Port Elizabeth
Inviato: 16/10/2019, 12:37
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Port Elizabeth
Su quella strada sconosciuta, tra sguardi misti, tra tolleranza e rifiuto, tra compassione e odio, solo camminavo nei miei pensieri per non sentirmi forestiero. Pensavo ai miei amici a migliaia di kilometri, pensavo al mio quartiere, al tram, l’undici, al palazzo Lamperini e così facendo la mente si annebbiava e poco realizzavo di quello che mi circondava, come se fossi in una specie di sogno o forse un incubo. A piedi nudi con indosso la mia giacca pesante, mi sembra di ricordare di un colore rosso intenso e verde come la cravatta, pantaloncino grigio - sotto un sole accecante. La cravatta allentata per il caldo asfissiante, ma devo dire che tra i miei ricordi al caldo non do un peso negativo, anzi.
Quanto dolore nell’anima in quello sconfinato supplizio tra il chi ero e perché ora sono lì e chi sono ora, cosa devo fare, come mi devo comportare. Ma non posso solo evaporare, no, non posso, mia madre ne morirebbe dal dolore. Questo non è il mio mondo, non è la mia gente. Solo, solo, solo. Solo dovrò affrontare la sfida. Solo dovrò combattere le mie paure, mentre mia madre versa fiumi di lacrime, sola, in una casa sconosciuta. Sola, in una sconosciuta vita, sola, in una sconosciuta città.
Le strade mi sembravano deserte e le basse case popolate di misteriosi esseri. L’angoscia di arrivare a quella scuola e trovare il coraggio di entrare senza conoscere una parola della loro lingua, mi distruggeva. Avrei voluto fermarmi, lì, in mezzo a quella via e girarmi, girarmi per correre più veloce del vento da mia madre e unirmi al suo pianto. Ma no, non potevo, le avrei dato un altro problema da affrontare, dovevo farcela. Eccola, la scuola.
Prima di entrare indossai le lunghe e pesanti calze e m’infilai le scarpe.
Entro.
Un vasto spazio con diversi disegni in terra, - col tempo compresi che erano le linee che definivano un campo da cricket, - mi divide dall’austero edificio della scuola. Dove devo andare, cosa devo fare, continuo a camminare e finalmente una suora esce e mi viene incontro. Vero, c’ero già stato qualche giorno prima a visitarla con i miei ma avevo rimosso quel ricordo pensando che non fosse destinata a me, così lontana dal mio concetto di scuola fatta di rumori, di spinte, di risa, di abbracci e di sicurezza, specialmente quando entrava lui, il maestro Sini.
Questa invece era silenziosa, cupa, seria, antica. Un edificio imponente, non alto, ma imponente, come una chiesa inglese del ‘500.
La suora con gentilezza si piega a prendermi le mani e sussurra qualcosa che sa di rassicurante ma che non capisco, e sempre tenendomi per mano mi accompagna in quella che comprendo essere una classe. Tutti si girano a guardarmi e, tra sorrisini e occhiatacce dei maschi, mi presenta a tutti.
Dice il mio nome, Renato, l’unica cosa che capisco.
Da un banco in fondo si sente prima sommessamente e poi, una volta ricevuta l’approvazione della classe con risa e eco ad un volume sempre più alto, quello che da allora in poi sarebbe stato il mio nomignolo, Renato Tomato. La suora reprime questa escalation e mi fa sedere in un banco di solido legno con una bambina, mentre continuavo a sentire in bassofondo quel fastidioso ritornello, Renato Tomato, Renato Tomato.
My first school day.
Tutti i giorni si ripeteva la storia, partivo da casa solo, toglievo scarpe e calze, camminavo, camminavo, camminavo fino alla scuola. Renato Tomato per un’altra mattinata e poi per fortuna il gioco, all’inizio degli altri, ma sapevo che col tempo avrei conquistato un piccolo spazio. Stavo, lì, seduto a guardare, guardare, guardare.
Con il passare dei giorni, la maestra comprese che era impossibile che io venissi colto da illuminazione divina e iniziassi a comprendere l’inglese e l’afrikaans in modo mistico, quindi decise di staccare me e la mia compagna di banco dalla classe, dando a lei il compito di farmi da insegnante seduti su un muretto nel giardino della scuola. Un sollievo per la mia sofferente anima, e lei era veramente simpatica e paziente.
L’avevano munita di libri per bambini della materna, credo, pieni di figure che rappresentavano vari oggetti, lei si metteva lì e indicando il disegno diceva: book, bottle, bicycle, bed, broom e così via, io dovevo ripetere finché non lo dicevo bene. Avevo voglia di uscire da quella situazione di sordo assordato da suoni incomprensibili e così nel giro di poco appiccicavo parole adatte a farmi capire un minimo, aumentando le mie capacità di giorno in giorno con grande stupore della suora.
Purtroppo più aumentavano le mie capacità di comprensione più tempo mi facevano stare in classe. Comunque avevamo conquistato uno spazio fuori durante le lezioni, specialmente di afrikaans, il che suscitava la rabbia di alcuni dei miei compagni. Persino chi era bullizzato prima del mio avvento si riteneva idoneo a bullizzarmi, avevano fatto squadra e anche se a volte la rabbia e la frustrazione mi attanagliavano, dovevo subire o me li sarei trovati tutti contro. Finché un giorno…
Quel giorno, epico e doloroso.
Dietro di me sedeva uno stronzetto afrikaner malvagio che passava la mattinata a punzecchiarmi e a darmi fastidio, sempre, fisso, come una malattia incurabile, costringendomi a maggiori sforzi per comprendere quello che veniva insegnato. Beh, quel giorno mi ribellai. La maestra non guardava mentre tutta la classe era attenta alla scena mi girai sfidandolo apertamente e dandogli una spinta. A quel punto la maestra si rese conto di qualcosa e ci richiamò all’ordine, tornammo nelle nostre posizioni, ma lui non poteva accettare questo mio atteggiamento, rischiava di essere preso in giro e di perdere una posizione dominante nei miei confronti, allora mosso dalla rabbia dell’affronto mi infilò una matita nella schiena per diversi centimetri.
Tutti guardavano la scena mentre io in assoluto silenzio e la maestra, girata verso la lavagna, sembravamo non aver avvertito nulla. Ricordo il dolore lancinante, le lacrime e il grido soffocati e non so chi mi diede la forza, ma portai il mio braccio dietro la schiena, afferrai la matita e la tirai via sporca di sangue, posandola sul banco del mio vigliacco assalitore. Finii la lezione come se nulla fosse. Ancora ricordo che, per fortuna, quel giorno non c’era il doposcuola, quindi presi la strada di casa e una volta solo iniziai a piangere, piangere, piangere, mentre camminavo. Una volta raggiunta casa smisi, mi asciugai il volto, attesi un po’ e poi entrai senza dire nulla a mia madre che vedendo il sangue sulla camicia mi chiese spiegazioni, sostenni di essermi fatto male cadendo. Mi disinfettò, mi mise un cerotto e la cosa per lei finì lì. Per me no. Continuai per giorni ad avere dolore e mi tenevo isolato dagli altri, questo mio atteggiamento involontariamente suscitò un maggiore rispetto nei miei confronti e molti, i più deboli, smisero di intonare Renato Tomato, Renato Tomato. Avevano iniziato ad avere paura di me.
Un giorno uno dei ragazzi più grandi mi chiese di giocare nella sua squadra di palla avvelenata, si giocava esattamente come da noi l’unica differenza era che la palla era quella del cricket, dura come un sasso. Io ero secco e veloce, facevano fatica a beccarmi e quindi diventai in breve tempo la scelta obbligata nella squadra dei più grandi, il problema era che quando ti beccavano faceva veramente male.
Scoprii in seguito che non c’era via di scampo, dovevo mantenere alto il rispetto che mi ero conquistato. Mia madre vedendomi tornare sempre pieno di lividi, decise che era giunto il momento di darmi un’arma per difendermi, decise quindi di interpellare una specie di capoccia della comunità italiana il quale ritenne che il karatè fosse la via giusta per me, così dopo aver conquistato il rispetto a scuola dovevo ripartire da capo in palestra. Botte su botte. Piano, piano, piano crescevo. Port Elizabeth era violenta, io no.
In tutto questo avevo suscitato un certo interesse anche in quei facinorosi ultranazionalisti africani che ci vedevano come feccia comunista e non era raro che andando ad aprire la porta mi arrivassero un paio di cazzotti da gente che aveva più del doppio della mia età, come quella volta che decisero che il mio colore era sbagliato e quindi doveva cambiare. Un bel giorno, un giorno in cui ammiravo animali straordinari come scoiattoli o giganteschi millepiedi o uccelli dai mille colori, mentre rientravo a casa colmandomi della gioia che mi dava un sole splendente, i prati verdi e la rigogliosa natura piena di fiori dai colori esagerati, quel bel giorno, fui catturato da una specie di banda di bianchi locali. Portato a forza in un cortile, mi spogliarono gettando la mia roba in terra e mi legarono ad un palo. Come fossero dei Sioux presero a girarmi intorno e mi davano delle manate che si erano precedentemente cosparse con grasso lucido da scarpe nero. Bel sistema per prendere una abbronzatura che tendeva dal nero al violaceo grazie agli schiaffi.
Io, muto, accettavo, passivo, nella speranza che finissero il prima possibile. Stanchi, e forse poco soddisfatti a causa della mia sopportazione, decisero di rimandarmi a casa un pochino più pulito gettandomi secchiate di acqua addosso, calda. A mia mamma raccontai che era un gioco che si faceva a scuola, tanto sotto i vestiti apparentemente puliti non si vedeva nulla e forse non voleva vedere. Sarebbe stata comunque impotente.
Ricordo che due anni dopo quell’evento tornai a quel giardino e a quella casa, spaccai molti dei vetri e avvelenai l’acquario; forse questo non dovrei dirlo per il rischio di passare dalla ragione al torto ma fui motivato da alcuni, ormai divenuti fedeli amici, molto più grandi di me, che sapendo dell’accaduto ritenevano giusta una vendetta e io non potevo esimermi.
Rimanevano alcune sacche di resistenza, come un bullo grasso e grosso che sedeva tutte le mattine sulle scale di un negozio dove io solitamente compravo una bibita o della carne secca, che puntualmente quando passavo mi faceva lo sgambetto tentando, anche con delle spinte, di gettarmi a terra. Per un periodo non entrai più nel negozio perché altrimenti mi toccava il doppio smacco, in entrata e in uscita, allora ci passavo solo davanti senza però mai dargliela vinta cambiando strada - come lui mi consigliava tutte le volte.
Mi facevo fare lo sgambetto e passavo oltre, tutti i giorni per un tempo infinito. In compenso per comprare le cose che mi piacevano - come appunto la carne secca oppure una grossa arancia con una specie di grossa cannuccia in dotazione, che infilata a forza nel frutto ti permetteva di succhiarlo come una bevanda,… fantastico!, andavo in una specie di negozietto, più adatto ai neri che ai bianchi, dove c’era un sacco di roba strana che non c’era nell’altro negozio organizzato più come un minimarket. Questo cambiamento forzato mi piacque molto, adoravo quel negozio e poi non c’era bisogno di parlare, la tipa sapeva quello che volevo, lo prendevo, pagavo e via senza una parola, tutte le mattine.
Ma un giorno, un bel giorno, con il vento che accarezzava la pelle rendendoti un tutt’uno con quella straordinaria natura, beh quel bel giorno scattò qualcosa che fece cambiare a lui strada. Passandogli davanti accettai l’ennesimo sgambetto e poi mi fermai a guardarlo, senza pronunciare una parola, lo guardavo e lui mi minacciava, ma io non capivo, era come se i suoni fossero attutiti, e poi il vuoto, il vuoto assoluto. Quando mi ripresi lui era disteso in per terra in un mare di sangue, dolorante e piagnucolante, io sopra di lui con tre o quattro ragazzi che cercavano di tirarmi via. Avevo dolore ovunque, non per i colpi presi ma per i colpi dati. Da quel giorno quando io arrivavo lui si alzava e andava via. Forse fu il karatè o forse la nera rabbia a darmi il coraggio di quella reazione, ma mi promisi che non dovevo cedere più a quel nero che offuscava la mente, tanto che ne ebbi paura anch’io - e solo a 10 anni.
Port Elizabeth era violenta e io mi stavo adattando.
E poi la conquista pianificata della fiducia delle suore
Poi le frustate della madre superiora
Poi i primi amorini
Poi il bagno nella vasca con la sorella di Michael
Poi le sassate
Poi il rugby
Poi il serpente affamato
Poi l’amicizia col ragazzo di colore
Poi il tentato furto e tentato omicidio
Poi la storia della ragazza di colore che aiutava mia madre
Poi il delirio della febbre
Poi le arrampicate sugli alberi
Poi i baci che mi davano le ragazze in strada
Poi i giochi in strada, il picchio
Poi la conquista della bici da corsa di Owen
Poi la pesca dello squalo
Poi la raccolta delle ostriche/Poi le scimmie
Poi la prima sigaretta e la caduta nel fiume
Poi l’arrampicata sulla parete di roccia e il lancio nel vuoto
Poi il negozio italiano e l’attesa del nuovo Topolino
Poi il dito tagliato, rotto, schiacciato e poi l’intervento per ricucire il tendine
Poi la violenza/Poi la partenza/Poi San Lorenzo
Poi Renato