Il sale della vita
Inviato: 29/12/2020, 8:57
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Un bicchiere di Calvados, il sublime Chateau de Breuil millesimato, e un enigma nascosto in due misteriose parole: Aigues Mortes.
Seduto al bancone del bar, nel solito albergo alla periferia di Torino, sorseggiavo lentamente il mio nettare e cercavo di sciogliere l’enigma di quelle due parole in apparenza innocenti ma capaci di scatenare una rissa verbale in un luogo, il bar di un hotel 4 stelle, frequentato da persone intenzionate soltanto a passare un’oretta rilassante dopo una giornata di lavoro faticoso.
Mi guardai riflesso nella specchiera dietro al bancone: ero stanco. Oltre a mancare pochi mesi alla mia pensione, fatto che di per sé mi faceva sentire un anziano manager ai limiti del cedimento strutturale, scontavo anche gli effetti delle vacanze invernali.
Appena il giorno prima, la Befana, vecchietta dispettosa, con la sua scopa aveva spazzato via ogni ulteriore sogno di riposo, e così quel freddo giovedì era iniziato alle cinque, quando la sveglia aveva svolto il suo compito col solito zelo.
Dopo il caffè, anzi un’intera moka da tre, per darmi l’illusione di essere ben desto, ero uscito invidiando il sole che ancora stava dormendo da qualche parte, laggiù a est.
Mi ero messo al volante, lanciando mentalmente un’imprecazione al mio Capo che aveva avuto la bella idea di fissare due giorni di riunioni con un importante cliente in date adatte a un bel ponte, magari sulla neve. Naturalmente lui aveva indorato la pillola “Tu sei il migliore, mi fido solo di te, non serve che io venga” bello str…! Così avevo guidato per un paio d’ore sino a Torino, alla sede centrale di una grande industria automobilistica, non è difficile indovinare quale.
Durante il viaggio, quando potevo permettermi una minore attenzione al traffico, rari momenti su quell’autostrada insidiosa, percorsa in prevalenza da camionisti insonni e persone frettolose, mi ero ripassato mentalmente le argomentazioni che avrei portato nelle riunioni delle ore successive. Insomma, ero già provato fisicamente e mentalmente quando, alle nove in punto, mi ero presentato alla reception della Direzione Generale del cliente.
Come avevo previsto, le discussioni andarono avanti per molte ore inframmezzate da tanti caffè e da un panino stopposo che persino una capra avrebbe guardato con sospetto.
Erano passate le diciassette quando, strette le ultime mani, mi ero diretto al solito albergo in periferia dove, dal tremore dei vetri, si potevano contare i voli in partenza da Caselle.
Una doccia, un altro paio d’ore di lavoro per raccogliere e organizzare sul portatile gli appunti delle riunioni, poi una cena ritardata e solitaria nel buon ristorante dell’albergo.
Infine ero sceso al bar dove, centellinando il pregiato Calvados, stavo scaricando la tensione accumulata, prima di raggiungere il letto.
La mia via verso la pace interiore era stata disturbata da qualcosa che si stava svolgendo sotto i miei occhi di spettatore involontario.
Io sono curioso di natura e iniziai a chiedermi che cosa fosse accaduto tra il barista e quei due clienti francesi che se l'erano appena svignata, inviperiti, urtandomi senza nemmeno l’ombra di un “pardon”.
Un rabbioso “Ne oubliez pas Aigues Mortes!” del barista li aveva accompagnati all’uscita.
Non dimenticate “Aigues Mortes”, ecco le due parole misteriose.
Ero seduto abbastanza lontano e non avevo potuto seguire la discussione; per giunta, il mio francese era così raccogliticcio che non mi avrebbe permesso di origliare. Ma avevo udito chiaramente le due parole, ben scandite più volte dal barista, con rabbia trattenuta e tono sempre più alto. Per me erano prive di significato, mi veniva da pensare a “acque morte” ma, da quanto ricordavo, “acqua” in francese si dice “eau”.
Qualunque cosa volessero dire, quelle paroline erano certamente la chiave di tutto, visto l’effetto che avevano sortito.
In quel tipo di alberghi d'affari, confortevoli più della casa e freddi più dello sguardo di un doganiere, i clienti, viaggiatori professionisti, vanno al bar per rilassarsi, o per scambiare quattro chiacchiere informali con i colleghi, o magari per annegare nell’alcool di qualità una delusione professionale. Di sicuro non per litigare con il barista, soprattutto con quel barista, Roberto.
Frequentavo l'albergo da qualche anno e conoscevo bene Roberto: una persona oltre la sessantina, un vero gentiluomo che parlava benissimo quattro lingue ed era in possesso di un aplomb da fare invidia a un maggiordomo inglese.
Mai, a mia memoria, aveva avuto a che dire con un cliente, e sì che di persone sgradevoli, alticce, o soltanto aggressive per le frustrazioni professionali, doveva averne sopportate a centinaia.
Col mio bicchiere in mano, mi avvicinai sino a sedermi sullo sgabello più vicino. Il barista stava mettendo in ordine alcune bottiglie. Notai subito le sue mani: tremavano.
La presi un po’ larga:
«A volte certi clienti sono duri da sopportare, vero, Roberto?».
Mi guardò un attimo quasi con ostilità, poi mi riconobbe e abbozzò un mezzo sorriso.
«Buonasera ingegnere; no, è colpa mia, ho lasciato prevalere i sentimenti personali , ma tutto sommato non me ne pento.».
«Mi scusi se glielo chiedo, ma le uniche parole che ho sentito chiaramente sono state "Aigues Mortes". E ho visto l'effetto che hanno avuto su quei due. Io sono curioso, è troppo se le chiedo di spiegarmi cosa c’è dietro?».
Il barista soppesò per un momento la risposta da darmi. Si vedeva che era combattuto. «Già, i libri di storia non ne parlano, magari qualcuno al di là delle Alpi si offenderebbe. Ha tempo di ascoltare una storia, di quelle cosiddette minori, tramandate a voce?».
Per puro caso, avevo finito da poco la lettura di un’opera di un oscuro scrittore tedesco, Arno Schmidt, e mi erano rimaste impresse alcune sue affermazioni. .
«Qualcuno ha detto che la grande storia non è niente: fredda, impersonale, spesso falsa; soltanto nelle "antichità private" c'è vita e segreto.».
Roberto interpretò giustamente la mia risposta come un “sì”. Prese la bottiglia del Calvados e due bicchieri puliti. «Proprio una grande verità. Si metta comodo, questo giro l’offre la casa».
Mi sentivo come il protagonista di un vecchio film americano, di quelli in bianco e nero: l’investigatore privato seduto al bancone di un bar, il barista che gli mette davanti un bicchiere di Bourbon. "Questo lo offre la casa, Mike, ma poi squagliati". Dovevo solo sperare che non ci fosse la scazzottata finale.
Guardai l'ora e ascoltai la vocina dentro di me che supplicava di andare a letto, l'indomani alle nove mi aspettava una riunione, dove avrei dovuto sfoderare tutta la mia lucidità e abilità di negoziazione. Ma la curiosità era ancora più forte. Alzai il bicchiere e diedi mentalmente un calcio nel sedere alla voce della ragione, che si ritirò da qualche parte, facendo l’offesa.
«Grazie, versi pure, ho tutto il tempo che serve.».
«Aigues Mortes, cioè “acque morte” in occitano, è una cittadina della Francia meridionale, sul Mediterraneo, e la sua ricchezza sono gli stagni di acqua salmastra, dai quali si estrae il sale», esordì Roberto, guardando il proprio bicchiere che aveva colmato sino all'orlo. Il mio non era da meno. «E quei due di prima sono dei presuntuosi sciovinisti e hanno avuto ciò che si meritavano!». Roberto, con rabbia, vuotò in un sorso il bicchiere.
Bene, una vaga indicazione geografica, la spiegazione del nome, e qualche informazione sulla discutibile natura dei due clienti; un po’ poco, ma un buon inizio. Rimasi in attesa del seguito.
«Stavano parlando tra loro di un brutto fatto cui avevano assistito questa mattina, proprio davanti all'albergo. C'è un povero cristo, un ragazzo magrebino, certamente un islamico, che passa nel parcheggio la mattina, quando i clienti escono. Arriva con secchio, spatola, spugna, le solite cose, e si offre di pulire i vetri. Lo fa in modo educato, non esagera mai.».
«Sì, lo conosco», lo interruppi, «è un tipo tranquillo.».
Non dissi che lo mandavo sempre via con un gesto seccato.
«Dario, il ragazzo dei bagagli, ha assistito a tutto e mi ha raccontato di un cliente, un italiano, che si è infastidito. Non so, forse il ragazzo ha insistito più del solito o il cliente si era alzato col piede sbagliato; comunque sia, dopo averlo preso a maleparole, di quelle proprio da razzista, il cliente lo ha pure spinto violentemente, facendolo cadere. Se uno dei francesi che stavano uscendo non lo avesse trattenuto, trascinandolo via, lo avrebbe preso a calci. Una cosa davvero penosa e quel cliente è un imbecille, il mio orario di lavoro è finito e lo posso dire. Ma purtroppo cose del genere succedono dappertutto, quella piccola minoranza di cretini e ignoranti infesta ogni parte del globo.».
Roberto mi guardò, come per chiedere conferma. Io mi limitai ad annuire ma non ero così sicuro che i cretini fossero una minoranza tanto piccola.
Una sconosciuta cittadina della Francia, le saline, un paio di francesi che diventano antipatici al barista, un disgraziato lavavetri islamico maltrattato da un italiano idiota; non ci arrivavo proprio.
«Quei due erano lì a bersi un whisky e a straparlare d’italiani intolleranti e fascisti, che da loro certe cose non erano mai accadute, avevano sì dei problemi con i loro immigrati, ma venivano affrontati e risolti in modi civili e democratici. Altro che questi italiani razzisti! Dicevano così: italiani razzisti, con aria da padreterni, facendo finta di parlare tra loro ma a voce bella alta, che gli italiani sentissero. Beh, a me questa cosa non la dovevano dire. Quant'è vero che mi chiamo Roberto e che mio nonno era Giovanni Garino. Lui ad Aigues Mortes c'era!».
Roberto aveva perso il suo aplomb, era rosso in viso e si trattenne a stento dal battere un pugno sul bancone: la mano serrata era già in viaggio ma all’ultimo istante si fermò, rimase per qualche attimo a vibrare a mezz’aria, poi le dita si aprirono per un atterraggio morbido sullo strofinaccio del bancone.
Io finsi di non aver visto e spinsi avanti il mio bicchiere vuoto.
«Il prossimo sul mio conto, Roberto, e vada avanti, mi pare interessante.».
Il barista aveva ripreso il proprio autocontrollo; fece un segno di disprezzo per il mio conto e versò un altro giro.
«Vede, mio nonno Giovanni era figlio di contadini, campavano abbastanza bene nel Monferrato, coltivando qualche ettaro a vigna e qualche altro a grano. Poi, verso la fine dell’ottocento successe il disastro: arrivò la filossera, lo sa cos'è vero?».
A me piace il vino e avevo letto qualcosa sulla filossera, ma in realtà non ne sapevo molto. Buttai lì una risposta, tanto per rompere il momento di silenzio.
«La filossera? Un insetto parassita arrivato dall’America, mi pare, e credo che il problema fu risolto usando appunto le viti americane, resistenti all’infezione, per innestarci i nostri vitigni. In pratica, oggi qualsiasi uva da vino in Italia come nel resto d’Europa, ha il “piede americano”.».
«Giusto nella sostanza, ma tra la comparsa del parassita e la soluzione del problema passarono più di trent'anni. Nel frattempo, per altri motivi, pure il prezzo del grano crollò. Così centinaia di piccoli coltivatori andarono in rovina. Persino quella che allora era una ricchezza, cioè i figli che lavoravano la terra, divenne un peso. Mio nonno era il terzo di otto tra fratelli e sorelle. Ma non c’era più da mangiare per tutti. Così i due maschi più grandi, Giacomo di diciannove anni e appunto Giovanni, che allora ne aveva quindici ma era robusto e mangiava per due, dovettero lasciare l'Italia, attratti da quello che aveva raccontato un cugino: in Francia, alle saline di Aigues Mortes, assumevano lavoratori italiani, visto che accettavano le paghe da fame che i francesi invece rifiutavano.».
«Della nostra emigrazione in Francia non ricordavo», dissi, «Mi pare che nella sfortuna almeno quegli emigranti non dovettero mettere un oceano tra loro e le famiglie, insomma, forse furono meno sfortunati di altri.».
Roberto scosse la testa con forza. «Potrebbe sembrare, è vero, ma lei non ha idea di che razza di lavoro fosse quello: un autentico inferno bianco, esposti tutto il giorno al sole, gli occhi bruciati dai riflessi dei cristalli di sale, senza altra ombra che non fosse quella di un cappello a larghe falde. Avevano un sacco ruvido gettato sulla spalla per proteggerla dalle scorticature dei canestri usati per trasportare il sale, il sudore usciva a litri, i corpi seminudi erano coperti di graffi e le mani erano tagliate e macerate dai cristalli. Eppure la gente del posto odiava quei disgraziati: lavoravano come bestie e come bestie erano considerati.».
Il barista oramai non parlava a me, era al terzo Calvados e aveva lo sguardo perso nei suoi ricordi di famiglia, ascoltati chissà quante volte. «Ma il peggio doveva ancora venire. Come le dicevo, quei poveretti erano circondati dall’odio della gente locale. "Les macaronis", li chiamavano, e dicevano che erano venuti a mangiare il loro pane, accettando paghe troppo basse pur di portare via il lavoro ai francesi… niente di nuovo sotto il sole, accade pure da noi, oggi. Quindi erano tutti ladri, e le loro donne, perché qualcuno si era portato la famiglia, naturalmente erano delle puttane. In più, si sapeva che l'Italia aveva rinnovato la "triplice alleanza" con gli odiati tedeschi e gli austriaci. Così erano anche dei potenziali nemici, pronti ad assalire a tradimento chi li aveva nutriti.
Vede, ingegnere, quando il clima è quello, basta una scintilla e tutto scoppia. Fatto sta che ad Aigues Mortes c’era pure chi soffiava sul fuoco per motivi politici o per semplice xenofobia. E la scintilla scoccò nell’agosto del 1893.
A nessuno importava quanto futili o falsi fossero i motivi: come sempre in queste occasioni il lupo, che sta in alto, accusa l'agnello, in basso, di sporcargli l'acqua.
In questo caso, si disse che un italiano aveva reagito all’ennesimo insulto tirando fuori un coltello e ferendo il francese che l’aveva provocato, ma non si trovò alcun testimone del fatto.
Come risultato, circa cinquecento francesi inferociti, armati di bastoni, coltelli e altro, assalirono un centinaio di lavoratori italiani in una vera e propria caccia all'uomo. Una ventina di sfortunati cercò scampo attraversando uno stagno, ma furono raggiunti e uccisi, uno per uno, a colpi di pietra; altri finirono ammazzati a bastonate, come cani, o a coltellate. Giacomo, il fratello di mio nonno, fu colpito a morte da una fucilata sparata da un gendarme che in seguito dichiarò di aver sparato per difendersi: lui, armato di tutto punto, a cavallo, che si dovette difendere da un poveraccio denutrito, mezzo nudo, armato di una gerla… ma il gendarme fu addirittura promosso.
In totale i morti furono una cinquantina, qualcuno parla addirittura di un centinaio, con decine di feriti… a proposito, si arrivò al punto che l’ospedale, per molte ore, si rifiutò di prestare le cure agli italiani feriti; niente male come “egalitè” e “fraternitè”, non le pare?
Dopo il massacro, il sindaco di Aigues Mortes ebbe a dire che si era fatto ciò che si doveva fare. E non fu nemmeno rimosso.
Pensi che, ancora oggi, i francesi si ostinano a parlare di una ventina di vittime. Come se venti o cinquanta cambiasse le cose. Ma in realtà non ne parlano, hanno la coda di paglia.
Comunque sia, mio nonno fu tra i fortunati che riuscirono ad arrivare a piedi a Marsiglia e da là, non senza problemi, altri pericoli e molti mesi di paura e fame, fu rimpatriato e tornò a casa.».
Io avevo finito il quarto bicchiere di Calvados. Chissà perchè, ora il retrogusto non mi sembrava più di mela, ma percepivo qualcosa di molto simile al sale. E mi sentivo anche la testa che tentava di svolazzare per conto proprio, leggera e piuttosto ondeggiante. Ma quello che avevo udito raccontare mi pareva orribile e mi venne spontaneo un commento, probabilmente molto più filosofico di quanto io non fossi solito fare senza la spinta etilica:
«Io penso che nessuno, francese, italiano, americano o inglese che sia, possa permettersi di dare lezioni di tolleranza e integrazione. Tutti abbiamo scheletri negli armadi, e quegli armadi li apriamo spesso, ma solo per continuare ad aggiungere ossa su ossa. Lei ha fatto benissimo a ricordare a quei signori quest’atrocità, credo che avranno qualcosa su cui meditare.».
«Ha ragione, nessuno può dare lezioni sull’argomento. Per non scomodare la storia antica, che di massacri è fatta, pensi al Kenya con i suoi Mau Mau, al Sudafrica, all’ex Jugoslavia, e potrei continuare per un’ora; persino la civilissima America, gli States, ha i suoi scheletri belli grossi. Vede, come avrà capito, io sono sensibile all’argomento “intolleranza” e ho fatto qualche ricerca; ne vuole sapere una, avvenuta appunto negli Stati Uniti? Guardi che mi limito alle vittime italiane, ma a partire dai nativi, oggetto di una vera pulizia etnica, ai Cinesi, ai Russi e così via, ci sarebbe da riempire un volume, di quelli alti un palmo.».
Era davvero tardi, ma chi lo fermava più? Feci un tentativo per chiudere l’argomento: «Si riferisce forse a quei due poveracci, Sacco e Vanzetti, condannati a morte senza prove, solo perché erano “spaghetti”?».
«No, quello fu un linciaggio “legale” e ben noto, io parlo di New Orleans, due anni prima dei fatti di Aigues Mortes: nove siciliani massacrati con la complicità della polizia locale. Mai sentito parlarne?».
«Veramente no», risposi, ma non riuscii a nascondere uno sbadiglio. «Anche di questo nessuno parla, in America probabilmente quei pochi che sanno se ne vergognano… ma è davvero tardi, siamo tutti stanchi, le risparmio i dettagli.».
Quando ci augurammo la buonanotte erano passate le due; io lo ringraziai per la serie di bicchieri che mi rendeva difficile arrivare all'ascensore per la via più breve.
L'indomani, anzi era già domani, mi sarebbe venuto un gran mal di testa, questo era certo.
La sveglia mi salvò da un sonno agitato e pieno di visioni terribili di linciaggi e di sangue che arrossava distese di candido sale.
Mi sentivo uno straccio, mentre mi radevo svogliatamente e cercavo di rendermi presentabile.
Uscii dalla stanza in grave ritardo, non avevo il tempo di fare colazione. Andai al bancone del bar e mi feci servire un caffè che bevvi in fretta, in piedi. Roberto naturalmente non c'era, era di turno dalle cinque del pomeriggio. Almeno lui si era potuto permettere una buona dormita, pensai mentre, trascinandomi appresso la valigetta e il mio mal di testa, andavo alla reception per saldare il conto.
Aspettando il mio turno, vidi sul banco i quotidiani freschi di stampa.
Non avevo notizie del mondo dal giorno prima: avevo avuto troppo da fare e poi la conclusione, con il sacrificio della bottiglia di Calvados, mi aveva fatto spegnere la luce appena toccato il letto. La televisione era rimasta rigorosamente spenta.
Presi una copia de “Il Corriere della sera” e detti una scorsa ai titoli.
Mi sentii improvvisamente immerso in un tragico “deja vu”
:
[i]A Rosarno esplode la rabbia
Assalti e spari agli immigrati
La gente imbraccia i fucili, gravi due stranieri. Il governo invia oltre 200 rinforzi.[/i]
Iniziai a leggere le prime righe:
[i]DA UNO DEI NOSTRI INVIATI, ROSARNO (Reggio Calabria)
Il confine tra la vita e la morte è un muretto alto due metri. Il ragazzo nero lo salta con un balzo disperato e poi corre, si lascia indietro le urla di venti giovani calabresi armati di mazze, spranghe, tondini e manganelli…
[/i]
«Ecco il suo conto, ingegnere.».
Interruppi la lettura, chiusi il giornale e consegnai la mia carta di credito.
Mi avviai al posteggio, a testa bassa; Aigues Mortes, i nove siciliani linciati a New Orleans, adesso Rosarno, chissà quante altre centinaia, migliaia di massacri, in ogni parte del mondo, a danno di poveri emarginati, rei soltanto di cercare di sopravvivere. Impareremo mai a evolverci realmente dagli animali sanguinari ed egoisti dei quali evidentemente portiamo ancora schegge di genoma?
Questi i miei pensieri mentre aprivo la portiera dell’automobile.
Una voce mi riportò alla realtà:
«Vuoi io pulisco il vetro?». Era il ragazzo magrebino, armato di secchio e spatola. L'incidente del giorno prima non l'aveva scoraggiato. Mi parve di notare soltanto un sorriso più triste del solito. O forse era solo un sorriso caparbio.
Mi riconobbe: ero uno di quelli che non gli lasciavano fare il suo lavoro e l'allontanavano con un fastidio malcelato. Si voltò e fece per andarsene.
Rimase sorpreso quando lo richiamai: «Mi servirebbe una pulita al vetro, per favore.».
Aspettai con calma che finisse e vidi la sua perplessità incredula quando gli misi in mano venti euro, dicendo che non volevo il resto.
Allontanandomi, mi diedi del cretino. Non per i venti euro.
Pensavo forse di assolvermi, di liberarmi la coscienza, quella di uomo appartenente al dieci per cento dei fortunati della terra, con un po’ di denaro?
Era il 2010. A distanza di pochi anni, la rabbia strumentalizzata degli emarginati, le reazioni indignate del mondo “civile”, che tutto fa tranne che un esame di coscienza, il sangue che scorre sempre più incontrollabile, stanno ponendo il problema a tutto il mondo.
Io non sono ancora riuscito a darmi una risposta.
Il mondo però non ha fatto di meglio.