La caverna

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'autunno 2020.

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Goliarda Rondone
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La caverna

Messaggio da leggere da Goliarda Rondone »

leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

I faretti nel controsoffitto son stelle e corpi celesti, nel cielo bianco della mia cameretta. Ho sigillato la finestra con carta scura e nastro adesivo. Domani compirò quindici anni e faranno trenta giorni che non esco, eccetto pochi minuti di notte, per mangiare e per andare in bagno. Alla tv dicono che chiuderanno le scuole, per via di questa pandemia. Dicono anche che non si potrà più uscire di casa. Grandioso.
Mia madre è disperata. Mio padre invece è uno stronzo. Anzi quello stronzo non è mio padre, è solo uno stronzo. Spero che rimarrà confinato nell’appartamento della puttana con cui vive. Non potrà rincasare, litigare con mamma, bestemmiare, picchiarla e poi ricominciare da capo.
Mamma mi fa pena. Si chiama Dolores. È tutta presa dalle apparenze, dalle formalità, dall’ordine maniacale delle cose insignificanti, come la disposizione precisa dei ninnoli sul comò, oppure delle ciabatte ai piedi del letto. Alle amiche dice sempre questa frase esatta: “non faccio per vantarmi, ma mio figlio ha una sensibilità non comune e una proprietà di linguaggio impressionante, per la sua età”. A me invece dice che ho una luce speciale dentro, che aspetta soltanto di brillare. Non ho mai ben capito cosa intenda.
Bussa di continuo alla porta.
«Tesoro, quando mi farai entrare? Lo sai, vorrei solo che parlassimo un po’...»
«Lo so, mamma.»
«Quando possiamo parlare?»
Non le rispondo.
«D’accordo David, proverò a bussare più tardi, magari mi farai entrare.»
Se non altro è gentile. Ci sono state volte in cui ha cercato di forzare la porta, minacciando di chiamare mio padre, il fabbro, i pompieri, la polizia, l’esercito, un plotone di marines. Adesso è in modalità genitore comprensivo. Credo che parli di me con qualche psichiatra, perché ogni tanto cambia atteggiamento, come se le suggerissero nuove strategie. Non accetta questo fallimento. Continua a cucinare per me, lo ha sempre fatto. Lascia la cena sul lavello della cucina, sapendo che ogni notte il suo cucciolo sgattaiolerà fuori dalla tana per nutrirsi.

*****

Son passati poco più di dieci minuti dall’inizio dell’anamnesi, quando l’esile mano di Dolores comincia a tremare. Dalla fronte inizia a sgorgare ansia, sotto forma di sudore.
«Io non so più cosa fare, dottoressa! Mi hanno detto che lei potrebbe aiutarmi.»
«Si calmi, signora. Comprendo quello che sta passando.»
La dottoressa Nadia Invano – così recita il cartellino appeso al camice – è una neuropsichiatra infantile. Ha un timido strabismo di venere e un viso paffuto, tutto l’opposto della sua interlocutrice. Chissà quante madri come Dolores ha conosciuto, coi loro figli unici, adolescenti, sicuramente timidi, magari con un basso livello di autostima, un forte stress emotivo e sociale, una madre pretenziosa e un padre assente.
«Ha detto che è stato il dottor Fresa a indirizzarla da me?»
Dolores fa cenno di sì.
«Qui siamo specializzati nella sindrome di hikikomori, sa cos’è?»
Paolo Fresa, lo psicologo, era convinto che quella potesse essere la malattia di David, perciò gliene aveva parlato. Lei però non aveva ben compreso il significato di quella strana parola, così preferisce non azzardare risposte. Piuttosto arriccia le labbra e lascia che sia la dottoressa a parlare.
«Si tratta di un disturbo di natura psichiatrica che colpisce i ragazzi adolescenti. Una specie di isolamento sociale, un rifiuto dei rapporti interpersonali, anche nel nucleo familiare.»
«Infatti, come le dicevo, sono quasi due mesi che David non esce dalla sua cameretta. Non capisco perché.»
«Uscirà quando verranno meno le ragioni dell’isolamento.»
«Ma quali sarebbero?»
«Possono essere molteplici. Il ragazzo potrebbe isolarsi se percepisce delle pressioni psicologiche, forse delle eccessive aspettative su di lui, da parte...»
«Non lo abbiamo mai pressato. Cioè io... per il suo bene...»
«Oppure potrebbe provare un forte disagio all’interno del contesto sociale o familiare quotidiano.»
La donna estrae un fazzoletto dalla borsa e deterge il sudore attorno agli occhi. «Non sarà invece una dipendenza da internet e da quei videogiochi? Passa ore a...»
«È improbabile, signora. Credo piuttosto che internet, le chat, i social network e i videogame siano gli unici strumenti che suo figlio ha per interagire con l’esterno.»
«Forse qualche atto di bullismo a scuola, allora?»
«È possibile. Cosa glielo fa pensare?»
La donna abbassa lo sguardo, come se la discussione la ferisse.
«Quando è morto mio padre, cioè suo nonno, alcuni ragazzi lo hanno preso in giro. Lui ne ha sofferto molto. L’ho scoperto leggendo un suo diario.»
«Va bene. Andiamo per gradi. Per il momento vorrei escludere che possa trattarsi di disturbi d’ansia o dell’umore, come la depressione, o di natura psicotica come la schizofrenia. Ne discuterò col dottor Fresa. Nel frattempo sarebbe utile se lei compilasse alcuni questionari. Che ne dice?»
Dolores annuisce.

*****

Lunedì finirà il lockdown. È durato sessantanove giorni. Sembrano tutti impazienti, come cagnolini nel momento in cui realizzano che il padrone sta per portarli al parco. Un tizio alla TV sta dicendo che “adesso abbiamo consapevolezza della fragilità dell’uomo e della società in cui viviamo”. Nessuno invece dice che il mare sta tornando al suo colore naturale, che gli animali e la vegetazione stanno riconquistando il loro habitat.
Ricomincerà tutto da capo.
La scuola. Mio padre.
Il virus umano sta vincendo contro l’altro virus. È sabato, sono le tre di notte, quindi è già domenica. È quasi la fine. Una vocina nella testa continua a parlarmi: ora o mai più, mi dice. Ora o mai più. Poggio l’orecchio sulla porta e riesco a sentire mamma che russa. Esco, ma stavolta non vado in bagno né in cucina. Non ho fame, non ho sete, non devo fare pipì. Mi fermo davanti l’uscio di casa. Per la prima volta, dopo tanti mesi, sento il desiderio di uscire. Non solo dalla mia cameretta e neanche dall’appartamento. No, stavolta voglio andare in strada. Ora o mai più. Uscire e restare fuori fino all’alba, è l’ultima occasione. Ora o mai più.
Esco.
Sono immerso nella città. Nell’ultima notte di quarantena è una creatura docile, stupefacente. Posso abbracciarla, entrare in simbiosi con lei, come non m’era mai capitato, come non mi capiterà più. Non è semplice descrivere come mi sento. Mi torna in mente un cortometraggio sull’attentato dell’undici settembre. So spiegarlo soltanto così. In quel filmato c’è una fioriera sul davanzale di una finestra. Le piante sono avvizzite, perché le torri gemelle gli fanno ombra. Quando quei giganti crollano, allora i fiori vengono inondati di sole e di luce. Finalmente sbocciano. Ecco, io mi sento così, come quei fiori. D’un tratto intuisco il significato delle parole di mamma, sulla luce che mi brilla dentro.
Però tra poco finirà tutto, risolleveranno le torri, faranno di nuovo ombra, i fiori appassiranno. Tornerò per sempre nel mio cielo bianco.
Scriverò un biglietto a mamma, per la prossima volta che verrà a bussare: “La luce che ho dentro stanotte ha brillato, ma adesso si è rinchiusa dentro una caverna. Perdonami se non uscirà mai più”.

*****

«I nonni?» domanda il parroco.
Dolores non risponde.
«E suo marito? Il padre del ragazzo?»
La donna scuote il capo, nascosta dietro la mascherina chirurgica e gli occhiali da sole, avvolta dentro quel foulard nero con cui David, da piccolino, amava farsi solleticare i piedini. Rideva tanto, allora.
«Mi dispiace...» sussurra il prete, interrompendosi a causa di un groppo alla gola. Sembra che fatichi a deglutire. Trasferisce negli occhi l’espressione più compassionevole di cui è capace, e prosegue.
«Mi dispiace per la tragedia che sta passando, anche perché dobbiamo svolgere queste esequie in forma privata, per via della pandemia ma anche perché... insomma lei capisce che la Chiesa...»
Con un gesto della mano Dolores interrompe l’imbarazzo del sacerdote, che ingoia una sorsata d’aria, si morde un labbro, e cambia discorso. Per modo di dire.
«Le confesso che sono in imbarazzo. Ho pregato il Signore affinché mi illuminasse sulle giuste parole da pronunciare, ma non ci sono riuscito. Conoscevo David, ho il cuore angosciato. Lei si aspetta da me delle parole di conforto, di speranza, una spiegazione. Invece sono impotente, sono smarrito quanto lei.»
Dolores dentro di sé disapprova. “Non quanto me”, vorrebbe dire. Ma non fiata.
«Al dolore del distacco si aggiunge il peso di un grave peccato, al quale non posso... non riesco a trovare giustificazione. La tentazione del darsi la morte origina dal male. San Pietro ci aveva edotto...»
Un luccicone precipita lungo la guancia della donna.
«Per favore, padre, lo benedica e basta.»
Don Errico rimane un instante interdetto, con la mascella appesa. Infine acconsente.
«Certo. Certo.»
Ultima modifica di Goliarda Rondone il 15/12/2020, 19:00, modificato 13 volte in totale.
Marcello Rizza
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Messaggio da leggere da Marcello Rizza »

È un racconto molto, molto forte. Il covid c'entra e non c'entra. Quando mi ero ripromesso di non leggere più di covid, che non ne potevo più, mi sono imbattuto anche nel concorso che parla di covid per il calendario. Ok. Fastidio iniziale. Ma poi ho letto la ricostruzione accurata che hai svolto, anche dal punto di osservazione "clinico", tanto da pensare che: hai vissuto una storia simile; hai conoscenze nel settore; hai svolto una grande ricerca. La tua sensibilità è alta, sono quei racconti che mi piace scrivere e leggere. È anche scritto molto bene, nonostante due o tre errori che altri sapranno meglio di me puntualizzarti, ma sono sviste. Col cuore triste ti dico che è veramente un bel racconto, che non c'è niente di "pirotecnico" ma c'è tanto di conosciuto e da conoscere. Brava.
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Fausto Scatoli
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

a parte un paio di refusi, il testo è scritto molto bene ed è abbastanza scorrevole.
ciò nonostante non mi ha preso.
non sono riuscito a entrare in empatia con la storia, sebbene tratti di un argomento molto grave e poco conosciuto.
non ti saprei dire cosa manca, probabilmente è solo una mia impressione.
l'unico modo per non rimpiangere il passato e non pensare al futuro è vivere il presente
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Si tratta di un racconto sugli effetti del covid a livello psicologico. Sappiamo che tale virus ha prodotto della conseguenze anche dal punto di vista psicologico in molte persone: depressione, ansia, fobie. Sicuramente i giovani sono più a rischio. Qui sono presenti due casi di adolescenti: la prima, chiusa in casa, rifiuta di parlare con la madre, ed esce di notte per godersi la sua città prima che scatti la chiusura, l'altro, pure chiuso in se stesso, per il quale la madre si rivolge ad uno specialista, finisce col suicidarsi. Diciamo che forse ci vorrebbe un maggior collegamento tra i due racconti, c'è qualcosa che manca, ma non saprei dire cosa. Comunque il testo è apprezzabile.
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Liliana Tuozzo
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Il racconto è chiaro è molto triste. L'isolamento in cui il ragazzo di chiude a causa del lockdown deriva probabilmente da una depressione o uno stato di fragilità del ragazzo, solo la punta di un iceberb. Triste quel rifiuto dell'amore materno che resta fuori la porta, il rapporto madre-figlio già difficile di per sé diventa impossibile. Il racconto è bello, lo stile narrativo poco incisivo, l'ultima parte è un coltello in più nella piaga. Io chiuderei col messaggio del ragazzo.
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MattyManf
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Messaggio da leggere da MattyManf »

Un buon protagonista, quello di questo racconto. Pensa e non solo per farci capire le azioni che fa, ma anche per condividere ciò che lo rende a suo modo unico. Anche le sue riflessioni, a tratti ingenue, ma vere servono a dipingere questo bambin insicuro, introverso ma che forse ha qualcosa da insegnare.
Ben fatto! Merita.
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Laura Traverso
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Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Il racconto è molto triste e va ad affrontare argomenti di penosa realtà. Comincio dal finale, da quel prete che non riesce a dire una parola di conforto a quella povera madre (un tempo, quando io ero bambina, ai suicidi non era neppure consentito di entrare in chiesa...). La madre, che come troppe donne, sopporta lo stronzo di turno (con le nefaste conseguenze anche, e soprattutto, sui figli). Insomma c'è molto dolore nel tuo racconto. La storia, le descrizioni degli stati d'animo dei personaggi e dell'ambiente circostante sono espresse a meglio. Brava!
Ibbor OB
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Messaggio da leggere da Ibbor OB »

Il racconto è scritto molto bene. Mi è piaciuta soprattutto la prima parte di cui ho apprezzato molto l’approfondimento psicologico: la descrizione della povera madre vittima e forse carnefice inconsapevole e del padre assente, la solitudine del ragazzo e la sua acuta lucidità. Non mi aspettavo finisse così sinceramente o forse mi auguravo che ci fosse un finale diverso. Comunque, il racconto è coinvolgente e mi è piaciuto. Mi ha spinto inoltre ad approfondire la questione che raramente trova spazio nei palinsesti televisivi e nei giornali, nonostante sia una scomoda e triste realtà in continua crescita.
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Simone_Non_é
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Messaggio da leggere da Simone_Non_é »

Un racconto dall'impatto emotivo sicuramente molto forte, in cui si affronta un tema importante come quello degli hikikomori che in altri Paesi è già ben conosciuto. Lo scritto ha un bel ritmo è risulta vero e di impatto in ogni sua parte, complimenti. Buona scrittura
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antologia di opere ispirate dal concetto di Carosello e per ricordare il 40° anniversario della sua chiusura

Nel 1977 andava in onda l'ultima puntata del popolare spettacolo televisivo serale seguito da adulti e bambini. Carosello era una sorta di contenitore pubblicitario, dove cartoni animati e pupazzetti vari facevano da allegro contorno ai prodotti da reclamizzare. Dato che questo programma andava in onda di sera, Carosello rappresentò per molti bambini il segnale di "stop alle attività quotidiane". Infatti si diffuse presto la formula "E dopo il Carosello, tutti a nanna".
Per il 40° anniversario della sua chiusura, agli autori abbiamo chiesto opere di genere libero che tenessero conto della semplicità che ha caratterizzato Carosello nei vent'anni durante i quali è andato felicemente in onda. I dodici autori qui pubblicati hanno partecipato alle selezioni del concorso e sono stati selezionati per questo progetto letterario. Le loro opere sono degni omaggi ai nostri ricordi (un po' sbiaditi e in bianco e nero) di un modo di stare in famiglia ormai dimenticato.
A cura di Massimo Baglione.

Contiene opere di: nwGiorgio Leone, nwEnrico Teodorani, nwCristina Giuntini, nwMaria Rosaria Spirito, nwFrancesco Zanni Bertelli, nwSerena Barsottelli, nwAlberto Tivoli, nwLaura Traverso, Enrico Arlandini, Francesca Rosaria Riso, Giovanni Teresi, nwAngela Catalini.

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