Tre Capitani
Inviato: 02/04/2020, 17:49
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Non avevo neanche dodici anni quando iniziai ad andare in barca a vela, sopra un vecchio e sgangherato [i]Flying Junior[/i] che tenevo a galla a furia di viti passanti e colla epossidica.
Partecipare alle regate invece diventò un mio pallino ai tempi dell’università.
Avevo iniziato a regatare con barche di amici o conoscenti, o neanche quello: all’inizio come [i]zavorra umana[/i], poi come [i]tailer[/i], infine come prodiere.
In quegli anni non riuscii mai a conquistare il timone, ruolo riservato all’armatore o allo[i] skipper[/i]; così, come ogni cosa a lungo negata, il timone, il comando, divenne l’oggetto dei miei desideri.
E per assecondare quella che, lo capii molto tempo dopo, era solo un’illusione ottica, con molti sacrifici, appena iniziai a lavorare coi primi soldi comperai uno scafo di otto metri adatto a regatare. Uno scafo piccolo e leggero ma veloce grazie al quale potei iscrivermi ai campionati invernali.
E com’era giusto, ogni volta timonavo io, l’armatore.
La febbre della competizione mi prese di brutto, e da febbraio a maggio, ogni due domeniche, novello Cino Ricci, la mia testa vagava tra tattiche di partenza e tecniche di strambata con mare formato. Per tre anni di seguito non andai mai oltre un misero sesto posto, sui dieci dodici della mia classe. E maturai la convinzione che con un equipaggio di compagnoni, qual era il mio, era assicurato il divertimento, ma non la vittoria.
Io volevo vincere, per dimostrare agli altri di essere il migliore; ma l’esperienza di quegli anni mi aveva mostrato che, se volevo guadagnarmi la settimana tutto compreso alla Martinica messa in palio dal club nautico che organizzava le regate, quell’inverno dovevo scendere in acqua con un equipaggio vincente.
Insomma, se volevo anche una sola chance di vittoria, dovevo convincere i migliori a salire sulla mia barca.
E per uno strano scherzo del destino, i migliori mi contattarono loro quell’inverno.
Ernesto detto Bic, un valido prodiere che aveva regatato con Falck in Atlantico, e Selino detto Kant, un ex [i]tailer[/i] del Kauris di Tronchetti Provera.
Sorvolai sulle ragioni della loro diserzione di barche ben più importanti della mia e mi crogiolai, con largo anticipo, in rettilinei sogni di gloria, considerandomi in una botte di ferro, orgoglioso di essere stato oggetto dell’attenzione e della scelta dei migliori.
«Noi siamo i migliori» mi vantai la sera prima della partenza, alla consueta riunione organizzata dal club nautico che ufficializzava l’apertura del Campionato d’Inverno.
Erano presenti tutti gli skipper e gli armatori delle barche iscritte.
«Non avete speranze, con Ernesto e Selino la mia vittoria quest’anno è assicurata.»
E notai in quell’istante che finalmente, da tutti quelli che fino a quel momento mi avevano guardato dall’alto in basso, ero diventato io oggetto di ammirazione.
Arrivò la tanto attesa giornata di avvio del campionato, il classico bastone: un lato lungo di bolina e uno di ritorno al lasco.
Salpai in netto anticipo, lasciandomi la Cala alle spalle, con il mio equipaggio dei migliori e un volontario senza arte né parte a fare da zavorra umana; un certo Nanni, conosciuto giorni prima. Spirava quella mattina un vento sostenuto di maestrale, ben teso, sui venti nodi, con un mare vivo e frangente che rendeva ogni manovra più pepata. Partenza fissata a trecento gradi di bussola.
Col mio nuovo equipaggio avevamo fatto solo una prova generale la domenica precedente, e tutto aveva funzionato come l’ingranaggio di un orologio: tanto mi bastava. I miei migliori, benché non di primo pelo, sapevano dove mettere le mani senza che avessi bisogno di dare indicazioni… il sogno di ogni [i]skipper[/i].
Solo un piccolo particolare, quel giorno, mi lasciò interdetto: sia Bic che Kant avevano l’antipatica tendenza a mettere in discussione i miei ordini e le mie tattiche di partenza, nonché a battibeccare tra di loro per un nonnulla.
Poco male, pensai, meglio una ciurma al calor bianco, competitiva e bramosa di vittoria e con spirito d’arrembaggio, che una banda di smidollati rinunciatari interessati solo a passare una domenica in mare in allegra compagnia, magari tracannando vino e straparlando di donne.
Al via del campionato invernale non eravamo tanti.
I più forse scoraggiati dal gelido mese di gennaio che era da poco scivolato via o forse perché, mi crogiolai io, con il mio equipaggio le [i]chances[/i] di vittoria erano tutte mie ancor prima di cominciare.
A ogni modo, tutte le barche e gli equipaggi che contavano in città erano sulla [i]lay line[/i].
Giungemmo sul campo di regata un’ora prima della partenza e iniziammo a far manovre: prove di partenza in bolina, virate strette, prove di velocità di cazzatura delle scotte coi verricelli, e infine strambate.
Poi arrivò il segnale dei dieci minuti: Kant si fece subito insofferente, criticando la mia scelta di virare sottovento alla Perseus.
Il dubbio mi assalì e pensai che avesse ragione, dopotutto lui era uno dei migliori, e l’assecondai; ma, facendolo, divenni inquieto.
Al segnale dei cinque minuti anche Bic si innervosì, dritto sulla prua a prender spruzzi e vento e a segnalarmi la distanza dal nemico che chiedeva acqua e ci tallonava sopravvento a pochi metri dalla nostra poppa.
Ai sessanta secondi ero diretto alla [i]lay line[/i] di partenza in perfetto tempo, né troppo avanti né troppo indietro, primo con merito. Orzai ancora, strinsi la prua al vento più che potei e guadagnai acqua preziosa; l’imbarcazione procedeva sbandata di sessanta gradi, il vento mi sferzava il viso bagnandolo coi suoi gelidi spruzzi salati.
Quando suonò la tromba del via oltrepassai la linea di partenza per primo.
Mi sentii il re di Sicilia, l’imperatore del Mediterraneo; ma l’incanto me lo spezzò subito Bic.
«Potevi ottenere più vantaggio, pezzo di salame.»
Resistetti alla tentazione di mandarlo a quel paese sforzandomi di metabolizzare l’ingiuria.
Voglio vincere, dissi a me stesso, e mi feci forza.
Meglio competitivi che smidollati, fu il pensiero che cancellò gli altri.
Ma, per non sapere né leggere né scrivere, rimandai al mittente l’affettuoso epiteto, tanto per ricordare a tutti chi era il comandante.
Anche Kant ci mise tutta la sua perizia per guadagnare acqua. Iniziò a regolare la balumina del genoa, poi ripeteva l'operazione con la randa: alleggeriva di un soffio il caricabasso del boma e mi dava indicazioni continue su come stringere meglio il vento e su come affrontare i frangenti che avevano iniziato a formarsi. Ma la maggior parte di quei consigli non riuscivo a metterli in pratica, non riuscivo a stare al suo passo, e cominciai a sentirmi inadeguato.
«Faccio come so… come posso» mi difesi ad alta voce, quasi scusandomi.
La situazione alle nostre spalle si fece presto tesa: la Perseus e Onda Anomala guadagnarono un paio di lunghezze alle nostre spalle. Bic e Kant mi urlarono i loro contrapposti, contraddittori ordini.
Non passarono dieci minuti che ne ebbi abbastanza e li apostrofai con un sonoro: «Sono io che comando, bbuttana ladra! Ci state scassando la minchia!»
«Marinaio d’acqua dolce!» fece Bic senza neanche concedermi l’onore di uno sguardo.
«Comandante della domenica» lo seguì l’altro a ruota.
«Caaazzo» urlai pieno di livore.
Se voglio vincere mi devo trattenere, pensai, non li posso buttare a mare quei due pezzi di merda.
Con i miei vecchi compagnoni di solito funzionava così: perdevo la calma insultando madri, padri, zie e sorelle e la mia incazzatura li ammansiva di botto. Mi guardavano spersi, con la coda tra le gambe, e stavano zitti.
Con Bic e con Kant mi rendevo conto che la mia incazzatura progrediva di pari passo alla loro.
Dopo qualche virata a dritta e a sinistra e poi a dritta ancora riuscimmo a mantenere la prima posizione, seppur di sola mezza lunghezza.
Non soddisfatti dello scarso vantaggio sia Kant che Bic presero a ricordarmi e a far pesare la loro secolare esperienza con i migliori del pianeta in acque ben più tempestose di quelle in cui ci trovavamo.
Raccolsi le mie forze.
L’importante è vincere, volere è potere, m’imposi.
L’importante è vincere, non partecipare, mi raccontai.
Solo chi vince viene ricordato.
E mi convinsi che loro avevano ragione e che tutto andava bene per il sol fatto d’esser stato in testa per l’intero lato di bolina.
Ci preparammo al [i]redde rationem[/i], ossia, alla strambata: il momento in cui i migliori dimostrano al mondo di essere tali.
[i]Qui si varrà la nostra nobilitate[/i], pensai, confortato dall’innegabile valore aggiunto dei miei migliori e dal, seppure lieve, vantaggio sulle altre imbarcazioni.
Bic iniziò a preparare le scotte dello [i]spi[/i] e a posizionare il boma a prua, ma questa volta fu Kant a scontrarsi con lui.
«Vanno tutte fuori!» gli urlò contro il filosofo di Königsberg, con una fermezza, con una ferocia, una forza degna della più impegnativa Coppa America.
«’Arrusu (che poi sta per frocio)… testa di minchia! Le scotte dello spi le devi mettere tutte dentro» lo apostrofò inviperito Bic.
E poi, in un inatteso e insensato crescendo, volarono insulti a Falck da una parte e a Tronchetti Provera dall’altra e poi alle rispettive madri e mogli, figlie e sorelle, amiche e amanti, più le ultime che le prime.
Mi deconcentrai, cercai di portare la pace. Mi sentii come l’ONU in un qualche paese del terzo mondo, una cosa inutile, perché loro bramavano una sola cosa: lo scontro, la competizione, la violenza, la guerra.
Il maestrale rinforzò ancora, Perseus e Onda Anomala mi sfilarono d’un soffio alla boa, strambando per primi e passando in vantaggio.
Per fortuna, spaventati dai frangenti sempre più alti e dal vento crescente evitarono d’issare lo spinnaker e proseguirono al lasco col solo genoa.
Mi era già capitato altre volte, perciò decisi di imitarli e impartii l’ordine: «Non alziamo lo spi, ce la vediamo col solo genoa!»
«Ca puru tu ti scanti?» Mi riprese, dandomi del fifone, il barone di Clichy. «Ormai li teniamo per le palle a quei cacasotto! In Atlantico abbiamo fatto ‘na simanata di aliseo a quaranta nodi con lo spi sempre a riva. Am’a vinciri!» mi incitò.
Mi spronò come si fa con un cavallo pauroso e al tempo stesso lisciò le mie corde più sensibili.
[i]Mutatis mutandis[/i] questa volta decisi di non abboccare. «Continuiamo col genoa» ordinai.
Ma Bic se ne infischiò dei miei dubbi e del mio ordine, scese sottocoperta e fissò il moschettone della drizza alla penna dello[i] spi [/i]e ordinò lui a Kant di drizzare.
«Nooo» urlai terrorizzato.
Ma Kant, catafottendosene anche lui fece salire la drizza a riva.
La grande vela simmetrica andò su in un istante, gonfiata dal vento che la sollevò senza fatica.
Superammo di slancio la Perseus e Onda Anomala, le distanziammo di parecchie lunghezze e ci avvicinammo, largamente primi, al traguardo.
Mi fece male ammetterlo, ma Bic e Kant erano stati bravissimi, un passo avanti agli altri.
I miei migliori hanno funzionato, pensai contento.
E sorrisi di felicità per essere stato disobbedito, per essermi sbagliato, perché la volontà di potenza aveva dimostrato di poter dominare l’Universo intero.
Il maestrale rinforzò ancora, e per bilanciare la spinta ci appollaiammo tutti e quattro sul cassero di poppa a far da contrappeso alla prua che si abbassava sotto il pelo del mare, trascinata dalla vela simmetrica gonfiata dal vento, impotenti e sferzati dai gelidi flutti del mare.
Nanni, la zavorra umana, s’era preso di paura e stava quasi completamente fuori bordo a far da contrappeso, come un acrobata sul trampolino, con gli occhi sbarrati e la grinta dei denti serrati, la bocca storta in uno strano ghigno.
Ritenendo di avere la vittoria in pugno e di avere rischiato abbastanza mi rivolsi a Bic: «Adesso ammaina! Abbiamo abbastanza vantaggio. Inutile rischiare di straorzare.»
L’ordine non produsse alcun effetto né su Bic né su Kant, se non per uno sguardo astioso e insofferente che mi lanciarono l’uno insieme all’altro.
Ripetei l’ordine questa volta gridando: «Ammaina, figghiu ‘i sucaminchia! Asinnò t’jettu a mmàri.»
Non l’avessi mai fatto. Bic [i]stracanciò[/i].
«Figghiu ‘ì sucaminchia a ccui? Cacàtu ri scantu!» disse gesticolando la mano destra. «Sono io che ti sto facendo vincere!» ringhiò, scuro in viso, assecondato e assistito da Kant.
Il quale, lanciandomi un’occhiata di disprezzo, aggiunse per sovraccarico: «Non si supera la linea del traguardo con le vele ammainate, ‘arrusu.»
«Obbedisci, sennò t’ammazzo» urlai, e afferrai la sua cerata all’altezza del collo strattonandolo ripetutamente, con l’adrenalina a mille che mi gonfiava i muscoli e il cuore che pompava sangue all’impazzata.
«Accussì mi scassate ‘a varca!»
Fu un attimo. Bic mi diede uno spintone tentando di strapparmi il timone dalle mani, aiutato dal fido compare Kant.
«Ammutinamento! Tornate ai vostri posti!»
«Statti muto, se ci tieni alla tua barca» minacciò Bic, con un tono vagamente mafioso.
E in quel momento capii che era pronto anche a buttarmi in mare pur di vincere sì, ma a modo suo.
Ero impietrito e solo allora mi resi conto che Nanni, la zavorra umana, mi fissava terrorizzato; ed ebbi l’impressione che stesse per saltare in acqua per sottrarsi al parapiglia. Lo trattenni, se non altro perché senza il suo peso avremmo straorzato e scuffiato in un baleno.
Il vento rinforzò ancora.
«Ammaina...» propose, questa volta, Kant al suo compare.
«Cacasotto puru attìa!» lo apostrofò Bic con gli occhi spiritati.
L’adrenalina della competizione l’aveva alterato a tal punto da fargli smarrire il senso della misura, del limite.
Fu un attimo. I due si spintonarono, scambiandosi colpi feroci. Ne approfittai per afferrare il timone anch’io.
Ci ritrovammo in tre al comando.
Nessuno alle vele, nessuno a tentare di capire il vento e il mare.
Nessuno ad occuparsi degli avversari alle spalle.
Nessuno a pensare alla barca e al suo equipaggio.
«Talìa» urlò Kant.
«Accùra» gridò Bic.
«Minchia» dissi io.
Accadde l’irreparabile, la prua affondò sotto l’onda frangente, la poppa si sollevò quasi in verticale e poi...
Precipitammo in mare.
L’albero si spezzò in due rovinando in acqua, il bulbo si staccò dallo scafo colando a picco, la barca si adagiò su un fianco semi affondata tra mille spume bianche nell’azzurro vivo del mare.
Per fortuna nessuno di noi si fece troppo male e dopo pochi minuti fummo soccorsi dal gommone della giuria.
Ci ritrovammo infreddoliti l’uno di fianco all’altro e finalmente silenziosi. Tranne Nanni, che sembrò svuotarsi di botto in quell’inatteso finale.
E si mise a inveire: «Psicopatici!»
E lo ripeté, nel silenzio generale: «Siete tre psicopatici del cazzo! Malati di mente.»
E ancora aggiunse: «Pazzi da catena!»
Nel mentre la mia Isabella sciabordava con mestizia tra le onde.
Ferito e umiliato, da lontano vidi che qualcuno l’aveva presa al traino.
Arrivammo ultimi, con disonore.
Bic, Kant e io ci guadagnammo l’immortalità, ma non come io avevo immaginato: da sconfitti.
E perdendo la nostra individualità perché, da Capo Gallo fino a Capo Zafferano da quel momento, da tutti fummo conosciuti solo come: i tre capitani.