Il profumo del giglio
Inviato: 22/12/2020, 20:41
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
La scuola è iniziata da pochi giorni, la seconda media. Stamattina entro in classe e saluto i soliti amici, quelli che conosco fin dalle elementari. Mancano ancora cinque minuti all’inizio delle lezioni, vado verso il mio banco, ma prima di arrivarci noto una ragazzina che non avevo mai visto prima, nei giorni scorsi non c’era. È seduta in un banco centrale, in seconda fila, è bionda e ha gli occhi azzurri. Mentre passo incrocio con lo sguardo quegli occhi. Mi sembrano di un colore così bello che devo fermarmi a guardarli, come se avessi paura che se non lo faccio ora, in questo momento, potrebbero distogliersi dai miei e io non avrò mai più quest’occasione, quegli occhi saranno persi per me per sempre. Piano piano riempiono tutto il mio campo visivo, facendo scomparire l’aula, i mie compagni e tutto quello che c’è intorno. Mi sento strano. Qualcuno alle mie spalle ha fretta di raggiungere il suo posto e mi urta la schiena. Giro la testa di poco e l’incanto svanisce. La stanza riprende consistenza e meccanicamente ricomincio a muovermi. Vado al mio banco nella quarta fila, apro lo zaino e comincio a tirare fuori le mie cose. Mi siedo e la guardo di spalle. Poco dopo suona la campanella ed entra la professoressa di matematica. Al momento dell’appello memorizzo il suo nome: si chiama Annette. É tedesca, vive in Italia con i suoi genitori da quando era piccola e ora si sono trasferiti qua per lavoro. Resisto a stento all’impulso di alzarmi e andare a verificare con mano se i suoi lunghi capelli biondi mantengono quella promessa di morbidezza setosa che intuisco. Per tutta la mattina non riesco a concentrarmi sulle lezioni.
Quando suona la campanella dell’ultima ora aspetto che Annette esca, la seguo a distanza fino alla strada, la guardo salire su una macchina scura, una Opel, che parte e si allontana, finché la perdo di vista dopo che ha svoltato all’incrocio.
Questa è una giornata densa di eventi cruciali: è la fine dell’estate, l’inizio del mio interesse per le ragazze e il giorno della mia totale riconciliazione con il popolo germanico. Penso che l’intero universo oggi abbia fatto un decisivo passo in avanti verso l’Età dell’Acquario.
***
– Ciao nonno.
Sta leggendo il giornale in soggiorno, inclina un po’ la testa per guardarmi da sopra gli occhiali da lettura.
– Claudio, com’è andata a scuola?
– Bene… senti, ti volevo chiedere una cosa…
Piega in due il quotidiano e lo appoggia sul divano accanto a sé. Io mi siedo sulla poltrona.
– Dimmi pure.
– Oggi, dopo pranzo, viene una mia compagna di classe a fare i compiti, andremo in camera mia e…
– Mmm… – bofonchia – Ma non è meglio se di queste faccende ne parli con il babbo?
– Cosa? No, no, ma che dici!
Mi alzo, sono un po’ in imbarazzo, ma non per il motivo che crede lui.
– È solo che… lei si chiama Annette, è tedesca. Cioè, i suoi lo sono, tedeschi, cioè…
Mi guarda un po’ accigliato.
– E quindi?
– Beh, ecco, voglio dire… lo so che tu… insomma, con i tedeschi…
– Io? Con i tedeschi cosa?
Accidenti, mi sembrava così facile mentre ci pensavo tornando da scuola.
– Dai nonno, hai fatto il partigiano, tu i tedeschi li hai combattuti e…
Mi interrompo perché si mette a ridere. Riprende il giornale, poi lo posa di nuovo.
– Quindi era questo il problema?
Si toglie gli occhiali e si massaggia la parte alta del naso.
– Claudio, io non ho niente contro i tedeschi. Li ho combattuti, è vero, ma è stato tanto tempo fa e quelli erano nazisti. Non ce l’ho con tutti gli abitanti della Germania, ma solo con quelli che stavano con Hitler e la sua combriccola.
Si china un po’ in avanti e mi guarda negli occhi.
– Anche allora non credevo che tutti quei soldati fossero cattivi. Di sicuro c’erano tanti poveracci che avrebbero preferito starsene a casa loro a mangiare kartoffel, solo che c’era la guerra e loro erano qui, a casa nostra, a spararci addosso, a obbedire agli ordini. Sono sempre quelli che comandano i gran bastardi!
Fa una pausa, penso che stia tornando con i ricordi a quei giorni terribili.
– Vedi, anche gli italiani, non dico tutti, ma parecchi, erano i nemici per noi. I fascisti. Dopo il 25 aprile io li avrei voluti trovare tutti, fare piazza pulita. Quei maledetti che avevano portato questo paese alla rovina!
Ora ha gli occhi lucidi, sospira, poi riprende.
– Ma non l’ho fatto, non l’abbiamo fatto. E forse è stato uno sbaglio… allora, alla fine della guerra credevo che le cose sarebbero cambiate, che quelli che…
Non finisce la frase. Guarda il giornale e con un gesto rabbioso lo butta per terra.
– Ma per che cosa abbiamo lottato? – mormora quasi fra sé.
Poi si alza.
– Dai, andiamo a vedere se è pronto da mangiare
Fa due passi, poi si ferma.
– Non ti preoccupare, non ho niente contro la tua tedeschina. Magari con suo nonno ci siamo presi a fucilate qualche volta, su in montagna. Quando viene glielo chiedo.
– Nonno!
Gli è tornato il buonumore.
– Scherzo, Claudio, non ti preoccupare. Vieni, non facciamo aspettare il babbo, quel brontolone!
Mentre esce dalla stanza raccolgo il giornale. Il titolo in prima pagina parla di un certo cardinale Casaroli che ha firmato un nuovo concordato fra stato e chiesa con il primo ministro Craxi.
Penso che mio nonno oggi mi abbia insegnato qualcosa, ma credo che mi ci vorrà del tempo per capire di preciso che cosa.
***
Esco da scuola e vedo mio padre appoggiato alla macchina, che mi aspetta. Gli vado incontro un po’ sorpreso, non aveva detto che sarebbe venuto.
– Ho accompagnato il nonno a ritirare la pensione alle poste, poi, visto che eravamo in giro, siamo venuti a prenderti.
Apro la portiera posteriore, butto lo zaino sui sedili ed entro nella Volvo.
– Ciao nonno.
– Ciao Claudio, com’è andata a scuola?
– Tutto bene, niente di particolare.
– E la biondina?
– Annette? Forse dopo vado da lei a fare i compiti.
Certo che ci vado. È stata lei a chiedermelo o l’ho proposto io? Non me lo ricordo, eppure, ora che ci penso, mi sembra un dettaglio importante.
Mio padre mette in moto e parte, dopo un po’ accende la radio. Da un paio di giorni nei notiziari non si parla d’altro.
“…la Tass ha dichiarato che l’esplosione del reattore della centrale nucleare ucraina ha causato due morti, mentre sarebbero circa duecento i feriti. L’agenzia di stampa sovietica, quindi, smentisce le prime notizie che parlavano di centinaia di vittime. Ma in tutta Europa cresce la preoccupazione per gli effetti della nube radioattiva. Secondo gli esperti, i paesi a rischio immediato sono la Finlandia, la Norvegia e la Svezia. Intanto la popolazione delle aree intorno a Cernobyl è stata evacuata e…”.
Mio padre guarda per un attimo il nonno.
– Hanno fatto un bel lavoro i compagni, eh?
– Che c’entra! E poi sono sicuro che c’è sotto lo zampino degli americani!
– Sì, sì, gli americani, certo… è sempre colpa degli americani, vero?
– E i missili su Lampedusa, allora?
– Ma che stai dicendo! Quelli li ha lanciati Gheddafi!
– Sì, ma hanno cominciato gli americani! Hanno bombardato loro Tripoli!
– Ma che mi tocca sentire! Quello è un pazzo, un dittatore… e poi questa è un’altra faccenda, questo casino l’hanno combinato i russi.
Continuano per un po’ a battibeccare, poi mio nonno guarda fuori dal finestrino.
– Ma dove vai? Non mi porti alle poste?
– Alle poste? Un’altra volta? A fare che? Ci siamo stati mezz’ora fa!
– Ma che dici? Dai, andiamo, devo ritirare quei quattro soldi che mi danno e…
Il vecchio si ferma a metà della frase, sembra non riuscire ad andare avanti.
Mio padre si volta di nuovo verso di lui, quando parla ha un tono preoccupato.
– Babbo, non ti ricordi? Hai appena ritirato la pensione. Hai messo la busta in tasca, guarda, ci dev’essere anche la ricevuta…
Il nonno prende una busta bianca dalla tasca del soprabito, la apre. Mi aggrappo alle spalliere dei sedili anteriori e mi sporgo per vedere. Nella busta ci sono delle banconote e un foglietto stampato. La tiene in mano come se non capisse da dove salta fuori, nessuno parla più, solo la radio: “…gli esperti ritengono che si tratti del peggiore incidente nucleare della storia, assai più grave di quello accaduto a Three Mile Islands nel 1979. Soltanto nelle prossime settimane sarà possibile stabilire un bilancio effettivo della…”.
Alzo gli occhi e incrocio lo sguardo di mio padre nello specchietto retrovisore.
Forse lui sa già che quello è il primo segnale della malattia di mio nonno.
***
Sarà la decima volta che vediamo la colonna di carri armati e quell’uomo con i sacchetti della spesa, Annette spegne la TV.
- Pensa a quanto siamo fortunati, potevamo nascere là.
Lei ignora la mia ingenua retorica, sembra distratta. Cerco di ricordare in quale esatto momento il nostro sentire ha smesso di essere comune, quando il mio è rimasto indietro, un po’ distaccato.
Si alza e va a rovistare fra i libri sullo scaffale, prende un volume, lo osserva e lo rimette a posto, ne sceglie un altro e lo apre. Non vedo la copertina, ma scommetto che è Prevert. Legge una frase ad alta voce, sì, è Prevert.
- Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.
Mi sento in colpa e non capisco perché. È tutto il pomeriggio che cerco il momento giusto, non l’ho trovato, ma glielo dico lo stesso.
- Mio nonno sta sempre peggio. Ieri i miei ne parlavano, il dottore ha consigliato una struttura…
Con il libro in mano mi guarda, so quanto Annette le sia affezionata.
- Un ospizio?
- Qualcosa del genere, un posto dove lo possono curare.
- Tu che ne pensi?
Non lo so, cerco solo di sembrare più sicuro di come sono. Vorrei dire altre cose, vorrei che tutto fosse come prima. Vorrei, ma forse non posso e basta.
- È la cosa migliore, per lui.
Mentre ripeto le parole di mio padre rifletto sul significato che diamo all’espressione “la cosa migliore”. Mi arriva come un’epifania in tutta la sua soggettività: esiste sempre un confine fra quello che pensiamo sia giusto e quello che lo è davvero. Per alcuni è un deserto sterminato, per altri è un breve sentiero, in ogni caso ora capisco quanto sia faticoso attraversarlo.
***
– E così sei pronta a mollare tutto? Hai proprio deciso?
Annette non parla e non mi guarda, continua a giocherellare con il portachiavi.
Le cose ormai vanno un po’ così fra di noi: lei parlava di andarsene e io pensavo che fosse tanto per dire.
– Non mi rispondi più neanche? Che ci è successo Annette?
– Claudio, guarda, non è come credi… davvero, qui non mi ci sento più, mi sembra di sprecare il mio tempo.
– Ho capito, e pensi che in Germania le cose andranno meglio?
Sospira.
– Non lo so, credo che cambiare aria mi farà bene. È solo per un anno, un anno e mezzo al massimo.
– Un anno e mezzo… è tanto tempo.
– Ci ho pensato, davvero, ci ho pensato. Staremo lontani per un po’, ma per le vacanze e per Natale ci vedremo, non è un addio, è solo una pausa.
Una pausa. A me sembra la fine.
– E che farai? A questo ci hai pensato?
– Beh, intanto un posto dove stare ce l’ho. Mia nonna ha una casa grande, ora è sola. Mi ha detto che dopo la caduta del muro ci sono un sacco di possibilità a Berlino. Magari farò dei corsi d’arte, lo sai che mi piace disegnare.
– Ma l’università, tutti i progetti…
– Sai, non credo che sia così importante. E poi ora non riesco a immaginare cosa voglio fare da grande.
Mi appoggio alla sua Renault 5 bianca. Non so più che dire.
Si avvicina e mi abbraccia. Ci baciamo.
Accarezzo i suoi lunghi capelli biondi, sono soffici come la prima volta che li ho toccati.
– Pensaci, magari potresti decidere di venire anche tu, prima o poi.
– Certo, chissà? Forse non sarebbe una cattiva idea.
So di mentire a me stesso, ma non ne posso fare a meno. Il mio mondo sta crollando, pezzo dopo pezzo.
***
– …pulviscolo atmosferico! Allora non si parlava d’altro. Era ovunque, bastava un raggio di sole che filtrava dalle tende e lo vedevi. Tutte quelle particelle microscopiche che danzavano nell’aria, sempre in movimento, inafferrabili. Poi ci hanno portato via tutto, i nostri sogni, le speranze… quei porci dei politici si sono presi tutto! Anche il pulviscolo atmosferico! Io me lo ricordo bene, ma ora non lo vedo più, non lo vedo più…
– Nonno, forse è perché non ci vedi più bene, i tuoi occhi non sono più quelli di una volta.
– Ma che diavolo stai dicendo? E tu chi sei? Che ci fai qui?
– Nonno, sono io, Claudio. Non mi riconosci?
– Claudio? Non conosco nessun Claudio! Ti hanno mandato loro? Ah! Gli faccio ancora paura, vero? Sono vecchio, ma quelli come me vanno tenuti d’occhio, eh? Io non dirò niente, mi porterò i miei segreti nella tomba! Diglielo, diglielo pure, con me non c’è niente da fare!
Mi alzo e vado alla finestra. Sta piovigginando, una leggera pioggia d’aprile, fresca e finissima, simile a rugiada. Fra le nubi si è aperto uno squarcio e il sole fa capolino, disegnando un tenue arcobaleno che finisce oltre il tetto del palazzo di fronte, dopo il giardino.
– …quelle minuscole particelle di polvere che danzavano nell’aria…
Guardo giù, la panchina su cui ci siamo seduti tante volte con il nonno. È bagnata, ma non troppo, l’albero l’ha in parte riparata dalla pioggia. Un giorno che lei mi aveva accompagnato, sarà stato l’estate scorsa, eravamo tutti e tre a goderci l’ombra di quel leccio.
– …il governo, sono stati loro…
Mi volto a guardare il vecchio, ripiegato nella poltrona, con le gambe coperte da un plaid, perso nel suo mondo di ricordi, alcuni veri altri solo immaginati, ma non per questo meno reali per la sua mente corrosa dall’alzheimer.
– …io ho combattuto per la libertà di questo paese, e loro ci hanno portato via tutto…
Torno a sedermi accanto a lui.
– Davvero non mi riconosci? Non ti ricordi di me?
Il vecchio mi guarda con gli occhi velati dalle lacrime, sembra riflettere per un attimo prima di rispondere.
– Certo che mi ricordo di te, Giuseppe. Eravamo insieme, dalle suore, poi noi ci siamo trasferiti, non ti avevo più visto. Siete venuti qua anche voi?
Gli appoggio una mano sulla spalla e sorrido.
– Sì. Siamo venuti anche noi qua, adesso.
Annuisce e mi sembra più sereno. Rimaniamo per un po’ a guardarci, poi mi alzo.
– Ora devo andare, tornerò presto a trovarti.
– Va bene… ah, senti, salutami tuo padre.
– Mio padre?
– Sì, quando vado da lui in farmacia, con la mamma, mi regala sempre qualcuna di quelle caramelle d’orzo…
– Certo, lo farò – rispondo, mentre gli sistemo la coperta sulle ginocchia. Mi volto ed esco dalla grande stanza bianca. Nessuno di quei precari ospiti presta attenzione al mio passaggio.
Fuori, nel freddo della sera, fantastico su un’altra vita nella quale mio padre fa il farmacista e io sono quel ragazzino, l’amico di una versione fanciullesca, quasi inconcepibile prima d’ora, di mio nonno.
Questo pensiero mi accompagna fin sull’autobus per tornare a casa ma, lì, in mezzo a quelle facce sconosciute, d’improvviso mi colpisce la certezza che non lo vedrò mai più da vivo.
***
Mio padre mi ha chiesto se volevo guidare, non è da molto che ho preso la patente, forse era un suo modo per farmi sentire adulto. Ho risposto di no, avevo paura di distrarmi, di pensare ad altro. Mentre venivamo qua, seduto nei posti dietro in macchina, guardavo stupito la parata di bandiere rosse alle finestre e davanti alle case, per la strada. L’ho presa come un gioioso saluto a mio nonno, un tributo alla sua fede politica, ai suoi ideali. Poi ho capito che erano solo le rimanenze di ieri, il 1° Maggio, la Festa dei Lavoratori. Ma è stato bello lo stesso, a lui di sicuro sarebbe piaciuto.
C’è il sole al cimitero, ormai fa caldo, la primavera è arrivata di colpo, qualche giorno fa sembrava che quest’anno l’inverno non se ne volesse andare, e invece…
Sono rimasto fuori della chiesa per quasi tutto il tempo. L’educazione laica è una delle poche cose che sento di aver assorbito dai miei, ora mi ritrovo a essere ateo quasi senza volerlo. Non per consapevole convinzione, ma per una specie di tradizione di famiglia. E così è a causa dell’influenza che l’ambiente ha avuto su di me che non mi sono inginocchiato sulla panca a recitare preghiere come un mantra. L’idea mi fa sorridere, poi mi ricordo perché sono qui e torno serio di colpo. Mi guardo intorno, scruto le facce di parenti e amici. Ci sono delle persone anziane con uno stendardo dell’ANPI. Mi vengono in mente i racconti che mio nonno mi faceva da bambino, sulla guerra partigiana, soprattutto quando mio padre non c’era. Allora lo vedevo come un eroe, una specie di Capitan America che lottava senza paura contro le forze dell’Asse. Mi immaginavo da grande, anch’io avrei combattuto i nazisti come lui. Solo più tardi realizzai che Hitler non c’era più e che l’unica supremazia a cui la Germania aspirava in Europa era quella economica. Ne rimasi un po’ deluso, la mia occasione era svanita.
Ieri sera Annette mi ha telefonato. Dopo tutto questo tempo non sapevo cosa dirle, cercavo di immaginarla lì, davanti a me, ma la sua figura era molto sfocata, afferravo solo delle macchie di colore, il cielo degli occhi, l’oro dei capelli. Lei era triste, per mio nonno, forse un po’ anche per noi.
Mentre mi avvicino per vedere quello che succede passo vicino alle corone. Sento il profumo intenso e penetrante dei gigli bianchi, sono quasi stordito dalla loro fragranza. In una specie di vertigine sensoriale guardo affascinato il muratore che sistema i mattoni e li unisce con la calce fresca. Tutta la scena scorre quasi al rallentatore, finché la lapide viene sistemata al suo posto e solo allora mi scuoto un po’ dal mio stordimento.
Una stagione della mia vita finisce oggi e credo che per me, da questo momento, la morte avrà per sempre il profumo inebriante del giglio.