Il mago
Inviato: 25/03/2020, 13:46
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Il mago capitava in paese un paio di volte alla settimana.
Gli sfaccendati che passavano le loro giornate alla stazione lo vedevano scendere puntuale dall’accelerato delle 8:07, con la sua valigia di pelle marrone. Puntuale, in realtà, quasi mai, da molto tempo i treni non arrivavano più in orario.
Il mercoledì era un appuntamento fisso: il giorno di mercato gli garantiva di fare buoni affari. La clientela era costituita da gente di campagna che veniva in paese per fare compere e, già che c’era, coglieva l’occasione per trovare soluzione a qualche problema.
L’ufficio del mago era un piccolo appartamento: un ingresso che fungeva da sala d’aspetto, un gabinetto e un salottino trasformato in studio, arredato con una scrivania e delle poltroncine. In quei giorni l’anticamera si riempiva rapidamente di persone, accolte dal suo aiutante, il signor Wong.
Il signor Wong era un ometto minuto e magrissimo, dai vaghi tratti orientali. Molti pensavano che fosse cinese, altri tibetano, i più informati, quelli che sanno tutto di tutti, sostenevano con decisione che era malese, forse perché suonava più esotico o, forse, suggestionati da certi romanzi letti in gioventù. La sua origine rimaneva avvolta nel mistero, come pure altri aspetti della sua vita. Nessuno, in paese, lo vedeva se non nello studio del mago, né a fare compere né occupato in altre attività. C’era chi diceva che vivesse in quell’appartamento come un recluso, senza mai uscirne, mentre qualcun’altro aveva messo in giro la voce che fosse uno spiritello evocato dal mago, diceria che alimentava l’ilarità dei paesani più scettici.
Il signor Wong non parlava mai, si limitava a ricevere i clienti con dei semplici gesti di formale cortesia e un’espressione enigmatica e immutabile dipinta in volto. La sua silenziosa presenza bastava a creare fin da subito un’atmosfera di sacralità e rispetto nei clienti che, appena entrati nell’ingresso dello studio, azzittivano le loro chiacchiere e rimanevano in paziente attesa del loro turno.
Nei giorni di mercato i casi erano perlopiù questioni ordinarie, il mago le trattava con professionalità e modi spicci, da dentista della magia. L’estrazione di un malocchio, l’otturazione di una carie amorosa, la devitalizzazione di una sfortuna cronica, di solito ogni operazione si risolveva in pochi minuti.
Una volta terminata la seduta il mago accompagnava alla porta il cliente, sussurrandogli le ultime raccomandazioni, poi si rivolgeva al suo aiutante: “Signor Wong, chi è il prossimo?”
L’ometto si avvicinava all’avventore di turno e, con un inchino appena accennato e un gesto della mano, lo indirizzava verso il salottino.
L’altro giorno, dedicato perlopiù alla clientela del paese, era talvolta il lunedì, oppure il martedì, più spesso il venerdì; la cadenza con cui riceveva era indicata da un cartello che l’aiutante si premurava di appendere alla porta d’ingresso.
Fu proprio un venerdì, nel pomeriggio, che il signor Wong accompagnò, questa volta quasi sospingendola fino alla poltroncina davanti alla scrivania, come se avesse percepito la particolarità della sua vicenda, una signorina. Il mago aspettò in silenzio, come suo solito, che cominciasse lei a esporre il perché della sua visita.
Era una giovane donna, doveva avere poco più di vent’anni, bella, di quella bellezza ingenua che al giorno d’oggi non va più di moda, vestita con abiti modesti ma che addosso a lei parevano quasi eleganti.
“Lei non sembra un mago”, esordì la ragazza, dopo averlo studiato per qualche secondo.
Lui non rispose, si limitò a sorridere, ammiccando, come per invitarla a proseguire.
“Intendo dire che non è come mi ero immaginata. Cioè, pensavo lei fosse un po’ più… appariscente”.
“Capisco, si aspettava che portassi un cappello azzurro a punta, con le stelline?”
La giovane sorrise a sua volta, mostrando fossette e una dentatura candida.
“Mi scusi, non mi fraintenda, è colpa mia. Lei ha un aspetto normale, mentre io… oh, ma che sciocca che sono, mi prenderà per una stupida”.
“No, non mi permetterei mai. Ora, se vogliamo passare al motivo per il quale è venuta…”
La fanciulla, ignorando la richiesta del mago, riprese: “Sa cosa si dice di lei in paese?”
“So molte cose, ma non posso sapere tutto. Me lo dica lei”.
“Si dice che… ecco, che lei è un ciarlatano. Oh, non tutti, a dir la verità, ma qualcuno lo pensa, anzi, lo afferma a voce alta”.
L’uomo per nulla turbato da quella confidenza, fece solo una pausa, prima di replicare.
“Signorina Viviana, lei non crede a queste calunnie, vero? Altrimenti non sarebbe qui”.
“Come sa il mio nome?”, esclamò sorpresa.
“Come le ho detto poco fa, non posso sapere tutto, ma so molte cose”.
“Eh già, fa parte del suo mestiere. Perdoni la domanda”, fece, sporgendosi in avanti e abbassando la voce, “ma quello di là, il cinese, non parla mai, è muto?”
“Il signor Wong, intende? Diciamo che è una persona molto riservata”.
“Ah, una persona riservata…”, sottolineò le sue parole con un’espressione seria e muovendo la testa su e giù, come se avesse compreso la risposta. Poi riprese a divagare: “Sa, anche mia madre dice che…”
All’improvviso il mago alzò la mano sinistra e, tenendola ben aperta attirò su di essa lo sguardo della donna, che si zittì di colpo. Era ormai aprile inoltrato, ma nella stanza sembrò calare di nuovo l’inverno, accompagnato da un’aria nebbiosa e umida che penetrava nelle ossa, facendo rabbrividire Viviana, proprio come quel pomeriggio di un dicembre di parecchi anni prima, il giorno del suo compleanno.
Fin da quando, molto piccola, aveva cominciato ad avere coscienza di sé e del mondo dove viveva, l’unica presenza costante nella sua vita era stata quella di sua madre, il padre non l’aveva mai conosciuto. Spesso aveva cercato spiegazioni per quell’assenza, ma le sue domande non avevano mai avuto risposte chiare e, presto, aveva smesso di farle.
Crescendo era diventata una bambina seria e taciturna, a scuola andava abbastanza bene, senza eccellere in niente, era una di quelle alunne che gli insegnati liquidano spesso con: “È brava, ma se si applicasse potrebbe fare di più”.
Quei pochi soldi che la madre portava a casa non bastavano mai, i regali erano stati rari nella sua infanzia, quell’orsetto di pezza per i suoi dieci anni fu una piacevole eccezione. Aveva la pelliccia marrone scuro e la pancia color panna, fu quasi automatico per Viviana dargli il nome di Bruno. Quel pomeriggio era felice quando, dopo aver fatto i compiti, si mise il cappotto e uscì di casa con il suo nuovo compagno per andare a giocare con le amiche.
“Fammelo vedere!”, ogni richiesta suonava come un ordine se veniva da Elisabetta, l’indiscussa condottiera del suo piccolo gruppo. Lei obbedì e le consegnò l’orsetto.
“Che bello”, disse la ragazzina accarezzando la testa del pupazzo. Poi prese a buttarlo per aria e riprenderlo al volo.
Viviana, temendo che cadesse a terra e si sporcasse la implorò: “Ridammelo, ti prego”.
“Fammici giocare ancora un po’, non te lo sciupo mica”.
“No, è mio, ridammelo!”
“Prova a prenderlo”, la schernì l’altra, lanciandolo a una delle sue accolite, una bambina dai capelli rossi raccolti in una treccia.
Così cominciò un dispettoso gioco di rilanci con le altre in cerchio e Bruno che passava di mano in mano, sempre un po’ troppo lontano da quelle di Viviana, finché un tiro più goffo degli altri non le permise di afferrarlo. Elisabetta non si dette per vinta e cercò di riprenderlo di nuovo.
“Lascialo!”, urlò Viviana, tirandolo con tutte le forze che aveva, ma la sua avversaria non mollò la presa e, con un rumore lacerante, lei si ritrovò in mano un braccino di pezza strappato.
“Hai visto cos’hai fatto!”, singhiozzò disperata.
“Quante storie per uno stupido pupazzo”, rispose l’altra sprezzante, buttandole l’orsetto rovinato ai piedi.
In preda a una furia cieca Viviana le urlò in faccia: “Ti odio! Spero che tu muoia!” E le diede una spinta. Elisabetta non se l’aspettava e, scivolando sul selciato reso viscido dall’umidità, cadde pesantemente all’indietro, battendo la testa.
Le altre bambine si misero a strillare, ben presto le loro grida richiamarono l’attenzione di alcune persone che accorsero sulla scena. La ragazzina giaceva per terra, priva di sensi, un uomo la prese in braccio e la trasportò dentro il portone di un’abitazione vicina. Qualcuno andò a chiamare il dottore. Mentre gli adulti ascoltavano il racconto concitato di quanto era successo Viviana raccolse l’orsetto mutilato e scappò piangendo verso casa.
Sua madre la rimproverò con asprezza, non volle sentire le sue ragioni e, preoccupata, andò a informarsi sulle condizioni di Elisabetta.
Nei giorni seguenti venne a sapere che la sua ormai ex-amica era rimasta incosciente per alcune ore, poi si era ripresa, ma una febbre persistente l’aveva costretta a letto per quasi una settimana. Lei non provava rimorso, pensava che se lo fosse meritato.
Quel banco vuoto, a scuola, non le faceva effetto, come la lasciavano indifferente gli sguardi dei suoi compagni, le frasi lasciate a metà quando si avvicinava, il vuoto che cresceva sempre di più intorno a lei. La maestra la prese da parte alla fine delle lezioni e le parlò brevemente, con un freddo tono di biasimo. Viviana ascoltò a capo basso le parole dell’insegnante, una ramanzina su come si sarebbe dovuta comportare. In un altro momento quel discorso l’avrebbe mortificata, ora non le faceva né caldo né freddo.
Non si sentiva in colpa per quello che era capitato a Elisabetta, lei non aveva fatto niente di male, era una fatalità, anzi, in fondo se l’era cercata. Quello che la feriva era il suo pupazzo sciupato e la sua felicità trasformata prima in disperazione e poi in rabbia. Dopo quel pomeriggio non aveva versato più una lacrima, aveva anche rinunciato a chiedere alla madre di ricucire l’orsetto di pezza, l’aveva messo da parte e si era chiusa in un cupo risentimento.
Mancavano ormai pochi giorni alle vacanze di Natale quando Elisabetta tornò a scuola. Le amiche la accolsero circondandola come uno sciame di vespe, a Viviana sembrava quasi di sentirne il ronzio in quelle voci festanti, lei cercò di ignorarla e ci riuscì per tutta la mattina, fino all’uscita alla fine delle lezioni.
Se la trovò davanti nel vialetto che portava al cancello della scuola, di nuovo alla testa del suo gruppetto fedele. Per un attimo si fermò esitante, ma non c’era un'altra strada dai cui passare, quindi, abbassando il capo, riprese il cammino, con la speranza di essere lasciata in pace.
Le cose, però, andarono in altro modo. Elisabetta le si mise davanti impedendole il passaggio.
“Dove credi di andare? Ti devi vergognare per quello che mi hai fatto!”
Viviana non rispose e si mosse a destra e a sinistra, l’unica cosa che voleva era andarsene, ma le altre le si strinsero intorno, chiudendole ogni via di fuga.
In breve si trovò a rivivere il crudele gioco che le bambine avevano riservato al suo orsetto di pezza, in un girotondo di spinte e strattoni.
“Sei una strega, come tua madre! È per questo che tuo padre se n’è andato!” Le urlava in faccia Elisabetta, mentre le altre ripetevano in coro la stessa invettiva: “Strega! Strega!”
Alla fine Viviana riuscì a divincolarsi e scappò mentre quella parola la inseguiva come un’eco, corse senza fermarsi fino a casa, dove si chiuse in bagno e si lavò la faccia arrossata con l’acqua fredda.
Dopo aver ripreso fiato alzò il capo per guardarsi, ma l’immagine che lo specchio le restituì non era la sua, vide una vecchia con la bocca sdentata e ghignante, un occhio velato e la testa avvolta in uno scialle nero.
La ragazza stava ancora urlando per lo spavento, mentre il mago, accanto a lei, schioccava le dita davanti alla sua faccia.
Sì guardò intorno, sorpresa di trovarsi in quel salottino, barcollò leggermente, sorretta dall’uomo, poi si afflosciò sulla sedia.
“Che cosa… cosa mi è successo? Perché mi sembrava di essere tornata bambina? Chi era quella vecchia? È stato lei? Mi ha fatto un incantesimo?”
La sua voce era rotta dai singhiozzi.
“Si calmi ora, è tutto passato, era solo un brutto ricordo. Vuole un bicchiere d’acqua?”
“Non voglio l’acqua! Io voglio sapere!”
“Certo, è venuta qui per questo. Lei vuol capire perché, ogni tanto, sente ancora bisbigliare alle sue spalle, quando pensano non li ascolti, quelli che la chiamano…”
“Strega! È questo quello che sono?”
Il mago tornò a sedersi dietro la scrivania e le sorrise, benevolo.
“Le streghe non esistono, signorina. Solo i creduloni e gli sciocchi pensano che siano reali”.
“E quella che ho visto nello specchio?”
L’uomo la guardò con attenzione, prima di rispondere.
“Era solo il riflesso della sua paura”.
Viviana sembrò soppesare quelle parole, poi si decise a fare un’ultima domanda, chinando il capo e prendendosi la faccia fra le mani.
“Cosa mi succederà ora?”
“Adesso dimenticherà tutto, quel ricordo che crede abbia segnato la sua vita, tutto quello che ha rivissuto oggi. Non ci sarà più quest’ombra sul suo futuro. Mi guardi attentamente. No, non si distragga”.
Viviana si sentì attrarre da quello sguardo, non riusciva a distogliere gli occhi da quelli del mago, dalle sue pupille nere che sembravano espandersi fino a riempire tutto lo spazio intorno a lei. Poi l’effetto svanì di colpo, lasciandola confusa e con la mente svuotata da ogni pensiero.
“Io… io devo andare”, mormorò, avviandosi verso l’uscita.
“Signorina Viviana?”
La ragazza si voltò. Il mago aveva tirato fuori, chissà da dove, un copricapo a punta, ornato da stelline gialle e se l’era sistemato in testa.
“Che gliene pare?”
Lei sorrise: “Mi piace, le sta bene”, poi, arrossendo, aggiunse “Oh, mi scusi. Quanto le devo? Non ho molti soldi, ma…”
“Tenga, questo è per lei”, le disse, ignorando la domanda. Si alzò dalla sua poltrona e le porse un orsetto di pezza, marrone con la pancia chiara.
Quel pupazzo le sembrò vagamente familiare. Lo prese, lo rigirò fra le mani, stupita da quel regalo, poi uscì, senza aggiungere altro, chiudendo la porta alle sua spalle.
Poco dopo l’orientale entrò nello studio e guardò il mago con la sua solita espressione indecifrabile, turbata, però, da una sfumatura di rimprovero. Quando parlò lo fece con una voce così bassa che, se qualcun’altro fosse stato lì ad ascoltare, avrebbe avuto difficoltà a intendere le sue parole.
“Perché non le hai detto la verità?”
“La verità? Signor Wong, la verità è sopravvalutata. La gente non la vuole sentire. Gli uomini vogliono sogni, speranze, hanno bisogno di credere in qualcosa. Lei sa bene che è la loro fede a tenere in vita quelli come noi”.
L’ometto ponderò un poco le parole del mago poi disse: “Sogni… sai cos’ho sognato stanotte?”
“Lei sogna, signor Wong?”
“Qualche volta. Ero in un campo di girasoli, al tramonto, inseguivo un cane, un piccolo bastardo bianco e nero, ogni tanto lo perdevo di vista, poi lo ritrovavo e lui ricominciava a correre davanti a me, come se mi volesse condurre da qualche parte”.
“E dove la voleva portare?”
“Non ne ho idea, a un certo punto non l’ho più visto e poi non ricordo altro”.
“Strana fantasia, signor Wong. Mi dica, prova qualcosa per la donna che è appena uscita, per questa gente?”
“Questione interessante, ogni tanto me lo chiedo anch’io. Mi domando a che scopo ci prendiamo gioco di loro”.
“Lei crede che sia nella nostra natura farci domande?”
“Direi di no. Eppure me ne faccio”.
“Signor Wong, mi sembra stanco, ha dubbi, non è da lei”.
“Forse hai ragione. Però, se penso che una volta eravamo temuti, idolatrati… e potremmo esserlo ancora”.
“Guardi, in fondo la capisco, ma i tempi cambiano. Non trova forse divertenti quelli che viviamo adesso? A proposito, ho un progetto per questo fine settimana”.
“No! La donna cannone non la faccio più!”
“Ma no, basta con i fenomeni da baraccone. Parlavo di un capatina a Montecarlo. Lei sarà una giovane e bella ereditiera, molto fortunata alla roulette, io il suo autista e guardia del corpo”.
“Beh, sembra interessante…”
“Sicuro. Oh, accidenti, si è fatto tardi. Signor Wong, è il momento di andare, si prepari”.
“Uffa, devo proprio?”
“Sì, lo sa che è necessario”.
L’ometto dall’aspetto asiatico si raggomitolò su se stesso, la sua già scarsa mole si ridusse ancora di più ed entrò nella valigetta.
Mentre il mago chiudeva la serratura, dall’interno il signor Wong disse: “Però sia chiaro, non vado a letto con nessuno!”
“Non ce n’è bisogno, basterà che lo faccia sembrare possibile”.
Il mago spense la luce dello studio, chiuse la porta a chiave e, con la valigia di pelle in mano, s’incamminò verso la stazione.