Il Calvario, di uno scrittore di gialli
Inviato: 02/01/2020, 12:14
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Sistemo sul giradischi la [i] Matthäus Passion [/i] di Bach; la gigantesca [i]lectio divina [/i] si erge dal silenzio per descrivere il legame con la Parola che dà Vita.
E mi metto a girare in mutande per casa: dalla cucina al soggiorno, dallo studio al bagno, e davanti alla specchiera mi fermo di botto.
Mi attirano le luci intermittenti dell'albero di Natale; quel maledetto abete di plastica mi ricorda l'avvento delle feste di fine anno.
Peccato non avere più quattro anni, mi rammarico.
Mi avvicino, e il mio riflesso si sostituisce all'altro: sgrano gli occhi e a stento mi ritrovo tra i radi capelli bianchi e le borse sotto gli occhi, il viso gonfio e la canottiera rosa nero che non riesce più a nascondere il ventre grasso. E so di avere l'alito cattivo.
«Certo non sono un gran bello spettacolo» brontolo, e ravvivo la zazzera con due rapide lisciate.
«Odio le feste» mi esce come un conato.
E gli auguri vuoti, i sorrisi finti, gli oggetti inutili, la cattiva compagnia, penso poi.
Byron mi osserva sornione dalla cesta di vimini colma di spartiti ai piedi del Kawai a mezza coda. Sembra averla un'anima lui. Di sicuro la mia s'è persa, insieme alla fede.
Odio la religione, come la magia la scienza la mitologia, stupidi tentativi razionali di spiegare l'universo; e la fede poi, cosa diavolo sarebbe?
Torno al mio portatile: il cursore lampeggia sullo schermo e sembra un metronomo che scandisce i due quarti.
Per ingannare l'ispirazione che manca decido di partecipare a un concorso per aspiranti scrittori – in quel forum che solletica le mie velleitarie ambizioni – con l'obbligo di un numero limitato di parole.
Come in ogni [i]short story[/i] vige il primato dell'effetto, della trovata che colpisca il lettore, del particolare tecnico che risolva il finale. Invariabilmente a danno dell'opera nel suo insieme, un tempo culla dell'Idea, oggi tutt'e due liquidate come retaggio del passato, superflue e noiose.
Ma tant'è, mi cimento nell'improbabile tema natalizio: la fede.
«Vestiva di nero» provo a scrivere, «in quell'eterno lutto che ricorda la vita attraverso la morte.
Diciott'anni e una piccola creatura attaccata al seno, che il suo 'Gnazio non aveva fatto in tempo a veder nascere. Era partito per la Merica, con la promessa di tornare con qualche soldo in tasca, quanto bastava per comperare un fazzoletto di terra con una casetta di pietra, per tenere viva la speranza in quel paese sconfitto da una miseria senza fine e senza ragione.
"Dio solo sa quanto è lontana la Merica" aveva mormorato Maria nel suo dialetto, prima che lui partisse.
"Torno presto, non temere" le aveva promesso sul marciapiede della stazione, diretto a Palermo, dove l'attendeva il piroscafo per cambiar vita.
"Tu aspettami e, se ti manco troppo, guarda il mare e pensa a me".
Maria abbassò i tristi occhi neri e promise: "Lo guarderò, e pure se tu sarai dall'altra parte del mondo sarà il mare a tenerci uniti".
L'osservò ogni giorno, a cominciare da quello della sua partenza. E poi piangeva, lasciando che le lacrime si confondessero con gli spruzzi d'acqua salata che le frustavano il viso.
Era trascorso un mese senza sue notizie, poi due, tre. E non riusciva a pensare che fosse morto o che si fosse dimenticato di lei, nonostante le zitelle invidiose incontrate sul sagrato la consolassero con parole livide che approfondivano quella voragine nel petto. Solo la fede in Dio e la fiducia nel suo 'Ganzio le impedivano di farla finita.
Una mattina arrivò una lettera, con degli strani francobolli; belli, lucenti, con una bandiera colorata e allegra a stelle e strisce. Era il suo 'Gnazio che le scriveva da un posto chiamato Broccolino, proprio come quella contrada nelle campagne di Calatafimi. Le scriveva di tutto il suo amore e di quel luogo dove i palazzi erano di vetro e alti come montagne. Le raccontò che lì tutti erano ricchi, e ogni casa, col bel pavimento di legno, era riscaldata da bracieri senza carbone attaccati alle pareti, e nessuno moriva mai di fame.
Maria si sentì rinascere mentre il signor parroco le leggeva quelle righe con pazienza, perché a ogni uno e due lei voleva che ripetesse daccapo, per gustare come fossero di miele quelle parole che venivano fuori dalla carta. Le lettere cominciarono ad arrivare puntuali come il giorno del Signore, ogni settimana, e Maria festeggiava il loro arrivo come la Pasqua di Resurrezione. Afferrava la busta e l'annusava, credeva di poterli sentire gli odori di quel paese lontano, come quello del suo 'Gnazio, e accarezzava la carta, morbida come la stoffa dei vestiti dei signori. Finché un giorno le scrisse che quasi si era levato dalla testa di tornare in Sicilia. Maria si sentì confusa, pure se lui le aveva promesso che avrebbe inviato dei biglietti per farla partire con la piccola Nunzia. Agitava il suo cuore il timore di lasciare l'unico luogo che avesse mai conosciuto e a cui appartenesse, e il pensiero per la vecchia madre, la sola persona che le era rimasta dopo la morte del padre in un naufragio difronte la Calibia. Ma il tempo passava e 'Gnazio non tornava, né mandava i biglietti che aveva promesso. Sei mesi, un anno, e le solite vecchie zitelle avevano ripreso le loro ciarle cariche di astio: si è fatto una moglie mericana, vi sta prendendo in giro. Un giorno arrivò una grande scatola. Dentro, insieme a tanti vasetti di vetro colmi di conserve dai nomi sconosciuti, v'erano due spessi rettangoli di cartone.
"Maria! Sono i biglietti per la Merica" strepitò felice il parroco. Agitò i biglietti con la destra e s'allargò in un sorriso senza denti.
"Solo andata Maria!"
"Solo andata" gli fece eco lei, gli occhi neri appannati di pianto.»
M'esce una smorfia di disgusto. «Una poltiglia zuccherosa fitta d'amore e speranza. Alla mancanza di fede supplisco con la bravura.»
Mi alzo e continuo a pensarci: eh sì, se l'ho persa non è proprio colpa mia, ma di quel bisogno d'esporre di continuo il suo contrasto, o la sua concordia, con il sapere o la ragione. La fede è in fondo un concetto privativo, ne sono sicuro, inutile quindi perderci il sonno.
Fuori il sole sta tramontando dietro le montagne.
Forse l'unica verità è il desiderio di autoconservazione, e l'affermazione illimitata del Sé, penso.
Afferro lo Zacapà ed esco in terrazza.
La casa è circondata da un centinaio di grinzosi ulivi saraceni, al centro d'un perimetro per tre lati chiuso da una rete metallica, occultata da alte crescite di pittospori e buganvillee ancora in fiore, bignonie e piombaggini colorate; nel quarto si affaccia sulla scogliera, che digrada ripida verso il mare tra cespugli di lentischi, ampelodesmi e palme nane. Mi attacco alla bottiglia, la mia lucidità si fa nebbia e il romanzo del secolo si scrive da solo, senza fatica.
Mi sveglio di botto, afferro l'orologio.
La solita storia, penso sconsolato.
Sfioro la spaziatrice e adocchio lo schermo, con il cursore a lampeggiare sul mio incipit, tristemente dove l'avevo lasciato.
«L'aria fredda del pomeriggio odorava di terra bagnata» inizio a leggere, «il cielo novembrino s'apriva e chiudeva a tratti e si specchiava sulla superficie immobile del mare, con tutte le sfumature del grigio e dell'azzurro.
Da ore il convoglio avanzava senza fretta lungo le curve boscose della costa che si tuffavano dentro a un mare color dell'olio, e a ogni stazione si fermava ad attendere il transito delle coincidenze in senso inverso.
A San Giovanni di Chiomonte, un centinaio di case variopinte abbarbicate a un costone roccioso a dirupo sul mare e separate dalla ferrovia da un ripido pendio, l'unico a scendere fu un uomo sulla quarantina.
Il viaggiatore si voltò verso la lunga striscia di silicio chiaro su cui sciabordava senza sosta il mare e, dopo aver attraversato i binari, notò che non vi era anima viva all'infuori del capostazione e di un uomo seduto sopra una panchina, sotto una grande palma mezza divorata dal punteruolo rosso.
Si avviò per l'uscita con un piccolo trolley, che sobbalzava e strisciava a ogni passo sull'asfalto ormai disfatto della banchina, e un borsone a tracolla; ed ebbe l'impressione d'esser capitato in uno di quei luoghi deserti che si incontrano, a volte, nelle pellicole americane quando, con la solitudine del paesaggio, il regista suggerisce quella personale, intima, del protagonista.
Prima di poter varcare il cancello, macchiato da chiazze di ruggine da formare quasi una fantasia a pois, l'uomo sotto la palma lasciò cadere di malavoglia la sigaretta che teneva sospesa tra le labbra.
Poi si alzò. Proprio a lei stavo aspettando, disse.»
Qui ci vuole una bella svegliata, e il pensiero interrompe il suono delle parole.
Mi infilo sotto la doccia, l'acqua tiepida mi ristora, e a che ci sono svuoto pure la vescica.
«Se mi vedesse Elena, quanto si incazzerebbe» gongolo.
Sposto il miscelatore alla mia destra e l'acqua fredda mi dà una scossa; esco, mi asciugo, mi secca persino infilarmi le mutande. In cucina cerco quello che mi ha preparato la serva per pranzo.
Sul tavolo niente, in frigo idem.
«Dove diavolo l'avrà nascosta la mia cena, Olga?» Mi viene fuori con una nota acida, al limite dell'isterico.
Apro il forno, e adocchio la preda.
«Solo questo sa fare, la stronza? Ma dopodomani a 'sta deficiente gliene dico quattro gliene dico» e apparecchio la teglia sul tavolo.
Prima però faccio un giro in cantina: afferro una bottiglia di Gran Cru barricato; faccio a meno delle posate e vado avanti con le mani.
«Tanto pollo è» ridacchio. «Se mi vedesse Elena, quanto si incazzerebbe» bofonchio.
Esco di nuovo, il libeccio rende la serata tiepida, come spesso accade in Sicilia a dicembre. Respiro sollevato. Chiamo Lapo, il cane di mia moglie, che accorre scodinzolando.
Mi fa le feste contento, mi salta addosso, sbavando tra guaiti di gioia
Elena non mi ha raccomandato altro: [i] non dare le ossa di pollo a Lapo, che gli possono tagliare gli intestini e può morire, il bello di mamma. [/i]
«Vieni, amore santo. Vieni qui» gli faccio segno. «Quanto sono buone queste ossa di pollo?»
Aspetto che spazzoli tutto, per esser sicuro che non rimangano prove a mio carico.
È già buio, mi affaccio alla ringhiera lato mare e ascolto il ruzzolare delle onde sugli scogli, il pulviscolo salmastro mi avvolge e l'ansia scorre via, in questo rifugio fuori dal mondo ma dotato d'ogni moderna comodità.
«Alla faccia dell'inverno, domani mi butto a mare» e allargo le braccia come un [i]parrino[/i].
Con la mano del [ Signoruzzo può darsi che la ritrovo la fede, cerco di consolarmi.
Da depresso professionale ingurgito una pasticca di lorazepam insieme a due di paroxetina. Non faccio in tempo a rientrare che sento il cellulare squillare.
D'istinto lo cerco sopra qualche ripiano, poi mi ricordo che nella casa al mare non c'è campo e i cellulari fanno da natura morta.
Suona con arroganza, il [i]cordless [/i] lo trovo e guardo il numero: è Elena che mi chiama col suo di cellulare.
«Pronto?»
«Stavo per riattaccare. Pensavo che te ne fossi uscito» mi rimprovera.
Sento la sua voce carica di rabbia, il tono fermo d'accusa, e subito mi piglia il nervoso.
«Ma quando mai. Stavo scrivendo, anzi mi hai rotto la concentrazione» provo a cambiare le carte in tavola, ad andare sopra invece di finire sotto.
E infatti: «Mi spiace, Turi» mormora lei.
Ma capisco che non è vero rimorso, se la conosco come la conosco io, proprio perché minimizza e non rintuzza, so che ha da dirmi qualcosa di spiacevole.
«Tu non sai quanto è faticoso scrivere, trovare sempre le parole adatte» la provoco, cercando il contropiede. «E la trama, l'intreccio, la concordanza dei tempi… Un calvario.»
«Hai deciso di metterti tu in aspettativa, per dedicarti al romanzo della tua vita.»
Ha abboccato all'amo, penso soddisfatto.
Comincio a girare il mulinello.
«Sono alla ricerca d'una trama sublime dentro a un romanzo perfetto, tesoro. Non sto scrivendo un romanzetto qualsiasi.»
«Sempre ragione tu hai. Comunque, non ti ho chiamato per litigare, e guarda: stasera a casa non rientro. Anzi, dormo a casa, in città» e sottolinea quelle due parole con meditata perfidia.
«A casa, in città» ripeto, facendo finta di non aver capito. «E perché mai dovresti?» Mi sforzo di farle comprendere il mio disappunto.
«Ma il perché lo sai» sbotta infastidita. «Ogni giovedì esco con le amiche. Poi si fa tardi, magari bevo, e quindi rimango in città. Torno domani sera, per il week-end.»
«Divertiti allora» provo col sarcasmo.
«Cosa vuoi dire?»
Mi manca il coraggio. «Nulla; tu che hai capito?»
«Hai voluto tu rimanere nella casa al mare, per scrivere il tuo capolavoro» mi rinfaccia. «Per scoprire, cullato dalle onde, l'unica verità, quella dell'artista. Sono parole tue!»
Dopo essere riuscito a farla arrabbiare mi viene a mancare di botto l'entusiasmo e desidero solo troncare la conversazione.
Non ho mai amato litigare. Sono un tipo pacifico, che non farebbe del male a una mosca, nemmeno per errore.
«E infatti sta venendo benissimo.»
«Ti mancano le palle, sei solo un depresso cronico» mi sferza, indisposta dal mio dietrofront.
Anche questo discorso non mi conviene. «Ci vediamo domani sera, tesoro, e buon divertimento» taglio corto, ma senza rinunciare al contropelo.
«Non osare chiudermi il telefono in faccia, ricordati chi è a manten…»
«Se l'è cercata» dico, mentre tronco la conversazione.
«Sempre là va a parare, ringrazia il cielo che sono un santo» mi viene da gridare.
Ti possa andare di traverso la tua maledettissima serata tra amiche, le auguro in silenzio.
Che poi lo so bene cosa dicono di me quelle quattro arpie: [i]che sono così intelligente, a volte anche troppo, tanto da essere indistinguibile da un cretino. [/i]
Brutte stronze. L'amore è sempre una debolezza, penso. E io troppo la amo. Fin dall'asilo ci dovrebbero addestrare, ma a farci i cazzi nostri.
«Un sano egoismo, altro che altruismo; invece che compassionevoli bisognerebbe esser crudeli» strepito.
E mi vado a sedere sopra la bella poltrona di cuoio nero nello studio, eredità, come la villa e l'appartamento in città, del padre di Elena, primario di nefrologia al Policlinico di Palermo.
Mi odiava proprio, quello stronzo, ricordo, per fortuna un infarto renale ha risolto l'imbarazzo reciproco.
E ricomincio dalla pagina bianca in cui mi sono arenato. Mi alzo, vado a prendere quel magnifico rum filippino speziato di cui è meglio non far nota del nome: rimetto a posto Bach e, nella collezione di vinili del suocero, cerco dei bei motivi allegri.
Scelgo l'album [i]Raise [/i], degli Earth, Wind & Fire, che attaccano [i]Let's Groove [/i]
Meglio non fare paragoni con la musica di quegli smidollati pieni di alcool, anfetamine e tatuaggi di oggi. Gioventù bruciata, decido.
Byron mi osserva dal divano con le sue fessure verticali e i bei mustacchi bianchi.
Alle volte credo che sia lui l'unica persona in grado di capirmi per davvero.
Lo lascerei ai gatti questo mondo giuda, penso.
E mi rollo una bella canna.
Tutta roba naturale, osservo contento.
Con [i]Kalimba Tree [/i] mi viene da ballare, ma Tio Pepe mi ha sbronzato di brutta. Alzo il culo e dallo sfintere mi esce un bel do maggiore lungo e profondo.
«Viene proprio bene» mi conforto, dopo una pagina fitta fitta di caratteri. E mi incalza la voglia di granita alle [i]mennole [/i].
«Un vero capolavoro, alla faccia tua, Elena.»
E averla evocata mi fa pensare a lei. Al giorno in cui ci siamo conosciuti, ai progetti, a quando siamo andati a vivere insieme, al suo realizzarsi nel lavoro, con un redditizio studio da commercialista. E al mio appassire dietro lo sportello raccomandate delle Poste di via Perez, nella nostra bella Palermo.
«Solo io, il mare e il mio portatile. Diventerò famoso» faccio sapere al cielo scuro. «Pure se sono stufo di far scorrere la mia vita sui binari del [i]success or failur [/i], come esige la moderna società.»
Mi rimetto a battere sui tasti, il tempo scorre, mi ferma solo un crampo alla mano.
Byron s'è alzato, stira il bel corpo bianco allungando le zampe anteriori, e mi pare che scuota la testa. Va verso la porta. Intuisco il suo desiderio d'andare incontro alla notte, e lo accontento.
Lui sì che è in contatto con l'Aperto, penso.
E lo invidio, come un misero mortale gli dei dell'Olimpo.
Prendo il telefono e chiamo Elena a casa.
A quest'ora sarà rientrata, mi conforta il pensiero. Magari le chiedo scusa della mia stronzaggine, dopotutto è lei che paga tutti i conti.
«Pronto?» Risponde una voce maschile.
Ho un sobbalzo, il cuore comincia a battermi a mille. Mi afferra una specie di vertigine, i miei evanescenti presentimenti si trasformano in crudi fatti, all'improvviso mi sento disperato, perduto, travolto e sormontato da una spessa marea nera.
«Chi è lei? Pronto… ma con chi parlo?» Balbetto.
L'uomo attacca il telefono.
Mi prende il panico, e ricompongo di fretta il numero.
«Pronto?» Stavolta sento la voce di lei, non so se sentirmi sollevato o frustrato e, nel frattempo, scoppio.
«Chi era quell'uomo? Dimmi chi era!»
«Ma quale uomo?» Si finge stupita.
«Quello che mi ha chiuso il telefono in faccia quando ho chiamato, due secondi fa.»
«Ma se hai chiamato solo adesso, Turi. E poi grazie, sono tornata a casa e sto bene» aggiunge, e riesce a spezzare la tensione.
La sua voce è sicura, calma, cristallina, suadente persino, e calda.
«Avrò sbagliato numero» arrangio delle scuse.
«Ti sei ubriacato ancora, dì la verità… Tanto per trovare l'ispirazione, no?» Affonda il dito nella piaga.
«È stata una lunga nottata di scrittura» mi limito a risponderle. «Sono distrutto e me ne vado a letto. Domani quando torni?»
«Se me la penso lascio detto in studio che mi prendo un giorno. Non credo di avere appuntamenti. Comunque, domattina ti do la conferma.»
«Allora ci vediamo domattina, tesoruccio» le rispondo, sollevato e rinfrancato.
«Ah, senti. Olga cambia giorno di riposo, le ho raccomandato di non disturbarti. Buonanotte anche a te, gioiamia» e chiude senza neanche sentire la mia risposta.
«E quando mai mi ha chiamato gioia mia?» Rifletto a voce alta.
Ogni giovedì, mormora una vocina dentro di me.
Però mi ama, penso, e la certezza del suo amore, delle sue braccia accoglienti, mi dà sicurezza. Sono un perdente, un vigliacco, uno smidollato, non faccio fatica ad ammetterlo.
Poi guardo l'orologio e quel tre somiglia a un otto, ma rimane sempre un tre. Tre e tre quarti.
Mi butto sul letto, nudo come un verme, e mi faccio uno Xanax.
Sogno Faulkner che incontra Jo Fante e gli fa le lodi del mio romanzo: Furore.
Sogno Elena, continua a offrirmi serenità, pure se invecchiata è sempre bella e desiderabile e chiunque potrebbe ancora…
Mi alzo di botto. Ho quel sapore speziato ancora in bocca. Riempio un bicchiere d'acqua e ci verso dell'anice. La testa mi gira alla velocità d'un satellite.
Penso alla mia opera, alle aspettative che ho fatto nascere. Successo o fallimento? Tutto si riduce a questo.
So di dover concludere in fretta qualcosa.
E alla telefonata della notte.
È giorno fatto. Guardo l'orologio.
Le dodici passate, penso.
Byron ronfa accanto a me con una smorfia soddisfatta.
Ma non l'avevo fatto uscire ieri sera? Cerco di ricordare.
Ha un amante? E rammento di aver sognato l'agenda interna del [i] cordless [/i].
«Ma certo, che cretino» mi dico.
Torno nello studio, afferro il telefono e controllo. Due chiamate a casa, una dopo l'altra: alle tre e quarantaquattro e alle tre e quarantacinque.
Maledetta, penso. Mi vuoi fregare, dopo che t'ho regalato i migliori anni? Mi vuoi lasciare?
Byron s'è alzato e zigzaga in mezzo alle mie gambe, strofina la testa leonina sulle mie caviglie.
«Chi t'ha fatto entrare?» Gli chiedo.
E ricordo la conversazione notturna e la sua mezza promessa di tornare questa mattina.
Sarà stata lei, ha il carbone bagnato, la troia, mi faccio sicuro. Viene per non farmici arrivare, anzi, per cancellare le prove.
Sento un rumore dalla cucina. Byron si allontana in quella direzione.
Non deve passarla liscia, la zoccola.
E mi faccio forza.
Apro la cassaforte nascosta dietro una copia della [i]Colazione sull'erba[/i] di Manet, prendo la pistola che conservo da quando ho fatto il servizio militare nei Carabinieri. La carico, inserisco il colpo in canna.
Neanche mi accorgo di avere le palle al vento.
Arrivo in cucina senza farmi sentire.
[i]Se me la penso lascio detto in studio che mi prendo un giorno [/i], ha detto. La vista mi si annebbia, ma lei è là, di spalle: riconosco i suoi vestiti firmati, i capelli biondi: armeggia davanti alla lavastoviglie.
È venuta per cancellare le prove, è l'ultimo pensiero.
«Maledetta troia» le rovescio contro, e tendo il braccio con la pistola puntata.
Lei si volta, blatera qualcosa come fosse indiavolata e molla la pentola che tiene tra le mani.
Cade in terra con un gran frastuono e il dito indice si piega sul grilletto.
Parte un colpo.
Uno sparo riecheggia nella casa, e lei si affloscia.
Sento il [i]Miaoo [/i] impazzito di Byron e lo vedo schizzare nel soggiorno.
«Olga, ma che cazzo» mi limito a dire.
Mi ricordo di colpo delle parole di Elena: [i]Olga cambia giorno di riposo [/i].
Mi abbasso, le sfioro la faccia con i gioielli, sento se è viva.
Sono rovinato, penso.
Mi viene il panico e finalmente vomito l'anima.
Nessuno sa che è qua, mi dice una vocetta, dopo l'ultimo rigurgito. Prende l'autobus e abita con altre ucraine come lei, tutte clandestine, rimpolpa la vocetta. La famiglia l'ha persa nel Donbass anni fa, mi ha raccontato tra le lacrime una volta. Sono sola al mondo piangeva la sventurata.
Nessuno noterà la tua assenza, mi convinco.
Basta una luce per alimentare la speranza.
Avvolgo il cadavere nei teli di plastica che conservo in garage e pulisco il pavimento con fiumi di candeggina.
Scavo una fossa profonda sotto il melograno malato, e il terreno ancora zuppo mi aiuta. Ci infilo Olga mascherata con i vestiti di Elena e il suo stesso taglio di capelli.
«Proprio stamattina dovevi travestirti così, cretina?» È il mio sentito elogio funebre.
Mi sento meglio, mi viene una gran fame e guardo nel forno.
Per fortuna aveva già preparato il pranzo, mi dico sollevato.
E mi avvento su delle busiate al ragù di cernia, davvero un indegno simulacro di quello che ha provato a insegnarle quella cuoca sopraffina di mia moglie; e per non fare il vastaso onoro il pesce con una bottiglia di Grillo Spumante dei Principi di Villafranca.
Dopo aver finito mi riempio un paio di bicchieri con una crema di fichi d'India prodotta da un cliente di Elena, e di botto arriva l'ispirazione, quella vera.
Lei arriva che sono quasi le undici di sera.
Io mi sento bene, ho dimenticato quanto è successo la sera prima e la mattina. Adesso ho in mente solo il mio romanzo.
Entra con l' [i]allure [/i] di una dea: «Ciao, tesoro. Mi dispiace non essermi potuta liberare stamattina. Ma quel deficiente di Vittorio mi ha fissato un appuntamento con un cliente importante alle tre del pomeriggio.»
«Non ti preoccupare» faccio, accomodante.
Inizio il mio gambetto di donna.
«Ancora arrabbiato per ieri sera? Eravamo solo donne, e…»
«Ti credo» la interrompo, col mio miglior sorriso.
«Ti trovo di buonumore» replica sospettosa.
«Ho trovato la giusta via, e ho finito il romanzo. Lo rivedo e lo mando a quell'editore che ti dicevo.»
«Ma vero è?» Fa, tutta sorpresa e contenta.
Mi offre un bel bacio con la lingua, che sa di caffè e limoncello.
«Così ti rimetti a lavorare e torniamo in città» aggiunge.
«O magari sfondo, novello Simenon» e mi ritiro qui a vita, chiuso in una stanza come Marcel Proust.
«Magari» risponde lei, senza crederci per un secondo, ma felice di non dover più fare cento chilometri al giorno.
«Dobbiamo dirlo a Olga, poverina ci rimarrà male.»
«A proposito, oggi non s'è fatta vedere. Magari se n'è tornata al paese suo.»
«Tu credi? Pure dei vestiti le avevo dato… Si sarà stancata di lavori saltuari e mal pagati.»
«E come tutti avrà preso la strada del Nord» suggerisco.
«Domani la chiamo, altrimenti… [i]chissenefrega [/i].»
«[i] Chissenefrega, tesoromio [/i], ti amo» faccio, con un sorriso che manco il giorno della prima scopata.
«Anch'io» recita lei, contenta solo di tornare in città.
Le rettifiche mi hanno preso un altro mese, ma all'editore l'opera è piaciuta tanto che ha insistito per pubblicarla prima di Pasqua; si capisce, dietro pagamento di un irrisorio contributo per la carta. La trama è centrata sul dramma d'una cameriera dell'Est, un delitto passionale, un crimine perfetto.
Tornato in ufficio per i colleghi non sono stato più solo il marito della Bajamonte, ma uno scrittore pubblicato, un intellettuale di fama.
Ed Elena, per sì e per no, ha insonorizzato il mio studio in città, e lo ha dotato di tutti i confort e di un mobile bar sempre ben foraggiato, così non ho avuto più bisogno della casa al mare per trovare l'ispirazione.
Lei pare contenta, e io pure, anche se ogni giovedì sera va a dormire da un'amica. [i]Chissenefrega [/i], l'importante è che torni.
E soprattutto, il melograno malato si è ripreso e questa primavera ci ha regalato una fioritura senza pari.