Due amori
Inviato: 23/06/2020, 18:36
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Palermo, primavera 1989
Antonio mi cinse le spalle e a un orecchio sussurrò: «Ti do tre milioncini e mi porti Penelope in Turchia, ad Antalya.»
«Non bastano» obiettai.
Perché conoscevo Penelope ed ero consapevole delle sue esigenze.
Mi divincolai, stanco di marchette gratis al miliardario di turno.
«Non sono spiccioli… proprio con me vuoi fare il furbo?»
Mi guardò dritto negli occhi, come in una sfida a duello.
«Lo so quanto ti piace: ho visto come la guardi, un tempo avresti pagato tu per star con lei. Quando ti capita un’altra occasione? E poi senti» mi afferrò la faccia manco fossi una femmina da baciare, «non c’è fretta, anzi almeno un mese la devi portare in giro, lontano da quel ladro che la mantiene e la trascura.»
Annuii in silenzio e già sapevo dove voleva andare a parare.
«Compà, un tempo ero un fesso, ma ora mi sono stancato di andare dietro a gente che diventa ricca niente facendo. Perché sei tu facciamo cinque milioni, e per un mese di Penelope me ne occupo io.»
Antonio sembrò pensarci su. Ma ormai conoscevo i suoi bluff, e se davvero avesse avuto qualche altro disgraziato disposto a tutto tra le mani neanche mi avrebbe chiamato.
Allungò la mano destra e disse: «Affare fatto. Avrei accettato anche per sei.»
«E io l’avrei fatto anche per tre» aggiunsi, per il solo piacere di non dargliela vinta.
Avevo incontrato Penelope a Favignana, sulla banchina della tonnara vecchia, carezzata dalle acque trasparenti della baia e dalla brezza tiepida di giugno.
Era bellissima.
Alcuni giorni dopo fu proprio Antonio a invitarmi a stare qualche giorno con loro, in giro per l’arcipelago, e galeotte le acque limpide delle Egadi me ne innamorai.
Poi le nostre strade si separarono. Feci molte altre esperienze, ma lei sarebbe rimasta quella diversa, il mio unico vero amore.
Alla fine arrivò il momento. Quel torrido giorno d’inizio luglio ero pronto per rivederla.
Penelope, uno splendido sloop di quaranta piedi in alluminio, mi aspettava nelle acque luride del porto, dove il suo armatore la lasciava marcire per quasi tutto l’anno.
Antonio mi consegnò le chiavi e i documenti e si esibì nel suo solito avvertimento: «Giò, senza un graffio la devi riconsegnare.»
Sull’equipaggio invece mi aveva lasciato mano libera: porta chi vuoi, basta che a me non costi nulla.
Che significava qualche disperato in cerca d’avventura e disposto a tutto pur di andar per mare. Qualcuno convinto di fare lui l’affare della vita, e perciò intenzionato a lavorare gratis per il tizio che pagava un ormeggio due milioni al mese senza batter ciglio. Maledetto il denaro e chi l’ha inventato pure.
«Il mare… chi non lo conosce che ne sa dei suoi infiniti segnali, del suo umore cangiante, e con quale prodigiosa intensità scuota i sensi? Chi non conosce il mare che ne sa del suo odore sempre diseguale, dei suoi colori mai identici? Il mare è una sensazione che ti droga, e una droga che alle volte ti uccide» recitai proprio così.
Era quella la mia scena madre, offerta gratis a Blasco Internicola. La filastrocca l’avevo imparata a memoria, tante volte l’avevo sentita in bocca ad Antonio quando cercava di fottere me o qualcuno come me. E ora toccava a me rifilarla all’allocco di turno; cosa che feci con grazia, e lo stesso sorriso beffardo dell’Ignoto Marinaio di Antonello da Messina.
È proprio vero che nella vita o si fotte o si è fottuti, e stavolta toccava a Blasco d’esser fottuto.
Che avevo conosciuto in una regata d’altura il marzo prima, quando m’aveva confidato ch’era desideroso di mettersi alla prova con qualcosa di più impegnativo di una regata. Certo, il fatto che ci avesse fatto arrivare ultimi, volando in mare colpito dal boma di randa, non deponeva a suo favore. Ma nonostante la mezz’ora nel mare frangente di marzo al largo di Ustica cercando di recuperarlo, lo chiamai: gratuito e con un mese a disposizione conoscevo solo lui.
Gli raccomandai di venire il giorno prima della partenza, per preparare la barca alla crociera. E quando arrivò aveva un sorriso stampato come di chi ha vinto la lotteria di capodanno e fa di tutto per farlo vedere agli altri. Era un entusiasta Blasco e perciò non si rendeva conto che io lo stavo usando, e che qualcun altro stava usando me. Così va la vita.
Il giorno della partenza il mare era increspato dalla brezza del mattino; drizzammo la randa e il genoa e via: bussola a novanta gradi verso il misterioso Oriente. Da Palermo filammo al traverso lungo la costa settentrionale dell’isola. Blasco cazzava le scotte con i winch, regolava il trasto di randa, si dava da fare come un vero marinaio. Sembrava un buon diavolo, anche se sapevo bene come in mare bisognasse attendere che il valzer della fortuna terminasse il suo giro per capire di che pasta fosse fatto l’uomo. E l’uomo, in mare come in terra, parafrasando Sciascia, appartiene a cinque categorie: il marinaio, il mezzo marinaio, il mozzo, il pigliainculo e il jolly.
E io, sicuro di appartenere alla più nobile, mi ero incatenato al timone rifiutando a me stesso l’inserimento del pilota automatico e intenzionato a godermi il comando della mia Penelope, a carezzarla con le dita, ascoltarne gli umori, prevederne i bisogni, proprio come si fa con l’innamorata in carne e ossa.
«Hai mai visto le Eolie dal mare?» Gli domandai all’altezza di Cefalù.
Scosse la testa.
«E allora le vedrai» promisi, e cambiai rotta, virando la prua verso il mare aperto.
Arrivammo che cominciava a scurire: Alicudi è la più selvaggia delle sette sorelle, solo un fortunoso attracco per l’aliscafo e poche case appollaiate lungo i ripidi pendii vulcanici. Non una strada, non una macchina, persino l’elettricità era scoperta recente. Ci ormeggiammo alla meno peggio e feci un salto a terra con lo stesso spirito del capitano Cook.
Gli indigeni mi offrirono capperi e spigole e la prima notte la passammo cullati dal mare sotto un cielo luccicante di stelle.
Con vento al traverso incrociammo Filicudi, Salina, Lipari, Vulcano, dove diedi fondo nella Baia di Ponente.
Concedetti a Blasco la libera uscita e lui, sorridente come un pargolo col suo balocco, raggiunse la spiaggia col tender. Io preferii rimanere con la mia Penelope, memore di una brutta avventura capitatami lì un paio d’anni prima, quando un’improvvisa tempesta spedò le ancore delle barche alla fonda facendone affondare qualcuna. Tutta gente con tanti soldi e poco cervello. Così va la vita.
Ma quella sera meglio avrei fatto a lasciare Penelope sola e a seguire il prode Blasco a terra, pure se nulla m’aveva lasciato presagire che avessi per le mani un casanova da strapazzo accecato dal testosterone, una sottospecie di idiota in pieno annebbiamento ormonale. Quella sera Blasco, al ritorno dalla sua spedizione in terra incognita, portò a bordo un’olandesina di sì e no vent’anni, con un corpo da modella e un viso d’angelo.
«Questa è Kelly» la presentò, mezzo strammato, con un sorriso che gli allargava la faccia proprio come al jolly del mazzo di carte, ma senza i ben noti campanelli. «Le ho promesso un passaggio sino ad Atene» mi comunicò senza pudore, come se il mio assenso fosse un accessorio di serie o una pura formalità.
«Ma quale Atene e Atene» replicai. «Compà, tu pazzo sei! Noi ad Antalya dobbiamo andare. E non sei autorizzato a dare passaggi. Qua comando io!»
«Ma scusa… Antonio non t’aveva detto porta chi vuoi basta che sia gratis? Tu me l’hai raccontato… e lei gratis è» ribatté, con il fare d’un puttino.
«A questo mondo di gratis niente c’è. E poi porta chi vuoi Antonio l’ha detto a me! Il capitano sono io» lo ripresi.
«E io, infatti, lo sto chiedendo al capitano» fece, e scandì quell’ultima parola; «e poi una mano a bordo ci serve… sa cucinare.»
«Che fa, mi sfotti? Di donne a bordo non ne voglio. Portano una tremendissima sfiga, una mala sorte bestiale!»
«Che ti fotte della sfiga? Ma… tu l’hai vista?» balbettò. «Hai visto che corpo? E che gambe, che seni… che occhi» mi tentò, il diavolo accecato dal testosterone.
«E tu ll’occhi ci taliasti. Lo so io che ci guardasti! Niente donne, è un ordine» esclamai, con piglio militare.
«Kelly, vieni qui» le fece cenno Blasco, sforzandosi nel suo improbabile dialetto anglo siculo.
E il subdolo demonio la mise in mostra, facendola roteare su se stessa.
La ragazza, occhi verdi, bocca rossa, e una maglietta bianca che più che nascondere lasciava presagire ogni ben di Dio, s’accostò e mi sfiorò la guancia destra alitandomi sul collo.
Rimasi interdetto e la guardai di traverso prevedendo guai a non finire. Fui sul punto di buttarla fuori, ma il diavolo, complice il mio testosterone da tempo in colpevole accumulo, m’accecò: per un attimo immaginai cose turche nella cabina armatoriale.
«Va bene» acconsentii riluttante.
«Dagli la cabina a prua, e tu prendi la cuccetta a poppa. Separati vi voglio, e tu comportati da gentiluomo» lo avvertii. «Si cena tra mezz’ora e all’alba si riparte. Voglio arrivare in Calabria prima di sera.»
«Agli ordini, capitano» rispose Kelly, nel suo traballante italiano, e contenta mi fissò coi suoi smeraldi da gatta in calore.
La cena a base di ricciole prese alla traina se ne andò insieme a due bottiglie di Bianco d’Alcamo: «Carpe diem!» Latineggiai, e mentre riempivo i bicchieri riflettei sul fatto che quella donna si trovava a bordo da un paio d’ore e già m’aveva fatto infrangere il divieto assoluto d’alcool alla fonda. Così va la vita.
Il giorno dopo non incontrammo vento sino allo stretto di Messina, poi la brezza si alzò potente al nostro traverso. Drizzammo il genoa, lo scafo si inclinò, la spuma iniziò a spazzare il ponte, e cominciò la bolina. Davo ordini di virata continui, zigzagando tra i traghetti in spola tra le due rive dello stretto, i cargo che passavano da Oriente a Occidente, e le spadare dalle lunghe antenne a caccia degli ultimi spada del Mediterraneo.
«Vira a dritta» ordinai a Blasco, e sentii i sensi acuirsi, i muscoli farsi più potenti.
Lo facevo per tenermi in allenamento, ma volevo anche sfiancarlo perché aveva trascorso tutta la mattinata a pomiciare con Kelly, a strusciarsi infischiandosene delle mie consegne. Lo volevo stancare e lo volevo punire, volevo farlo soffrire quel verme pomiciante, quel mezzo marinaio d’un porto senza navi.
Forse il testosterone stava annebbiando pure me.
In quel frangente Kelly, non potendo fare uso di Blasco, si avvicinò. Io stavo dritto a poppa, le mani ben ferme sulla ruota del timone, strette come se tenessero i fianchi di una donna, con un occhio alle navi che incrociavano e un altro al mostravento a riva. Kelly aveva preso posto dietro di me, e cominciato a carezzarmi le spalle, scendendo giù, verso la schiena, verso i glutei. Rimasi imbalsamato, vagamente strammato, ma la lasciai fare: con un sorriso ebete lasciai che anche lei mi usasse… il demonio che viveva in me, e il testosterone che fluiva dentro di me, la lasciarono fare.
Kelly aveva diciannove anni, ma ne poteva avere trentanove per come giocava coi maschi. Infatti a Melito di Porto Salvo, un porto angusto con l’entrata tanto interrata che il progettista avrebbe meritato d’esser legato all’ultima crocetta di una qualunque maestra e portato a spasso per il Mediterraneo, lo dimostrò ancora. Avevo bisogno di carburante e di acqua dolce, prima di affrontare la traversata dello Jonio; e di tornare indietro a Reggio o di salire a Crotone non mi andava proprio.
Entrando nel porto per poco non mi arenai. Mi innervosii e comunicai alla ciurma di voler fare solo acqua e gasolio e di mollare subito gli ormeggi per Cefalonia.
«Ho voglia di camminare un po’» obiettò, nel suo italiano cantilenante, la dolce Kelly.
«E io ho detto di no» la zittii.
Anche Blasco iniziò a darle man forte rendendo la mia presa di posizione un inferno dove regnavano sguardi languidi e sorrisi ammalianti.
Purtroppo per me non valevo un mignolo della grinta del comandante del Bounty; il mitico William Bligh fece disertare tutto l’equipaggio piuttosto che cambiar rotta, e si trattava di Capo Horn, boia d’un mondo. Io invece acconsentii a passare la notte in quel buco dimenticato da Dio e ricordato male anche dagli uomini per andare dietro ai capricci della bella figlia dei tulipani e del suo innamorato ormonale. Così va la vita.
Così trascorsi la notte insonne, tra i mugolii amorosi di Kelly e i muggiti arrapati di Blasco che si divertivano, s’accoppiavano, si rotolavano, mentre fuori i pochi pescatori del porto lo facevano apposta a urtare Penelope a ogni passaggio.
Il giorno dopo, i due amanti ancora dormivano, lasciai il porto con bussola a novanta gradi, direzione isola di Cefalonia. Il mare era calmo, il vento spirava dai quadranti meridionali, branchi di delfini mi precedevano gioiosi; tutto sarebbe stato perfetto se non avessi ricominciato a sentire altri mugolii e fremiti di libido. Verso le dieci il casanova coi campanelli e la gatta del paese degli zoccoli uscirono, con loro comodo, a prendere il sole. Io ero già arrostito e stanco, perciò mi arresi all’automatico e mi sdraiai all’ombra della randa.
«La terra quasi non si vede più» osservò Blasco mormorando.
E io sentii puzza di codardo.
«Quanto ci impiegheremo per arrivare a Cefalonia?»
«Due tre giorni» feci.
Per non sentirlo scesi in quadrato a fare il punto nave stimato, e dopo salii con il mio sestante e il volume con le tabelle effemeridi dell’Istituto Idrografico della Marina per fare il punto nave con il sole. In realtà volevo solo mostrare ai due piccioncini chi era il capitano vero. Kelly era in topless sulla tuga e vederla così, bella, giovane, luminosa, coi bei seni al vento, mi provocò un notevole eccitamento ormonale che aumentò il volume del mio costume.
Cercai di ricompormi e mi concentrai: «Sulla carta, segna» ordinai a Blasco. «Latitudine 37 gradi 47 primi e 28 secondi nord, longitudine 16 gradi 32 primi e 12 secondi a est. Corrisponde al punto stimato?»
«Manco per niente» rispose acido, sicuramente geloso dei miei lunghi sguardi molli a Kelly e di quel rigonfiamento innascondibile.
«Dammi qua» lo zittii. «Se non fosse per me, in una tinozza vi perdereste. Deficiente» lo apostrofai, e tornai all’ombra della randa.
Kelly ci osservava divertita, movendo leggermente il capo, mettendo in mostra i bei seni appena abbronzati: sapeva di essere lei la causa del malumore tra noi due. Ma non solo non faceva nulla per metterci una pezza, sembrava addirittura che si divertisse.
La navigazione proseguì tranquilla fino a quando non incrociammo un relitto a una cinquantina di metri dalla prua. I miei sensi si destarono e si rimisero all’erta fiutando il pericolo.
«Dobbiamo fare i turni per la notte. Io faccio il primo fino alle due del mattino, poi ti sveglio e ti fai una tirata fino alle sei.»
«Non c’è pericolo» obiettò, indolente come non lo avevo mai visto prima e sicuramente desideroso di passare la notte a suonare lo zufolo con Kelly. «La rotta commerciale passa più a sud…»
«Le correnti non seguono le rotte commerciali, e Dio solo sa cosa cade da quelle stramaledette porta container. Fa’ quello che ti dico. E poi possono sempre esserci navi più a nord della rotta stabilita. E per loro noi siamo invisibili» tagliai corto, e mi rimisi al timone.
Kelly nel frattempo, con un sussulto di buona volontà, si era messa ai fornelli, anche se soltanto un pareo trasparente copriva le sue attraenti nudità e osservarla era una tortura senza fine, quasi quanto le stupide effusioni di Blasco ripetute sotto i miei occhi.
A ogni modo, la figlia dei tulipani si dimostrò un’ottima cuoca, e la cena fu consumata allegramente, lei seduta al mio fianco e pronta a versarmi il mio adorato Grecanico, a stuzzicarmi maliziosa, sfiorandomi i piedi con i suoi. Blasco a osservarla immusonito, accecato dalla gelosia. La sera stessa Penelope, che sino a quel momento aveva sopportato di buon grado i miei malumori e le mie distrazioni, cedette a una sventolata di scirocco. Accelerò d’improvviso, il pilota automatico non resse la rotta, e cominciò a fischiare. Corsi al timone e lo disinserii. Mollai la scotta di randa e ridussi il genoa, la navigazione riprese tranquilla, Penelope mi aveva fatto capire che non la potevo tradire, che con lei avevo il dovere di rigare sempre dritto. Mi feci tutta la notte nel pozzetto, perché Blasco si era sbronzato; Kelly mi venne a fare visita verso le tre del mattino, con un caffè caldo in mano, e si accucciò al mio fianco inebriandomi col suo profumo. Mi tenne sveglio, mi coccolò con la sua cantilena italo-olandese, mi raccontò dei suoi sogni: che avrebbe voluto viaggiare per il mondo libera, senza legami e costrizioni, magari con un vero uomo accanto.
«E i soldi?» Le domandai io, a un certo punto.
«I soldi si trovano» rispose lei facendo spallucce.
Non posso dire quel che pensai, ma di sicuro lo pensai.
Verso le cinque, albeggiava, le ordinai di andare a dormire, e io proseguii la mia veglia con Penelope, la moglie che non tradisce.
Da due giorni vedevamo solo acqua e cielo, il vento si era calmato, il mare non si muoveva. Ritirai bucato e stoviglie alla traina in mare, e li sciacquai in acqua dolce. Ammainai le vele e mi tuffai nel blu: sotto di me un abisso di cinquemila metri. Penelope scarrocciava lentamente verso nord mentre una testuggine mi nuotava vicino osservandomi quieta, per nulla preoccupata. Avrei voluto essere come lei, felice in un adesso senza tempo. E invece il diavolo mi seguiva da vicino. Le sfiorai il carapace e scomparì nel blu profondo. Osservai Kelly distesa sul ponte: una magnifica Naiade.
Blasco si accorse dei miei sguardi. «Ti potrei lasciare a mollo qui, a duecento miglia dalla costa, e scappare con Penelope, Kelly, e vivere felice per il resto della mia vita» mi urlò, armeggiando sotto il timone.
L’incanto si spezzò.
Accese il motore e Penelope si mosse, e mi convinsi che lo stava facendo per davvero: anzi lo presi talmente sul serio che iniziai a nuotare come un forsennato verso la scaletta ancora calata in acqua. Poi spense il motore, Penelope perse il suo abbrivio e si fermò.
Si mise a ridere, l’infame, e con lui la dolce Kelly.
M’ha fatto fare la parte del jolly, pensai una volta a bordo, e puntuale un sentimento di rabbia e di rancore si fece strada dentro di me.
Un altro giorno passò, ci prendevamo cura soltanto di noi stessi e di Penelope, mentre la costa greca si avvicinava e il nervosismo non accennava a diminuire.
Cefalonia venne fuori dalla foschia l’alba del giorno seguente, ci trovavamo più a sud del previsto, vicini a Zante, Cefalonia a sinistra. Preferii puntare su quest’ultima per le coste frastagliate e le possibilità illimitate di ormeggi tranquilli.
Argostoli ci accolse sonnolenta nel pomeriggio. L’unico marinaio della capitaneria ci accolse annoiato invitandoci a compilare dei moduli, osservando distrattamente i nostri passaporti. O meglio, controllò solo quello di Kelly e attaccò bottone in inglese costringendomi a interromperlo non troppo gentilmente. Mi guardò di traverso, e mi ordinò di sparire. Per una volta Blasco mi aiutò e tirò via la dolce Kelly. Così va la vita.
Feci rifornimento di nafta, acqua e frutta.
La baia era un lungo fiordo tra mare e monti e lasciava senza fiato, le acque calme con migliaia di ricci ad aspettare solo qualcuno che li facesse diventare un condimento per la pasta.
Mi venne voglia di un’insalata greca, con feta pomodoro zucchine e cipolla, e la innaffiai con mpura ghiacciata e ouzo, dopo giorni di acqua brodo.
Ci dondolammo per una settimana tra Santa Maura e Cefalonia, poi costeggiammo verso sud; volevo far vedere a Penelope la sua isola, la bella Itaca. E Penelope mi ringraziò a modo suo, e anche Blasco si rilassò, mentre Kelly aveva messo da parte gli atteggiamenti da femme fatale. Così, una volta a Itaca, lo mandai a terra in cerca di cibo fresco, e Kelly rimase in barca: «Non mi sento troppo bene, vai tu» si scusò.
Quando Blasco sparì dalla vista Kelly cominciò a stuzzicarmi, ma io non reagii. Allora lei mi saltò addosso come una belva affamata… e ottenne ciò che voleva offrendomi la sua merce più preziosa. Non avevo scampo, fui suo.
Dopo Itaca decisi di non passare per il canale di Corinto e di puntare a sud, oltre il Peloponneso, verso Creta. Oltre l’isola di Oxia il mare si fece frangente e con dieci nodi d’andatura costante puntai al mare aperto. Penelope cavalcava le onde che era una meraviglia, così decisi di montare il gennaker. Sistemai le scotte e drizzai la grande vela asimmetrica all’esterno del genoa.
Solo chi va per mare può capire. Dodici nodi con andatura al lasco, acqua libera a prua, libertà sciolta da vincoli.
Eppure il diavolo, anche quella volta, ci mise lo zampino. Per cominciare, Blasco, per quanto inebetito dal testosterone, si era accorto che tra me e Kelly era successo qualcosa, ed era tornato aggressivo, isterico. E poi il Meltemi aveva cominciato a soffiare impetuoso da nord, gonfiando il mare. Le onde si alzavano una dietro l’altra e frangevano. Ammainai il gennaker e distesi il genoa, ma nel pomeriggio l’anemometro segnava quaranta nodi di vento: terzarolai la randa, rollai il genoa, ingarrocciai un piccolo fiocco a prua, ma commisi l’errore di esser troppo prudente. Penelope perse velocità rischiando ogni volta di straorzare in cima all’onda a causa del rallentamento imposto dal frangente.
Ci vuole velocità, pensai, dopo aver preso un gran numero di scoppole.
«Molla un terzarolo» ordinai a Blasco, che s’era raggomitolato nel pozzetto accanto a Kelly, stravolta come lui dalla paura.
«Sulla tuga non ci salgo manco morto» mi urlò di rimando.
Persi la pazienza. «Il timone automatico questo mare non lo regge, e di sicuro non lo reggi neanche tu» gli urlai. «Catamiati! Alza il culo e leva una mano di terzaroli, altrimenti finiamo a mollo, cacasotto, jolly dei miei coglioni. Smetti di fare il buffone e datti una mossa!»
«Me ne catafotto dei tuoi ordini: mi vuoi far fuori per scoparti a Kelly» mi rinfacciò rosso in viso, mentre l’olandesina piangeva di fianco a lui.
D’un tratto un’onda molto alta e frangente più delle altre ci colpì al giardinetto di poppa. Penelope, troppo lenta, venne investita in pieno, e non riuscì a liberarsene: straorzò sull’onda coricandosi con la mura di sinistra quasi in orizzontale, con le crocette in acqua.
«Tenetevi» li avvertii, e poi vidi la piccola Kelly librarsi in aria. Misi la barra tutta a sinistra, sperando che la fortuna e la fisica facessero il resto, e infatti riuscii a riportarla in orizzontale.
Penelope non mi aveva tradito.
«Arrusu, pigliainculo! Ci farai affondare» gridai a Blasco, ma lui non replicò, né si mosse, e perciò decisi di rischiare con l’automatico che inserito iniziò a gemere come se lo stessero torturando. Feci scendere Kelly nel quadrato e le ordinai di chiudersi dentro. Serrai il tambucio e mi precipitai alla randa, sciolsi le borose, ma la drizza non ne volle sapere di andare su, la pressione del vento la inchiodava là dov’era.
«Il winch» indicai a Blasco il verricello accanto a lui. «Drizzala col winch…» Penelope straorzò ancora.
E questa volta fu peggio della precedente. Riafferrai il timone e diedi barra a sinistra, poi mi venne l’idea: il motore.
Tentai di accenderlo, sperando che le straorzate non avessero prodotto danni, e la fortuna mi assistette. Diedi tutta manetta e Penelope riacquistò velocità. Ogni cosa tornò al suo posto, le onde, affrontate con la giusta velocità, smisero di creare problemi.
Avevo rimediato all’errore.
«Sei un vigliacco e un pezzo di merda, Blasco. Ti sbarco a Heraklion» lo ripresi, quando la buriana si fu calmata. «Tu non sei un Marinaio, e non lo sarai mai» sentenziai senza possibilità di ricorso.
«Sono un vigliacco perché amo la vita e ho paura di perderla. A te invece fa schifo, il tuo coraggio è solo un bluff: sei solo uno psicopatico» mi rinfacciò. «E Kelly?» chiese dopo un po’.
«Kelly può far ciò che vuole» gli risposi.
«Te la sei scopata, vero?» Mormorò. «Lo sai che era mia, che ci tenevo… mi volevi fare fuori.»
«E io per una scopata ammazzo a uno…» e lo mandai a quel paese.
«Ci hai fatto l’amore, è vero?»
«Me la sono scopata» ammisi, col preciso intento di ferirlo, e lo affrontai. In risposta mi arrivò un gancio in faccia, e un altro ancora, prima di stramazzare in terra.
Seguirono ore di silenzio e vento al traverso, anche Kelly si era rintanata nella sua cabina per non uscire più.
«Va’ via» ordinai a Blasco attraccati a Heraklion. «E portati la tua olandese.»
«Non voglio andar via» mi pregò allora Kelly, e corse ad abbracciarmi. «Sono tua, se mi vuoi.»
La guardai con distacco, e pensai a tutto quello che era successo.
Osservai Penelope tranquilla, sicura, forte, stabile, fedele e pensai che per una stupida sbandata stavo rischiando di perdere un dono così grande. Il pensiero mi fece inorridire.
«A me basta Penelope» le dissi, e l’allontanai.
Li vidi percorrere un tratto insieme lungo la banchina, poi Kelly spintonò Blasco e sparì tra le barche a vela ancorate sul molo alla sua sinistra. Così va la vita.
Non potevo avere due amori, e la strada per Antalya era ancora molto lunga...
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