Beu
Inviato: 08/10/2020, 14:10
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
In paese il ragazzo era conosciuto solo come "Beu", con la stretta pronuncia della vallata che rendeva quel nome un suono secco, simile al verso che si usa per spaventare i bambini: buh!
Io non ho mai saputo cosa significasse quel nomignolo, sapevo però delle voci inquietanti associate alla figura allampanata e agli abiti dentro i quali Beu pareva potersi ritirare come in un carapace, tanto erano larghi e irrigiditi dai troppi anni e dai pochi lavaggi.
Quelle voci venivano sussurrate a labbra strette dagli altri ragazzi del posto a chi, come me, del posto non era. Dicevano avesse tra i quattordici e i quindici anni e che vivesse con una vecchia contadina, forse una zia, in una catapecchia mezza diroccata, isolata fuori del paese e raggiungibile soltanto con una mulattiera che si arrampicava lungo il torrentello ai margini del bosco.
Soprattutto, dicevano che fosse violento e cattivo, pronto sia a menare le mani ossute con chiunque gli desse fastidio, sia a uccidere con la fionda gli uccelli e qualsiasi altro animale gli capitasse a tiro.
Infine mormoravano che fosse meglio evitarlo se si era da soli in un posto isolato.
Di sicuro, Beu portava uno dei due cognomi che da soli riempivano buona parte dei registri dell'anagrafe del paese. Questo ricorrere di cognomi, testimone dei secolari intrecci di consanguinei in una vallata quasi isolata dal mondo sino al secolo precedente, era verosimilmente all'origine di una vena di follia che, in gradi più o meno visibili, più o meno pericolosi, percorreva una parte consistente della popolazione locale. Almeno questo era ciò che dicevano mia madre e mio padre nelle loro conversazioni a tavola, quando mi raccomandavano di stare attento a non dare troppa confidenza a buona parte delle persone e dei ragazzi che abitavano vicino a noi e che a me, invece, parevano solo brava gente, magari un poco stramba, ma simpatica e certamente gentile.
La guerra, finita da una quindicina d’anni, era ben viva nella mente degli adulti e non tutte le sue cicatrici erano consolidate, tanto che qualche anno dopo, quando il paese oramai faceva parte dei miei ricordi, il suo nome comparve per un certo tempo sui giornali, per oscure storie di omicidi mai risolti legati a presunti tesori nascosti dai partigiani alla fine della guerra; tutte cose che, ripensando al mio solitario aggirarmi per boschi e casolari, mi avevano spinto a riflettere sull'esistenza concreta degli angeli custodi e mi avevano fatto considerare sotto un'altra luce le parole dei miei genitori.
A quel tempo invece ero propenso a dar loro ragione soltanto per ciò che riguardava Beu, che io avevo sempre cercato di evitare, riuscendoci senza particolari difficoltà, almeno sino a un certo giorno.
Era un pomeriggio di autunno quando, sbrigati in fretta i compiti e salutata mia madre, scesi le poche scale di casa per i miei consueti giochi all'aperto.
Al di là della strada, appena fuori della palazzina popolare, mi attendeva il bosco e più tardi, nel posto segreto, tra il castagno scavato dal fulmine e la fontana, la combriccola degli amici.
Non a quell'ora però; mi piacevano i momenti di solitudine e li aspettavo, anzi, li creavo affrettandomi a finire i miei doveri scolastici per essere libero di uscire prima che arrivassero i miei amici.
I compiti alle scuole medie erano una cosa seria, tanto che due o tre ore, tutti i santi giorni, dovevano essere dedicate all'analisi logica, al latino e alla matematica. Poi la sera c'era una poesia da studiare a memoria, o qualche pagina di storia e geografia.
Tuttavia, allora come oggi, era la vita, per mezzo dei più improbabili maestri, a impartire gli insegnamenti fondamentali. Io, mentre imboccavo il sentiero del bosco, ancora non sapevo che ne avrei ricevuto uno che non avrei più dimenticato.
A passo lento mi godevo ogni metro di quella traccia scavata nell’erba, a tratti protetta da un muretto a secco, che dapprima saliva tra fichi selvatici. Meli e ciliegi, per poi inoltrarsi nella frescura del folto.
Il bosco era un castagneto, che già tra le foglie arrossate mostrava i suoi frutti irti di aculei, ma quegli alberi generosi non erano soli nel loro aggrapparsi al monte. In qualche spiazzo, magari accanto al rudere di un'antica legnaia, cespugli di nocciolo offrivano i loro frutti gustosi. Qua e là, appena riuscivano a trovare un ritaglio di cielo libero dalle sagome ingombranti dei castagni e il sole riusciva a penetrare per qualche ora, si affollavano i roveti, ricchi di more succulente. In stagione, i funghi erano un piccolo popolo silenzioso: le russole col loro colore proletario, spesso più ricche di piccole larve che di stopposo tessuto commestibile, i gialli gallinacci riuniti in famiglie numerose, i furbi porcini, rari e ben nascosti ma oggetto di caccia spietata, mentre i larghi cappelli dei prataioli biancheggiavano tra l'erba, là dove il bosco finiva e ricomparivano le fasce scavate da chissà quanti secoli e poi abbandonate, troppa la fatica per raccogliere giusto il prezzo del sudore speso.
E poi c'erano gli animali, gli uccelli su tutti, ma ogni tanto riuscivo a scorgere il movimento furtivo di qualche timido roditore, mentre la volpe non aveva paura di farsi vedere da un ragazzino innocuo e, se la incrociavo, si limitava a trotterellare fuori dal mio sentiero con apparente indifferenza.
Ero in cammino da pochi minuti quando un rumore di cespuglio smosso, poco più in basso, m’incuriosì. Mi affacciai con cautela al margine del sentiero, sperando di avvistare qualche animale; invece scorsi Beu che, la fionda in mano, stava prendendo di mira un grosso merlo posato incautamente sui rami bassi di un albero. Legati per le zampe con uno spago, alcuni uccellini pendevano dalla cintura del ragazzo, ai miei occhi prova evidente tanto della sua buona mira quanto della sua malvagità.
Concentrato sulla sua preda, Beu non mi aveva scorto; la mano destra tirava sempre di più l’elastico della sua arma, certo primitiva ma letale. Al malcapitato merlo restavano pochi secondi di vita.
Io ebbi una reazione tutta d'istinto, senza pensare alle conseguenze: battei le mani con forza e cacciai l'urlo più potente che mi riuscì di mettere insieme. Il merlo, spaventato, volò via scampando alla morte violenta, ma io capii all’istante che avrei dovuto affrontare le conseguenze del mio gesto impulsivo.
Beu, la fionda ancora tesa, mi stava guardando e aveva già spostato la mira verso di me.
- Cosa ti è saltato in mente, pezzo di merda! -
Ero nei guai, non c'era dubbio, avevo disturbato Beu nel suo passatempo e non l'avrei passata liscia. Tanto valeva fingere di non essere spaventato, in fondo ero grande quasi quanto lui.
- Cosa salta in mente a te, ammazzare quei poveri uccellini, è proprio vero quello che dicono di te, sei uno stupido cattivo! -
Ecco, se volevo una sassata in testa ora non me l'avrebbe tolta nessuno, pensai guardando la fionda sempre tesa verso di me. Invece la mano si abbassò, la fionda fu posata in terra e Beu, mentre io me ne stavo immobile aspettando cosa avrebbe fatto, si liberò della cintura con gli uccellini morti.
- La fionda è per le bestie, io ti sistemo con le mani, e non cercare di scappare che ti prendo.-
A scappare non ci pensavo nemmeno: avevo la mia dignità, anche se me la facevo sotto, e poi a botte con altri ragazzi avevo già fatto altre volte. A dire il vero, si era trattato più che altro di un gioco; con quello invece si sarebbe fatto sul serio.
Senza fretta, Beu si arrampicò sino al sentiero dove l'aspettavo. Non l'avevo mai visto da vicino, sino allora me lo avevano solo indicato gli altri ragazzi mentre passava silenzioso vicino a dove stavamo giocando: " Stai alla larga, è Beu, quello è cattivo e picchia forte".
Ora Beu era lì, davanti a me, eravamo soli e lui mi sovrastava di almeno dieci centimetri. Mi colpì, oltre all'altezza, la sua magrezza, il viso dagli occhi sporgenti e lo sguardo sfuggente.
Pur non fissandomi direttamente, riusciva a dare l'impressione minacciosa di un animale selvatico pronto ad assalire chiunque. E, infatti, mi fu addosso senza proferire un'altra parola.
Avvinghiati, rotolammo giù dal fianco erboso della fascia per fermarci in quella sottostante. Il caso volle che al termine della ruzzolata io mi trovassi sopra di lui, e ne approfittai subito per afferrargli le braccia e cercare di immobilizzarlo. Ricordo che, pur nella concitazione del momento, rimasi stupito da quanto magre, ossute fossero quelle braccia: con la mano riuscivo quasi a stringerle per intero.
Lui cercava di liberarsi dal mio peso, ma già allora ero ben piazzato se non grassoccio e Beu si stancò subito; era tutto nervi, ma evidentemente in quel corpo scheletrico di muscoli ce n'erano pochi.
Io ero stupito, avevo vinto troppo facilmente: il temutissimo Beu era sdraiato sotto di me, e non cercava più di liberarsi. Non seppi resistere alla tentazione di fare il gradasso, in fondo lui mi aveva assalito e ora si era arreso.
Lo guardai negli occhi e gli dissi con fare minaccioso: - Non ti azzardare più ad ammazzare gli uccellini, loro stanno bene dove sono, tu sei cattivo.-
Per la prima volta anche Beu mi guardò dritto negli occhi.
Avevo evitato una dura lezione fisica, ma rapido e tagliente come una rasoiata mi arrivò l’insegnamento. Beu, con una specie di sussurro mi rispose:
- Tu non capisci, noi abbiamo fame.