Otto e quindici

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2020.

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Drago2803
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Otto e quindici

Messaggio da leggere da Drago2803 »

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Eravamo io, Picchio “il boss” e Luchino “mezza-cellula”. Il manuale delle buone prassi prevedeva che fingessimo di entrare a scuola fino all’ultimo secondo, fino a entrare davvero per poi sgattaiolare fuori alla spicciolata e ritrovarci mezzora dopo alla cabina del telefono, quella alle spalle della farmacia.
L‘ultimo che arrivava pagava il caffè.
Da qualche tempo però non c’era più l'incentivo a fare prima degli altri, perché Picchio sosteneva che per le spese fosse più redditizio fare squadra, mettere insieme le nostre miserie in una cassa comune.
- E sia, ma il caffè no. Quello lo paga sempre chi arriva ultimo!
M’ero impuntato, e per il momento mi assecondavano.
Quella mattina, anche dopo il secondo conteggio, prendemmo atto d’avere un budget francescano, al quale andava pure sottratta la quota per le sigarette.
- Ci dovremmo far uscire pure una puntata su Chase – dissi.
Chase The Dream era un levriero che avevamo deciso di giocarci vincente al Cinodromo. L’ultima volta il gonzo s’era fatto prendere alle spalle sul rettifilo finale, ma stavolta avrebbe vinto.
- O Chase o il picchetto* – precisò Luchino.
- Oppure non si fuma – aggiunse Picchio, tanto per dire una stronzata retorica, dato che l’ipotesi non era contemplata.
- Non è mica una stronzata, invece. Se metti tu le cartine compriamo solo il tabacco e fanculo alle bionde – suggerì Luchino.
Picchio rovistò nelle sue numerose tasche. Erano così grandi, e lui era così piccolo, che se non voleva farsi trovare avrebbe potuto nascondersi lì dentro.
– Niente da fare, ne ho poche. E poi quel tabacco di merda che comprate voi non mi piace.
- Vada per le sigarette, allora.
Andammo dritti in bisca a bighellonare, a studiare un po’ gli aggiornamenti delle quote sulle scommesse, ad annusare cos’altro di losco ci offriva la giornata.
- Occhio con chi giocate, che non possiamo permetterci un cassone – ci ammonì Picchio. Andare al cassone significava perdere la partita e dover pagare il tavolo. Per fortuna qualche pollo per giocare gratis si trovava quasi sempre, però ogni tanto finiva che i polli eravamo noi, e allora addio picchetto, addio Chase The Dream, e forse ci sarebbe toccato di salire in strada come topi affamati che escono dalle fogne, per recuperare qualche briciola. Ingannavamo i passanti per racimolare qualche spiccio, propinandogli con sfacciataggine le scuse più pietose: la benzina del motorino che era finita proprio mentre tornavamo da povera nonna, la festa dei cento giorni, amici e parenti che si dovevano operare, qualsiasi cosa che sembrasse decorosa e facesse leva sul buon cuore e sulla morale media del passante occasionale. Quelli di zona no, quelli li conoscevamo. E loro conoscevano noi.
- Andate a studiare, balordi! Era il massimo dell’incoraggiamento che potevamo aspettarci da quelli.
Sotto le feste, o le rare volte in cui avevamo qualche quattrino in più, andavamo a sperperarlo all’Ariel. Quella sì che era una vera sala da biliardo! Lì però c’erano pochi polli e parecchi giocatori seri. Neanche potevi fare troppo lo sbruffone, perché il buttafuori ci avrebbe impiegato un micro-nanosecondo per ridurre la tua carne in poltiglia e le tua ossa in polvere. Così il più del nostro tempo lo passavamo all’Enal, la bisca perfetta per fannulloni e perdigiorno come noi, limbo perfetto tra gente per bene e loschi figuri, teppaglia, perfino qualche autentico criminale di passaggio. Ogni tanto ci spingevamo anche nel Covo, un locale sotterraneo gestito dal Sor Vittorio. Era lì che si gestiva il picchetto del quartiere. Ogni volta che scommettevamo le nostre ingenti miserie sbottava a ridere e faceva sempre la stessa battuta: - Ehy ragazzini, avete rotto il salvadanaio della nonna? Se vincete mi manderete fallito! Noi facevamo buon viso a cattivo gioco, fingendo che facesse davvero ridere. Dal Sor Vittorio non si scherzava. Lì il gioco del biliardo era una copertura. La ragion d’essere di un posto come quello era nel retro, dove si giocava a poker e si pianificavano estorsioni, prestiti a tasso usuraio, regolamenti di conti e rapine. O almeno questo credevamo, perché nessuno di noi era mai stato nel retro del Covo. Non ci entravano neanche le guardie, forse perché il Sor Vittorio godeva di qualche protezione in paradiso.
Più tardi saremmo passati al Covo, ma prima volevamo gironzolare in bisca, come spiedi in attesa di infilzare qualche pollo ruspante, che prima o dopo si sarebbe palesato. Fin dal mattino l’Enal era sempre un brulicare di personaggi così insoliti che neanche un romanzo di fantascienza, o i migliori casi tra i 99 capitoli degli inquilini del palazzo immaginario di Georges Perec, potrebbero aspirare a eguagliare. Alcuni erano innocui, altri meno. Tra i primi rientrava un certo Augusto, detto Giano Bifronte o più spesso Frontone. Come ogni mattina era lì per allenarsi con la determinazione di un professionista. Cicalecci di quartiere volevano che Frontone fosse il suo vero cognome, ma è più probabile che invece fosse un soprannome, un dispregiativo affibbiatogli a causa di ciò che esponeva sopra a quegli occhi rotondi e gonfi, azzurri e acquosi. Vale a dire una grande testa con l’attaccatura dei capelli troppo alta. Nessuno poteva chiamarlo Frontone in pubblico, se non voleva guai. Di certo neanche noi ci azzardavamo, perché Augusto era un tipo imprevedibile e perché - anche se gli ridevamo un po’ dietro – era sempre stato corretto con noi. Non ci trattava mai da ragazzini, anche se avrebbe potuto accartocciarci come palline di carta. Era un bonaccione camuffato da duro, sono certo che anche Picchio e Luchino condividessero questo giudizio. Soffriva di prognatismo e palesava una bocca enorme con labbra pronunciate. Forse per questa ragione parlava poco, ma con la sua Balabushka “special limited edition” tra le mani era davvero un signor giocatore, uno “coi controcazzi” si definiva lui, tanto per sgommare fumo ed esibire i bicipiti. Di solito si allenava al tavolo numero dodici, che era riscaldato, con le buche abbastanza piccole e con la miglior scivolosità e tenuta delle sponde. Al dodici si tenevano sempre le partite più importanti. Se non avevi i suddetti controcazzi non lo potevi noleggiare, quel tavolo. Augusto poteva, e pretendeva sempre talco e gessetti nuovi. Il sor Antonio (che era una specie di Sor Vittorio, ma più anziano e più buono), lo accontentava.
Quella mattina all’Enal non entrarono polli, ma entrò il Calabrese, che si mise ad ammirare l’allenamento di Augusto. Il Calabrese non c’era nella categoria degli innocui, perché stava in cima all’altra, quella dei figli di puttana. Era stato dentro diverse volte per estorsione e rapina, ma nel quartiere si sapeva che aveva anche ammazzato alcune persone. Era uno che girava col ferro infilato tra le maniglie dell’amore e i jeans. Non ci girava solo per esibirlo, se gli davi l’occasione lo usava senza troppi complimenti. Perfino al Covo si cagavano addosso quando entrava lui. Potevi stare sicuro che dove c’era lui c’era una pistola carica e tanti guai.
Però all’Enal non ci veniva mai. Che ci faceva lì?
Io lo conoscevo di fama, finché non lo avevo “conosciuto” pure di persona. Non ci avevano presentato, non proprio. Un giorno qualsiasi era piombato fuori da scuola con gli occhi iniettati di sangue e aveva acchiappato uno studente a caso – il sottoscritto - pretendendo del fumo. È possibile che fosse talmente fatto che mi avesse scambiato per qualcun altro. Io però quel fumo non ce lo avevo, né sapevo come si facesse a dire di no a un tizio come lui. Già mi immaginavo mia madre e mio padre al funerale a piangere un ragazzo di quartiere con un buco in testa. Avevo sbiancato e mi ero limitato a bisbigliare qualcosa di ridicolo, come “io non…”, “ti giuro che…”, mentre mi svuotavo le tasche per dimostrare che non mentivo. A quel punto s’era palesato da nulla un piccoletto che stava nella classe affianco alla mia. All’epoca non conoscevo neanche il suo nome. Era alto la metà di me, magrissimo, portava gli occhiali e aveva la faccia da bravo ragazzo. Eppure, per qualche strano motivo che nessuno ha mai capito, aveva una via preferenziale con tutti i peggiori balordi del quartiere. Era per loro una specie di mascotte, forse. Oppure era nelle grazie di qualcuno talmente potente che perfino il Calabrese doveva tenerne conto. Comunque sia, quel giorno avevo imparato che essere amico di Picchio era come possedere il bigliettino “esci di galera” sul Monopoly, come avere una vita supplementare nei videogiochi. Era spuntato fuori dal nulla e m’aveva lanciato un braccio sulle spalle, come un vecchio amico. Non mi ha mai voluto spiegare perché lo avesse fatto, ma il risultato fu che il Calabrese era rimasto interdetto e aveva cambiato espressione: - scusa, non sapevo che eri amico di Picchio – aveva farfugliato, prima di andarsene. Scusa, addirittura! Quando fu dileguato scoppiamo a ridere e divenimmo amici. Picchio “il boss”.
Di sicuro quella mattina quando il Sor Antonio lo vide entrare in bisca capì subito che c’erano guai in arrivo. Lo capimmo tutti.
Picchio stava giocando i nostri soldi al tavolo tre contro un tizio un po’ ritardato chiamato il Gigante, un ammasso di stracci con le mani sempre piene di croste. Aveva le sembianze di un camioncino della nettezza urbana, ma più sgradevole. Il Gigante sbagliava il nome di tutti. Per lui io ero Vincenzo. Mai conosciuto nessun Vincenzo. Voleva giocare sempre a “boccetta” ma tutti lo costringevano a giocare a “otto e quindici”.
Il Calabrese invece saltò a sedere sopra il tavolo undici, piazzando le sue natiche sudate in prossimità della buca centrale. Masticava a vuoto, la sua stessa saliva, e fissava ogni movimento di Augusto. In giro correva voce che anche lui fosse un buon giocatore, ma non abbastanza da poter primeggiare in nessun torneo.
Fu Luchino “mezza cellula” a richiamare la mia attenzione e quella di Picchio. Luchino era un altro tipo da romanzo. Pure lui timido e rinsecchito come un ramoscello, pallido come un confetto, di fatto (è inutile girarci intorno) si schizzava: tossicodipendente irrecuperabile. Era stato lui a farmi iniziare a fumare, durante una festa a casa sua. Quel giorno ero entrato anche nel giro dei suo amici. Uno di loro mi aveva spiegato che lo chiamavano “mezza cellula” perché era probabile che se le fosse bruciate tutte, le cellule, e neanche una sana gliene fosse rimasta dentro quel corpo tisico.
- Una no, ma mezza sì!
E il soprannome fu aggiudicato.
Ricordo bene quel giorno anche perché al primo tiro di canna avevo iniziato a tossire come un tubercoloso e tutti erano esplosi in una fragorosa risata. Per fortuna ero stato presentato dal padrone di casa come “l’amico di Picchio il boss”, quindi mi avevano trattato subito come uno di loro.
Il Calabrese si sfilò la giacca e accese una sigaretta. Picchio abbandonò la partita col Gigante e ci avvicinammo tutti al tavolo dodici.
Augusto storse la bocca – faceva così quando era concentrato - e imbucò una palla di carambola.
- Sei bravo – si complimentò il Calabrese.
Frontone era estraneo ai giri di quartiera. Non aveva la minima idea di chi fosse quel tizio seduto sul biliardo affianco. Cercammo di farglielo capire lanciandogli qualche occhiata, che a quanto pare s’infranse sulla fronte e non raggiunse mai gli occhi. Non recepì, anzi disse una delle cose più sbagliate che si potessero dire in quel frangente.
- Vuoi giocare?
Il Calabrese si sfregò le mani.
- A “otto e quindici”?
- Sì. Al meglio delle dieci partite, va bene?
- Va bene. Quanto?
Frontone inarcò quelle enormi labbra verso l’alto, producendo un ghigno simile a un sorriso. Non intuiva proprio il guaio in cui si stava cacciando.
- Venti? – suggerì.
- Così poco? – replicò il Calabrese.
Augusto fece spallucce: - Scegli tu.
- Facciamo cinquanta.
Cinquanta euro a partita significava rischiare di perdere qualche centinaio di euro. Augusto non ce li aveva tutti quei soldi, perciò esitò.
- Allora, ci stai o ti caghi sotto?
Bastava stuzzicarlo per offuscargli le idee, era il suo limite. A ben pensarci era il limite di tutti i coatti, gli scommettitori e gli sbruffoni, specie quelli affetti da machismo. Inoltre dovette pensare che non avrebbe perso. Che diavolo, era forte! E comunque ormai era una gara a chi lo aveva più duro.
- Per me va bene anche cento - delirò.
Il Calabrese grugnì e andò a scegliersi la stecca. Ne prese due. Tornando al tavolo strizzò l’occhio a Picchio e lo coinvolse: - quale, secondo te, boss?
Picchio le osservò, le soppesò, le fece scivolare tra indice e pollice.
- Secondo me… forse… questa.
Il Calabrese assentì e incominciò la sfida.
Di solito la prima partita è quella in cui i due avversari si annusano, si nascondono il repertorio evitando di sfoggiare i colpi pregiati. In genere si tratta di far credere all’avversario che siamo quasi alla sua altezza, ma che al redde rationem vincerà lui, perché a noi manca quel qualcosa che invece lui ha.
Fu così anche stavolta. Dopo soli due minuti era chiaro che entrambi i giocatori stavano facendo tattica, giocando di proposito sotto le loro potenzialità.
La prima la vinse Augusto, di misura.
Durante la seconda partita si aggiunse uno spettatore: il Gigante. Era lento, aveva impiegato dieci minuti per camminare dal tavolo tre al tavolo dodici, facendo sosta in bagno. Si sedette e si lamentò con Picchio per aver interrotto la sua partita, tanto che il Calabrese si voltò due volte a guardarlo in tralice. Dovemmo zittirlo e promettergli che la sua maledetta partita l’avremmo ripresa dopo che fosse finita quella. Ma non capì: - A me non frega niente di questa partita, giochiamo noi! – esclamò, proprio mentre il Calabrese tirava e neanche a farlo apposta sbagliava. Due a zero per Augusto.
Picchiò lo zittì ancora, rimproverandolo sottovoce.
- Falla finita! Appena finisce questa partita giochiamo quanto vuoi, ok?
Nella terza partita il livello di gioco si alzò parecchio. Alla fine Augusto era rimasto soltanto con la palla neutra, la gialla, la numero uno. Il Calabrese, prima della gialla, doveva provvedere a riporre la quindici nella buca centrale obbligata. Toccava al Frontone, bloccato al bivio tra due possibili scelte: temporeggiare aspettando un’occasione migliore, oppure tentare un colpo difficile per chiudere la partita. Era quasi impallato. Per riuscire nell’impresa avrebbe dovuto spizzare la palla avversaria tirando molto forte, oppure tentare una complicata sponda lunga con effetto. Se però avesse sbagliato avrebbe quasi di sicuro consegnato la vittoria all’avversario. Continuò a riflettere, ad accucciarsi sulle sponde, a scrutare tutti gli angoli possibili, mentre assestava ripetuti colpetti di gessetto sul puntale.
Il Gigante, seduto proprio lungo la diagonale esatta delle tre palle in gioco, decise di complicarsi la vita:
- Secondo me la vedi – disse.
Aveva in pratica suggerito ad Augusto che c’era luce tra le palle, quindi di evitare la sponda e tentare il colpo diretto. Il Calabrese poggiò la sigaretta accesa sul un fianco di legno del biliardo e si avvicinò al Gigante.
- Forse qualcuno ha chiesto la tua opinione, coglione?
Quello non rispose e il Calabrese gli puntò la stecca dritta in faccia; gli infilò il puntale dentro il grosso naso.
- Se dici ancora una parola il prossimo tiro lo farò con la tua testa di cazzo. Hai capito, stronzo?
Il Gigante aveva ragione. Augusto decise di tentare il colpo diretto. Non solo tentare: gli riuscì. Tre a zero.
Il Calabrese divaricò le narici e scoccò un’occhiata sprezzante verso il Gigante.
Si metteva male.
Io e Picchio cercammo più volte con lo sguardo di comunicare ad Augusto di non strafare, di stare al suo posto. Battere il Calabrese era una cosa molto pericolosa, ma innervosirlo o umiliarlo poteva essere fatale. Eppure i nostri tentativi sembravano sortire un effetto contrario, tanto che il Frontone alla quarta partita iniziò a fare lo spaccone, a imbucare tutte le bilie di schioppo, una dopo l’altra. Quattro a zero.
Nel frattempo attorno al tavolo s’era creato un assembramento, nel quale si distinguevano altri spettatori sopraggiunti durante la partita: il nano, Alessio, il cinese, Ninetto, il bove, Thomas. Tutti clienti abituali. Quella folla non faceva che rendere la situazione ancor più tesa. Bisognava spiegare ad Augusto che doveva fermarsi, perderne una, ma come? Picchio mi fece cenno che neanche lui poteva intromettersi.
Per un caso fortuito il Calabrese riuscì a vincere la quinta partita, ma fu soltanto una parentesi prima che riprendesse lo show del Frontone. Sul risultato di cinque a uno Augusto aveva la sfida in mano e presto avrebbe avuto il primo match-point a disposizione. Stava per imbucare le ultime tre palle quando il Calabrese lo bloccò interponendo la sua stecca tra l’avversario e la palla bianca.
- Facciamo una partita secca. A mille. Ci stai?
Augusto inspirò a fondo, senza replicare nulla.
- Se perdo – proseguì il Calabrese – ti do mille euro. Se vinco mi dai la tua stecca. Prendere o lasciare, cagasotto.
Augusto valutò che la sua stecca, usata, avrebbe potuto piazzarla a non più di tre o quattrocento euro. L’offerta era buona; l’offerente no. Ma di questo Augusto sembrava ignaro. Cercammo ancora di fargli dei cenni, pur sapendo che ci avrebbe ignorato.
- Ci sto.
Il Calabrese prese una birra dal frigo e si diresse in bagno. Due minuti dopo tornò al tavolo con il viso grondante d’acqua e si riposizionò l’elastico dei capelli. Aveva due pupille larghe e nere come un pesce quattrocchi. Tutti – tranne Augusto – sapevamo che aveva appena tirato una striscia di coca.
Pronti-via, Augusto si guadagnò il diritto di spaccare.
- Tu però adesso ti levi dal cazzo, non ti voglio sentire né vedere – urlò il Calabrese al Gigante, che si fece da parte.
Un quarto d’ora più tardi sul panno verde erano rimaste soltanto tre bilie. Due erano del Calabrese: la viola e la nera, vale a dire la numero quattro e il suo doppio, la otto, che da regolamento andava imbucata nella buca centrale opposta a quella in cui era già entrata la quindici dell’avversario. Era il suo turno di gioco e con un leggero colpo in testa sulla bianca spedì la quattro in buca d’angolo con un perfetto tic-tac**. Uno dei limiti di questo colpo è che non permette l’uscita della palla bianca per il successivo tiro, così la bianca rimase adiacente alla sponda lunga. Il Calabrese avrebbe dovuto giocare la numero otto di sponda. Un colpo complicato. Se gli fosse riuscito avrebbe vinto, perché l’ultima bilia, la numero uno*** era in posizione molto favorevole. Altrimenti avrebbe perso. Ci ragionò qualche istante e optò per una strategia conservativa. Temporeggiò. Toccò la bianca quel tanto perché andasse ad abbracciarsi e a nascondersi alla perfezione dietro alla sua otto. Colpo geniale. L’imbarazzo della scelta passò ad Augusto, costretto a sua volta a un tiro di sponda molto complicato. Il biliardo è come una partita a scacchi, e Augusto passava per essere un giocatore molto tattico, quindi mal digeriva di trovarsi sotto scacco. La sua grossa fronte s’imperlò di sudore. Era in un vicolo cieco. Attorno al tavolo ognuno di noi aveva la propria idea su cosa fare e come, su chi aveva sbagliato cosa e quando, ma nessuno osò fiatare. Ogni buon giocatore sapeva che non c’era un modo diverso di giocare quella palla, se non quello di indovinare il tiro dell’anno. Lo sapeva anche Augusto. Per questo la sua faccia paonazza pulsava di rabbia nervosa.
- Vaffanculo… - sussurrò tra sé e sé.
Si appoggiò coi fianchi al tavolo di biliardo, sollevò il manico della stecca verso l’alto e puntò la bianca come se volesse trafiggerla dall’alto.
- Non ci credo – sussurrò Picchio.
Tutti ci guardammo increduli. Il pazzo aveva rinunciato al tiro dell’anno di sponda, per tentare il tiro del secolo e giocare un Massè***.
La bianca partì a razzo in direzione sbagliata. Tre centimetri più avanti la rotazione impressa dall’alto le impose una curva a gomito che la portò a impattare la bilia gialla con un’angolazione e una forza perfette per mandarla in buca d’angolo.
Gli era riuscito l’impossibile.
A tutti venne spontaneo un applauso, accompagnato da un chiacchiericcio di stupore. Augusto si lasciò andare a una risata quasi isterica. Il Calabrese rimase qualche istante impietrito. Poi strinse la mano all’avversario: - bel colpo. Fece per andarsene, senza preoccuparsi di pagare né il tavolo né tantomeno i mille euro della scommessa. Era quasi sull’uscio quando Augusto, ancora galvanizzato dalla vincita, decise di far valere i propri diritti.
- Dove vai, non mi paghi? – strillò.
Il Calabrese si fermò, si voltò e tornò indietro a passo deciso.
- Che hai detto?
È probabile che Picchio lesse nei suoi occhi che stava per accadere l’irreparabile, così cercò di mediare. Però non ebbe la stessa fortuna di quando era intervenuto in mio soccorso.
- Picchio stavolta fatti i cazzi tuoi, ti avviso.
Il Calabrese si posizionò faccia a faccia con Augusto.
- Allora, ripeti, cosa hai detto?
- Ho vinto amico, dai…
- Lo stronzo del tuo amico prima mi ha distratto con le sue chiacchiere, poi ti ha suggerito.
- Cosa?
- Hai sentito bene.
- Il Gigante? Ma quello è un tossico, non è un mio amico. E poi ho scelto io di tirare senza sponda.
- Fatti pagare da lui.
- Ehi senti…
- No, senti tu, finora ho fatto il bravo perché sono ai domiciliari. Ma perdio se dici ancora mezza parola...
- Ehi ascolta…
Augusto non riuscì a dire altro. Una frazione di secondo dopo era semidisteso sul tavolo di biliardo, col naso che pisciava sangue. Non fece in tempo a contenere la perdita di liquido ematico che il Calabrese gli assestò una gomitata sulla tempia che lo tramortì. Quel figlio di puttana sembrava invasato, recuperò la sua giacca ed estrasse la rivoltella. La puntò su Augusto che era già vinto, quasi incosciente.
Non saprei dire da quale misterioso tipo di forza venni posseduto, ma in quell’istante l’istinto m’impose un gesto che non avrei mai pensato di fare. Afferrai la Balabushka di Augusto e la librai a tutto braccio contro l’arma del Calabrese. Forse gli fratturai un dito. La pistola gli saltò di mano e finì con la canna in buca d’angolo al tavolo undici. Il figlio di puttana rimase sorpreso, mi osservò con la mascella appesa chiedendosi chi cazzo fossi, dove mi avesse già visto. Mi guardava come se avesse appena avvistato un alieno. Sarei dovuto fuggire a gambe levate, perché entro due secondi mi avrebbe pestato a morte. Invece rimasi lì, con la stecca in mano e un’aria da idiota compiaciuto stampata in volto. Ho dato una steccata al Calabrese. Sto per morire ma ho due palle grandi come le sfere in bronzo dello scultore Pomodoro.
Allora la stessa forza possedette anche Luchino, che fece volteggiare una stecca e la fracassò tra il capo e il collo del figlio di puttana. Il colpo fu violento al punto che la stecca si spezzò in due. La canaglia barcollò in avanti verso il tavolo undici. Stavolta fu il cinese a stampargli in piena faccia una terza steccata, frantumandogli qualche dente e uno zigomo. Il figlio di puttana non crollava ancora. Con le residue forze tentò di recuperare la pistola. Riuscì ad afferrarla ma il Gigante si avventò su di lui, gli forzò il braccio piegandogli il gomito, tanto che finì per puntarsi la pistola in faccia da solo. Nessuno fece in tempo a fermarlo. Si udì un colpo e si videro pezzi di materia grigia e spruzzi di sangue e di liquido cerebrale volare sotto la lampada d’illuminazione del tavolo undici e spargersi sul panno verde da gioco. Il verde imbevuto di sangue diveniva color petrolio.
Arrivò l’ambulanza. Il Calabrese, per miracolo, era ancora vivo. Venne portato d’urgenza in ospedale, a combattere tra la vita e la morte.
Arrivò anche la polizia, alla quale raccontammo una versione di comodo che prevedeva un diverbio e un incidente. Facemmo ricadere tutte le responsabilità sul Calabrese. In un certo senso era la verità. Dopo aver preso le nostre generalità e deposizioni, ci fu permesso di tornare a casa, restando a disposizione del magistrato.
Il mattino seguente il Calabrese perse anche la più importante delle partite, quella contro la morte. Uscirono degli articoli sulle cronache locali in cui si parlava di una sparatoria in bisca nella quale aveva perso la vita un noto pregiudicato.
Si racconta che nel referto medico alla voce “orario del decesso” fossero indicate le “otto e quindici”.




[size=85][i]* Prima della legalizzazione delle scommesse, il “picchetto” nel gergo della strada erano le scommesse illegali gestite dal malaffare.
** Si chiama così, in gergo, perché è un colpo che produce un doppio impatto tra la bilia bianca e quella interessata (in questo caso la numero quattro) e quindi un suono che somiglia a un “tic-tac”. Questo colpo si utilizza quando la palla da colpire è molto vicina alla sponda e si vuole che trasli lungo la sponda stessa (in genere in direzione della buca), ma non c’è possibilità per giocarla in modo indiretto, e neppure c’è sufficiente angolazione rispetto alla bilia per poterla spizzare e giocare di fino.
*** Nel gioco “otto e quindici” la bilia gialla col numero uno è la palla della vittoria, perché il giocatore che abbia imbucato tutte le proprie bilie ( quelle a strisce dalla 9 alla 15 oppure le piene dalla 2 alla 8 ) per vincere la partita deve imbucare la numero uno come ultima palla.[/i][/size]
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Accipicchia perbaccolina. Un racconto serio il tuo, forse anche troppo per un covo di perdigiorno. Scrivi da professionista, e lo sai; nulla da segnalarti a parte qualche virgola mancante e quell'Ehy.
La partita di biliardo sembra una partita a scacchi e infatti li citi pure e i personaggi sono belli duri, diretti, senza paure o dubbi, privi di sbavature persino quello psicopatico del Calabrese; tanto che li avrei visti bene in qualche locale di malaffare anni Cinquanta tra Brooklyn e Atlantic City. Anche il Covo pare un vero covo di gangster e ci sono pure le corse, le scommesse, le bionde. Ma dalle nostre parti, ai nostri giorni (si scommettono euri) con degli studenti di liceo mi pare improbabile. Anche quel finale con la polizia che si beve tutte le minchiate che gli raccontano (ma non l'avevano pestato a sangue il Calabrese?) pare un po' inverosimile. Tutti dentro fino a prova contraria.
A ogni modo, un magnifico pezzo, un ottimo lavoro al netto della mia sospensione d'incredulità.
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Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Il racconto mi è piaciuto per la ricchezza delle descrizioni sia dei personaggi, sia delle “azioni di gioco”. È anche coinvolgente e, se non divertente, ironico. Il finale mi pare meno efficace rispetto ai primi tre quarti della storia, mi sembra un po’ esagerato. Voto 4.
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Fausto Scatoli
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

caspita, qui ci starebbe un bel film, e sarebbe pure efficace nel mostraresituazioni che molti ignorano.
certo, si parla di tempo fa, ma oggi non credo sia molto diverso.
diciamo che forse ci sono dentro troppe cose, che meriterebbero più ampio respiro.
comunque le descrizioni sono buone e i personaggi ben caratterizzati.
scorre bene
l'unico modo per non rimpiangere il passato e non pensare al futuro è vivere il presente
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Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

Bel racconto, c’è tutta un’epopea di quartieri degradati, criminalità e localacci malfamati. Ottime le caratterizzazioni dei personaggi, anche quelli minori ne escono vividi e realistici, le fasi di gioco sono dinamiche e sono godibili anche per i profani del biliardo. Tutto è scritto in uno stile molto accattivante.
Qualche incongruenza l’ho notata anch’io: il finale è un po’ sopra le righe e mi immagino la vicenda collocata in un’epoca decisamente pre-euro, direi gli anni ’70-80, quando il Monopoli si scriveva ancora senza la y (non come ora).
Un plus il riferimento a “La vita, istruzioni per l’uso”, gran romanzo!
Ti segnalo un refuso: Frontone era estraneo ai giri di quartiera (quartiere).
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
https://chiacchieredistintivorb.blogspot.com/
Intervista su BraviAutori.it: https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =76&t=5384
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Kriminal.e

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Kriminal.e è una raccolta di testi gialli "evoluti", che contengono cioè elementi tecnologici legati all'elettronica moderna.
Copertina di Diego Capani.
A cura di Massimo Baglione.

Contiene opere di: nwTullio Aragona, nwNunzio Campanelli, Lorella Fanotti, Lodovico Ferrari, Emanuele Finardi, Concita Imperatrice, nwAngelo Manarola, nwFrancesca Paolucci, nwUmberto Pasqui, Antonella Pighin, Alessandro Renna, nwEnrico Teodorani.

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A modo mio

A modo mio

antologia AA.VV. di opere ispirate a storie famose, ma rimaneggiate dai nostri autori

A cura di Massimo Baglione.

Contiene opere di: nwSusanna Boccalari, nwRemo Badoer, nwFranco Giori, nwIda Daneri, nwEnrico Teodorani, Il Babbano, nwFlorindo Di Monaco, Xarabass, Andrea Perina, Stefania Paganelli, Mike Vignali, Mario Malgieri, nwNicolandrea Riccio, Francesco Cau, Eliana Farotto.

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L'Animo spaziale

L'Animo spaziale

Tributo alla Space Opera

L'Animo Spaziale è un tributo alla space opera. Contiene una raccolta di racconti dell'autore Massimo Baglione, ambientati nella fantascienza spaziale. Un libro dove il concetto di fantascienza è quello classico, ispirato al Maestro Isaac Asimov. La trilogia de "L'Animo Spaziale" (Intrepida, Indomita e Impavida) è una storia ben raccontata con i giusti colpi di scena. Notevole la parentesi psicologica, in Indomita, che svela la complessa natura di Susan, elemento chiave dell'intera vicenda. "Intrepida", inoltre, ha vinto il primo premio nel concorso di letteratura fantascientifica "ApuliaCon 2006" (oggi "Giulio Verne"). I racconti brevi "Mr. Sgrultz", "La bottiglia di Sua Maestà" e "Noi, sorelle!" sono stati definiti dalla critica "piccoli capolavori di fantascienza da annoverare negli annali.
Di Massimo Baglione.

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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.






Alcuni esempi di nostri ebook gratuiti:


Gara d'inverno 2020-2021 - Una rampa per l'abisso, e gli altri racconti

Gara d'inverno 2020-2021 - Una rampa per l'abisso, e gli altri racconti

(inverno 2020-2021, 50 pagine, 606,20 KB)

Autori partecipanti: nwNamio Intile, nwRoberto Bonfanti, nwMarcello Rizza, nwLiliana Tuozzo, nwFausto Scatoli, nwElianaF, nwAndr60, nwAthosg, nwLaura Traverso, nwSelene Barblan,
A cura di Massimo Baglione.
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Gara d'inverno 2022/2023 - Immaginazione Artificiale - e gli altri racconti

Gara d'inverno 2022/2023 - Immaginazione Artificiale - e gli altri racconti

(inverno 2022-2023, 81 pagine, 697,70 KB)

Autori partecipanti: nwMarino Maiorino, nwDomenico Gigante, nwGiovanni p, nwMariovaldo, nwNamio Intile, nwAlberto Marcolli, nwRoberto Bonfanti, nwNunzio Campanelli, nwAndr60, nwRMarco, nwAnto58, nwLaura Traverso, nwStefano M., nwAthosg, nwNuovoautore, nwLetylety,
A cura di Massimo Baglione.
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Gara d'inverno 2021/2022 - La Strega, e gli altri racconti

Gara d'inverno 2021/2022 - La Strega, e gli altri racconti

(inverno 2021-2022, 72 pagine, 700,60 KB)

Autori partecipanti: nwRoberto Bonfanti, nwMessedaglia, nwMarino Maiorino, nwAthosg, nwRobertoBecattini, nwAlberto Marcolli, nwGiovanni p, nwNamio Intile, nwStefano M., nwDomenico Gigante, nwMacrelli Piero, nwTemistocle,
A cura di Massimo Baglione.
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