E' buio sul ghiacciaio
Inviato: 22/09/2020, 15:19
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Era ancora buio sul ghiacciaio. Il sole sarebbe sorto fra un paio d’ore; ma non lo avremmo visto prima del mattino avanzato, quando sarebbe stato così alto da superare con i suoi raggi obliqui la lunga cresta ovest.
Stavamo camminando lentamente nella parte piana o in lieve salita del ghiacciaio, verso la parete nord. Le lampade frontali illuminavano la neve davanti a noi e il fascio di luce circolare quasi ci ipnotizzava. La mente era vuota di pensieri; il corpo, come un automa, comandava il movimento meccanico dei piedi, con una cadenza commisurata al nostro passo.
Spesso ci si fermava per picchiare con la piccozza a lato degli scarponi che, ostinatamente, formavano uno zoccolo di ghiaccio sotto i ramponi. Poi si riprendeva.
Non c’era la luna e le stelle brillavano ancora, prima dell’alba e l’aria era così ferma che parevano dei puntini brillanti, senza sfarfallamenti.
Lei era una macchia nera davanti a me, sebbene la sua giaccavento fosse rossa; eravamo legati uno all’altra da una corda azzurra che, strisciando sulla neve, lasciava un leggero solco, come la traccia di una biscia.
Il ghiacciaio saliva dolcemente e ad ogni passo la pendenza aumentava; fino a che la piccozza tornava utile, come appoggio e come sicurezza, dal lato a monte. Si andava verso la crepaccia terminale, larga e slabbrata – non sarebbe stato uno scherzo superarla.
Al di sopra di essa si alzava la lunga e ripida parete nord, uno scivolo di neve e ghiaccio, che si restringeva verso l’alto, arrivando in prossimità della vetta che, fra un paio d’ore, sarebbe stata illuminata dal sole.
Faceva freddo – l’ideale per evitare cadute di pietre o di blocchi di ghiaccio – la temperatura era dieci sotto zero e le previsioni del tempo davano sereno per tutto il giorno. Era opportuno essere molto in alto prima che il sole, amato ma non desiderato, scaldasse la cima.
La crepaccia terminale, come molti sanno, è quella spaccatura – un vero e proprio crepaccio – che viene a formarsi dove la pendenza cambia bruscamente. Le forze in gioco sono così diversamente distribuite che si forma una tensione tale da spaccare la continuità del ghiaccio, proprio lì, fra il piano e la parete che sale ripidissima.
Il crepaccio era di dimensioni veramente notevoli. Assicurato da lei, mi sporsi oltre l’orlo per valutarne la profondità. Tutto buio: la lampada illuminava due verdi pareti di ghiaccio, verticali e che si avvicinavano più sotto, sprofondando verso il nulla, mentre mille cristalli e superfici contorte e compatte riflettevano la luce.
La parte a monte della spaccatura era più alta del labbro a valle di quasi due metri; il punto più stretto fra i due bordi era di circa un metro: avevamo un problema.
“Che facciamo, cara?”
“Come che facciamo, siamo venuti fin qui…andiamo avanti, no?”
Il bello nell’arrampicata – così come nella vita – è il fatto che, quando ci si trova di fronte a una difficoltà, si aspetta sempre che sia l’altro, per primo, a gettare, in un certo senso, la spugna. Ma se l’altro non ci pensa proprio? E’ raro che ammettiamo onestamente, noi stessi per primi, che abbiamo paura, che non ce la sentiamo. Fra l’altro, non useremmo mai questa parola: paura. La nostra mente è così abile che riusciremmo a inventare qualche circonlocuzione, qualche gioco di parole, che nasconda la realtà nuda e cruda. Potrebbe essere che la parete non è in ‘buone condizioni’. Questa è gà una scusa sufficiente, ma decisamente sfruttata. Un’altra, molto usata anch’essa, è quella di dichiararsi, con rammarico, fuori forma o, forse, lamentare un qualche dolore insopportabile e improvviso, di cui – una volta ridiscesi al rifugio – dobbiamo stare attenti a non dimenticarci.
Ma, messi alle strette da un ‘continuiamo, che siamo venuti a fare?’, ci si sente disarmati e ci si deve arrendere. Quindi, non c’era alternativa dignitosa, se non proseguire.
A due metri dal bordo, dalla nostra parte, avvitai a terra nel ghiaccio, un chiodo tubolare di sicurezza, da cui lei mi avrebbe dato corda, lentamente.
“Stai attento!”
“Sì, fammi sicura”
“Vai tranquillo”
Non si parla molto quando si va in montagna, non si ha tempo. Ma, chiunque sia con te, diventa più di un amico, diventa un fratello. E impari a conoscere tutto di lui, anche nel silenzio.
Con qualche esitazione, una larga spaccata, per portare un piede dall’altra parte, con le punte dei ramponi che mordevano il ghiaccio, due metri sotto il bordo; e l’altro piede ancora di qua. Le gambe tremavano un po’, non solo per lo sforzo, mentre gli occhi si rifiutava di guardare il nero vuoto sotto di me. Veloce, avvitai un altro chiodo sopra la mia testa qualche spanna sotto il bordo; infilai nell’anello un moschettone e dentro passai la corda, rimanendo appeso per qualche secondo, giusto il tempo di rifiatare.
Poi, piccozza in una mano, martello da ghiaccio nell’altra, entrambi piantati con violenza sopra la mia testa, oltre il bordo, lavorando di ramponi e di braccia, mi tirai su, fuori da quel muro, finalmente ‘a riveder le stelle’.
Anche lei faticò non poco, ma, tempo mezz’ora, eravamo entrambi oltre la crepaccia, pronti a salire la nostra parete.
Il resto dell’arrampicata non presentò alcun problema: un tiro di sessanta metri, salita di lei fino alla sosta, ripartenza; ripetendo le stesse manovre. Cinque tiri di corda filarono via così. Ora eravamo poco sotto la vetta e ci aspettava un traverso verso destra per arrivare alla cresta ovest e, da lì, per sfasciumi, in cima.
“Occhio, mi raccomando, dobbiamo traversare. La neve è molto sottile, muoviamoci come se fossimo senza peso, ok?”
“Sì, vai, ti tengo”
Piccozza, martello, ramponi che si piantavano in pochi centimetri di neve già ammollata, fra roccette in equilibrio instabile, il fiato quasi trattenuto.
“Bene, ci sono. Vieni pure, ti recupero. Piano… piano!”
Finalmente eravamo entrambi sulla cresta, assicurati alla solida raccia, una garanzia che niente può sostituire.
Salimmo gli ultimi metri in conserva, e, infine, eccoci in cima, col sole alle nostre spalle e un cielo ancora celeste, ma che presto sarebbe diventato blu cobalto.
Via il casco, via gli occhiali, via i guanti e via, almeno per un po’, ramponi e scarponi.
“Non mangi?” le chiedevo.
“No, non ho fame. E poi…sai che devo andare!”
La consapevolezza si fece strada in me, dolorosa come una pugnalata fra le viscere. Cosa era successo, cos’avevo fattofino a quel momento, con chi avevo stillato sudore, respirando come un mantice? Era tutto troppo reale, mi dicevo, per essere solo un’allucinazione della mente. Lei era lì, mi parlava, l’avevo toccata per lunghissime ore. Eravamo così felici legati assieme dalla corda su quello scivolo di ghiaccio. Supplicai:
“No, ti prego, aspetta, stiamo ancora qualche minuto qui, al sole, senti il calore dei suoi raggi e che luce meravigliosa!. Non andartene, cara!”
“Stai tranquillo, amor mio, non preoccuparti, tornerò presto, lo sai. Mi è molto piaciutosalire con te, è stato bellissimo”
“Sì, la più bella salita che ricordi. Ma ti prego, aspetta ancora…”
Ma stavo parlando da solo, ormai, e la voce mi usciva strozzata, a singhiozzi, come quella di un bambino disperato. Ero ancora seduto su quel masso piatto, silenzio tutt’attorno, l’aria immobile e la luce abbagliante del giorno che nasceva.
Guardai in basso: laggiù, lontano, vedevo il rifugio e piccoli omini che si muovevano senza alcun senso, pronti a riprendere il cammino.
Ancora più in basso, il fondovalle, molte ore più sotto; e il torrente che vorticava, verde, fra una gorra e una cascata; e i pini che salivano lungo ripidi pendii, inframmezzati da balze rocciose.
E ora? Mi toccava scendere da solo? Ma…forse ero salito anche da solo?
Fui preso dalla rabbia e dalla disperazione, una rabbia impotente; e, accecato da un furore che mi era del tutto inconsueto, cominciai ad agitare la piccozza, come fuori di me; finchè non mi colpii un piede con la punta aguzza e urlai per il dolore.
…Apersi gli occhi e, per qualche secondo, non capii. Solo il gatto, già completamente sveglio, saltava per tutto il letto, come avesse l’argento vivo in corpo e, con gusto un po’ perverso, mi graffiava un piede con le sue unghie acuminate, oltre le lenzuola.
La prima luce del mattino filtrava dalla finestra e il cane, ritto sulle zampe posteriori, mi si poggiava contro il petto con quelle davanti, in mezzo il muso umido. Era ora di portarlo a fare la sua passeggiata.
Piano piano, mi riaccomodai alla nuova realtà. Mi chiedevo quale fosse mai quella vera. Mi vestii e scesi di sotto.
Fuori, l’aria era frizzante, qualche passero già cantava sul pino, sarebbe stata una giornata serena. Il cane scodinzolava felice.