Una rampa per l'abisso
Inviato: 28/12/2020, 11:25
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Alzi il capo e cerchi l’orologio appeso alla parete.
«È ora di chiudere» rammenti a te stesso, e i tuoi pensieri si affollano in un luogo ben diverso da quello in cui risiedono quelle parole.
Chiudi il volume e lo riponi sulla scaffalatura da cui l’hai estratto; è una pregevole prima edizione italiana del 1889, con la legatura Morris corredata del consueto decoro di fogliame e piante tropicali, intitolata: Il delitto e il castigo.
Prelevi le banconote dal registratore di cassa, eccetto l’ultima da cinquanta euro che fa da esca, e spegni le luci, inserisci l’allarme e infine abbassi la saracinesca: ti muovi in fretta, pure se in casa non vi sia nessuno ad attendere il tuo arrivo.
Non hai mai avuto qualcuno che ti aspettasse, da trent’anni la tua vita non è occupata da altro che non sia il lavoro: una libreria antiquaria a Torino, in vicolo Grosso numero sei, non distante dalla basilica di Santa Maria Ausiliatrice; un luogo appartato, seppure a due passi dalle vie del centro, dall’entrata angusta, persino anonima, senza insegne a indicare la funzione, a parte una vetrofania in un minuscolo gabriola e una vetrina affacciata sulla sala principale, di otto metri per quattro, dove questo mese hai inserito un paio di atlanti a legatura greca esposti sopra una consolle art nouvau a tre cassetti, che comunica, lungo i perimetri maggiori, con due altre di minori dimensioni: in cui le pareti, sino al soffitto, sono occupate da spesse mensole di mogano lucido affollate da libri di diverse forme e dimensioni.
Ma tu non ti reputi certo un libraio, piuttosto un collezionista, e consideri la tua libreria una ineguagliabile galleria d’arte; un luogo tranquillo, e riservato, tanto da consentire ai suoi frequentatori, i tuoi clienti, di perdersi tra antiche edizioni con brossure di spesso cartone o di antico marocchino e di trascorrere del tempo lasciandosi sedurre dall’aroma di tabacco stagionato che emana certo cuoio leggermente umido, o dal sentore di vaniglia e benzaldeide della carta ormai ingiallita: dove poter leggere nomi di case editrici dimenticate anche dai più longevi ricordi, o decifrare le lettere in rilievo di titoli ignoti quasi sempre frutto di oscuri autori, certo essi non dimenticati perché mai conosciuti.
Per i clienti disposti a spendere tieni in serbo dei pezzi particolari; che conservi in un locale segreto a cui si accede attraverso una porta blindata nascosta da una scaffalatura mobile e con dentro l’esatta concentrazione di umidità e la giusta temperatura mantenuti per ogni giorno dell’anno.
Là dentro, solo per i tuoi sguardi, e le tue attenzioni, conservi la collezione privata che ha consumato ogni ora, ogni istante della tua vita: là dentro hai accumulato il tuo unico patrimonio composto da volumi, del seicento e del settecento, da incunaboli, da pergamene, persino da antichi papiri: non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, tutti rari e preziosi. Un tesoro celato anche a te stesso: soprattutto a te stesso. Come fosse una caparra, una firma di garanzia per un contratto con una clausola che non si avvera, per una vita che non arriva e che si allontana, giorno dopo giorno.
Da circa un mese hai messo le mani sopra un’opera singolare, un prezioso manoscritto medievale compilato in carta pergamena, legato con tavole di quercia rivestite da cuoio impreziosito da smalti multicolore e pallidi avori. L’hai inseguito a lungo, e in ogni dove; e dalla sua vendita speri di ricavare un ampio utile a premiare il costo della ricerca, la fatica dell’inseguimento.
Ma quasi ti sei affezionato a quell’oggetto e, senza confessarlo neanche a te stesso, lo immagini chiuso per sempre dietro la tua porta blindata con dentro l’esatta concentrazione di umidità e la giusta temperatura mantenuti per ogni giorno dell’anno.
Nondimeno, hai contattato un possibile acquirente, un noto collezionista piemontese, un facoltoso uomo d’affari che ha per dimora una splendida villa, uno chateau perso tra le colline, disposto a investire la cifra considerevole a cui pensi di cedere il frutto delle tue fatiche.
Quando ti convoca sali in auto, ti inoltri nel buio, su per i tornanti delle colline boscose ai margini della città, e quando oltrepassi il cancello percorri il lungo viale d’accesso, fitto di monumentali tigli, e ti sembra che non debba aver mai fine, e condurre in un nuovo mondo, finché d’un tratto non si apre una radura, illuminata e impreziosita da giardini formali fitti di bosso e circondati da teatri di verzura intervallati da boschetti, di aceri, querce e tilie, ben curati e ancora meglio tenuti.
Superi il controllo di un metal detector e subisci una perquisizione corporale, ma questo è davvero il minimo per avere l’onore di trattare con personaggi prestigiosi; come d’abitudine, per presentare il volume, inizi a narrare le acrobazie che lo hanno condotto, attraverso i secoli, nelle tue mani, e quindi prendi a elencare i nomi dei precedenti possessori, per dimostrare quanto lustro un’opera del genere possa arrecare a una biblioteca. Ma il finanziere è allenato a non mostrare emozioni, addestrato a trattare con ben altri individui e per ben altre consistenze, o può darsi che non sia ancora del tutto convinto a impegnarsi. Ma tu non ti distrai e non ti perdi d’animo, e inizi a evocare il lavoro, faticoso e oscuro, di quel monaco amanuense che, centinaia di anni prima, aveva compilato l’opera e assicuri il tuo interlocutore che il testo è la riproduzione dell’originale papiro sfuggito all’incendio della Biblioteca di Alessandria e poi andato perduto.
«Ne è proprio sicuro, signor Policarpo?» Ti chiede il facoltoso interlocutore, con una punta acre di scetticismo, mentre un sorriso artefatto gli incupisce il volto e s’accompagna allo sgranarsi di azzurri occhi da cane.
«È un pezzo unico, glielo garantisco» lo rassicuri.
Non lasci che le sue obiezioni ti inquietino e rispondi: «una riproduzione del ΠΕΡΙ ΥΨΟΥΣ dello Pseudo Longino. Questa» confermi, indicando le fotografie, «è la parte che al mondo manca e che solo lei potrà leggere... e possedere» sottolinei.
«Senza dubbio, signor Policarpo. Ma voglio vedere il pezzo prima di procedere alla transazione» ti comunica l’uomo in tono neutro. «Per lei rappresenta un problema?»
«Chiaro che no, lo potrà vedere, se lo desidera, e farlo visionare da un esperto di sua fiducia.»
È questo il genere di persone che frequenti da tutta una vita, ne sei consapevole; non dei comuni lettori, ma persone che amano l’ombra in cui si nascondono: bibliofili all’eterna ricerca di quel pezzo letterario senza eguali per il quale sono disposti a cifre favolose: collezionisti che aspirano all’unicità e credono di poterla acquistare, a volte persino strappare, in ogni modo e a ogni costo: uomini che pensano di poter lasciare la loro impronta nella storia quali scopritori di un’opera già scritta: accumulatori seriali di oggetti per il cui possesso è necessario il trasferimento di una cifra a cinque zeri, o a sei.
La sera successiva, in negozio, ti immergi nella lettura di una prima edizione acquistata all’ultima mostra del libro antico di Milano: a un tratto ti colpisce il silenzio e solo allora ti rendi conto che è notte fonda. Nessun rumore dalla strada, e la nebbia come una cortina ad attutire suoni e luci, e a ridurre il mondo a una monocromia senza contorni.
Ti senti come chi ha imboccato una rampa sospesa nell’abisso col pericolo di precipitare nell’oscurità al primo passo falso.
«C’è un silenzio terribile» mormori, e senti un brivido correrti per la spina dorsale.
Ti affretti a chiudere e, inserito l’allarme e serrata la saracinesca, ti avvii a grandi passi verso casa.
Hai l’impressione di uno scalpiccio alle tue spalle, volti il primo angolo di proposito nella speranza che svanisca, ma la sensazione non cessa di durare; allora ti fermi, e ascolti, cercando di cogliere un suono che possa indicarti la presenza di un estraneo; ma non dal silenzio emerge soltanto il rumore di ruote sull’asfalto umido e il latrare di cani in lontananza. Riprendi a camminare, mentre la suggestione di essere seguito diviene prepotente.
Chissà se la solitudine in cui hai avvolto la tua esistenza non abbia sollecitato qualche tipo di paranoia, se tu non abbia finito per assorbire le fissazioni dei tuoi clienti, oppresso come loro dall’impulso di accumulare opere uniche e dalla paura che qualcuno possa sottrargliele. Che qualcuno possa privarti del tuo unico amore.
E mentre acceleri il passo, nel tentativo di distanziare il tuo inseguitore, o la sua ombra, inizi a interrogarti sul senso della vita, della tua vita.
Le uniche emozioni che ti fanno sentire vivo le hai isolate e concentrate nel ristretto andito della ricerca di testi rari, volumi ogni volta più preziosi, quasi impossibili da trovare.
La tua vita si è trasformata, senza una tua preordinata volontà, senza una chiara visione per l’avvenire, in una caccia al tesoro; ma per quanto tempo ancora funzionerà, è la domanda che da qualche tempo hai iniziato a porti.
Non hai mai riflettuto sulla tua solitudine, e non ti sei sentito tanto solo come adesso.
Il trascorrere degli anni ha scolpito i contorni della tua vita e l’ha messa in mostra per ciò che è: una nave che vaga senza meta in un oceano privo di vita.
E ti sovviene quel passo del Ad se ipsum in cui Marco Aurelio esorta se stesso a cogliere l’istante che rende ogni momento unico.
«Sfruttare le gioie che la vita dona in ogni momento?» Ti scuoti, all’improvviso, dalla tua solitudine.
Ne hai sempre dubitato, seppure tu abbia pensato che la vita sia composta da istanti unici ognuno di essi, col tempo, ritieni sia destinato a scomparire e a diventare un ricordo, che spesso ti ha lasciato un sapore di amaro in bocca.
Vivere momento dopo momento non permette di dare un senso alla propria vita: nessuna esperienza vissuta, nessun attimo fuggente può servire a regalarmi la lucidità di una visione né la consapevolezza di quel singolo momento, pensi.
Carpe diem quam minima credula postero, cogli l’attimo confidando il meno possibile nel domani, scrive Orazio, ed è un invito a non preoccuparsi del futuro.
Anche se ciò in fondo significa nessun senso e nessuna felicità, né fuggente né duratura, rifletti.
E oramai giunto ben oltre la soglia dei cinquant’anni senti il corpo invecchiare e comprendi che sarà il tempo a risolvere ogni mistero, un po’ come l’Adamastor di Vaz de Camões.
Migliaia di istanti sono scivolati su di te come vento sulle vele, uguali gli uni agli altri, indistinguibili e uniti dall’indifferenza in cui anneghi; cogliere l’istante non vuol dire afferrare il momento, l’occasione propizia, o vivere l’intera vita con l’intensità di un solo attimo, quanto rendersi conto che ogni goccia di esistenza e di consapevolezza è preziosa, e unica, pure se si perde nell’immenso Oceano del Tempo e dell’Esistenza.
Impieghi mezz’ora a piedi dalla libreria al tuo appartamento, al terzo piano di una palazzina dalle parti del parco del Meisino; in questo luogo conduci ciò che rimane della tua esistenza al di fuori della libreria: tranquilla e solitaria, lontana dal tuo prossimo. Di rado ti soffermi a parlare con gli altri condomini, per non dire degli abitanti del quartiere; figure anonime che osservi a distanza, meno che da spettatore, perché senza interesse o addirittura con fastidio. Non hai mai voluto sposarti; le donne ti hanno attirato da ragazzo, ma sono bastate un paio di disavventure per metterti sulla difensiva, per farti perdere la voglia di prendere l’iniziativa. In tanti anni non hai mai sperimentato un legame emotivo serio con un altro essere umano, anzi, con nessun essere vivente.
Le sole sensazioni rimaste in vita sono legate all’unico legame duraturo che sei riuscito a costruire: quello con i tuoi libri. I tuoi libri sono la tua vita e il tuo unico tesoro, ma hanno riempito la tua intera esistenza di accidia.
Ti attardi sul portone e, prima di entrare, scruti l’oscurità alla ricerca di un segno. La nebbia si è fatta meno fitta e lo sguardo si ferma sul parcheggio vicino. Ti sembra di scorgere una figura umana nei pressi di un furgoncino scuro; e ti pervade la sensazione che ti stia osservando, continui a domandarti se sia l’individuo che ti ha seguito fin lì. E quell’automezzo d’un tratto sei sicuro di averlo già visto parcheggiato la sera prima e quella prima ancora.
Qualcuno che abita qui. È il pensiero che ha l’effetto di un tranquillante.
Apri il portone e, quando ti volti, di scatto, ti accorgi che il furgone è andato via; per qualche attimo osservi l’asfalto vuoto e vieni invaso da una senso di inquietudine. Attraversi a passi svelti l’atrio vuoto, illuminato da una fioca lampadina, e ti trovi davanti alla porta dell’ascensore; la cabina vuota ti offre un senso di sollievo. Entri e spingi il pulsante del piano, tiri fuori dalla tasca le chiavi che serrano la spessa porta blindata e, in un attimo, ti ritrovi dentro.
«Al sicuro, al sicuro» ripeti ad alta voce, dopo aver chiuso la pesante porta alle tue spalle.
Una settimana dopo, il Natale è già trascorso, ti accingi a preparare l’inventario in vista del fine anno e ti domandi, incerto, se chiudere o no la libreria.
Non è mai un buon periodo per le vendite quello. Anzi, di regola, hai sempre serrato per una settimana intera, anche per evitare di incontrare facce felici, e dispensatrici di un’armonia e di una serenità a tuo avviso certo fasulle e imposte con forza dalle circostanze e dalle tradizioni, tanto da costringerti nel rifugio di casa o dietro le saracinesche serrate del tuo regno.
Coccolato da quel pensiero stai per chiuderti dentro quando un vecchio cliente ti telefona.
«Le dispiace se passo dalla libreria questo pomeriggio?»
«Emidio Vauro» ti ricorda il suo nome.
Scavi nella memoria e rammenti: hai concluso un magnifico affare con lui, molti anni addietro, ma è da allora che hai perso le sue tracce.
«Veramente avevo in mente di non aprire» provi a scusarti.
«Non le farò perder tempo» ti assicura, «devo solo acquistare un regalo per un caro amico.»
Nonostante sia passato tanto tempo da quell’unico affare non te la senti di negargli un favore, e quel pomeriggio decidi, tuo malgrado, di lasciare aperta la libreria.
L’uomo giunge verso le sei del pomeriggio e ti ringrazia della cortesia, poi si addentra tra gli scaffali e ti fa cenno di voler rimanere solo.
Passa del tempo senza che tu senta rumori e, incuriosito, lo cerchi. Sembra quasi che stia lì ad aspettarti.
«Io possiedo il manoscritto completo e originale, sa...» t’informa, come fosse una notizia di poco conto.
Ti avvicini, lo osservi con più attenzione. La memoria, alle volte, gioca brutti scherzi, perché non sembra cambiato da quando l’hai conosciuto, quindici anni prima; riaffiora dagli anfratti della memoria la sua età, uguale alla tua: cinquantadue anni.
Neanche una ruga o un capello bianco, l’abito grigio che veste alla perfezione, il respiro cupo senza essere ansimante.
Il tempo, per lui, non pare passato.
E rammenti di avergli venduto un pezzo molto costoso e col ricavato di avere fatto dei buoni affari. Ricordi quella grossa cifra pagata in contanti, mazzette da dieci milioni ciascuna appena uscite dal Poligrafico dello Stato.
Ti avvedi che quella del dono a un amico è solo una scusa e che l’uomo si trova lì perché desideroso di proporti un qualche affare; fiuti l’opportunità, ma l’abitudine allo stare all’erta, pronto a smascherare i bluff dei tuoi clienti o le truffe di girovaghi imbroglioni intenzionati a fare l’affare a tue spese, ti impone di tenere la guardia alzata anche in quel frangente.
«Io possiedo il manoscritto originale» ti tenta ancora, e fa cenno al libro che tiene tra le mani.
Però la curiosità evapora non appena ti mostra il suo dorso, con il titolo dell’opera stampato a chiare lettere, in oro rosso: «Zosimus, New History» leggi ad alta voce, e nell’inflessione non riesci a nascondere la tua delusione.
«Lo conosco bene» confermi, con voce piatta.
«Ho l’originale, se le interessa» prova a solleticarti, e un sorriso beffardo gli illumina il viso.
«Lei forse possiede l’edizione Green and Chaplin del 1814. Preziosa, ma non rara...» commenti, saccente, con una punta di sarcasmo.
«Io veramente intendevo il manoscritto di Zosimo in originale... non la tarda traduzione inglese.»
Il tuo sguardo incredulo si ferma sui suoi occhi, e dubiti di lui, pensi che si stia prendendo gioco di te, o che sia uscito di senno.
«Il manoscritto originale, per quanto ne so, si trova in Vaticano. Ed è mancante di una parte del quarto libro, che non è mai stata ritrovata.»
L’uomo sorride e continua a sfogliare il volume di inizio Novecento che tiene tra le mani.
«Il manoscritto originale, contenuto in pergamene legate in forma di codex, è completo ed è al sicuro in casa mia» ti corregge, e la sua voce vibra nella sala vuota, calma e severa allo stesso tempo.
«Mi spiace, ma non è possibile» lo contraddici.
«Niente è impossibile per un vero collezionista» e calca l’accento sul sostantivo, a sottolineare la distanza tra la mera volontà, l’ambizione, i sogni, e la realtà: tra lui e gli altri… tra te e lui. «Lo vuol forse vedere?»
Non riesci neanche ad abbozzare una risposta. Rimani sulle tue, sospettoso come sempre, temendo che dietro quell’inaspettata rivelazione e la generosa offerta si nasconda un ingegnoso stratagemma.
«Sa chi era Zosimo?» Riprende Emidio Vauro e, posato il volume, si allontana voltandogli le spalle, in modo del tutto simile alla fiera che si distanzia dalla sua preda tanto da non farle intendere di essere seguita e che, rimanendo sottovento, continua a sorvegliarla pronta a ghermirla e a sferrare il colpo mortale.
«Uno storico, ma anche un giurista... visse durante il regno dell’imperatore Giustino» spieghi.
«Ha una buona memoria, caro il mio libraio.»
«Uno storico scadente dalla prosa pomposa, un narratore superficiale privo di carattere e di mordente, ma...» ti interrompi e ricordi di colpo qualcosa di importante che preferisci tacere.
«Ma?» Ti sollecita l’uomo.
«Alcuni sostengono che fosse un farmacista; ma non un farmacista qualsiasi… il più grande fino ad allora... e che la Ίστορία Νέα sia non un’opera di storia scadente, ma un grandioso, incomparabile, codice criptato» ti decidi a continuare.
«E che proprio la parte mancante costituisca la chiave per decifrare il codice» aggiunge Emidio Vauro, sorridente e soddisfatto, ed è un tutt’uno con l’inalare il contenuto di una piccola bomboletta spray.
«Per la mia asma» si scusa con la voce tirata.
Ti esce una smorfia come un sorriso e, dopo aver scavato nella memoria, aggiungi: «Ricordo che qualcuno affermava che egli avesse trovato una cura per il cancro, con una singolare mistura di erbe rimasta ignota...»
«Ho impiegato dieci anni a decifrare quel codice, e tutte le mie risorse. Mi creda, non soltanto un grande farmacista. Ma il più grande. Zosimo mi ha salvato la vita» conclude, e ti consegna una fotografia tirata fuori dalla tasca della giacca.
La prendi e la rigiri finché non metti a fuoco l’uomo che ritrae, in un letto, pallido e senza capelli, lo sguardo spento.
«Lei?» Balbetti, indicandolo.
«Io, poco prima di riuscire a decifrare Zosimo. Mi avevano dato pochi mesi di vita. Le terapie chemioterapiche erano fallite. Ora sono rinato, ringiovanito persino. Devo ringraziare Zosimo e... lei. Mi avete salvato la vita.»
«Io?» Domandi stupito. «Perché?»
«Perché quindici anni fa ho acquistato da lei le pergamene di Zosimo...»
«Da me? Non è possibile... No, lo escludo» ti difendi, con voce tremante, quasi supplicandolo di non fargli questo.
«L’opera completa di Zosimo era nascosta in quel manoscritto. Le pagine di pergamena erano unite in due a formare un unico foglio. La scoperta l’ha fatta il mio piccolo aiutante, per caso» ti spiega, e indica il grosso gatto nero che tiene curiosamente al guinzaglio e di cui, fino ad allora, non ti sei accorto.
«Qual era il libro?» Domandi, come in un sussurro, quel titolo che ricordi perfettamente.
«Expositio ad Mattheum, di Remigio di Auxerre. Ricorda? Nel 1998 mi costò più di cinquanta milioni.»
Rammenti le pergamene di Remigio, che hai tenuto con te per oltre due anni senza trovare un acquirente all’altezza. Ricordi di aver sfogliato innumerevoli volte quelle pagine, con attenzione, impegno, delicatezza. Pagine vecchie di quasi mille anni. La rabbia nata dall’impotenza ti porta a maledire te stesso.
Non ho capito nulla, pensi, pieno di rabbia per la tua superficialità.
Spalanchi gli occhi e l’aria quasi ti viene a mancare.
Per lo stupore, l’invidia e la delusione di non essere stato tu a scoprire quel testo ineguagliabile che hai cercato per tutta una vita e che è rimasto nelle tue mani per due lunghi anni senza che tu avessi compreso alcunché.
L’emozione ti toglie il respiro.
«Perché non lo rivela al mondo?»
«Non è ancora giunto il momento. Ma lei lo vuole vedere?» Suggerisce, sfoggiando un sorriso largo e amichevole.
Cade ogni difesa e ogni barriera.
«Dove?» Domandi, ancora sconvolto da quella rivelazione, mentre ripercorri uno a uno i giorni in cui hai avuto con te il codice senza capire nulla.
Spinto dalla curiosità metti da parte ogni cautela e indugio e, per un attimo, ti balugina persino l’idea di uccidere quell’uomo invaso e diretto dalla tua stessa ossessione, ma che ha dimostrato di avere più capacità o, soltanto, più fortuna di te.
Un uomo, rimugini, che per forza sarà solo al mondo, come lo sono io.
«A casa mia domani sera» ti propone, e porta di nuovo l’inalatore alla bocca, mentre ti consegna uno sbiadito biglietto da visita con il suo indirizzo.
«Sarò puntuale, non tema.»
«Oh, non ho dubbi...» risponde, e ti porge la sua mano, fredda e diafana.
La sera seguente ti presenti all’orario stabilito e ti attardi all’ingresso, incerto sul da farsi.
Decidi di suonare.
La casa è elegante senza essere lussuosa, ma anonima e ti stupisce non vedere librerie o scaffali da nessuna parte né, tanto meno, libri.
Emidio Vauro ti accoglie e ti rivela di essere solo in casa. Di non avere moglie o famiglia. Ti confida, con una punta di sincero rammarico, che i libri sono l’unica cosa viva della sua vita.
Come mai prima d’allora hai l’impressione di trovarti davanti al tuo doppione esatto. Poi ti offre da bere e ti intrattiene con chiacchiere e confidenze vuote; d’improvviso si alza e si allontana, senza dire una parola, torna dopo qualche istante con il voluminoso involucro che contiene le pergamene.
Apre il panno che dovrebbe contenere il manoscritto originale di Zosimo di Panopoli, ma non riesci a vedere altro che l’Expositio ad Mattheum che gli hai venduto anni prima.
«Dov’è l’opera di Zosimo?» Chiedi, e trattieni il respiro.
«Guardi meglio. È lì, davanti ai suoi occhi... il tesoro lo tiene in mano» ti garantisce.
Continui a sfogliare il volume, con le mani che tremano per la trepidazione.
Tira fuori l’inalatore da una tasca, e il suo contenuto si perde nell’aria. «Lei è libero... finalmente» ti sussurra, con un sorriso sardonico, mentre ogni cosa intorno a te si fa sfocata.
«Il tesoro l’ho in mano io... sono un uomo libero» ripeti, mentre il mondo intorno perde i suoi contorni.
Quando ti svegli è già giorno, dolorante e intontito noti intorno a te dei soccorritori e degli agenti di polizia, oltre una donna fuori di sé che ripete la parola ladro continuando a indicare verso di te.
D’istinto con le mani vai alla ricerca delle chiavi della libreria nella tasca dei pantaloni.
Gli agenti che ti riaccompagnano constatano che la saracinesca è aperta e che l’intero locale è stato svuotato; entri barcollante nella stanza blindata che ha contenuto il tesoro di lunghi decenni di fatiche e di privazioni, e la voce di quell’uomo inizia a rimbombare nella tua mente: sei un uomo libero.
Emidio Vauro, o comunque si chiamasse, non ha lasciato neanche uno dei preziosi libri a cui hai dedicato la tua intera esistenza.
Questo il fatto o, se preferite, l’antefatto.
Perché il senso di quell’ultima frase l’hai compresa solo più tardi: sei un uomo libero.
Per due anni hai pensato alla beffa finale e crudele di un uomo senza sentimenti, di un astuto ladro di vita.
Ma oggi tu sei un uomo libero; ti conoscono tutti nella cittadina dove hai scelto di ricominciare la tua vita, e finalmente libero hai trovato qualcuno ad aspettare il tuo ritorno a casa ogni sera, ogni giorno, e che ti accoglie con affetto, con un sorriso e un abbraccio caloroso.
Il tuo lavoro non è cambiato, vendi sempre libri alla fine. Ma adesso non sono più oggetti da collezionare, o accumulare; essi non sono più una barriera, non hanno più un valore di scambio, non formano più il recinto che racchiude il tuo angusto universo, ma sono essi stessi un formidabile mezzo per scambiare esperienze e attraverso le loro pagine ti unisci agli altri esseri umani invece che separartene: attraverso di essi tu dai e ricevi.
E solo adesso ti sei reso conto che i libri sono vivi e sono anche capaci di regalarti quella saggezza, quella maturità e quella serena calma, quella soddisfazione che prima non potevi conoscere.
Dopo quasi una vita comprendi cosa voleva dire Marco Aurelio quando esortava se stesso a cogliere l’istante che rende ogni momento unico.