cosa faresti?
Grazie
Selene Barblan
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Io terrei la struttura così com’è, ma farei delle correzioni nella punteggiatura e nella scelta dei tempi

Pensavo ai miei amici a migliaia di kilometri, pensavo al mio quartiere, al tram, l’undici, al palazzo Lamperini e così facendo la mente si annebbiava e poco realizzavo di quello che mi circondava, come se fossi in una specie di sogno o forse un incubo.

—> Pensavo ai miei amici a migliaia di chilometri (non kilometri), pensavo al mio quartiere, al tram, l’undici, al palazzo Lamperini. Così facendo la mente si annebbiava e poco realizzavo di ciò che mi circondava, come se fossi in una specie di sogno o forse un incubo.

A piedi nudi con indosso la mia giacca pesante, mi sembra di ricordare di un colore rosso intenso e verde come la cravatta, pantaloncino grigio - sotto un sole accecante. La cravatta allentata per il caldo asfissiante, ma devo dire che tra i miei ricordi al caldo non do un peso negativo, anzi.

Qui mescoli un racconto al passato ad un pensiero presente; io metterei ad esempio così:


—->A piedi nudi sotto un sole accecante con addosso dei pantaloncini grigi e la mia giacca pesante, di un colore rosso intenso e verde, come la cravatta allentata per il caldo asfissiante. Non davo però a quel caldo un peso negativo, anzi.

Questo però è un grosso cambiamento e non sono neanche tanto sicura che la mia versione sia corretta... Nel senso che non avendo basi teoriche mi baso più sulla mia esperienza di lettrice e sull’istinto. Non so se mi spiego...



Quanto dolore nell’anima in quello sconfinato supplizio tra il chi ero e perché ora sono lì e chi sono ora, cosa devo fare, come mi devo comportare. Ma non posso solo evaporare, no, non posso, mia madre ne morirebbe dal dolore. Questo non è il mio mondo, non è la mia gente. Solo, solo, solo. Solo dovrò affrontare la sfida. Solo dovrò combattere le mie paure, mentre mia madre versa fiumi di lacrime, sola, in una casa sconosciuta. Sola, in una sconosciuta vita, sola, in una sconosciuta città.

—> Quanto dolore nell’anima in quello sconfinato supplizio, mi interrogavo su chi ero e su chi fossi in quel momento, sul perché fossi lì, cosa dovevo fare e come mi dovevo comportare. Ma non potevo solo evaporare, no, non potevo; mia madre sarebbe morta dal dolore. Quello non era il mio mondo, quelle persone non erano la mia gente. Solo, solo, solo. Solo avrei dovuto affrontare la sfida. Solo avrei dovuto combattere le mie paure, mentre mia madre versava fiumi di lacrime, anche lei sola, in una casa sconosciuta. Sola, in una sconosciuta vita, sola, in una sconosciuta città.

Ecco qualcosa del genere, cosa ne pensi?

Riguardo il finale non capisco se la ripetizione delle ultime cinque strofe è voluta o c’è stato un problema nel copia incolla...
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Un’altra soluzione forse, per tenere i tempi verbali come li hai messi tu ed evitare di modificare troppo il racconto, potrebbe essere separare graficamente quelli che sono i ricordi del passato e quelle che sono le impressioni e reminiscenze presenti... dico questo perché sono un po’ indecisa. Da una parte lo stile che hai usato evoca lo sdoppiamento di cui ti parlavo prima e quindi mi sembra efficace, allo stesso tempo mi confonde e non mi convince del tutto. Scusami, non so quanto ti sono stata utile, forse è meglio se segui i consigli degli altri 😅
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Saviani »

Sei stata utilissima, anzi grazie. Vero è che se il racconto viene messo troppo in "pulito" perde qualcosa, non trovi?
Alcune delle correzioni che hai suggerito le trovo giuste e quindi appena posso mi metto lì e sistemo, altre invece credo che possano allentare quel senso di disagio che Renato prova in quel mondo e in quella situazione.
Grazie, questo tipo di consigli mi aiutano a riflettere, migliorare e crescere. :smt006
Selene Barblan
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Selene Barblan »

si penso sia meglio prendere spunto dai consigli e poi trovare una propria soluzione ☺️ Bene sono felice se in qualche modo ti sono stata d’aiuto 😊 buona scrittura!!
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Eliseo Palumbo
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Messaggio da leggere da Eliseo Palumbo »

L'ho letto due volte, a distanza di due mesi, non ho dato subito un voto perché volevo capirlo per bene.
Dopo una prima e una seconda rilettura, la conclusione è la stessa: racconto autobiografico dove l'autore si è messo a nudo, elencando alla fine una serie di eventi che lo hanno reso quello che è oggi, non so se per incuriosire il lettore o semplicemente perché ne sarebbe venuto fuori un romanzo autobiografico.
Scritto molto bene, è bello

Edit: non sono due mesi pieni, a distanza di 50 giorni
Mostrare ad altri le proprie debolezze lo sconvolgeva assai più della morte

POSARE LA MIA PENNA E' TROPPO PERICOLOSO IO VIVO IO SCRIVO E QUANDO MUOIO MI RIPOSO


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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Giampiero »

Ben strutturato, ottimo lo stile che, con le anafore, incalza il ritmo, rende importante, in quanto musicali, le parole, le frasi. Il dramma, del resto, è ben scandito, riassunto nel finale da “tamburo battente”. Un modo intrigante di presentare una storia.
La paura è un cavallo con le ali: una volta lanciato al galoppo perde il contatto con il suolo e incomincia a volare.
Saviani
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Re: Port Elizabeth

Messaggio da leggere da Saviani »

grazie a tutti. Uno stimolo importante - grazie
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