Le solitudini imperfette - (autore: Ombra #08)

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Le solitudini imperfette - (autore: Ombra #08)

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leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Nella Moncada mi rese partecipe dei suoi segreti quasi per caso, quando aveva da poco compiuti i quarant’anni; un limite fatidico, a suo dire, a cui si era avvicinata con l’angoscia di chi riteneva di averli raggiunti invano.
Un giorno, era una mattinata fosca densa di malinconiche rimembranze, mi raccontò una storia.,
Prima di tre fratelli sin da piccola aveva maturato la certezza della vocazione a cui, col passare degli anni, si era mantenuta fedele, non fosse altro per non dover smentire in famiglia quel viso privo di attrattive ma di continuo ispirato.
«Sarà puru laliuzza 1 ‘a picciridda , ma quant’è devota, don Liborio, quant’è affettuosa e affidabile» aveva sentito tante volte il padre incensare le sue virtù morali mentre mortificava quelle fisiche.
E don Melisenda Torrisi, l’arciprete di Montefosco era solito rispondere: «eh, don Ferdinando, Dio vede e provvede e alla scarsità dei mezzi naturali supplisce con una generosa disponibilità di doti spirituali.»
Quelle parole, mi spiegò, erano state per lei una dichiarazione inappellabile di morte civile: làlia, e quindi impossibile da maritare.
Da ragazzina, mi disse, ogni notte, dopo la rimboccatura delle coperte, iniziava a recitare le sue preghiere, ma immancabilmente gli occhi le si perdevano sul padiglione a volta che la sovrastava, affollato da dei e dee seminudi circondati da flottiglie di cirri arricciolati; mai una volta, dalle tante preci, aveva sentito scaturire una fiamma, dell’ardore, quando invece l’unico tepore le veniva dalla borsa d’acqua calda stretta al petto.
E a labbra strette, mi confessò, si rivolgeva San Calogero e a San Vincenzo… «Pensateci voi» e invocava la loro protezione, oltre a quella di un gruppetto di santi a suo sentire più affidabili e vicini, affinché la mantenessero pura e le allontanassero le tentazioni di questo mondo.
Epperò, nonostante le tante preci si accorgeva di come le tentazioni rimanessero a farle compagnia, e tutta la notte la fantasia le regalava innumerevoli contatti peccaminosi: e tanto violente duravano quelle visioni da riuscir a prender sonno solo al limitar del nuovo giorno.
Ormai quasi donna, nelle serali passeggiate nel corso di Montefosco, gli occhi socchiusi e il capo chinato, spiava gli uomini di sottecchi e ricordava gli sguardi colmi di lascivia dei suoi coetanei maschi deviare in modo inesorabile all’indirizzo delle amiche di fianco a lei.
Erano occhi abituati a spogliare, tutte tranne lei, si rammaricò.
E se a parole assicurava le altre di sentirsi lusingata da tanto rispetto ogni notte invece, tra una preghiera e l’altra, li malediva tutti, e le femmine assai più dei maschi.
Il rancore, mi fu chiaro quel giorno, era l’unico sentimento capace di riempirle l’esistenza e di farla sentire meno sola.
Dopo la morte improvvisa dei genitori, in un curioso domino uno appresso all’altra, Nella mi confidò di essersi sentita sperduta e senza sostegno e di aver sentito nascere dentro di sé un vuoto incommensurabile assieme al peso della responsabilità: lei da sola, poco più che maggiorenne, a dover badare ai due fratelli minori, Accursio e Artale.
«E da quel momento dovetti cancellarmi in una cura indesiderata» disse astiosa,«avrei preferito restar completamente sola!»
Trascorsa la giovinezza, le amiche già tutte maritate e assorbite dagli inganni del matrimonio, le sue giornate si erano aggrappate ai rimasugli delle precedenti, le ore attraversavano la sua esistenza e si ergevano tra passato e presente come frontiere materiali: la sua intera esistenza pareva bloccata tra quanto aveva desiderato e ciò che invece la vita le aveva riservato.
Era diventata donna suo malgrado e con nessuno vicino, era quanto diceva.
E in quegli istanti di sincerità, quasi inconciliabile con la sua storia, intravidi una vergine insofferente e anosmica ma dotata di una loquacità inarrestabile: tale da far scambiare quella prolissità per capacità di comunicare.
Una capacità inespressa, guardinga e insoddisfatta com’era, diffidente e arrabbiata, spigolosa e scarsamente empatica col prossimo e abituata a dissimulare.
Il tempo è un alito di vento, che ora fa cedere la pelle e domani scivolare la cellulite fino alle caviglie, sosteneva.
Anche i conti erano scivolati, ne fu a un certo punto consapevole, perché i terreni a maggese valevano ancor meno di quel che rendevano e perché, seppure ancor prima del diploma avesse seguito la contabilità della famiglia e continuato dopo la morte dei genitori senza ausilio di altri, Nella di conti, e men che meno di affari, al pari dei suoi fratelli in seguito, non ne capiva una beata minchia.
E se non si erano approfittati di lei fino in fondo si doveva alla sua innata diffidenza unita all’orgoglio, che le facevano ripetere sempre e poi un’altra volta ancora la parola no, a ogni proposta, a ogni virgola di cambiamento, a prescindere se quel diniego fosse opportuno o meno.
Dopo la morte dei genitori si era vista costretta a pagare e a riscuotere, a mettere firma al posto dei fratelli, di cui era stata nominata tutore legale fino alla loro maggiore età insieme allo zio.
Accursio era il secondogenito e mi confessò di averlo sempre considerato un minchione patentato a cui abbisognava calar la testa per non farlo infuriare, strambo e inutile al pari di quelle sue ermetiche citazioni divaganti tra un Heidegger e un Hegel, per lei null’altro che sfoghi malarici di una mente viziata: causa o conseguenza, poco le aveva mai importato, di una forastica solitudine, di una inadeguatezza a vivere il mondo.
E invece ecco il suo Artale, di cui non diceva altro che un gran bene, il vero erede dei Torrealba, a suo dire.
Verso di lui provava una tenerezza quasi morbosa, forse perché sul più piccolo aveva esercitato un ruolo quasi materno e per lui aveva nutrito ancora da adulto quel senso innato di protezione che tutte le madri hanno, persino quelle che non lo sono né mai lo diverranno.
E Artale aveva attenuato la sua solitudine.
Ma proprio lui si era dimostrato al fine diverso dai suoi fratelli, perché, pure se Nella non l’avrebbe mai ammesso, era stato l’unico ad aver tradito il tacito voto di celibato nubilato e, messo da parte con pragmatismo quel sentimento ereditato di velleitaria superiorità e insieme di inadeguata capacità, era convolato a giuste nozze con Carolina Mercadante.
La quale, da buona moglie, seppur all’apparenza ingenua, dopo aver capito come giravano le cose, aveva iniziato a tirare il marito dalla sua.
Circostanza, non fece fatica a darmene conto Nella, tale d’averla indispettita e persino riempita d’un acre astio verso la cognata. La quale, pure se in casa come in pubblico si era mostrata con lei cortese fino alla spasimo, aveva come portato quella cortesia all’eccesso per tramutarla in disprezzo, un disprezzo lesto ad accrescersi fino a diventare odio.
Questa sfumatura, bisogna ammetterlo, non era sfuggita a Carolina, il cui pur tiepido affetto iniziale era sfumato, come vino in una pignata, qualche giorno dopo il suo stabilirsi nell’augusta dimora della famiglia Moncada, il palazzo di Regalpetra.
E Nella, a parole lieta della felicità del fratello, s’era gonfiata ogni giorno d’un umor nero tale da intristirne il viso già sgraziato, consumatosi nel vuoto d’affetti come di ricordi.
L’ingresso della cognata, a mio avviso, aveva sortito l’effetto di coagulare i suoi rancori e non le ci volle molto per pensare di scaricare su quella giovane donna il cumulo di liquidi corrosivi che le avvelenavano l’anima.

E poi accadde il fattaccio, di cui Artale Moncada si vantò giorni appresso tra amici al Circolo dei Nobili in cui quel giorno mi trovavo per caso.
Una mattinata di inizio novembre, di ritorno dalla caccia, raccontava rosso in viso, gli erano venute improvvise le smanie.
Smanie maschili, ci tenne a sottolineare, con una soddisfazione che sfuggiva al suo viso tondo e rubizzo.
E così, dopo aver consumato la solita colazione, continuò, nel tazzone di latte appena munto in cui era annegata una mezza chilata di pane raffermo tagliato a cuboni grandi e larghi, specificò, gli era rimasta una traccia di pitittu forsennato tale da farlo correre in cucina alla ricerca di qualcosa da addentare all’istante.
Appena acchianato s’era accorto della presenza di Ninfa, la giovane sostituta della vecchia cuoca titolare, rimasta in casa a causa di una brutta caduta per cui era stato necessario ingessare una gamba per intero rendendola inabile al servizio.
Bedda comu ‘u suli Ninfa, e da poco maritata con Janu, un ragazzone dal cuore semplice e dalle mani grosse come magli.
Stette a fissarla china sul pentolone, raccontò, indaffarata ad arriminare il sugo rosso e grasso dentro cui rosolavano succulente le salsicce di San Marco d’Alunzio con cui sarebbero state condite le busiate da mettere in tavola per pranzo.
E senza dire né buondì né buonasera aveva iniziato ad aprire ripostigli e credenze alla ricerca di qualcosa di commestibile perché, benché vivesse in quella casa fin dalla nascita, nessuno gli aveva mai insegnato dove mettere le mani, né a lui, s’era vantato, era venuta la benché minima curiosità al riguardo.
Alla fine di tanta spasmodica e infruttuosa ricerca, disse infervorato, gli occhi gli si erano posati su quel didietro così abbondante a cui nessuno, a meno di non essere illuminato dalla grazia di lu Signuruzzu Santu in persona, precisò a mo’ di risarcitoria assoluzione, avrebbe saputo e potuto resistere.
E s’era avvicinato di soppiatto, da provetto cacciatore qual era, senza farsi udire, e, nel momento in cui la giovane e procace picciotta aveva cessato di arriminare ‘u sucu e s’era abbassata ancora di più ad alimentare il fuoco della grande ghiuttena maiolicata finendo col sollevare il suo monumentale derriére, lui, discendente da una nobile schiatta di guerrieri senza scantu , non ci aveva visto più. E a un passo, alzate le voluminose sottane, aveva cominciato a sfregare i pantaloni di spesso fustagno sui suoi mutandoni candidi fintantoché lei non aveva più voluto, o saputo, resistergli.
Maronnuzza santa, signor marchisi! Ma quantu ci l’aviti granni, ripeté divertito e lusingato le parole della povera Ninfa, pronunciate con un fil di voce e una arrotata di erre.
Un tale apprezzamento valse come una sorta di beneplacito, di carta bianca affinché potesse iniziare il suo vorticoso stantuffare, come un mantice in mezzo a tante succulente cosce.
Questo raccontava don Artale in mezzo ai fischi, agli schiocchi, agli applausi di quella illustre platea beata dalla descrizione di tanto ricca cacciagione.
Il risultato di tanto sforzo, me lo rivelò la sorella in quel suo lungo sfogo, l’epilogo di una tanto repressa e trattenuta eiaculazione si cominciò a intravedere nella pancia di Ninfa dopo neanche tre mesi, all’unisono con la decisione irrevocabile di donna Carolina: andarsene via subito e il più lontano possibile da Montefosco tirandosi appresso Ninfa quale serva di camera e accompagnatrice personale.
A questa decisione, è cosa nota a Montefosco, don Artale non aveva voluto e potuto opporsi e, caricato egli stesso i bagagli delle due donne nel Wagon Lits a San Giovanni di Chiomonte, le aveva viste partire in una livida giornata di inizio gennaio.
Aveva taciuto l’uomo tutte le imprecazioni, le maledizioni e le bestemmie venutegli in mente per quella inaspettata e istantanea defezione, e non per bonomia o larghezza di vedute, ma perché alla dote della moglie doveva la salvezza propria e del casato.
Senza contare, da qualche tempo a quella parte, le periodiche elargizioni del suocero; tanto ravvicinate e abbondanti da far dimenticare al pover’uomo ogni residuo riguardo e ossequio per il nome e la posizione del genero per ingiungergli, ogniqualvolta lo vedeva, di darsi da fare magari iniziando a lavorare per lui.
Così donna Carolina era partita insieme a Ninfa dopo aver comunicato al marito, e ai montefuscini tramite le solite beninformate, che il dottor Spàrti le aveva prescritto delle urgenti e improcrastinabili cure termali in una lontana, lontanissima, località distante giorni di viaggio da Montefosco.

Quando Carolina era entrata nel palazzo di Regalpetra aveva venticinque anni, grandi occhi castani come i capelli riempivano d’espressione un volto lungo e diafano consumato dall’indifferenza, una malattia sottile che una volta entrata sotto pelle finisce per sottrarre vitalità e voglia di vivere con una sorta di invincibile voluttà.
A differenza della cognata aveva un’eleganza naturale nel portamento e nel vestire e sembrava a primo acchito una donna risoluta e caparbia. Tuttavia, mi accorsi presto, era fragile, al pari dell’antico vaso di porcellana di Caltagirone che aveva traslocato dalla casa paterna di Barcellona, regalo del nonno paterno mi disse, e a cui non ho mai ben compreso per quale motivo tenesse al di sopra di ogni cosa; come se il destino di quell’oggetto fosse indissolubilmente legato al suo, come se la sua salvezza dipendesse solo da quella del vaso.
Carolina si sentiva sola nella grande casa del padre, mi disse un giorno in cui rimanemmo soli, soprattutto dopo la morte della madre e nonostante l’affetto e la vicinanza delle altre sorelle.
Aveva conosciuto Artale Moncada al Circolo dei Nobili di Montefosco il giorno del patrono San Michele Arcangelo. Era in compagnia del padre e delle sorelle; il genitore era un ricco possidente col pallino del commercio e quel giorno doveva avere un abboccamento a Montefosco, perciò aveva pensato bene di tirarsi dietro le tre figlie, per farle distrarre e assistere alla processione di San Michele, colla segreta speranza di farle conoscere qualche buon partito e levarsene almeno una via da casa.
E fu lì che don Aureliano Peralta, barone di Roccaverdina, dalla dimora solitamente etnea, prese la palla al balzo e presentò le tre ragazze al nipote Artale, di antica e gloriosa casata, celibe e alla ricerca dell’anima gemella da impalmare; la quale però, al contrario di quanto egli fosse, doveva avere il principale pregio di avere del suo: non solo benestante, insomma, ma proprio ricca.
E le tre ragazze Mercadante erano ricchissime, sebbene l’unica a essere anche più che ben messa era la maggiore: Carolina.
Per quell’occasione, in quella radiosa giornata di festa, il circolo, proprio davanti la chiesa di Montefosco intitolata all’Arcangelo, era stipato come una teglia di pasta ‘ncasciata il giorno di Natale.
Una folla piena di contegno all’opposto di quella in strada, vociante e liquida, in attesa della vara dell’Arcangelo per la sua immaginifica e rituale passeggiata lungo le vanedde di Montefosco con corsa finale di tutti i processionanti per l’antica Mastrarua.
Don Aureliano aveva sposato una cugina della madre di Carolina, brutta come la morte lo sanno tutti, ma ricca come il Martedì Grasso. Ed era ben a conoscenza della consistenza del patrimonio del cugino acquisito di Barcellona, per non dire di quello traballante, al pari del suo, del nipote di cui era stato tutore.
La giovane Carolina faceva al caso loro e, lasciata incustodita dal padre indaffarato con questo o con quello a discuter di quello o di questo, fu oggetto di una manovra a tenaglia dei due nobili dongiovanni, ai quali il titolo di marchese o di barone non aveva conferito altra ragione di esistere se non quella di garantire la sopravvivenza del casato per un’altra generazione ancora.
Giovane e ingenua, nonostante il disappunto del padre — il quale, ben prima di quanto la figlia potesse, si era accorto di come parte della cospicua dote sarebbe stata barattata in cambio di un blasone sgangherato e di un palazzo mal messo nel centro di Montefosco — aveva abboccato all’amo.
Ma dopo un paio d’anni di matrimonio, mi fece parte in seguito, persino lei aveva compreso l’inganno di quel giorno e nel suo cuore s’era fatto largo un sentimento di cupo rancore, per essere stata poco nobilmente adoperata per quanto aveva da dare, per ripianare debiti e saldare cambiali, e subito messa da parte, lasciata in disparte a far da mobilia, proprio come il vaso portatosi dietro da Barcellona.
E meno di quei due anni, sono sicuro, le ci vollero per scoprire con rammarico come nulla in realtà la legasse al marito, che dalla loro unione non fossero nate se non due diverse e opposte solitudini.
Il padre, mi disse rammaricata, l’aveva messa in guardia, ma presa dall’ansia di staccarsi dalla famiglia, attirata da una vita all’apparenza spensierata, dalle feste liete, dalle movimentate compagnie che parevano poter sconfiggere ogni solitudine, aveva deciso.
Solo l’incontro con Nella l’aveva lasciata fredda e titubante e, qualche giorno prima del matrimonio, l’idea di andare a vivere in quel gran palazzo con la cognata e il cognato l’avevano condotta a un punto di esasperazione tale da pensare di mandare all’aria la gran festa preparata con accuratezza dal clan dei Torrealba da mesi.
E poi mi confermò la storia che da tempo girava a Montefosco.
Poco dopo il matrimonio, mentre Artale era impegnato con l’apertura della caccia nei terreni dei Valguarnera, Carolina si stava preparando per la notte. Come d’abitudine s’era tolta le calze e poi la gonna, la camicetta e il reggipetto per infilarsi la camicia da notte, quando da dietro la porta aveva sentito dei rumori e quindi un respiro affannoso.
Abbassato di scatto la maniglia e tirata a sé la pesante anta di legno aveva scoperto il cognato con i calzoni calati nell’indubitabile intento di darsi piacere con la mano.
Richiuse la porta di scatto e la rinserrò con la chiave senza dimenticare di coprire la serratura con un telo.
«Maledetta manica di pervertiti. A tutti vi odio» mi disse di aver gridato con quanto fiato aveva in corpo, affinché tutti nel palazzo sentissero.
Il giorno dopo bussò alla porta della cognata per renderla partecipe di tanta sconcezza.
«Stava là, quel porco taciturno, a minarsela con la mano, il gran filosofo» mi disse di aver aggiunto, colma di livore. «E chissà da quanto va avanti senza che io me ne sia mai accorta.»
Nella, mi confermò, la fissava come a sfidarla, guardandola dall’alto al basso e senza proferir parola.
«Ebbene?» Le disse «Non hai nulla da dirmi?»
«Cara cognata, non capisco di cosa vuoi lamentarti con me. Che Accursio sia un’anima sola e travagliata, mi pare lampante. E qui lo sanno quanto gli piace guardare dentro le camere delle serve, alla bisogna certe volte pure nella mia, figuriamoci nella tua» le venne spiegato con sufficienza dalla cognata. «È innocuo, comu un picciridduzzu , basta lasciarlo fare. Hai altre lamentele?» Disse con un sorriso che sapeva di trionfo.

Fu in quel momento, ritengo, che in Carolina s’affacciò l’idea di riprendere le lezioni di pianoforte abbandonate prima di maritarsi, con un maestro fatto arrivare appositamente da Catania.
Si chiamava Edgardo Badagliacca, giovane di bell’aspetto e minori speranze, dai modi urbani e raffinati, biondo di chioma e ceruleo d’occhi, diplomato in pianoforte al Conservatorio della città etnea col massimo dei voti. Vinte le resistenze di Artale, più per la cospicua somma da sborsare e il vitto da somministrare che per le lezioni in sé, Carolina si svagò sopra il pianoforte arrivato dalla casa paterna durante le ore di lezioni fatte di solfeggi, arpeggi e scale.
E alcuni pomeriggi dopo, al termine dell’esercizio n.40 op.740 di Carl Czerny, noto per la difficoltà e la passione necessario a suonarlo, fu un attimo.
«Le sue mani si sovrapposero alle mie sulla tastiera ed entrambi, presi da un fremito, unimmo le nostre labbra sopra un la minore; nello stesso istante il vaso del nonno si ruppe, senza che alcuno lo avesse toccato» mi raccontò pensierosa tempo dopo.
E non posso sbagliare, tutto ciò avvenne un mese dopo il fattaccio accaduto alla povera Ninfa.

Delle due donne non se ne seppe più né vecchia né nuova, a parte qualche cartolina e qualche rara telefonata dove elargivano rassicurazioni circa la loro salute e dei miracoli della stazione termale.
E poco contavano le rimostranze di Artale e quelle più soffocate del giovane marito di Ninfa, perché Carolina era stata irremovibile: sarebbe tornata quando avesse tratto reale giovamento dalle cure prescritte.
Trascorso qualche mese dalla partenza donna Carolina comunicò al marito la data del loro rientro.
Me ne fece cenno proprio Artale pregandomi di approntare la mia auto per andare a prendere le donne alla stazione di Messina, ché il treno non faceva fermata a San Giovanni.
Quella sera partimmo in tre: io, Artale e il marito di Ninfa alla guida della seconda auto.
Quando il convoglio venne ricomposto in stazione venne fuori il solito nugolo di persone cariche di masserizie.
Tra la folla scorsi uno stuolo di facchini carico di bagagli preceduti da due donne giovani e sorridenti.
E ciascuna reggeva in braccio un bel bebè biondo.
Le solitudini non sono mai perfette fu l’unica cosa che mi venne da pensare.
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Re: Le solitudini imperfette - commento 1

Messaggio da leggere da Il Guru »

E' un racconto che ho fatto fatica a seguire forse per lo stile utilizzato, a tratti ridondante, e mi ha portato a rileggerlo in alcuni passaggi per collocare nomi, azioni e personaggi. Sicuramente è un mio limite personale (poca dimestichezza nel leggere testi di questo tipo) e niente toglie a chi lo ha scritto. La trama è ricca, tanti i passaggi e gli accadimenti in un ampio spazio temporale e, a mio parere, lo stile non aiuta a seguirli. Leggendolo ho pensato a una "commedia" o a uno spezzone di uno scritto più lungo (forse nella realtà è così, cioè questo testo appartiene a qualcosa di più compiuto).

Tra la difficoltà nel comprenderlo così come si presenta e nel riconoscervi una certa bellezza, assegno...

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Re: Le solitudini imperfette - commento 2

Messaggio da leggere da Il Guru »

Che pesantezza. Un racconto che vorrebbe strizzare l’occhio a grandi scrittori siciliani, ma che cade nel nulla, tra termini dialettali mai spiegati, inutili descrizioni di casate e inciuci vari.

La punteggiatura è inesistente. Mancano vagonate di virgole. Prova a leggere ad alta voce, a mettere le pause dove sono presenti virgole e congiunzioni, ti accorgerai che rimani senza fiato un periodo ogni tre, al massimo. Ogni tanto ci può anche stare una frase che inizia con una congiunzione, ma non può essere una regola!

La trama è banale e condita di fronzoli che appesantiscono la già difficile lettura. Tralasciamo poi ogni commento sulle dissertazioni pornosoft.

È difficile che non porti a termine la lettura di un racconto. Qui, se non fosse stato necessario leggerlo ai fini della gara, avrei desistito a circa un terzo.

Riassumendo: banale, pesante, scritto molto male.

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Re: Le solitudini imperfette - commento 3

Messaggio da leggere da Il Guru »

Il racconto è molto articolato, ma l’autore ha saputo gestire i tempi e gli intrecci. Nonostante il linguaggio ricercato e complesso ho seguito la trama senza particolari problemi. È una scrittura d’altri tempi che ben si amalgama con il contesto storico in cui si svolge la vicenda. Le espressioni in dialetto sono inserite al punto giusto, non intralciano la comprensione. Trovo interessante come attraverso il testo emergano gli aspetti direi grotteschi del genere umano. Non ho rilevato problemi particolari di forma, tranne forse 1-2 spaziature. Il finale forse è la parte meno riuscita, nel senso che non sorprende particolarmente il lettore. Globalmente un buon lavoro.

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Re: Le solitudini imperfette - commento 4

Messaggio da leggere da Il Guru »

Di questo racconto se ne potevano fare due, lo dico come una critica. Stavo leggendo con un certo interesse le confessioni di questa quarantenne pia ma poco graziosa, mi aspettavo che dopo l’introduzione venissero fuori i rancori e le frustrazioni, possibilmente l’odio di chi ha sempre vissuto senza amore suo malgrado. Invece a un certo punto la storia cambia. A partire da “Anche i conti erano scivolati” sembra iniziare un altro racconto, entrano in scena altri protagonisti e Nella Moncada sparisce quasi del tutto.

Per carità, tutto scritto bene e in bello stile, ma alla fine mi sono detto: “ma che c’entra?”

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Re: Le solitudini imperfette - commento 5

Messaggio da leggere da Il Guru »

Mi ha fatto ricordare Il marchese di Roccaverdina di Capuana, grande
verista, non per i fatti ma per l'ambientazione e lo stile. Letto
tanto tempo fa, l'ho ripreso e lo sto rileggendo. Una menzione del
testo (barone di Roccaverdina) me lo ha riportato alla mente.
La scrittura è molto simile e non è una critica, magari essere in
grado di riprodurla, dall'inizio alla fine. Credo alla buona fede
dell'autrice\autore! Scritto bene, il racconto si srotola chiaramente
e non disturbano le frasi in dialetto.
Finale un po' tirato, personaggi ben caratterizzati e convincenti.
Non ho trovato, nell'opera, il riferimento al periodo.
Un bello spaccato di società.
Ripetitivo l'argomento.

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Re: Le solitudini imperfette - commento 6

Messaggio da leggere da Il Guru »

È un lavoro che trovo bello e intrigante, ma che necessita di una importante revisione. Ci sono diversi errori e refusi, punteggiatura ballerina, ma soprattutto sono da far conciliare i diversi momenti del narratore. In una prima fase la voce recitante parla un italiano pulito, abbastanza colto, e racconta delle confidenze ricevute da Nella. Ne tratteggia egregiamente gli aspetti peculiari fisici e psicologici, dipinge efficacemente l’ambiente in cui vive. Peccato per quella caduta di stile quando parla di contabilità domestica con quel “beata minchia”superfluo e discutibile per il tono fino a quel momento usato. Poi, di colpo, raccontando dell’incontro al circolo, il narratore si appropria del gergo di Artale, e dico che si appropria perché non mette tra virgolette le parole usate dal personaggio vanaglorioso, e tale cambio di registro stona con la prima parte del racconto. Si passa poi a una terza fase, dove si scopre che la voce recitante non racconta più le confidenze di Nella ma quelle di Carolina. E vien da chiedersi chi possa essere quel personaggio così “prezioso “ da essere depositario di così tanti aspetti privati, intimi, in un ambiente puritano come quello siciliano e rappresentato. In questa terza fase entra in gioco un nuovo registro, decisamente più colto, ma ancora scollato da quanto presentato nelle due precedenti fasi. In conclusione, il racconto mi è piaciuto molto per come sono stati caratterizzati i personaggi, per la descrizione dei luoghi, e mi ha ricordato Gabriel Garcia Marquez col suo “Cent’anni di solitudine”, e forse stante anche il titolo, tale influenza può essere stata presente nell’autore, ma se l’idea e la costruzione meriterebbero il maggior voto, la necessità di dover riprendere pesantemente in mano il lavoro, perché una volta sistemato a mio parere meriterà tantissimo, obbliga il lettore che sono a assegnare…

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Re: Le solitudini imperfette - commento 7

Messaggio da leggere da Il Guru »

Mi viene in mente un aggettivo solo dopo aver letto il racconto: compresso. Capisco lo sforzo di voler condensare il tutto nel limite di battute concesso, ma qui si è davvero esagerato! Con tutti gli elementi presenti si sarebbe potuto scrivere un romanzo di trecento pagine, qui si è cercato di mantenere tutti gli elementi ma senza gerarchizzarli e dare una priorità ad essi, sicché sono presenti particolari del tutto inutili allo stesso livello degli elementi cruciali. Fosse passato per una sceneggiatura ci poteva anche stare, ma l’unica scena realmente descritta è il rapporto fra i due ragazzi.

Salvo il racconto per lo stile sicilianizzante, comprensibile pur rendendo molto bene l’ambiente. Grammaticalmente e sintatticamente è corretto ma alcune frasi, a causa di incisi piuttosto pressanti, diventano difficilmente comprensibili.

Nel complesso la sufficienza c’è, ma non oltre.

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Re: Le solitudini imperfette - commento 8

Messaggio da leggere da Il Guru »

Punteggiatura da rivedere, soprattutto nelle frasi molto molto lunghe. Parto da questo perché per l’economia del racconto, con lo stile adottato e per la lunghezza del racconto, la punteggiatura è determinante

Il mio personale consiglio è di provare a leggere a mezzavoce: se manca il fiato o si divide la frase o la si interrompe con punteggiatura.

Un lunghissimo racconto, scritto con uno stile ottocentesco, che ricorda molto autori di quel periodo, ma anche un Camilleri, seppur molto più prolisso.

Una scrittura molto ricca, a tratti farraginosa, con frasi lunghe e complesse che però sono molto adatte allo stile adottato. È di certo un racconto da leggere senza fretta, proprio per estrarre da queste frasi il succo di ciò che deve arrivare al lettore per andare avanti.

Più che un racconto lo vedrei come romanzo breve e proprio per questa lunghezza - anche in un racconto breve - forse suddividerlo in brevi capitoli darebbe maggior respiro al lavoro e il tempo al lettore di immergersi meglio nella lettura. E questo anche quando si parla dello stesso personaggio. Una sorta si suddivisione c’è, quando l’io narrante ad es. inserisce un “mi raccontò” “mi confessò” ecc.

Hai scelto di suddividere molto chiaramente le storie dei vari personaggi, sia pure agganciandole tra loro ad un certo momento: uno schema non nuovo, ma che necessita di molto spazio e proprio per questo perché non una suddivisione in brevi capitoli, che darebbe maggior fluidità al ritmo.

Hai inserito frasi o parole dialettali: avendo letto Camilleri non mi hanno rallentato nel tentativo di capirle, ma le hai limitate solo ad una parte del racconto, con solo qualche cenno qua e là, tornando poi allo stile iniziale. Non so dirti perché, ma mi ha dato l’impressione di voler sminuire il personaggio di cui narri in quella parte, quasi che con il dialetto scenda di un gradino nella sua considerazione o si volesse sottolineare una certa grettezza del personaggio.

La storia sottostante non è proprio originalissima, però per come è stata impostata (le storie di tre/quattro personaggi le cui vicende si incrociano) mi aspettato un finale diverso, un colpo di teatro che non fossero le classiche nascite “incrociate”. Alla fine il finale sconta il molto spazio impegnato nella prima parte.

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Re: Le solitudini imperfette - commento 9

Messaggio da leggere da Il Guru »

C’è tutto un mondo, dentro questo racconto pieno di storie e di personaggi, che sembra chiedere di uscire, reclamando più spazio. La scrittura è lussureggiante, come le descrizioni dell’ambiente, e questo aiuta il lettore a immaginare lo sfondo e l’atmosfera della storia, creando nella sua mente immagini di grandi palazzi, di ricchi padroni e di poveri servi, di punti di vista maschili e femminili.

La storia, però, nel suo proseguire sembra abbandonare la protagonista iniziale a favore di altri che contribuiscono ad arricchire una narrazione che ha bisogno di volare e invece si vede costretta dentro ai limiti di un racconto. Forse anche per questo il finale arriva con una sfumatura di fretta, con un’ombra di inadeguatezza rispetto alla magnificenza del testo narrato. Molto belli gli echi di scrittori siciliani e del già nominato Marquez.

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Re: Le solitudini imperfette - commento 10

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Nel complesso è un testo che non mi piace , prevalentemente probabilmente anche a causa di uno stile che non apprezzo e che strizza l'occhio ad una tradizione letteraria che ha avuto la sua forza nel suo contesto ma che oggi invece non funziona inevitabilmente più.
Ovviamente ha tanti pregi , capacità immaginativa e narrativa presenti e sopratutto quest'autore ha trovato il suo stile e la sua strada e questo è quello che conta.
Dovendo dare però una valutazione soggettiva e non da critico, non avendo le conoscenze tali per farlo mi sento più tranquillo a dare un voto non troppo alto anche per gli errori di punteggiatura e in relazione alle altre valutazioni che ho dato.
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Re: Le solitudini imperfette - commento 11

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Interessante e dettagliato affresco siculo di una storia ambientata nel secolo scorso, anche se, nel corso della lettura, ho avuto la sensazione di essere immerso in una realtà che si perde molto più lontano nel tempo. L’utilizzo reiterato di termini e espressioni dialettali non mi ha disturbato e se, a tratti, questo è andato un po’ a discapito della comprensibilità del racconto, ha contribuito in modo efficace a farmi calare nelle vicende narrate. Mi è piaciuto molto il finale, anticipato dal titolo, che racchiude non solo il senso di tutta la storia, ma anche quella relativa al destino di una percentuale significativa del genere umano…

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Re: Le solitudini imperfette - commento 12

Messaggio da leggere da Il Guru »

La storia potrebbe essere avvincente in un romanzo a lungo respiro ma così… Sarà per lo stile impreciso, salvato da mirabili inneschi dialettali, ma si fa fatica a tenere salda l’attenzione già a metà del racconto.

Rivisto in più punti, sarebbe perfetto.


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