Diario di una paranoica
Inviato: 23/11/2020, 13:01
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Non ci credeva Lei non ci credeva. Non poteva essere così. Così libera. Libera di pensare, di amare, persino di immaginare. Poteva organizzare tutto quello che voleva. Adesso poteva. Chissà per quanto, pensò. Quando si sentiva così, eccole apparire una strana nube che le chiedeva, insistente: Per quanto ancora?
Oggi non se lo chiedeva, o perlomeno cercava di non pensarci. Una casa, 4 mura in cui si sentiva protetta e libera, 2 lavori, non troppo, il giusto. Sì, la fatica non le pesava. La fatica non era mai stata un disastro per lei, anzi, nei momenti più accuratamente stressanti si sentiva invincibile, utile a se stessa, con uno scopo preciso o no, ma Viva. L'amore. Se lo sentiva dentro, scorrere, come fosse un liquido caldo, ardente, cercava di tenerne per sé quanto più possibile, cercava di sprigionarlo in ogni respiro. Le si leggeva nel volto, veniva fuori dai capelli, dalle mani, dalla pancia, da ogni suo movimento. Cercava di assaporare ogni granello di quella vita che aveva cercato dovunque. Sì, l'aveva desiderata, se l'era guadagnata, l'aveva bramata in ogni romanzo letto, in ogni racconto scritto o non ancora compiuto.
Aveva viaggiato come un cavaliere errante in lungo e largo nella sua cameretta, convinta che da lì in fondo dovesse partire il suo viaggio. Aveva cercato in ogni tratto qualcosa che la ricollegasse alle sue origini. E infatti erano lì. Negli occhi di sua madre, nelle movenze di suo padre. Il suo volto, a vederlo da fuori, non aveva nulla di strano. Eppure la sua pelle era stata modellata come si fa con il materiale plastico, con i polpastrelli le avevano scavato gli zigomi alti, le labbra prominenti, il viso lungo e affusolato. Nel tempo aveva riconosciuto quella mano, quelle dita. Le lacrime l'avevano aiutata a scavarle le rughette che ora cominciavano a vedersi, le avevano assottigliato il viso, avevano scavato i pensieri come acqua che corrode la roccia. Quando aveva conosciuto quella mano se lo ricordava bene. Si sentiva così forte, indistruttibile, incorruttibile. Eppure lì, proprio quando doveva dar prova e sfoggio delle sue virtù, era crollato tutto. Acqua batteva roccia. Era fatta solo di materiale plastico, si era detta, forse anche di quello scadente, che a vederlo è malleabile e inscalfibile, ma a provarlo è debole, si sfalda, non possiede forza. Non era forte. Difficile accettarlo. E non fu facile capire che quelle mani avrebbero continuato a modellarle il viso in modo irreversibile. Nessuna crema antirughe, nessun miracoloso antidoto poteva vincere. Quelle mani continuavano a modellare, rimodellare, non distruggevano, ma modificavano. Inutile disperarsi. Quando lei cominciò a frugarsi dentro, a cercarsi, non lo sapeva ancora. Non sapeva che ogni tentativo di mandar via quelle mani e i segni che lasciavano sarebbero stati del tutto inutili, non sapeva che quelle mani l'avrebbero accompagnata per sempre. Oggi però ne era consapevole. Prenderne coscienza non era stato affatto facile.
Considerate che per lei ogni cambiamento, in quella vita routinaria che con affanno si trascinava dietro, era da lei considerata come una minaccia alla sua incolumità. Si aggrappava ad una realtà che si era costruita, di cui non poteva fare a meno. Mi spiego meglio, non era folle. Al contrario, era completamente concreta. Vi starete chiedendo cosa può significare essere completamente concreti. Beh, non è poi così difficile. Basta cercare delle abitudini, delle attitudini, persino degli atteggiamenti, delle reazioni coerenti al contesto e all'immagine che si vuole dare. Ripetere il tutto, per tutti i giorni, le settimane, i mesi, gli anni della propria esistenza. Non fu un processo consapevole, ma certamente sapeva che era proprio così che si immaginava. La sua storia non era poi così particolare. Del resto, si era sempre considerata come un ingranaggio di un sistema, un filo di rame, se vogliamo, che insieme ad altri fili di rame componevano un circuito che si andava a collegare ad altri circuiti, in sistemi sempre più complessi. Questo era per lei l'intera società. Come darle torto! E dei tanti individui che compongono una società, lei aveva deciso di essere un individuo qualunque. Un individuo unico, certo. Tutti siamo unici. E per individuo qualunque non intendeva essere un omino senza significato che vagava nel mondo senza uno scopo. Voleva semplicemente stare bene. S'immaginava adulta, un lavoro, circondata dagli affetti, una vita ricca di serenità, un matrimonio, dei figli.
Aveva organizzato le cose in grande. Aveva fatto le liste. Lei viveva di liste. Tassello per tassello, gradino dopo gradino, conquista dopo conquista, amava tirare linee come a dire sì, sì, l'ho fatto, questa è andata, dopo questa una in meno me ne manca. Ma poi mancava a cosa? Non lo sapeva nemmeno lei, se lo sapeva non osava dirlo, se le diceva non si avverava più. E dopo aver tirato una linea, gioiva, si definiva serena, si crogiolava nell'attesa. Sì, avete capito bene. Attesa. Che brutto era l'istante dopo aver tirato la linea. Sedersi all'angolo, guardare il bello, la fatica, con il traguardo tagliato e mettersi ad aspettare che qualcosa di brutto dovesse ancora capitare. Qualcosa deve sempre capitare. Qualcosa di inatteso, qualcosa di inaspettato. Inaspettato, ma che si aspetta. Chi lo sa cos'è? Nessuno. Tutti potevano solo immaginare, ma invano.
Che strano concetto, quello della serenità. Una parola così bella, ma piena di contraddizioni. Cosa vi viene in mente quando parlate di serenità? La pace dei sensi, l'apoteosi del momento, il sudore con il quale si guadagna. La famosa luce in fondo al tunnel. Ma nessuno pensa all'istante immediatamente dopo in cui ci pronunciamo sereni? Lei ci pensava continuamente. A quel momento in cui tutto sarebbe svanito. Diceva che nell'istante esatto in cui qualcuno le chiedeva il suo stato in momenti sereni, non poteva più esserlo. La gente dovrebbe sempre stare attenta a fare certe esternazioni di serenità. Perché, pensava, esiste la serenità, in fondo?
Andria, Istituto Secondario "Padre Nicolò Vaccina", 2004.
Il prof di religione era davvero figo. Tutte lo bramavano. Ma lei non lo bramava in quel senso. Lei non avrebbe mai smesso di ascoltarlo. Quel giorno teneva una gran bella lezione. Nelle sue mani tanti fogli uscivano tutti scarabocchiati da una Moleskine nera, di quelle piene di cultura. Un giorno l'avrebbe avuta anche lei. Lo sapeva.
Bene, la lezione era sui concetti di bene e male, per raccontare dell'occulto da un punto di vista filosofico.
Pensiamo ai concetti di bene e male. Il bene esiste perché si può distinguere dal male. Se non ci fosse il male, che senso avrebbe il concetto di bene?!
Quanto ricordava quella lezione. Quanto l'aveva assorbita. Mai più l'avrebbe dimenticata. Le tornava sempre in mente quando compiva un'azione sbagliata, le si ritorceva contro quando ne compiva una giusta.
Da qui il concetto che tutto, ma proprio tutto ha delle conseguenze. Ed era proprio da qui che partiva nella sua testa la contrapposizione tra serenità e malessere. Da qui avevano origine i suoi problemi.
Era questa la sua paranoia. Come poteva essere serena se la vita le aveva già lanciato degli spoiler, se sapeva che a quella serenità sarebbe sicuramente e perentoriamente seguita un malessere? E durante il malessere avrebbe maledetto il momento di serenità, chiedendosi il motivo per il quale non era riuscita a vivere il momento precedente in cui tutto andava bene. Andava sempre a finire così.
Ci pensava come una disgraziata, affondando il suo sguardo in quella finestra, cercando di ricavare una poesia in quell'immagine di albero spoglio che dava sulla città in cui viveva adesso. Sulle sue gambe il suo Pc, fedele compagno, nelle mani una tazza bollente di tè, di quelle in ceramica fragile, come lei.
Chissà se mai avrebbe sviluppato l'abilità di viversi il momento. Chissà se mai sarebbe stata serena.