
Dilemma
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Dilemma

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Nota di chiarimento
Nonostante che non consideri più il ragionamento come condivisibile, resta pur tuttavia valido in termini provocatori. È una sfida al lettore, che ne può far ciò che vuole: accettarla, rigettarla, confutarla o insultare il suo autore.
Prevengo l’obiezione: non è certamente un racconto – non almeno nei canoni che possono essere comunemente condivisi. È piuttosto un monologo filosofico, un’apologia del suicidio in forma narrativa. Quindi va sospesa in tutto o in parte la ricerca di una coerenza di genere o un approfondimento psicologico dei personaggi. Se volete, sono – con un gioco di parole – essenzialmente esistenzialisti.
Il finale è aperto alle interpretazioni. Non va preso per forza in senso letterale. Chi è cristiano (o almeno di cultura cristiana) può leggervi un riferimento a qualcosa di più alto e onnipotente.
Mi scuso ancora una volta se ho offeso qualcuno – e in questo caso lo prego di utilizzare le armi del commento e del voto per prendersi una rivincita, seppur piccola.
Un abbraccio a tutti,
Domenico
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Re: Commento
Grazie mille per non avermi insultato e aver compreso lo spirito del testo. In giovinezza anch'io ero molto affascinato dai suicidi. Alcuni colpiscono l'immaginazione perché dietro vi è chiaramente una profonda tristezza e un dolore soverchiante. In altri è l'assurdo stesso che si manifesta facendo breccia nel quotidiano, come un quadro apparentemente normale ci stupisce per un dettaglio totalmente fuori posto: un personaggio che, invece di guardare la scena, ci osserva direttamente negli occhi. Qualcosa di perturbante a cui non possiamo dare risposta. Quest'ultimi sono stati i suicidi che più mi hanno sconvolto.Athosg ha scritto: ↑30/12/2022, 23:35 Sono sempre rimasto sgomento e attratto dai suicidi. Li ho sempre visti come una folgore che smuove la vita, anche la mia vita quando sento la notizia di qualcun che si è suicidato. Non aggiungo altro perché il tuo racconto descrive tutto quello che sapevo ma non pensavo compiutamente. Bravissimo.
Oggi guardo quell'esperienza con un misto di ripulsa e disapprovazione. Penso ai tanti ragazzini, compagni di mio figlio, che stanno tentando il suicidio. Guardo con apprensione Benedetto e lo abbraccio. Vorrei tanto che non vivesse come me questo fascino per la morte. Parafrasando Nietzsche: Se guardi troppo a lungo l'oscurità, l'oscurità guarda dentro di te.
Grazie ancora e un abbraccio!
Re: Dilemma
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Com'è che si dice? Spes ultima dea, la speranza è l'ultima a morire. Bisognerebbe provare per capire che cosa significa vivere, quando la vita ha il sapore amaro del veleno, e ti senti come un fuoco che non produce più ombre.
In verità l'ultima speranza è morire.
Grazie Domenico.
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Re: Commento
Ciao Nunzio! Mi sono preso un po' di tempo per risponderti, perché le tue parole trasudano un vissuto che non deve essere stato facile. Nel proporre questo testo sei stato una delle persone che ho temuto più di offendere con questo mio disprezzo esasperato per la vita. Fortunatamente non è stato così. Il tuo commento è bellissimo e sinceramente ti ringrazio. Un abbraccio forte!Nunzio Campanelli ha scritto: ↑04/01/2023, 18:14 Le tue parole mi colpiscono con forza, con violenza inaudita, sembrano ritagliate da un vestito logoro e adattate alle mie misure, ma è solo una pia illusione, se anche ognuno di noi può riconoscersi nel protagonista del tuo racconto, confida che quando verranno tempi in cui sarà necessario confrontarsi con questa idea, ebbene sarà solo la debolezza di un momento. Poi tutto tornerà al giusto posto.
Com'è che si dice? Spes ultima dea, la speranza è l'ultima a morire. Bisognerebbe provare per capire che cosa significa vivere, quando la vita ha il sapore amaro del veleno, e ti senti come un fuoco che non produce più ombre.
In verità l'ultima speranza è morire.
Grazie Domenico.
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L'autore reale che spiega perché l'autore, che potremmo definire implicito, non pensa, o non pensa più, ciò che scrive.
Il mito di Sisifo di Camus l'ho ben presente, è un saggio sul suicidio, tra l'altro. È un libretto che ho cercato, ma non trovo, come al solito. Camus è uno scrittore particolare, lo sappiamo. Sartre non lo prendeva molto sul serio quando si occupava di filosofia, né tantomeno lo facevano i filosofi veri del tempo. Entrambi, Sartre e Camus, però vinsero il Nobel per la letteratura. Oggi lo danno a Bob Dylan o a Ishiguro, per come siamo messi male. Va beh.
E quindi riprovi a trasporre in racconto un tuo saggio. Di nuovo. Tentativo non eccelso con Alcibiade, va un po' meglio oggi, con il Dilemma. Che poi qual è il Dilemma? Se il suicidio sia un atto riprovevole o meno? Direi che è un atto personale, una pura disposizione del proprio corpo. Corpo che ci appartiene, tanto che pure il codice penale, che è pur sempre il codice Rocco, punisce solo l'istigazione al suicidio e non il suicidio in quanto tale, con tutte le conseguenze del caso.
Quanto al racconto in sé, potrebbe essere ottimo, ma non lo è. Provo ad argomentare. Il protagonista è il nostro impiegato postale che racconta in prima persona ciò che gli è accaduto una mattina mentre era al lavoro. Protagonista e narratore coincidono come la prospettiva da cui guardano entrambi gli avvenimenti. Tutto sembra incentrato sul personaggio che pare il protagonista, le sue ansie, paure, prospettive. E lasci intravedere in lui un lato oscuro che sembra riallacciarsi alla citazione iniziale. Ma il suicidio del giovane cambia le carte in tavola. Compare uno strano personaggio, che ingaggia con l'impiegato un dialogo, che preso si trasforma in un soliloquio in cui quest'ultimo scompare. E questo, a mio avviso, è un errore. Perché indugiare tanto sull'impiegato nella parte iniziale per poi abbandonarlo? Lo strano personaggio parla del suicida come ognuno di noi potrebbe parlare di un perfetto estraneo, e descrive il suo gesto, inquadrandolo per quel che è, esaminando le possibili motivazioni che potrebbero aver indotto il giovane a quell'ultima determinazione.
Il protagonista è adesso lo strano personaggio, che a tratti pare la ben nota Morte, e la prospettiva è adesso la sua.
L'impostazione del saggio, con le tematiche trattate sono da dieci e lode, ma quando si ha a che fare con il piano narrativo e non discorsivo la faccenda muta.
Alla fine lo strano personaggio confessa di essere il padre del suicida e si allontana senza dimostrare sentimenti di sorta.
Pare difficile, a chi legge, che il padre di un suicida possa intavolare discussioni del genere evidenziato con il figlio spappolato a due metri da sé. Una tale rivelazione mette a dura prova la sospensione dell'incredulità del lettore e quindi il patto narrativo stretto tra autore reale e lettore reale. Io lettore credo a quello che tu scrivi, autore, ma tu autore devi esser coerente e consequenziale. Esiste certo la possibilità che l'autore abbia voluto rendere surreale la situazione, ma in questo modo mi pare che l'intento didattico così forte ed evidente ne venga sminuito.
Avrei preferito, parlo da lettore, che le considerazioni sul suicidio le avesse fatte l'impiegato, vista anche l'introduzione che si soffermava sul suo carattere ombroso e la sua fosca situazione interiore, che così avrebbe avuto un senso nella logica nel narrato. Ossia l'impiegato doveva essere parte attiva delle riflessioni sul suicidio, magari fatte da egli stesso a un collega, fermo come lui a osservare la scena. Da capire poi come si possa interrompere il lavoro in quel caso. Doveva morire dentro l'ufficio perché fosse interrotto il servizio.
So che possono sembrare particolari di poco peso, ma a mio avviso un racconto con una così splendida parte divulgativa dovrebbe essere all'altezza di sé.
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Re: Commento
Caro Namio! Come sempre ti ringrazio dell'attenzione che dedichi a ciò che scrivo.Namio Intile ha scritto: ↑10/01/2023, 18:05 Belle gatte da pelare ti prendi. E che a mio avviso amplifichi proprio con quella postilla in cui precisi che l'Autore non pensa ciò che scrive. Che l'Autore debba interpretare l'autore è già strano, ma addirittura giustificarsi con quel in nessun caso.
L'autore reale che spiega perché l'autore, che potremmo definire implicito, non pensa, o non pensa più, ciò che scrive.
Il mito di Sisifo di Camus l'ho ben presente, è un saggio sul suicidio, tra l'altro. È un libretto che ho cercato, ma non trovo, come al solito. Camus è uno scrittore particolare, lo sappiamo. Sartre non lo prendeva molto sul serio quando si occupava di filosofia, né tantomeno lo facevano i filosofi veri del tempo. Entrambi, Sartre e Camus, però vinsero il Nobel per la letteratura. Oggi lo danno a Bob Dylan o a Ishiguro, per come siamo messi male. Va beh.
E quindi riprovi a trasporre in racconto un tuo saggio. Di nuovo. Tentativo non eccelso con Alcibiade, va un po' meglio oggi, con il Dilemma. Che poi qual è il Dilemma? Se il suicidio sia un atto riprovevole o meno? Direi che è un atto personale, una pura disposizione del proprio corpo. Corpo che ci appartiene, tanto che pure il codice penale, che è pur sempre il codice Rocco, punisce solo l'istigazione al suicidio e non il suicidio in quanto tale, con tutte le conseguenze del caso.
Quanto al racconto in sé, potrebbe essere ottimo, ma non lo è. Provo ad argomentare. Il protagonista è il nostro impiegato postale che racconta in prima persona ciò che gli è accaduto una mattina mentre era al lavoro. Protagonista e narratore coincidono come la prospettiva da cui guardano entrambi gli avvenimenti. Tutto sembra incentrato sul personaggio che pare il protagonista, le sue ansie, paure, prospettive. E lasci intravedere in lui un lato oscuro che sembra riallacciarsi alla citazione iniziale. Ma il suicidio del giovane cambia le carte in tavola. Compare uno strano personaggio, che ingaggia con l'impiegato un dialogo, che preso si trasforma in un soliloquio in cui quest'ultimo scompare. E questo, a mio avviso, è un errore. Perché indugiare tanto sull'impiegato nella parte iniziale per poi abbandonarlo? Lo strano personaggio parla del suicida come ognuno di noi potrebbe parlare di un perfetto estraneo, e descrive il suo gesto, inquadrandolo per quel che è, esaminando le possibili motivazioni che potrebbero aver indotto il giovane a quell'ultima determinazione.
Il protagonista è adesso lo strano personaggio, che a tratti pare la ben nota Morte, e la prospettiva è adesso la sua.
L'impostazione del saggio, con le tematiche trattate sono da dieci e lode, ma quando si ha a che fare con il piano narrativo e non discorsivo la faccenda muta.
Alla fine lo strano personaggio confessa di essere il padre del suicida e si allontana senza dimostrare sentimenti di sorta.
Pare difficile, a chi legge, che il padre di un suicida possa intavolare discussioni del genere evidenziato con il figlio spappolato a due metri da sé. Una tale rivelazione mette a dura prova la sospensione dell'incredulità del lettore e quindi il patto narrativo stretto tra autore reale e lettore reale. Io lettore credo a quello che tu scrivi, autore, ma tu autore devi esser coerente e consequenziale. Esiste certo la possibilità che l'autore abbia voluto rendere surreale la situazione, ma in questo modo mi pare che l'intento didattico così forte ed evidente ne venga sminuito.
Avrei preferito, parlo da lettore, che le considerazioni sul suicidio le avesse fatte l'impiegato, vista anche l'introduzione che si soffermava sul suo carattere ombroso e la sua fosca situazione interiore, che così avrebbe avuto un senso nella logica nel narrato. Ossia l'impiegato doveva essere parte attiva delle riflessioni sul suicidio, magari fatte da egli stesso a un collega, fermo come lui a osservare la scena. Da capire poi come si possa interrompere il lavoro in quel caso. Doveva morire dentro l'ufficio perché fosse interrotto il servizio.
So che possono sembrare particolari di poco peso, ma a mio avviso un racconto con una così splendida parte divulgativa dovrebbe essere all'altezza di sé.
Non ci sono dubbi che tu abbia ragione: ho fatto del patto narrativo un gran falò. Ne sono perfettamente consapevole e, per questo, me ne assumo tutta la responsabilità. Nel riprendere un testo scritto 25 anni fa avrei potuto operare una drastica revisione, ma - nel rileggere il testo - mi sono riletto dentro. Non ho scelto a caso il mio "protagonista": un padre. Nella sua indifferenza vi ho visto nitidamente il conflitto con il mio di padre: con la sua totale mancanza di empatia nei confronti dei figli.
Ma c'è dell'altro che è uscito fuori. Una volta un amico mi ha detto che lui non si definiva ateo, perché credeva in Dio: solo era convinto che Dio fosse cattivo. Nel reinterpretare questo personaggio onnisciente, che conosce ogni intimido dettaglio del figlio, mi sono reso conto che avevo dato voce a quel Dio "Padre" cattivo, indifferente al destino delle sue creature. Un Dio che ci ha dato un unico comandamento: morire ed essere infelici.
Hai ragione anche sul fatto che un autore non dovrebbe mai giustificarsi per ciò che ha scritto. Va detto, però, che in alcuni casi si sente di poter offendere qualcuno involontariamente, perché si toccano temi controversi su cui è facile pungere un nervo scoperto. In questi casi sorge il bisogno di scusarsi nei confronti di persone magari solo vagamente conosciute, ma con cui si è instaurato un rapporto di stima e di amicizia.
Ma anche in questo caso c'è qualcosa di più: c'è una presa di distanza da una parte di me, che ha pesato fin troppo. A questo Dio cattivo mi oppongo oggi con forza, invocando il mio diritto a vivere ed essere felice.
Per cui, sì, hai ragione su tutto! E' un racconto fragile, disorganico, strampalato, inverosimile, in cui costringo il lettore a sorbirsi le farneticazioni di un Padre cattivo - troppo surreale e grottesco per essere credibile. E alla fine anche deludente, perché mi costringo a ripudiare ciò che ho scritto.
Ma va bene così! Non doveva essere altro che l'ennesima provocazione ed è diventato il mio crocefisso, da cui imploro felicità e perdono.
Un grande abbraccio!
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Re: Dilemma
Anch'io ho avuto un padre per nulla empatico, ma lui era fatto così, privo di umorismo, di ironia, anaffettivo fino alle estreme conseguenze.
Da lui non ho avuto mai un incoraggiamento, un complimento, anche solo una direzione. Non mi ha mai toccato, se non per prendermi a cinghiate. Ma usava la cinghia per non adoperare le mani. Ho combattuto una vita contro di lui e lui contro me, contro ogni mia azione. Ho capito tardi il suo spirito sabotatore nei miei confronti, spirito con il quale, ad anni dalla morte, devo fare ancora i conti, sia morali che, purtroppo, materiali, perché mi ha lasciato una quantità di partite aperte con cui ancor adesso faccio i conti.
E forse anche la mia decisione di non essere padre dipende da lui, dal suo portato. Ha talmente assorbito le mie energie che mi sono rifiutato di diventar io padre, per ripetere magari i medesimi comportamenti, in un ciclo senza fine. Sua madre era come lui, e la madre di mia nonna suppongo anche dai racconti postumi. Siamo il portato di chi ci ha preceduto, che lo vogliamo o meno.
Grazie a lui sono lo stronzo di oggi, ma proprio stronzo, ti assicuro. Se devi crucciarti di un padre cattivo, sappi di essere in nutrita e buona compagnia.
Quanto al suicidio. Non avere eredi diretti e un'età non proprio fresca mi ci ha fatto pensare molto. Per quando sarà il momento ho già preso la mia decisione. Non sarà la malattia o la vecchiaia a vincermi, deciderò io. Il suicidio è un atto di libertà, Domenico. L'unico atto forse di libero arbitrio possibile per un uomo come me.
A rileggerti, e non è un' espressione di comodo, quanto un desiderio.
Ti lascio una postilla. Mettilo in gara, fai un benedetto commento e mettilo in gara.
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Mi dispiace di aver letto dei problemi avuti sia da Domenico che da Namio coi rispettivi padri: io sono stato molto più fortunato di loro, e l'unico rammarico è semmai non avere io esternato a sufficienza tutto l'affetto che provavo per il mio, ed ora è troppo tardi.
Il racconto ha tutti i difetti che Namio ha evidenziato in modo inesorabile, tuttavia è scritto così bene che non posso che dare un 5 pieno.
P.S. Caro Namio, i veri stronzi sono quelli che se ne fregano del prossimo, non quelli che si rifiutano di mettere al mondo degli altri (possibili) infelici.
Saluti a tutti
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Re: Commento
Grazie per il commento e per il voto, nonostante gli evidenti problemi. Personalmente ritengo la vita una forma di resistenza all'entropia breve e fallimentare. E la vita cosciente un estremo e disperato tentativo di dare un senso a questa resistenza, di perpetuarla dopo la scomparsa dell'organismo attraverso l'azione (vita activa di Hannah Arendt).Andr60 ha scritto: ↑11/01/2023, 17:52 Se non hai una fede nell'aldilà e neppure nell'aldiqua, il suicidio rimane un atto estremo di libertà, sempre che la decisione non sia dettata da cause esterne. Il fatto che la vita non abbia il minimo senso, tranne nell'atto di vivere in sé, mi pare una conclusione inevitabile, soprattutto partendo dalla constatazione che la vita (cosiddetta) intelligente, ovvero capace di riflettere su se stessa, potrebbe essere semplicemente un incidente dell'entropia.
Mi dispiace di aver letto dei problemi avuti sia da Domenico che da Namio coi rispettivi padri: io sono stato molto più fortunato di loro, e l'unico rammarico è semmai non avere io esternato a sufficienza tutto l'affetto che provavo per il mio, ed ora è troppo tardi.
Il racconto ha tutti i difetti che Namio ha evidenziato in modo inesorabile, tuttavia è scritto così bene che non posso che dare un 5 pieno.
P.S. Caro Namio, i veri stronzi sono quelli che se ne fregano del prossimo, non quelli che si rifiutano di mettere al mondo degli altri (possibili) infelici.
Saluti a tutti
Un abbraccio!
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Re: Commento
Ciao Francesco! Hai ragione sul fatto che il personaggio iniziale si vada letteralmente nascondendo dietro la figura del Padre. E' un racconto che si conclude bruscamente, lì dove avrebbe meritato un ulteriore passo per chiarire meglio il ruolo di questa figura dell'impiegato delle poste, che resta appesa - senza esagerazione - come un pungiball nelle mani di questa divinità malvagia.Francesco Pino ha scritto: ↑11/01/2023, 18:11 Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai santi, Dio tra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte
che all'odio e all'ignoranza preferirono la morte.
(Fabrizio De Andrè - Preghiera in gennaio)
Testo scritto 25 anni fa... L'approccio di noi spettatori cambia con l'età, non è cosi'? Quando ero ragazzo mi colpirono molto due suicidi "eccellenti", entrambi avvenuti nel 1994: Kurt Cobain e Agostino Di Bartolomei. Perché questi due idoli delle folle si erano tolti la vita? cosa gli mancava? Nel recente passato abbiamo appreso dei suicidi di altri due idoli delle folle: Chester Bannington e Cris Cornell, ma ora quella domanda non me la faccio più. Provo piuttosto dispiacere, perché le angosce più profonde non risparmiano nessuno.
La cosa che mi è piaciuta meno di questo tuo lavoro (la sola cosa che non mi è piaciuta) è che a un certo punto dai una spiegazione, attraverso le parole del padre, al suicidio del ragazzo. Parli di quello che non riusciva a sopportare, del suo rapporto con la ragazza... esci dal generico. C'è chi si uccide perché ha perso il lavoro, chi lo fa perché ha un male incurabile, chi ha perduto il suo amore, chi perché viene bullizzato a scuola e ancora, ancora tanti motivi. Nella tua storia c'è la realizzazione dell'inutilità del vivere la vita, andava già molto bene cosi'.
Le riflessioni del protagonista al bar, soprattutto quelle sull'acquario, andavano forse riprese in qualche modo verso la fine del racconto, non trovi? Sono pensieri che vogliono comunicare uno stato d'animo: sono gli stessi o no dopo l'incontro con quell'uomo?
E' un racconto pieno di considerazioni lucide, ci si ferma a riflettere praticamente ogni due righe e si potrebbe esprimere un'opinione su ognuna di esse. Ma poi quanto diventerebbe lungo questo commento?Bravo Domenico.
Riguardo al personaggio del figlio ho voluto scendere nei particolari della sua vita, perché - contrariamente a suicidi che sembrano avere una causa esterna (lutti, perdita del lavoro, malattie, ecc.) - non sembra avere alcuna ragione concreta: è puro malessere esistenziale. In questo senso è assurda, incomprensibile.
Grazie mille come sempre.
Un abbraccio!
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Il signore di nero vestito ha le sembianze di un Woland, improbabile nel ruolo di padre del suicida (e in questo sono d’accordo con Namio), come rivela alla fine del racconto, un coup de théâtre inutile, anzi, dannoso secondo me, all’economia della storia, avrei preferito avesse conservato quell’aura di mistero tale da renderlo un’entità metafisica. Non che voglia suggerirti delle modifiche, la scelta è tua, ti dico solo la mia impressione.
Ho un caro amico la cui esistenza si potrebbe sovrapporre a quella di Cesare: un ragazzo brillante e fin troppo sensibile, con tutti i presupposti per un’esistenza di successo e che, invece, è sprofondato in una spirale di depressione e autodistruzione, senza arrivare alle estreme conseguenze del tuo personaggio ha attraversato un lungo percorso in centri di igiene mentale e dopo tanti anni sembra ne sia uscito. Quindi ti faccio i complimenti per il racconto che tocca delle mie corde piuttosto recettive.
Al netto delle mie note la tua vena è sempre rimarchevole, oggi come all’epoca in cui l’hai scritto.
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Re: Commento
Ciao Roberto! Il tuo riferimento a Il maestro e Margherita è molto pertinente: un romanzo che ho letto per la prima volta più o meno negli anni in cui ho scritto questo racconto e che anche inconsciamente mi ha molto influenzato. Lo considero, insieme a una decina di altri romanzi, una pietra miliare della mia formazione.Roberto Bonfanti ha scritto: ↑17/01/2023, 19:43 Una lunga dissertazione filosofica travestita da racconto (l’hai detto tu stesso), nonostante tu abbia provveduto a creare un contorno letterario di quotidianità fornendoci le coordinate esistenziali del narratore, la sua professione e le sue attitudini. Nella seconda parte tutto questo scompare, non ha più rilevanza, a fronte del monologo del nuovo arrivato.
Il signore di nero vestito ha le sembianze di un Woland, improbabile nel ruolo di padre del suicida (e in questo sono d’accordo con Namio), come rivela alla fine del racconto, un coup de théâtre inutile, anzi, dannoso secondo me, all’economia della storia, avrei preferito avesse conservato quell’aura di mistero tale da renderlo un’entità metafisica. Non che voglia suggerirti delle modifiche, la scelta è tua, ti dico solo la mia impressione.
Ho un caro amico la cui esistenza si potrebbe sovrapporre a quella di Cesare: un ragazzo brillante e fin troppo sensibile, con tutti i presupposti per un’esistenza di successo e che, invece, è sprofondato in una spirale di depressione e autodistruzione, senza arrivare alle estreme conseguenze del tuo personaggio ha attraversato un lungo percorso in centri di igiene mentale e dopo tanti anni sembra ne sia uscito. Quindi ti faccio i complimenti per il racconto che tocca delle mie corde piuttosto recettive.
Al netto delle mie note la tua vena è sempre rimarchevole, oggi come all’epoca in cui l’hai scritto.
Purtroppo sul coup de théâtre non posso che darti ragione. D'altra parte - come accennato a Namio - ci sono dei motivi psicolgici che mi hanno portato a questo finale improbabile. Accidenti! Mi vien voglia di scriverlo con la maiuscola quel Padre, per dargli tutta un'altra connotazione.
Pazienza!
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Espressi a mio padre il mio sdegno, ma lui, da quasi bigotto che era, mi rimproverò dicendo che non spettava a me, a noi, giudicare la chiesa, e stop, venni zittita. Ora dopo questa lunga premessa di fatti miei, vengo al tuo racconto. Devo dirti che ho trovato alcune cose slegate tra di loro anche se tutte volte a far intendere la noia e la monotonia della vita, a cominciare dai pesci rossi. Ho trovato eccessivamente dilungate le spiegazioni date sull'esistenza del suicida dal padre: appesantiscono il racconto e, perdonami, il lettore. Non mi è piaciuta la descrizione del morto sull'asfalto con la fuoriuscita del cervello dal cranio (ovvio direi dal cranio...). Si poteva far intendere la scena in maniera più soft.
Ti dirò che personalmente, e da sempre, coloro che si suicidano mi provocano un infinito amore e tanta tristezza, per ciò che ho spiegato appena sopra.
Concludo: credo ci voglia più coraggio a togliersi la vita che a vivere. Comunque il tuo resta certamente un buon racconto; bravo, complimenti!
P.S. = Il tema del suicidio è abbastanza sentito in questo periodo, ho visto ieri l'ultimo film di Genovese, (che non mi è piaciuto) parla proprio di ciò...
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Cara Laura! Purtroppo - lo ammetto senza esitazione - sono stato ben poco attento al lettore. E' probabilmente una cosa che ho scritto, a suo tempo, più per me stesso che per un possibile fruitore.Laura Traverso ha scritto: ↑30/01/2023, 19:41 Ciao Domenico, proverò a esprimere il mio parere al tuo testo che sicuramente suscita interesse in quanto parla del suicidio, dei suicidi. Ti dirò una cosa, tu scrivi - facendo parlare il padre - che andando al funerale di queste povere persone coloro che accompagnano non sono mai tristi ma sdegnati e rabbiosi, senza mai manifestare pietà (allora io faccio eccezione...). Ti dirò un'altra cosa, quando ero piccola, tanti anni fa, la Chiesa, le leggi ecclesiastiche, proibivano ai suicidi di ricevere le funzioni religiose, di avere il funerale in chiesa, di essere portati in chiesa. Ciò, nonostante la mia tenera età mi faceva orrore, mi pareva un atto di ingiustizia insopportabile, mi chiedevo come fosse possibile che la Chiesa non aprisse le braccia a coloro che avevano smarrito, con così tanta disperazione, l'istinto più forte che l'essere umano possiede: quello della sopravvivenza. Mi pareva, l'atto, la punizione, inaccettabile: da parte di chi predicava, diciamo bene...
Espressi a mio padre il mio sdegno, ma lui, da quasi bigotto che era, mi rimproverò dicendo che non spettava a me, a noi, giudicare la chiesa, e stop, venni zittita. Ora dopo questa lunga premessa di fatti miei, vengo al tuo racconto. Devo dirti che ho trovato alcune cose slegate tra di loro anche se tutte volte a far intendere la noia e la monotonia della vita, a cominciare dai pesci rossi. Ho trovato eccessivamente dilungate le spiegazioni date sull'esistenza del suicida dal padre: appesantiscono il racconto e, perdonami, il lettore. Non mi è piaciuta la descrizione del morto sull'asfalto con la fuoriuscita del cervello dal cranio (ovvio direi dal cranio...). Si poteva far intendere la scena in maniera più soft.
Ti dirò che personalmente, e da sempre, coloro che si suicidano mi provocano un infinito amore e tanta tristezza, per ciò che ho spiegato appena sopra.
Concludo: credo ci voglia più coraggio a togliersi la vita che a vivere. Comunque il tuo resta certamente un buon racconto; bravo, complimenti!
P.S. = Il tema del suicidio è abbastanza sentito in questo periodo, ho visto ieri l'ultimo film di Genovese, (che non mi è piaciuto) parla proprio di ciò...
D'altra parte il mio soffermarmi su cose apparentemente slegate ha - come giustamente scrivi - lo scopo di immergere chi legge nella noia e nella monotonia della vita, così come la descrizione morbosa del ragazzo sull'asfalto deve produrre l'effetto nauseante della coscienza dell'assurdo che irrompe nell'esistenza.
Può non sembrare, ma "c'è una logica in questa follia".
Cmq anch'io, come te, ho un profondo rispetto e compassione per chi si toglie la vita, ma probabilmente se lo facesse una persona a me cara sarei più pieno di rabbia che di comprensione. Un mio amico si è suicidato diversi anni fa - lui era affetto da una forma di depressione molto forte - e i miei sentimenti al suo funerale non erano di commozione, ma di colpa e sconforto, perché avevo promesso di stragli più vicino e non c'ero riuscito. Posso solo immaginare come un genitore possa vivere il senso di impotenza davanti al lento allontanamento dalla vita di un figlio. Per questo, a mio giudizio, il funerale di un suicida dev'essere il crogiuolo delle più basse emozioni.
Grazie infinite per il tuo commento. Un abbraccio!
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personalmente non mi sono sentito offeso. Il racconto è abbastanza "intenso", ma preferisco il suo finale reale e saperti a scrivere qui.
Ho notato solo uno strano passaggio da un'apparente condanna iniziale da parte dell'uomo in nero a un elogio nella parte finale. Questo sì, mi ha disturbato, soprattutto considerando che l'uomo in nero era il padre del suicida, soprattutto considerando le prime riflessioni su chi resta. Lui resta e riesce a elogiare il figlio suicida? Mi vien da pensare che qui c'è un altro nodo irrisolto, quello di un rapporto mai chiarito col padre che nel racconto è espresso nella speranza che un giorno il padre possa comprendere il figlio.
Condivido molte delle valutazioni qui espresse sul suicidio. Personalmente, evaderei da una vita nella quale non ho più nulla da desiderare. Il condizionale è una forma retorica.
A latere, ho gustato il doppio punto di vista uomo/pesce d'acquario. Speravo solo avresti fatto risaltare di più il fatto che anche noi siamo pesci d'acquario che nella loro vita compiono migliaia di volte, apparentemente senza senso per chi non sia anch'egli un pesce d'acquario, sempre lo stesso giro.
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Re: Commento
Ciao Marino! Grazie mille per il commento. Anch'io sono contento di essere qui a scriverti (e a fare mille altre cose che hanno reso significativa la mia vita).Marino Maiorino ha scritto: ↑18/03/2023, 9:59 Domenico,
personalmente non mi sono sentito offeso. Il racconto è abbastanza "intenso", ma preferisco il suo finale reale e saperti a scrivere qui.
Ho notato solo uno strano passaggio da un'apparente condanna iniziale da parte dell'uomo in nero a un elogio nella parte finale. Questo sì, mi ha disturbato, soprattutto considerando che l'uomo in nero era il padre del suicida, soprattutto considerando le prime riflessioni su chi resta. Lui resta e riesce a elogiare il figlio suicida? Mi vien da pensare che qui c'è un altro nodo irrisolto, quello di un rapporto mai chiarito col padre che nel racconto è espresso nella speranza che un giorno il padre possa comprendere il figlio.
Condivido molte delle valutazioni qui espresse sul suicidio. Personalmente, evaderei da una vita nella quale non ho più nulla da desiderare. Il condizionale è una forma retorica.
A latere, ho gustato il doppio punto di vista uomo/pesce d'acquario. Speravo solo avresti fatto risaltare di più il fatto che anche noi siamo pesci d'acquario che nella loro vita compiono migliaia di volte, apparentemente senza senso per chi non sia anch'egli un pesce d'acquario, sempre lo stesso giro.
A presto!
Riguardo alla tua prima osservazione credo tu ti riferisca al fatto che inizialmente il protagonista rimprovera il ragazzo per il modo in cui si è suicidato. In questo caso il rimprovero si focalizza sulla maniera di togliersi la vita, non sul togliersi la vita in generale. Poi è vero, penso che tutto il racconto trasudi un nodo irrisolto: un rapporto tra un Padre che sembra usare il Figlio come cavia per un esperimento e un Figlio che si è lasciato sopraffare da relazioni familiari deteriori fino alle estreme conseguenze. Metto le parentele in maiuscolo, perché in fondo mi piace giocare sull'idea che tutto il racconto parli di altro: di una Padre e un Figlio che hanno una natura divina e uno costringa l'altro all'estremo sacrificio (ma il Figlio, suicidandosi, lo respinge o lo accetta questo sacrificio? Boh!).
Non ho insistito troppo sul paragone uomo/pesce d'acquario, perché ho dato per scontato proprio il senso di quella scena, che tu d'altra parte hai colto. Spero anche gli altri.
Un abbraccio!
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Re: Dilemma
Sull'uomo/pesce d'acquario la mia curiosità andava piuttosto nel senso di: se Domenico esplicitasse l'inversione di ruoli, come lo farebbe? Immaginavo una sola breve frase, o addirittura una sola parola rivelatrice, di quelle che al tempo stesso fanno sorridere, riflettere e lasciano un po' di stucco.
Ma ripensandoci meglio sarebbe stata fuori posto: il momento climatico avviene subito dopo e una doppia cesura non era conveniente.
Un saluto.


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L'Animo spaziale
Tributo alla Space Opera
L'Animo Spaziale è un tributo alla space opera. Contiene una raccolta di racconti dell'autore Massimo Baglione, ambientati nella fantascienza spaziale. Un libro dove il concetto di fantascienza è quello classico, ispirato al Maestro Isaac Asimov. La trilogia de "L'Animo Spaziale" (Intrepida, Indomita e Impavida) è una storia ben raccontata con i giusti colpi di scena. Notevole la parentesi psicologica, in Indomita, che svela la complessa natura di Susan, elemento chiave dell'intera vicenda. "Intrepida", inoltre, ha vinto il primo premio nel concorso di letteratura fantascientifica "ApuliaCon 2006" (oggi "Giulio Verne"). I racconti brevi "Mr. Sgrultz", "La bottiglia di Sua Maestà" e "Noi, sorelle!" sono stati definiti dalla critica "piccoli capolavori di fantascienza da annoverare negli annali.
Di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
Human Take Away
Umani da asporto
"Human Take Away" è un racconto corale dove gli autori Alessandro Napolitano e Massimo Baglione hanno immaginato una prospettiva insolita per un contatto alieno. In questo testo non è stata ideata chissà quale novità letteraria, né gli autori si sono ispirati a un particolare film, libro o videogioco già visti o letti. La loro è una storia che gli è piaciuto scrivere assieme, per divertirsi e, soprattutto, per vincere l'Adunanza letteraria del 2011, organizzata da BraviAutori.it. Se con la narrazione si sono involontariamente avvicinati troppo a storie già famose, affermano, non era voluto. Desiderano solo che vi gustiate l'avventura senza scervellarvi troppo sul come gli sia venuta in mente.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
Il Bene o il Male
Trenta modi di intendere il Bene, il Male e l'interazione tra essi.
Dodici donne e diciotto uomini hanno tentato di far prevalere la propria posizione, tuttavia la Vita ci insegna che il vincitore non è mai scontato. La Natura ci dimostra infatti che dopo un temporale spunta il sole, ma ci insegna altresì che non sempre un temporale è il Male, e che non sempre il sole è il Bene.
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Copertine di Giuliana Ricci.
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