Una settimana d'estate
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7 dicembre 1999
Una settimana d'estate
Fuori, la mattina era tutta un coro festante d'uccellini. La luce traspariva da dietro gli scuri, e il bimbetto era impaziente d'alzarsi per iniziare l'avventura di una nuova giornata. Si trovava nella casa di montagna che era appartenuta agli avi di sua madre, poi agli zii e ai cugini. Il nonno Angelo era stato in guerra e ne era tornato vivo per miracolo, ma senza una gamba, e con l'altra ridotta a un moncherino. Poiché invalido, non era potuto rimanere a lavorare come contadino insieme ai fratelli, e, dopo un periodo di cure e di studi a Milano, aveva lasciato il paese natio e si era trasferito in una cittadina della medesima vallata, dove aveva trovato un impiego come contabile in una banca. La secondogenita dei quattro figli nati dal matrimonio di Angelo con Lucia si chiamava Matilde, ed era la madre del bimbo. Il nonno aveva ricevuto da suo padre in eredità due locali, adibiti uno ad uso di cucina, l'altro ad uso di camera da letto – il secondo si trovava proprio sopra il primo, che era al piano terra. Matilde soleva trascorrere l'estate con i suoi bambini in quel luogo ameno, che le rammentava le sue radici, ed era considerato una sorta di Eden alpestre dalle combriccole di fanciulli che l'abitavano in quel periodo con i genitori.Il bimbetto si chiamava Eugenio ; osservandolo, si poteva dedurre per lui un'età compresa tra i sette e i nove anni. Finalmente la mamma aprì gli scuri ed egli balzò dal lettuccio e si precipitò nel piccolo bagno comune, che si trovava due rampe di scale più su, per adempiere ad una spiccia toelette mattutina. Quello era un giorno speciale – sebbene lui trovasse qualcosa di speciale in ogni sua giornata! –, un giorno "molto" speciale, pensò: sarebbe andato sui monti assieme alla zia Olimpia e al cuginetto Enos, più giovane di lui di qualche anno. La zia andava a trovare il marito all'alpeggio e contava di rimanere lassù una settimana, a lavare la biancheria del consorte e a sbrigare altre faccende : perché, si sa, ella pensava, una baita gestita solo da uomini, difficilmente mantiene l'originario lindore. Occorre la mano sapiente ed esperta di una donna. I tre s'avviarono per il sentiero che s'inerpicava lungo i fianchi della montagna, stimolati dall'aria pungente del primo mattino. La zia saliva con passo lento e regolare, portando tutto il necessario, e forse anche un po' di superfluo, nel grande zaino che le gravava sulle spalle, imponendole quel sacrificio quotidiano che la sua condizione di contadina esigeva, ma che lei accettava senza lamentarsi, ben sapendo che, nella vita, senza sacrificio non si ottiene nulla che abbia un autentico valore. Eugenio e il cuginetto la precedevano, leggeri come uccellini, contenti per quanto di bello e di nuovo il loro sguardo poteva cogliere ; s'incantavano a guardare fiori colorati e api ronzanti, laghetti che sembravano enormi specchi e le creste lontane, o i dirupi, tanto scoscesi da dare le vertigini, quando il sentiero li costeggiava per brevi tratti. ( Olimpia, allora, raccomandava loro di restare sul sentiero, ma era un richiamo inutile, perché i due per istinto lo avrebbero fatto comunque ).Dopo alcune ore erano ormai in vista della meta : sentivano l'abbaiare dei cani da pastore e li videro mentre facevano rientrare nei ranghi delle mucche ribelli, che si erano ostinate ad allontanarsi dalla mandria, cercando forse zolle d'erba incontaminata. Erano cani meticci, mezzo lupi e mezzo bergamaschi, dal pelo lanuginoso e sozzo, ma dallo sguardo intelligente e buono. Era ormai sera, e i pastori si erano adunati per la cena accanto a un falò allestito con sapiente destrezza da mani abituate a tale operazione, dove bolliva l'acqua per la polenta. Eugenio, dopo aver cenato e gustato il cibo fumante che gli veniva porto, stanco e contento si rannicchiò sotto una pelle di capra che serviva da coperta, e un vecchio pastore dalle mani nodose gliela rimboccò con un gesto paterno e affettuoso, che al bimbo ricordò quello del padre e lo comunicò a un mondo atavico, dal quale, generazione dopo generazione, si era giunti fino a lui. Poi tutto si confuse e divenne indistinto nel torpore del sonno che a poco a poco lo vinse. Sognò le stesse esperienze del giorno appena trascorso, ma circonfuse da un alone di magia e di mistero surreale, come la nostra immagine riflessa in uno specchio deformante. Trascorse una settimana, e i due bambini si divertirono nel loro mondo personale, dove l'infanzia regnava innocente e incontrastata. Si trattenevano lunghe ore presso una pozza dove guazzavano i girini delle temporarie e catturarono anche alcune rane adulte, facendole gareggiare con balzi in serie provocati da piccoli, abili tocchi nella parte posteriore della groppa. Il loro giocare era fatto di una crudeltà priva di malizia, come è possibile solo ai bimbi. Di tanto in tanto, nelle boscaglie montane echeggiava il richiamo del cuculo e ad Eugenio sembrava il distinto suono di un mondo di fiaba che lo attirava e lo stupiva. Venne il giorno del ritorno, Enos ed Eugenio avrebbero voluto rimanere ancora ad accompagnare i pastori mentre questi lavoravano, e, a loro modo si davano d'intendere d'aiutarli, facendo i "cascin", cioè, governando le mandrie e attirando, per radunarle, le capre con il sale. Ovviamente era la loro fantasia a far credere possibile ai bimbi una simile situazione, mentre la realtà erano dei buffi tentativi di imitare i grandi, che li coccolavano con la loro condiscendenza. Essi vivevano gli avvenimenti come se avessero avuto qualcosa di epico, e ricordavano con emozione mista a soddisfazione quanto la zia aveva raccontato loro a proposito di un fatto capitato il giorno avanti. Il papà di Enos, nel trasferire una mandria dalla Val Varrone a un monte vicino ( "in Larecc" egli diceva in dialetto, raccontando il fatto ) era stato caricato da un toro, che lo aveva incornato e fatto ruzzolare lungo il pendio. Ma, come per miracolo, ne era uscito un po' contuso ma illeso. Consapevole del rischio che aveva corso ( nella caduta rovinosa avrebbe potuto anche rompersi l'osso del collo ) ne aveva informato la moglie, ed essa, un po' per amore di verità, un po' perché sapeva quanto questo avrebbe impressionato i frugoletti, lo aveva riportato loro. Il viaggio di ritorno fu, per loro, più malinconico e pieno di motivi di rimpianto rispetto a quello d'andata : era un po' come lasciare l'Eden. Ma ben presto si consolarono giocando e reimmergendosi nel limbo dorato della loro fanciullezza. A un certo punto piovve : furono sorpresi da un temporale maligno che ben presto li inzuppò da capo a piedi, nonostante il berrettuccio, la mantellina impermeabile e gli scarponcini, i quali non riuscirono se non temporaneamente a rallentare gli effetti del diluvio. I fulmini s'abbattevano ora più vicini e fragorosi, ora più lontani e accompagnati da tuoni più rassicuranti, sebbene pur sempre un po' cupi e con un brontolio di sottofondo. Arrivarono a Castello, un antico borgo che, solo d'estate, i valligiani abitavano, mentre un tempo era abitato dagli avi tutto l'anno. Qui Olimpia aveva dei parenti e trovò rifugio coi due bambini presso di loro. Eugenio diventò amico di una bambina dai capelli biondi e dallo sguardo sveglio e insieme si divertirono ad esplorare le antiche stanze della casa mettendo sottosopra il contenuto di cassetti, cassettini e cassettoni e sentendo poi i rimbrotti della parente della zia (senza però dar loro alcun peso ). Il giorno dopo il sole splendeva di nuovo ed essi compirono il breve tragitto che li separava da casa ed Eugenio poté riabbracciare i genitori ; ma alla felicità di questo evento s'unì il rimpianto per quel mondo semplice ma pieno di valori autentici, che lui, nella sua ingenuità, aveva tuttavia ben percepito e che gli sarebbero rimasti nell'anima per sempre: impressi come l'immagine di una bella fotografia.