Dilemma

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'inverno 2022/2023.

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Domenico Gigante
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Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

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“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio:
quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga
la pena di essere vissuta.” (Albert Camus, Il mito di Sisifo)

Stavo seduto al bancone del solito bar a fare colazione: il caffè, un cornetto, le stesse chiacchiere tutte le mattine. C’era chi parlava di calcio, chi chiedeva una bustina di zucchero. Fissavo un uomo seduto all’altro capo del locale, che parlava al telefono. Non lo udivo, ma percepivo la sua mimica senza senso. E, d’un tratto, mi chiesi perché mai egli vivesse.
I pesci rossi nell’acquario dietro le spalle della cassiera – avanti e indietro tutto il giorno – mettevano un’angoscia spaventosa. Provai ad immaginare cosa sarebbe successo se quei poveri animali – costretti a quel tragitto migliaia di volte – si fossero fermati qualche volta a guardare noi al di là di quel vetro. Forse in questo modo avrebbero potuto accorgersi della nostra esistenza e scacciare almeno per un po’ la monotonia. Avrebbero visto passare la stessa gente tutte le mattine; ne avrebbero studiato i volti, i gesti religiosamente ripetuti come fossero il rituale dell’accoppiamento. Magari ci avrebbero dato dei nomi: non i nostri nomi, ma dei nomi. Invece erano del tutto indifferenti alla nostra presenza. Neanche disturbati. Continuavano ad andare, su e giù, lungo quel ridicolo finto fondale – le rocce, le alghe, il relitto – e non si degnavano di tenerti compagnia nemmeno per un istante.
Quel giorno ero particolarmente disgustato da loro; da quella vita così simile alla nostra. È ridicolo pretendere che si interessino a te, che capiscano la tristezza invadente che ti assale all’inizio della primavera, quando il sole e la natura sembrano complottare, costringendoti a un risveglio quanto meno indesiderato. È immorale che qualcuno o qualcosa ti spinga alla ribellione o alla fuga, quando sai che solo all’interno della tua piccola cella troverai tranquillità e sicurezza: lì dove tutto è stato deciso e organizzato e, se ti trovi dalla parte giusta, non vivi poi tanto male. La rabbia non la senti nemmeno, se riesci a rassegnarti. Invece questa tetra stagione arriva a svegliarti dal torpore. Intanto i giorni passano – grazie a Dio! – e le ore stabiliscono un ritmo sicuro e deciso. Otto e mezzo / nove meno un quarto entri alla posta e ti siedi al solito sportello a lavorare. Impiegato delle poste, questo è il mio grado all’interno del mondo: trentacinque anni e qualche scarso interesse da coltivare.
Era solo una mattina con le solite vecchie ansiose certezze, fino a quando qualcosa non venne a turbarla. Un urlo forte, improvviso, di donna; un tonfo sordo per la strada fuori dal bar – il locale si svuotò di colpo. La gente accorreva in un punto sul marciapiede. Si borbottava qualcosa, ma non ascoltavo. Cercavo solo di farmi spazio attraverso la folla per vedere ciò che era accaduto. Sentivo già di conoscere tutto. Forse lo avevo sognato o immaginato, ma dovevo vederlo con i miei occhi. Un corpo era disteso per terra in una posizione informe. Non potevo stabilire che età avesse, perché la testa era completamente fracassata, ma avevo l’impressione che fosse giovane: molto giovane. Il sangue colava da per tutto sull’asfalto, in rivoli, fuoriuscendo dal cranio come da una roccia, e trascinava via pezzi di cervello.
Mi venne da ridare di stomaco. La testa mi girava vorticosamente. Il mio sguardo andava dal cadavere al volto delle persone che lo circondavano e che sembravano sorprendentemente incuriosite da quella scena. Lo squadravano; qualcuno indicava con raccapriccio qualche arto che si era posizionato in maniera contorta; una donna piangeva, lanciava singhiozzi e grida appoggiandosi alla spalla di un uomo.
«Ma come cazz... ci è finito qui?»
«Stava lì, affacciato a quel balcone al quarto piano.»
«È stato un incidente?»
«Può essere! Non sembrava intenzionato a buttarsi. Guardava in giù con i gomiti appoggiati alla balaustra.»
«Qualcuno lo conosceva? Quanti anni aveva?»
«Bisogna chiamare l’ambulanza!»
«Ma quale ambulanza! La polizia bisogna chiamare. Non lo vede che è andato? Che cazz... ci viene a fare l’ambulanza!»
«Se lo porta via! Ché lo vuole lasciare qui come ornamento?»
«Ho chiamato, ho chiamato! non vi preoccupate!»
La nausea continuava a crescere dentro di me. Mi allontanai a fatica da quella folla opprimente per respirare. Mi appoggiai con una mano al muro e mi accovacciai. Nella mente quell’immagine continuava ad ossessionarmi, sempre più distorta: il sangue – di un colore acceso – che si avvicinava minacciosamente ai miei piedi. Ebbi un altro conato nervoso. Mi alzai, spalancai la bocca e riempii i polmoni. Mi sentivo già meglio. Tenevo gli occhi spalancati e guardavo il verde delle foglie dei platani allineati lungo la strada. La luce del sole cominciava a farsi più intensa. Il traffico sulla strada era rallentato. La gente si fermava a guardare incuriosita quel nugolo di persone. Qualche clacson suonava fastidioso. Uno stato di insensibilità si era impadronito di me, trascinandomi lontano da lì.
A un tratto sentii la presenza di qualcuno. Mi voltai e vidi un uomo a pochi centimetri dal mio fianco. Era alto almeno un palmo più di me, aveva una barba bianca folta e teneva la fronte alta. Indossava un paltò nero molto lungo – la qual cosa mi sorprese, perché la temperatura era piuttosto elevata – e sulla testa portava un cappello a larghe tese. In una mano teneva un bastone con la testa intarsiata. Apparentemente aveva una settantina d’anni, ma il suo aspetto e lo stato fisico erano ottimi – mi avrebbe benissimo potuto stendere con un pugno. Si voltò verso di me e mi sorrise in modo affabile.
«Brutta cosa il suicidio. Non per chi lo compie, ovviamente, ma per chi è costretto ad assistervi», disse rivolgendosi a me. Mi stupii che fosse così sicuro che il ragazzo si fosse gettato volontariamente.
«Come fa a dire che si è suicidato? Potrebbe essersi solo sporto troppo… un incidente... può capitare», balbettai poco convinto. Avevo il timore di averlo offeso con quell’obiezione. Lui, però, sfoggiò nuovamente un sorriso bonario e comprensivo, e continuò senza prendere in considerazione la mia osservazione.
«Gettarsi così dalla finestra in mezzo alla strada, dando questo spettacolo e turbando la vita di confusi passanti. Se bisogna morire, è meglio farlo con discrezione: col veleno, ad esempio. Già spararsi un colpo di pistola è sbagliato – nel bagno magari, con tutto il sangue che schizza ovunque: sulle pareti, sullo specchio, nel lavandino, nella vasca... Che spettacolo orribile! Poi tocca ai poveri familiari ripulire tutto; ridipingere i muri. Come pensa che avranno il coraggio, alla fine, di entrare in quel bagno. Gli rimarrà in eterno nella mente la fotografia di quell’inaspettato e macabro spettacolo. Questo significa rovinare la vita alla gente!
Anche tutte queste persone – disse, indicando la folla – quando per caso si troveranno a passare di qui... Lei, ad esempio, cosa penserà? Con che forza riuscirà a dimenticare? Vede quel barista? Lui, quando la polizia e l’ambulanza se ne saranno andati, prenderà un secchio e lo rovescerà sulla pozza di sangue, che comincerà a scorrere via giù per il tombino. Forse rimarrà un alone rossiccio sull’asfalto, ma anche quello scomparirà per l’usura dovuta al via vai della gente, alla pioggia, al vento, al calore estivo. Voi che avete visto, però, non potrete mai rimuovere dai vostri occhi l’immagine di quella macchia rossa, ed eviterete di passarvi sopra, anche quando sarà scomparsa. Può darsi che cambierete marciapiede o vi scosterete all’ultimo momento, ma non camminerete più in quel punto. Chi vi potrebbe biasimare per questo? Sembra che non esista niente di più innaturale, più lugubre, più impietoso di un suicidio».
Cominciai a sentirmi fuori di testa di fronte a quel discorso. Per un attimo pensai di sognare. Era spaventoso pensare a un tale cinismo. Questo strano personaggio – comparso non si sa bene come, non si sa bene quando – veniva da me, sconosciuto, e parlava di morte con lucido distacco, quasi con nera ironia. Sospettai che potesse essere egli stesso la morte, ché con quell’aspetto poteva apparire credibilissimo.
«Capisco la sua indifferenza, caro signore, – dissi furioso – ma rimanga almeno in silenzio, se non vuole dimostrare pietà».
Quell’uomo non si scompose affatto. Tutt’altro che impressionato dalla mia rabbia, assunse un’espressione divertita.
«Mio caro amico, le ho già detto che il suicidio non merita pietà. Chi si dà la morte volontariamente ha già perduto irreparabilmente la propria innocenza», rispose senza esitazione. «Lei è mai stato al funerale di un morto suicida? Sui volti delle persone non leggerà mai la pietà. La rabbia, l’odio forse, la colpa certamente, saranno i sentimenti che troverà in abbondanza. Lei pensa che non sia giusto? Ma le cose non devono essere giuste per essere vere. È impressionante il numero delle persone convinte che in un suicidio vi sia un supremo atto di rimprovero nei confronti del mondo, della società, di fantomatici ordini universali, o, addirittura, viltà e vigliaccheria. Ma non è così! Suicidarsi è confessare: confessare che si è superati dalla vita o che la si è compresa troppo a fondo. Un uomo senza speranza – e cosciente di esserlo – non appartiene più all'avvenire. Ci si uccide perché la vita non vale la pena di essere vissuta: ecco indubbiamente una verità – infeconda, ma pur sempre una verità.
Piuttosto non ci si meraviglia mai abbastanza che tutti vivano come se nessuno “sapesse”. Nell'attaccamento di un uomo alla vita, vi è qualcosa di più forte che tutte le miserie del mondo. Il desiderio di esistere è un peccato che non dovremmo mai commettere. Per colpa di questo attaccamento la maggior parte di noi si interroga sempre, senza concludere mai. “Chi accetterebbe di accollarsi quelle some, e grugnire e sudare sotto il peso della vita, se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte a paralizzarci la volontà, e farci preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente? Così la coscienza ci rende codardi tutti e imprese di gran rilievo e momento per questo si sviano dal loro corso e perdono anche il nome di azione”. Ha mai letto l’Amleto? Si vede dallo sguardo che l’ha riconosciuto. Questo non la sorprende? Eppure c’è qualcuno che sostiene vi sia più vigliaccheria, in questa estenuante e paralizzante attesa che qualcosa accada al di là della nostra volontà. Gente che si adopera pigramente affinché la propria vita segua il suo corso naturale, come il fiume segue la corrente fino al mare. Volere qualcosa, invece, significa far sorgere i paradossi dell’esistenza. E cercare di dipanarli è cominciare a minare la nostra fiducia nella provvidenza. Non ci si uccide per viltà: ci si uccide per riflessione».
Lo strano personaggio si mise a fissarmi intensamente. «Lei che lavoro fa?», mi chiese a bruciapelo. Trasalii, ma ormai mi sentivo in balia di quell’uomo; e anche se non aveva alcun senso – oltre ad essere incosciente – gli risposi, come avrei risposto a qualsiasi altra più intima domanda.
«Sono un impiegato delle poste».
«Ecco, vede! La sua vita che aspetto avrà?», fece un gesto come cercasse di spronarmi a guardare la mia vita da qualche parte oltre la strada. «Mediocre, meschina... Non si offenda! La può consolare il fatto che lo è in generale per tutti. La sveglia, la colazione, il tram, le otto ore di ufficio o di officina, di nuovo il tram, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì sabato e domenica sullo stesso ritmo... Si è mai accorto di quanto sia angosciante compiere ogni giorno la stessa strada, ininterrottamente per anni? In città, poi, non si distinguono le stagioni, per cui non si nota alcuna differenza attorno a sé… un cambiamento nel paesaggio. Quello che batte il tempo nella nostra vita sono curiosi particolari insignificanti, che ci permettono a mala pena di ricordare un giorno tra i tanti: una cinquecento fucsia, carabinieri a cavallo o… un uomo che si butta dal quarto piano di un palazzo. La mancanza di varietà di esperienze ci uccide giorno dopo giorno come una goccia.
Nonostante tutto questo, il più delle volte andiamo ostinatamente alla ricerca della felicità… dell’amore. Crediamo fortemente che quello che in alcuni istanti proviamo sia il sentimento disinteressato che una qualche divinità creò per adescarci e spingerci verso il paradiso in terra. Così ci sposiamo, facciamo figli, li cresciamo e impariamo ad averne paura – almeno del male che potrebbero farci. Lei ha mai avuto paura che sua moglie morisse per un tumore? Io sì! Molte volte! Prima di sposarmi ero ossessionato dall’inferno che avrei patito tra l’attesa della morte imminente e quella sensazione di solitudine, di abbandono, che segue al decesso. Non immaginavo nemmeno che tutto questo potesse farmi amare di più la vita. D’altra parte sembra più facile lasciare che essere lasciati.
In questo modo gli anni passano per tutti, finché un giorno in qualcuno sorge il “perché” e per lui tutto assume una stanchezza tinta di stupore. Un uomo si imbatte faccia a faccia con l’assurdità dell'esistenza alla svolta di una qualunque via e comprende, d’improvviso, di non poter imporre alcuna svolta alla propria vita. Per tutti i giorni della sua esistenza senza splendore è stato portato dal tempo. E così, alla fine, il ticchettio dell’orologio lo spinge a desiderare ardentemente di fermare quelle lancette: per non dover sapere che domani, la prossima settimana, il prossimo mese arriveranno, in un modo o nell’altro; e altra vita sarà stata sprecata a fare un lavoro che si odia, a praticare la ripetitività del sesso e dei suoi rituali, a rendere la propria esistenza una patetica idea delle speranze che si nutrivano, a superare esami e sfide inutili e a cui si rinuncerebbe volentieri. Uccidersi presuppone che si sia riconosciuto – anche istintivamente – il carattere inconsistente di questa routine, la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l'indole insensata di questa quotidiana agitazione, l'inutilità della sofferenza. Bisogna in qualche modo stare a questo giuoco mortale che conduce dalla lucidità di fronte all'esistenza all'evasione fuori dalla luce.
Vedo dal suo sguardo che la sto turbando con questo discorso. Lo riconosco, è assai indigesto, ma è necessario purgare il suicidio dal suo contenuto di commozione, per conoscere la sua logica e la sua onestà: bisogna essere logici, ed esserlo fino in fondo. Perché nascondere dietro una falsa pietà quello che già sappiamo e che inutilmente ci si svela tutti i giorni, lasciandoci indifferenti o leggermente confusi: il suicidio è il miglior rimedio al male della vita. Ovviamente è più difficile convincersene quando si è giovani, mentre in noi si insinua una dispettosa febbre che ci rende vitali, speranzosi, euforici. Ci diciamo: “Cambieremo il mondo e faremo giustizia”. Che musica queste parole! Cambiamento, Giustizia... D’altra parte ci sono tanti che paradossalmente si uccidono per le idee o le illusioni che costituiscono per loro una ragione di vivere. Evidentemente ciò che chiamano ragione di vivere è anche un eccellente ragione per morire».
Il mio assurdo interlocutore interruppe il suo monologo per guardarsi intorno. La folla si era ormai dispersa. L’ambulanza era arrivata e stava portando via il corpo. La polizia cercava testimonianze, si informava sui parenti. Qualche curioso ancora faceva domande. Un tizio con le braccia conserte e l’aria saputa dispensava risposte. Io ormai non avevo occhi che per quest’uomo bizzarro e tremendo. Doveva essere passato un mucchio di tempo.
«Guardi tutta questa gente che si domanda le ragioni di un simile gesto», riprese senza un minimo di emozione. «Non le sanno e non le intuiscono. Probabilmente è vero che un uomo ci rimane sempre sconosciuto e che in lui vi è sempre qualcosa di irriducibile, che ci sfugge. Però – non si preoccupi – con un po’ di pratica e di fantasia, spiegheremo anche questo mistero. Un gesto come questo si prepara nel silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera, ma alla fine si svela nelle parole e nelle azioni che uno compie.
Come pensa si chiamasse? Può darsi Gabriele, Giovanni o Emanuele. Ecco: Emanuele! Noi gli daremo questo nome – tanto il vero non è che pura formalità; come tutto il resto solo un capriccio del caso. Emanuele era un ragazzo di buona famiglia, nato in un giorno di novembre di ventidue anni fa. Il primogenito – principio di una nuova generazione – va festeggiato con tutti gli onori. Nonni e parenti si deliziavano di questo bambino biondo, sano; lo coccolavano, lo viziavano. La sua infanzia trascorse felice. Era magro, molto magro. Questo, però, non era un problema, perché la vivacità non gli mancava. Una stranezza, tuttavia, l’aveva: impiegò molto a capire di essere vivo. Ingenuamente si trastullava, ritenendo non vi fosse nulla di serio, nulla di preoccupante. Non si rendeva conto che la realtà, o meglio l’esistenza, richiedeva il suo sacrificio, la sua attenzione costante, il suo impegno. Pensava di rimanere un balocco per gli adulti, a cui non è richiesto dare spiegazioni, lavorare, faticare.
I genitori lo convinsero del contrario. Non fu certo facile; fu certamente traumatico, ma si rese conto che a lui era richiesto molto. L’intelligenza non gli difettava e, quindi, non impiegò molto a coprire il divario che lo separava dai suoi coetanei. Raggiunse ottimi risultati scolastici. Del resto sapeva che questo era il suo dovere, ed era questo che la sua famiglia si aspettava da lui. Trascurando le frivolezze, si gettò a capofitto nello studio. Lo aspettava una buona laurea; poi un lavoro sicuro: uno di quei cento impieghi normali, ovvi e meccanici. Durante l’adolescenza gli sembrava perfettamente chiaro che questo dovesse essere il suo futuro. In quanto immaginava uno scopo nella vita e credeva di poter scegliere di essere questo piuttosto che quello, si conformava alle esigenze di una meta da raggiungere, e diveniva schiavo della propria libertà: così come lei non può più agire in modo diverso da un impiegato delle poste.
Purtroppo, però, non era così facile. Emanuele non aveva un carattere forte. Sentiva le cose con un’intensità eccessiva. Ingigantiva i problemi a dismisura. Quando le cose andavano male, per lui era come un cataclisma, una minaccia divina. Aveva anche un altro tarlo che lo rodeva: percepiva la propria condizione sociale come incomprensibile. Il senso d’ingiustizia lo perseguitava e lo faceva sentire complice. Lui era nato ricco, si poteva permettere gli sprechi, tutti i comfort che la vita moderna esige; e non aveva fatto nulla per meritare tutto questo. In ciò consiste l’ingiustizia: non dico il lusso, ma essere anche solo benestanti è inammissibile; è un crimine indecifrabile, perché senza alcuna spiegazione. Tutto può essere confutato, in questa società che ci circonda, ci urta o ci trasporta, salvo questo caos, questo caso imperante e divina equivalenza, che nasce dall'anarchia genetica.
Emanuele si sentiva un privilegiato e non poteva soffrirlo, ma non riusciva a inventarsi nulla di diverso. Desiderava assurdamente di essere povero, nascere in miseria. Come mettergli in testa che è il caso a decidere tutto, e non ci si può rinunciare? Per farlo si dovrebbero preferire le umiliazioni, scegliere di sobbarcarsi fatiche enormi da solo… patire. Lui, però, era un debole, era abituato alle comodità – e le assicuro che se non nasci San Francesco, è difficile imparare ad esserlo. In fondo quell’infanzia felice, l’illusione di poter vivere senza problemi, senza bisogno alcuno di arrangiarsi, gli aveva tagliato le gambe. Quindi il nostro giovane continuava a divertirsi, a spendere con gli amici, a permettersi vizi e, incautamente, credeva che questo potesse guarirlo dalla sua malattia.
Ebbe una ragazza? Sì, certamente! Una lunga storia! Li vedevi passeggiare qui nel quartiere abbracciati. Si diceva che stavano bene insieme. Non era vero, ovviamente! Litigavano spesso a causa dei suoi timori e delle sue ansie, così come egli si accapigliava con i genitori, che ostinatamente si rifiutavano di riconoscere i suoi problemi. Questo, però, non è un male. Finché si litiga, si urla, significa che si è convinti di poter fare qualcosa; che si crede nel cambiamento. È quando si smette che bisogna aver paura. In alcune situazioni rispondere "Niente!" a una domanda circa la natura dei propri pensieri significa aver rotto definitivamente ogni relazione col mondo, con gli altri, con la vita. Alla lunga Emanuele smise di litigare.
Intanto finì il liceo e si iscrisse all’università: a una di quelle facoltà che sembrano garantire un futuro sereno. Con l’andare del tempo, però, cominciò a non sentirsi affatto sereno riguardo al futuro. Le scelte gli apparivano sempre meno certe e sensate. Temeva che una serie di fallimenti, di decisioni sbagliate, potesse compromettere tutto. Soprattutto si sentiva sempre più solo e disarmato nell’affrontarle. Le nuove paure si accavallano alle vecchie, e così via: come una torre senza fondamenta appare minacciosamente vacillante. Il fatto che la vita non abbia senso e sia incerta non è un in sé un problema. La questione nasce quando questo si scontra con il nostro desiderio violento di chiarezza e di certezza. Desiderava il domani: infondo egli non chiedeva che questo, quando tutto il suo essere avrebbe dovuto accettare l’insensato caos.
Un’incessante sensazione di inutilità lo perseguitava. La convinzione di essere predestinato a una esistenza routinaria si impadronì di lui. Il contrasto tra ciò che era e ciò che avrebbe voluto essere era diventato inammissibile. Non è possibile mantenere inconciliata la contraddizione, quando questa ti bussa ogni mattina. Non si può convivere con il senso dell’assurdo, con questo bruciante deserto. Non puoi più pensare che tutto si aggiusterà, quando a ventidue anni ti accorgi che la tua vita è salda su un binario. Il quadro si andava così componendo in maniera fallimentare: non era altro che una copia distorta e informe della sua fantasia, di un’ideale più alto. Time is out of joint: il tempo è fuori squadra ed è inutile provare a raddrizzarlo. Di fronte all’incapacità di cambiare, di agire, Emanuele decise che esistere non era sufficiente; e, quindi, stabilì di non esistere. Ecco risolto il dubbio amletico.
In un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l'uomo non può che sentirsi un estraneo, e tale esilio è senza rimedio. Così nel sentirsi ormai estraneo alla propria vita Emanuele ha trovato il principio di una liberazione. La credenza nell'assurdità dell'esistenza ha prescritto la sua condotta. Lei penserà che è da pazzi suicidarsi perché non si è stati capaci di ribellarsi all’assurdo e di far deragliare il treno del fato, ma le assicuro che questo gesto è molto più coraggioso dell’impotenza a cui normalmente siamo costretti. Questo infelice, che la coscienza dell’assurdità del proprio destino ha costretto alla rivolta lì dove la gente nasce arresa, ha accettato la disfatta con la dignità che la quieta disperazione non merita».
Interruppe per qualche istante il suo discorso per asciugarsi il viso grondante di sudore. Per tutto questo tempo non aveva mai perso la calma; mai lo aveva sopraffatto la pietà nel suo ragionamento; perciò in questa pausa lessi una qualche commozione, che mi sorprese come al risveglio da un incubo.
«Allora, adesso, lei si sentirebbe in grado di giudicare questo ragazzo, se non per quello che è: un eroe del nostro tempo; un novello Icaro, che non potendo raggiungere il sole con le sue ali, si abbandonò agli abissi marini? Non si preoccupi, non voglio risposte o repliche. Ognuno di noi nella sua coscienza rimuginerà e trarrà le proprie conseguenze. Non pretendevo nulla e continuerò a farlo. Spero solo di non averla offesa o angosciata. Se l’ho fatto, le chiedo umilmente scusa».
Sembravo finalmente giunto alla fine di questa orrenda esperienza. Un uomo – un uomo vestito di nero – mi aveva tenuto per non so quanto tempo (ma sembrava un’eternità) fermo ad un angolo di strada a riversare su di me il pessimismo naturale degli uomini. Niente ci aveva disturbato. La polizia andava in giro intorno a noi, interrogava, ma sembrava non vederci. Forse mi sbagliavo, forse qualche domanda ce l’avevano fatta, c’avevano rivolto la parola, ma io non ricordo più. Ho rimosso tutto ciò che accadde intorno a noi.
Mi venne voglia di fargli delle domande, ma riuscii soltanto a dire: «Ma lei chi è? Come faceva a conoscere tutti questi particolari sulla vita di quel ragazzo? Ha inventato tutto, non è vero?».
«Lei crede? È un suo diritto non fidarsi di me!».
«Ma in che rapporti era con lui?».
Per un attimo assunse un’espressione seria. «Ha importanza chi sono? Forse solo uno dei tanti passanti. Forse un Dio crudele, indifferente al destino delle sue creature. Ecco forse un Padre, che ha usato il proprio Figlio come cavia per un esperimento: come capro espiatorio per illuminare il senso dell’esistenza. Che le sembra come idea?». Poi sorrise e ribadì: «Non ha importanza».
Si tolse il cappello come cenno di saluto, si voltò e si allontanò.
Ultima modifica di Domenico Gigante il 20/03/2023, 21:44, modificato 2 volte in totale.
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Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

Ritengo doveroso aggiungere una breve nota, in quanto il testo che propongo può risultare molto fastidioso, se non offensivo della sensibilità. Ciò che vi viene sostenuto non rappresenta in nessun caso l’opinione dell’autore - non almeno in questa fase della sua vita; forse era la sua idea quando il testo venne scritto circa 25 anni fa.
Nonostante che non consideri più il ragionamento come condivisibile, resta pur tuttavia valido in termini provocatori. È una sfida al lettore, che ne può far ciò che vuole: accettarla, rigettarla, confutarla o insultare il suo autore.
Prevengo l’obiezione: non è certamente un racconto – non almeno nei canoni che possono essere comunemente condivisi. È piuttosto un monologo filosofico, un’apologia del suicidio in forma narrativa. Quindi va sospesa in tutto o in parte la ricerca di una coerenza di genere o un approfondimento psicologico dei personaggi. Se volete, sono – con un gioco di parole – essenzialmente esistenzialisti.
Il finale è aperto alle interpretazioni. Non va preso per forza in senso letterale. Chi è cristiano (o almeno di cultura cristiana) può leggervi un riferimento a qualcosa di più alto e onnipotente.
Mi scuso ancora una volta se ho offeso qualcuno – e in questo caso lo prego di utilizzare le armi del commento e del voto per prendersi una rivincita, seppur piccola.
Un abbraccio a tutti,
Domenico
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Messaggio da leggere da Athosg »

Sono sempre rimasto sgomento e attratto dai suicidi. Li ho sempre visti come una folgore che smuove la vita, anche la mia vita quando sento la notizia di qualcun che si è suicidato. Non aggiungo altro perché il tuo racconto descrive tutto quello che sapevo ma non pensavo compiutamente. Bravissimo.
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

Athosg ha scritto: 30/12/2022, 23:35 Sono sempre rimasto sgomento e attratto dai suicidi. Li ho sempre visti come una folgore che smuove la vita, anche la mia vita quando sento la notizia di qualcun che si è suicidato. Non aggiungo altro perché il tuo racconto descrive tutto quello che sapevo ma non pensavo compiutamente. Bravissimo.
Grazie mille per non avermi insultato e aver compreso lo spirito del testo. In giovinezza anch'io ero molto affascinato dai suicidi. Alcuni colpiscono l'immaginazione perché dietro vi è chiaramente una profonda tristezza e un dolore soverchiante. In altri è l'assurdo stesso che si manifesta facendo breccia nel quotidiano, come un quadro apparentemente normale ci stupisce per un dettaglio totalmente fuori posto: un personaggio che, invece di guardare la scena, ci osserva direttamente negli occhi. Qualcosa di perturbante a cui non possiamo dare risposta. Quest'ultimi sono stati i suicidi che più mi hanno sconvolto.
Oggi guardo quell'esperienza con un misto di ripulsa e disapprovazione. Penso ai tanti ragazzini, compagni di mio figlio, che stanno tentando il suicidio. Guardo con apprensione Benedetto e lo abbraccio. Vorrei tanto che non vivesse come me questo fascino per la morte. Parafrasando Nietzsche: Se guardi troppo a lungo l'oscurità, l'oscurità guarda dentro di te.
Grazie ancora e un abbraccio!
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Re: Dilemma

Messaggio da leggere da Athosg »

È una realtà angosciante anche perché adolescenti. Comunque hai descritto in maniera analitica, hai sezionato una parte del problema in maniera ammirevole, pur trattandosi di un tema oscuro. Penso ai tanti cantanti suicidi, Ian Curtis 40 anni fa e recentemente Chester Bannington e Cris Cornell e penso a qualche ragazzo delle mie parti che hanno posto fine alla loro vita in modo silenzioso. Un tratto del csrattere li accomunava: erano persone gentili.
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Messaggio da leggere da Nunzio Campanelli »

Le tue parole mi colpiscono con forza, con violenza inaudita, sembrano ritagliate da un vestito logoro e adattate alle mie misure, ma è solo una pia illusione, se anche ognuno di noi può riconoscersi nel protagonista del tuo racconto, confida che quando verranno tempi in cui sarà necessario confrontarsi con questa idea, ebbene sarà solo la debolezza di un momento. Poi tutto tornerà al giusto posto.
Com'è che si dice? Spes ultima dea, la speranza è l'ultima a morire. Bisognerebbe provare per capire che cosa significa vivere, quando la vita ha il sapore amaro del veleno, e ti senti come un fuoco che non produce più ombre.
In verità l'ultima speranza è morire.
Grazie Domenico.
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Domenico Gigante
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Nunzio Campanelli ha scritto: 04/01/2023, 18:14 Le tue parole mi colpiscono con forza, con violenza inaudita, sembrano ritagliate da un vestito logoro e adattate alle mie misure, ma è solo una pia illusione, se anche ognuno di noi può riconoscersi nel protagonista del tuo racconto, confida che quando verranno tempi in cui sarà necessario confrontarsi con questa idea, ebbene sarà solo la debolezza di un momento. Poi tutto tornerà al giusto posto.
Com'è che si dice? Spes ultima dea, la speranza è l'ultima a morire. Bisognerebbe provare per capire che cosa significa vivere, quando la vita ha il sapore amaro del veleno, e ti senti come un fuoco che non produce più ombre.
In verità l'ultima speranza è morire.
Grazie Domenico.
5
Ciao Nunzio! Mi sono preso un po' di tempo per risponderti, perché le tue parole trasudano un vissuto che non deve essere stato facile. Nel proporre questo testo sei stato una delle persone che ho temuto più di offendere con questo mio disprezzo esasperato per la vita. Fortunatamente non è stato così. Il tuo commento è bellissimo e sinceramente ti ringrazio. Un abbraccio forte!
Vorrei essere il mare che si muove per rimanere se stesso e più di tanto non lo sposta il vento. Fragile ma tenace.
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Belle gatte da pelare ti prendi. E che a mio avviso amplifichi proprio con quella postilla in cui precisi che l'Autore non pensa ciò che scrive. Che l'Autore debba interpretare l'autore è già strano, ma addirittura giustificarsi con quel in nessun caso.
L'autore reale che spiega perché l'autore, che potremmo definire implicito, non pensa, o non pensa più, ciò che scrive.
Il mito di Sisifo di Camus l'ho ben presente, è un saggio sul suicidio, tra l'altro. È un libretto che ho cercato, ma non trovo, come al solito. Camus è uno scrittore particolare, lo sappiamo. Sartre non lo prendeva molto sul serio quando si occupava di filosofia, né tantomeno lo facevano i filosofi veri del tempo. Entrambi, Sartre e Camus, però vinsero il Nobel per la letteratura. Oggi lo danno a Bob Dylan o a Ishiguro, per come siamo messi male. Va beh.
E quindi riprovi a trasporre in racconto un tuo saggio. Di nuovo. Tentativo non eccelso con Alcibiade, va un po' meglio oggi, con il Dilemma. Che poi qual è il Dilemma? Se il suicidio sia un atto riprovevole o meno? Direi che è un atto personale, una pura disposizione del proprio corpo. Corpo che ci appartiene, tanto che pure il codice penale, che è pur sempre il codice Rocco, punisce solo l'istigazione al suicidio e non il suicidio in quanto tale, con tutte le conseguenze del caso.
Quanto al racconto in sé, potrebbe essere ottimo, ma non lo è. Provo ad argomentare. Il protagonista è il nostro impiegato postale che racconta in prima persona ciò che gli è accaduto una mattina mentre era al lavoro. Protagonista e narratore coincidono come la prospettiva da cui guardano entrambi gli avvenimenti. Tutto sembra incentrato sul personaggio che pare il protagonista, le sue ansie, paure, prospettive. E lasci intravedere in lui un lato oscuro che sembra riallacciarsi alla citazione iniziale. Ma il suicidio del giovane cambia le carte in tavola. Compare uno strano personaggio, che ingaggia con l'impiegato un dialogo, che preso si trasforma in un soliloquio in cui quest'ultimo scompare. E questo, a mio avviso, è un errore. Perché indugiare tanto sull'impiegato nella parte iniziale per poi abbandonarlo? Lo strano personaggio parla del suicida come ognuno di noi potrebbe parlare di un perfetto estraneo, e descrive il suo gesto, inquadrandolo per quel che è, esaminando le possibili motivazioni che potrebbero aver indotto il giovane a quell'ultima determinazione.
Il protagonista è adesso lo strano personaggio, che a tratti pare la ben nota Morte, e la prospettiva è adesso la sua.
L'impostazione del saggio, con le tematiche trattate sono da dieci e lode, ma quando si ha a che fare con il piano narrativo e non discorsivo la faccenda muta.
Alla fine lo strano personaggio confessa di essere il padre del suicida e si allontana senza dimostrare sentimenti di sorta.
Pare difficile, a chi legge, che il padre di un suicida possa intavolare discussioni del genere evidenziato con il figlio spappolato a due metri da sé. Una tale rivelazione mette a dura prova la sospensione dell'incredulità del lettore e quindi il patto narrativo stretto tra autore reale e lettore reale. Io lettore credo a quello che tu scrivi, autore, ma tu autore devi esser coerente e consequenziale. Esiste certo la possibilità che l'autore abbia voluto rendere surreale la situazione, ma in questo modo mi pare che l'intento didattico così forte ed evidente ne venga sminuito.
Avrei preferito, parlo da lettore, che le considerazioni sul suicidio le avesse fatte l'impiegato, vista anche l'introduzione che si soffermava sul suo carattere ombroso e la sua fosca situazione interiore, che così avrebbe avuto un senso nella logica nel narrato. Ossia l'impiegato doveva essere parte attiva delle riflessioni sul suicidio, magari fatte da egli stesso a un collega, fermo come lui a osservare la scena. Da capire poi come si possa interrompere il lavoro in quel caso. Doveva morire dentro l'ufficio perché fosse interrotto il servizio.
So che possono sembrare particolari di poco peso, ma a mio avviso un racconto con una così splendida parte divulgativa dovrebbe essere all'altezza di sé.
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Namio Intile ha scritto: 10/01/2023, 18:05 Belle gatte da pelare ti prendi. E che a mio avviso amplifichi proprio con quella postilla in cui precisi che l'Autore non pensa ciò che scrive. Che l'Autore debba interpretare l'autore è già strano, ma addirittura giustificarsi con quel in nessun caso.
L'autore reale che spiega perché l'autore, che potremmo definire implicito, non pensa, o non pensa più, ciò che scrive.
Il mito di Sisifo di Camus l'ho ben presente, è un saggio sul suicidio, tra l'altro. È un libretto che ho cercato, ma non trovo, come al solito. Camus è uno scrittore particolare, lo sappiamo. Sartre non lo prendeva molto sul serio quando si occupava di filosofia, né tantomeno lo facevano i filosofi veri del tempo. Entrambi, Sartre e Camus, però vinsero il Nobel per la letteratura. Oggi lo danno a Bob Dylan o a Ishiguro, per come siamo messi male. Va beh.
E quindi riprovi a trasporre in racconto un tuo saggio. Di nuovo. Tentativo non eccelso con Alcibiade, va un po' meglio oggi, con il Dilemma. Che poi qual è il Dilemma? Se il suicidio sia un atto riprovevole o meno? Direi che è un atto personale, una pura disposizione del proprio corpo. Corpo che ci appartiene, tanto che pure il codice penale, che è pur sempre il codice Rocco, punisce solo l'istigazione al suicidio e non il suicidio in quanto tale, con tutte le conseguenze del caso.
Quanto al racconto in sé, potrebbe essere ottimo, ma non lo è. Provo ad argomentare. Il protagonista è il nostro impiegato postale che racconta in prima persona ciò che gli è accaduto una mattina mentre era al lavoro. Protagonista e narratore coincidono come la prospettiva da cui guardano entrambi gli avvenimenti. Tutto sembra incentrato sul personaggio che pare il protagonista, le sue ansie, paure, prospettive. E lasci intravedere in lui un lato oscuro che sembra riallacciarsi alla citazione iniziale. Ma il suicidio del giovane cambia le carte in tavola. Compare uno strano personaggio, che ingaggia con l'impiegato un dialogo, che preso si trasforma in un soliloquio in cui quest'ultimo scompare. E questo, a mio avviso, è un errore. Perché indugiare tanto sull'impiegato nella parte iniziale per poi abbandonarlo? Lo strano personaggio parla del suicida come ognuno di noi potrebbe parlare di un perfetto estraneo, e descrive il suo gesto, inquadrandolo per quel che è, esaminando le possibili motivazioni che potrebbero aver indotto il giovane a quell'ultima determinazione.
Il protagonista è adesso lo strano personaggio, che a tratti pare la ben nota Morte, e la prospettiva è adesso la sua.
L'impostazione del saggio, con le tematiche trattate sono da dieci e lode, ma quando si ha a che fare con il piano narrativo e non discorsivo la faccenda muta.
Alla fine lo strano personaggio confessa di essere il padre del suicida e si allontana senza dimostrare sentimenti di sorta.
Pare difficile, a chi legge, che il padre di un suicida possa intavolare discussioni del genere evidenziato con il figlio spappolato a due metri da sé. Una tale rivelazione mette a dura prova la sospensione dell'incredulità del lettore e quindi il patto narrativo stretto tra autore reale e lettore reale. Io lettore credo a quello che tu scrivi, autore, ma tu autore devi esser coerente e consequenziale. Esiste certo la possibilità che l'autore abbia voluto rendere surreale la situazione, ma in questo modo mi pare che l'intento didattico così forte ed evidente ne venga sminuito.
Avrei preferito, parlo da lettore, che le considerazioni sul suicidio le avesse fatte l'impiegato, vista anche l'introduzione che si soffermava sul suo carattere ombroso e la sua fosca situazione interiore, che così avrebbe avuto un senso nella logica nel narrato. Ossia l'impiegato doveva essere parte attiva delle riflessioni sul suicidio, magari fatte da egli stesso a un collega, fermo come lui a osservare la scena. Da capire poi come si possa interrompere il lavoro in quel caso. Doveva morire dentro l'ufficio perché fosse interrotto il servizio.
So che possono sembrare particolari di poco peso, ma a mio avviso un racconto con una così splendida parte divulgativa dovrebbe essere all'altezza di sé.
Caro Namio! Come sempre ti ringrazio dell'attenzione che dedichi a ciò che scrivo.
Non ci sono dubbi che tu abbia ragione: ho fatto del patto narrativo un gran falò. Ne sono perfettamente consapevole e, per questo, me ne assumo tutta la responsabilità. Nel riprendere un testo scritto 25 anni fa avrei potuto operare una drastica revisione, ma - nel rileggere il testo - mi sono riletto dentro. Non ho scelto a caso il mio "protagonista": un padre. Nella sua indifferenza vi ho visto nitidamente il conflitto con il mio di padre: con la sua totale mancanza di empatia nei confronti dei figli.
Ma c'è dell'altro che è uscito fuori. Una volta un amico mi ha detto che lui non si definiva ateo, perché credeva in Dio: solo era convinto che Dio fosse cattivo. Nel reinterpretare questo personaggio onnisciente, che conosce ogni intimido dettaglio del figlio, mi sono reso conto che avevo dato voce a quel Dio "Padre" cattivo, indifferente al destino delle sue creature. Un Dio che ci ha dato un unico comandamento: morire ed essere infelici.
Hai ragione anche sul fatto che un autore non dovrebbe mai giustificarsi per ciò che ha scritto. Va detto, però, che in alcuni casi si sente di poter offendere qualcuno involontariamente, perché si toccano temi controversi su cui è facile pungere un nervo scoperto. In questi casi sorge il bisogno di scusarsi nei confronti di persone magari solo vagamente conosciute, ma con cui si è instaurato un rapporto di stima e di amicizia.
Ma anche in questo caso c'è qualcosa di più: c'è una presa di distanza da una parte di me, che ha pesato fin troppo. A questo Dio cattivo mi oppongo oggi con forza, invocando il mio diritto a vivere ed essere felice.
Per cui, sì, hai ragione su tutto! E' un racconto fragile, disorganico, strampalato, inverosimile, in cui costringo il lettore a sorbirsi le farneticazioni di un Padre cattivo - troppo surreale e grottesco per essere credibile. E alla fine anche deludente, perché mi costringo a ripudiare ciò che ho scritto.
Ma va bene così! Non doveva essere altro che l'ennesima provocazione ed è diventato il mio crocefisso, da cui imploro felicità e perdono.
Un grande abbraccio!
Vorrei essere il mare che si muove per rimanere se stesso e più di tanto non lo sposta il vento. Fragile ma tenace.
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Piano con i crucifige, Domenico. Ce ne fossero come te. Le mie riflessioni sono legate esclusivamente alla struttura del racconto in sé. E sono riflessioni mie, altri hanno apprezzato, quindi può benissimo darsi che sia io a non aver capito nulla. Difendi sempre il tuo lavoro, a prescindere dal risultato, altrimenti ti faranno a pezzi e, a seconda di come sei messo con la tua autostima, saranno guai.
Anch'io ho avuto un padre per nulla empatico, ma lui era fatto così, privo di umorismo, di ironia, anaffettivo fino alle estreme conseguenze.
Da lui non ho avuto mai un incoraggiamento, un complimento, anche solo una direzione. Non mi ha mai toccato, se non per prendermi a cinghiate. Ma usava la cinghia per non adoperare le mani. Ho combattuto una vita contro di lui e lui contro me, contro ogni mia azione. Ho capito tardi il suo spirito sabotatore nei miei confronti, spirito con il quale, ad anni dalla morte, devo fare ancora i conti, sia morali che, purtroppo, materiali, perché mi ha lasciato una quantità di partite aperte con cui ancor adesso faccio i conti.
E forse anche la mia decisione di non essere padre dipende da lui, dal suo portato. Ha talmente assorbito le mie energie che mi sono rifiutato di diventar io padre, per ripetere magari i medesimi comportamenti, in un ciclo senza fine. Sua madre era come lui, e la madre di mia nonna suppongo anche dai racconti postumi. Siamo il portato di chi ci ha preceduto, che lo vogliamo o meno.
Grazie a lui sono lo stronzo di oggi, ma proprio stronzo, ti assicuro. Se devi crucciarti di un padre cattivo, sappi di essere in nutrita e buona compagnia.
Quanto al suicidio. Non avere eredi diretti e un'età non proprio fresca mi ci ha fatto pensare molto. Per quando sarà il momento ho già preso la mia decisione. Non sarà la malattia o la vecchiaia a vincermi, deciderò io. Il suicidio è un atto di libertà, Domenico. L'unico atto forse di libero arbitrio possibile per un uomo come me.
A rileggerti, e non è un' espressione di comodo, quanto un desiderio.

Ti lascio una postilla. Mettilo in gara, fai un benedetto commento e mettilo in gara.
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Se non hai una fede nell'aldilà e neppure nell'aldiqua, il suicidio rimane un atto estremo di libertà, sempre che la decisione non sia dettata da cause esterne. Il fatto che la vita non abbia il minimo senso, tranne nell'atto di vivere in sé, mi pare una conclusione inevitabile, soprattutto partendo dalla constatazione che la vita (cosiddetta) intelligente, ovvero capace di riflettere su se stessa, potrebbe essere semplicemente un incidente dell'entropia.
Mi dispiace di aver letto dei problemi avuti sia da Domenico che da Namio coi rispettivi padri: io sono stato molto più fortunato di loro, e l'unico rammarico è semmai non avere io esternato a sufficienza tutto l'affetto che provavo per il mio, ed ora è troppo tardi.
Il racconto ha tutti i difetti che Namio ha evidenziato in modo inesorabile, tuttavia è scritto così bene che non posso che dare un 5 pieno.
P.S. Caro Namio, i veri stronzi sono quelli che se ne fregano del prossimo, non quelli che si rifiutano di mettere al mondo degli altri (possibili) infelici.
Saluti a tutti
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Andr60 ha scritto: 11/01/2023, 17:52 Se non hai una fede nell'aldilà e neppure nell'aldiqua, il suicidio rimane un atto estremo di libertà, sempre che la decisione non sia dettata da cause esterne. Il fatto che la vita non abbia il minimo senso, tranne nell'atto di vivere in sé, mi pare una conclusione inevitabile, soprattutto partendo dalla constatazione che la vita (cosiddetta) intelligente, ovvero capace di riflettere su se stessa, potrebbe essere semplicemente un incidente dell'entropia.
Mi dispiace di aver letto dei problemi avuti sia da Domenico che da Namio coi rispettivi padri: io sono stato molto più fortunato di loro, e l'unico rammarico è semmai non avere io esternato a sufficienza tutto l'affetto che provavo per il mio, ed ora è troppo tardi.
Il racconto ha tutti i difetti che Namio ha evidenziato in modo inesorabile, tuttavia è scritto così bene che non posso che dare un 5 pieno.
P.S. Caro Namio, i veri stronzi sono quelli che se ne fregano del prossimo, non quelli che si rifiutano di mettere al mondo degli altri (possibili) infelici.
Saluti a tutti
Grazie per il commento e per il voto, nonostante gli evidenti problemi. Personalmente ritengo la vita una forma di resistenza all'entropia breve e fallimentare. E la vita cosciente un estremo e disperato tentativo di dare un senso a questa resistenza, di perpetuarla dopo la scomparsa dell'organismo attraverso l'azione (vita activa di Hannah Arendt).
Un abbraccio!
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Francesco Pino ha scritto: 11/01/2023, 18:11 Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai santi, Dio tra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte
che all'odio e all'ignoranza preferirono la morte.
(Fabrizio De Andrè - Preghiera in gennaio)

Testo scritto 25 anni fa... L'approccio di noi spettatori cambia con l'età, non è cosi'? Quando ero ragazzo mi colpirono molto due suicidi "eccellenti", entrambi avvenuti nel 1994: Kurt Cobain e Agostino Di Bartolomei. Perché questi due idoli delle folle si erano tolti la vita? cosa gli mancava? Nel recente passato abbiamo appreso dei suicidi di altri due idoli delle folle: Chester Bannington e Cris Cornell, ma ora quella domanda non me la faccio più. Provo piuttosto dispiacere, perché le angosce più profonde non risparmiano nessuno.

La cosa che mi è piaciuta meno di questo tuo lavoro (la sola cosa che non mi è piaciuta) è che a un certo punto dai una spiegazione, attraverso le parole del padre, al suicidio del ragazzo. Parli di quello che non riusciva a sopportare, del suo rapporto con la ragazza... esci dal generico. C'è chi si uccide perché ha perso il lavoro, chi lo fa perché ha un male incurabile, chi ha perduto il suo amore, chi perché viene bullizzato a scuola e ancora, ancora tanti motivi. Nella tua storia c'è la realizzazione dell'inutilità del vivere la vita, andava già molto bene cosi'.
Le riflessioni del protagonista al bar, soprattutto quelle sull'acquario, andavano forse riprese in qualche modo verso la fine del racconto, non trovi? Sono pensieri che vogliono comunicare uno stato d'animo: sono gli stessi o no dopo l'incontro con quell'uomo?

E' un racconto pieno di considerazioni lucide, ci si ferma a riflettere praticamente ogni due righe e si potrebbe esprimere un'opinione su ognuna di esse. Ma poi quanto diventerebbe lungo questo commento? :) Bravo Domenico.
Ciao Francesco! Hai ragione sul fatto che il personaggio iniziale si vada letteralmente nascondendo dietro la figura del Padre. E' un racconto che si conclude bruscamente, lì dove avrebbe meritato un ulteriore passo per chiarire meglio il ruolo di questa figura dell'impiegato delle poste, che resta appesa - senza esagerazione - come un pungiball nelle mani di questa divinità malvagia.
Riguardo al personaggio del figlio ho voluto scendere nei particolari della sua vita, perché - contrariamente a suicidi che sembrano avere una causa esterna (lutti, perdita del lavoro, malattie, ecc.) - non sembra avere alcuna ragione concreta: è puro malessere esistenziale. In questo senso è assurda, incomprensibile.
Grazie mille come sempre.
Un abbraccio!
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Una lunga dissertazione filosofica travestita da racconto (l’hai detto tu stesso), nonostante tu abbia provveduto a creare un contorno letterario di quotidianità fornendoci le coordinate esistenziali del narratore, la sua professione e le sue attitudini. Nella seconda parte tutto questo scompare, non ha più rilevanza, a fronte del monologo del nuovo arrivato.
Il signore di nero vestito ha le sembianze di un Woland, improbabile nel ruolo di padre del suicida (e in questo sono d’accordo con Namio), come rivela alla fine del racconto, un coup de théâtre inutile, anzi, dannoso secondo me, all’economia della storia, avrei preferito avesse conservato quell’aura di mistero tale da renderlo un’entità metafisica. Non che voglia suggerirti delle modifiche, la scelta è tua, ti dico solo la mia impressione.
Ho un caro amico la cui esistenza si potrebbe sovrapporre a quella di Cesare: un ragazzo brillante e fin troppo sensibile, con tutti i presupposti per un’esistenza di successo e che, invece, è sprofondato in una spirale di depressione e autodistruzione, senza arrivare alle estreme conseguenze del tuo personaggio ha attraversato un lungo percorso in centri di igiene mentale e dopo tanti anni sembra ne sia uscito. Quindi ti faccio i complimenti per il racconto che tocca delle mie corde piuttosto recettive.
Al netto delle mie note la tua vena è sempre rimarchevole, oggi come all’epoca in cui l’hai scritto.
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
https://chiacchieredistintivorb.blogspot.com/
Intervista su BraviAutori.it: https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =76&t=5384
Autore presente nei seguenti ebook di BraviAutori.it:
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Autore presente nei seguenti libri di BraviAutori.it:
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Roberto Bonfanti ha scritto: 17/01/2023, 19:43 Una lunga dissertazione filosofica travestita da racconto (l’hai detto tu stesso), nonostante tu abbia provveduto a creare un contorno letterario di quotidianità fornendoci le coordinate esistenziali del narratore, la sua professione e le sue attitudini. Nella seconda parte tutto questo scompare, non ha più rilevanza, a fronte del monologo del nuovo arrivato.
Il signore di nero vestito ha le sembianze di un Woland, improbabile nel ruolo di padre del suicida (e in questo sono d’accordo con Namio), come rivela alla fine del racconto, un coup de théâtre inutile, anzi, dannoso secondo me, all’economia della storia, avrei preferito avesse conservato quell’aura di mistero tale da renderlo un’entità metafisica. Non che voglia suggerirti delle modifiche, la scelta è tua, ti dico solo la mia impressione.
Ho un caro amico la cui esistenza si potrebbe sovrapporre a quella di Cesare: un ragazzo brillante e fin troppo sensibile, con tutti i presupposti per un’esistenza di successo e che, invece, è sprofondato in una spirale di depressione e autodistruzione, senza arrivare alle estreme conseguenze del tuo personaggio ha attraversato un lungo percorso in centri di igiene mentale e dopo tanti anni sembra ne sia uscito. Quindi ti faccio i complimenti per il racconto che tocca delle mie corde piuttosto recettive.
Al netto delle mie note la tua vena è sempre rimarchevole, oggi come all’epoca in cui l’hai scritto.
Ciao Roberto! Il tuo riferimento a Il maestro e Margherita è molto pertinente: un romanzo che ho letto per la prima volta più o meno negli anni in cui ho scritto questo racconto e che anche inconsciamente mi ha molto influenzato. Lo considero, insieme a una decina di altri romanzi, una pietra miliare della mia formazione.
Purtroppo sul coup de théâtre non posso che darti ragione. D'altra parte - come accennato a Namio - ci sono dei motivi psicolgici che mi hanno portato a questo finale improbabile. Accidenti! Mi vien voglia di scriverlo con la maiuscola quel Padre, per dargli tutta un'altra connotazione.
Pazienza!
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Ciao Domenico, proverò a esprimere il mio parere al tuo testo che sicuramente suscita interesse in quanto parla del suicidio, dei suicidi. Ti dirò una cosa, tu scrivi - facendo parlare il padre - che andando al funerale di queste povere persone coloro che accompagnano non sono mai tristi ma sdegnati e rabbiosi, senza mai manifestare pietà (allora io faccio eccezione...). Ti dirò un'altra cosa, quando ero piccola, tanti anni fa, la Chiesa, le leggi ecclesiastiche, proibivano ai suicidi di ricevere le funzioni religiose, di avere il funerale in chiesa, di essere portati in chiesa. Ciò, nonostante la mia tenera età mi faceva orrore, mi pareva un atto di ingiustizia insopportabile, mi chiedevo come fosse possibile che la Chiesa non aprisse le braccia a coloro che avevano smarrito, con così tanta disperazione, l'istinto più forte che l'essere umano possiede: quello della sopravvivenza. Mi pareva, l'atto, la punizione, inaccettabile: da parte di chi predicava, diciamo bene...
Espressi a mio padre il mio sdegno, ma lui, da quasi bigotto che era, mi rimproverò dicendo che non spettava a me, a noi, giudicare la chiesa, e stop, venni zittita. Ora dopo questa lunga premessa di fatti miei, vengo al tuo racconto. Devo dirti che ho trovato alcune cose slegate tra di loro anche se tutte volte a far intendere la noia e la monotonia della vita, a cominciare dai pesci rossi. Ho trovato eccessivamente dilungate le spiegazioni date sull'esistenza del suicida dal padre: appesantiscono il racconto e, perdonami, il lettore. Non mi è piaciuta la descrizione del morto sull'asfalto con la fuoriuscita del cervello dal cranio (ovvio direi dal cranio...). Si poteva far intendere la scena in maniera più soft.
Ti dirò che personalmente, e da sempre, coloro che si suicidano mi provocano un infinito amore e tanta tristezza, per ciò che ho spiegato appena sopra.
Concludo: credo ci voglia più coraggio a togliersi la vita che a vivere. Comunque il tuo resta certamente un buon racconto; bravo, complimenti!
P.S. = Il tema del suicidio è abbastanza sentito in questo periodo, ho visto ieri l'ultimo film di Genovese, (che non mi è piaciuto) parla proprio di ciò...
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Laura Traverso ha scritto: 30/01/2023, 19:41 Ciao Domenico, proverò a esprimere il mio parere al tuo testo che sicuramente suscita interesse in quanto parla del suicidio, dei suicidi. Ti dirò una cosa, tu scrivi - facendo parlare il padre - che andando al funerale di queste povere persone coloro che accompagnano non sono mai tristi ma sdegnati e rabbiosi, senza mai manifestare pietà (allora io faccio eccezione...). Ti dirò un'altra cosa, quando ero piccola, tanti anni fa, la Chiesa, le leggi ecclesiastiche, proibivano ai suicidi di ricevere le funzioni religiose, di avere il funerale in chiesa, di essere portati in chiesa. Ciò, nonostante la mia tenera età mi faceva orrore, mi pareva un atto di ingiustizia insopportabile, mi chiedevo come fosse possibile che la Chiesa non aprisse le braccia a coloro che avevano smarrito, con così tanta disperazione, l'istinto più forte che l'essere umano possiede: quello della sopravvivenza. Mi pareva, l'atto, la punizione, inaccettabile: da parte di chi predicava, diciamo bene...
Espressi a mio padre il mio sdegno, ma lui, da quasi bigotto che era, mi rimproverò dicendo che non spettava a me, a noi, giudicare la chiesa, e stop, venni zittita. Ora dopo questa lunga premessa di fatti miei, vengo al tuo racconto. Devo dirti che ho trovato alcune cose slegate tra di loro anche se tutte volte a far intendere la noia e la monotonia della vita, a cominciare dai pesci rossi. Ho trovato eccessivamente dilungate le spiegazioni date sull'esistenza del suicida dal padre: appesantiscono il racconto e, perdonami, il lettore. Non mi è piaciuta la descrizione del morto sull'asfalto con la fuoriuscita del cervello dal cranio (ovvio direi dal cranio...). Si poteva far intendere la scena in maniera più soft.
Ti dirò che personalmente, e da sempre, coloro che si suicidano mi provocano un infinito amore e tanta tristezza, per ciò che ho spiegato appena sopra.
Concludo: credo ci voglia più coraggio a togliersi la vita che a vivere. Comunque il tuo resta certamente un buon racconto; bravo, complimenti!
P.S. = Il tema del suicidio è abbastanza sentito in questo periodo, ho visto ieri l'ultimo film di Genovese, (che non mi è piaciuto) parla proprio di ciò...
Cara Laura! Purtroppo - lo ammetto senza esitazione - sono stato ben poco attento al lettore. E' probabilmente una cosa che ho scritto, a suo tempo, più per me stesso che per un possibile fruitore.
D'altra parte il mio soffermarmi su cose apparentemente slegate ha - come giustamente scrivi - lo scopo di immergere chi legge nella noia e nella monotonia della vita, così come la descrizione morbosa del ragazzo sull'asfalto deve produrre l'effetto nauseante della coscienza dell'assurdo che irrompe nell'esistenza.
Può non sembrare, ma "c'è una logica in questa follia".
Cmq anch'io, come te, ho un profondo rispetto e compassione per chi si toglie la vita, ma probabilmente se lo facesse una persona a me cara sarei più pieno di rabbia che di comprensione. Un mio amico si è suicidato diversi anni fa - lui era affetto da una forma di depressione molto forte - e i miei sentimenti al suo funerale non erano di commozione, ma di colpa e sconforto, perché avevo promesso di stragli più vicino e non c'ero riuscito. Posso solo immaginare come un genitore possa vivere il senso di impotenza davanti al lento allontanamento dalla vita di un figlio. Per questo, a mio giudizio, il funerale di un suicida dev'essere il crogiuolo delle più basse emozioni.
Grazie infinite per il tuo commento. Un abbraccio!
Vorrei essere il mare che si muove per rimanere se stesso e più di tanto non lo sposta il vento. Fragile ma tenace.
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Messaggio da leggere da MChiara »

Il racconto mi è piaciuto molto anche se trovo inquietante la relazione tra padre e figlio, la loro capacità di conoscere i rispettivi pensieri e azioni senza però potersi né aiutare né comunicare. Alla fine sembra che tra il padre e il figlio ci sia una completa identificazione, quasi come se il padre parlasse di se stesso e in qualche modo invidiasse e nello stesso tempo approvasse il figlio.
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Marino Maiorino
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Domenico,
personalmente non mi sono sentito offeso. Il racconto è abbastanza "intenso", ma preferisco il suo finale reale e saperti a scrivere qui.
Ho notato solo uno strano passaggio da un'apparente condanna iniziale da parte dell'uomo in nero a un elogio nella parte finale. Questo sì, mi ha disturbato, soprattutto considerando che l'uomo in nero era il padre del suicida, soprattutto considerando le prime riflessioni su chi resta. Lui resta e riesce a elogiare il figlio suicida? Mi vien da pensare che qui c'è un altro nodo irrisolto, quello di un rapporto mai chiarito col padre che nel racconto è espresso nella speranza che un giorno il padre possa comprendere il figlio.
Condivido molte delle valutazioni qui espresse sul suicidio. Personalmente, evaderei da una vita nella quale non ho più nulla da desiderare. Il condizionale è una forma retorica.
A latere, ho gustato il doppio punto di vista uomo/pesce d'acquario. Speravo solo avresti fatto risaltare di più il fatto che anche noi siamo pesci d'acquario che nella loro vita compiono migliaia di volte, apparentemente senza senso per chi non sia anch'egli un pesce d'acquario, sempre lo stesso giro.
A presto!
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Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

Marino Maiorino ha scritto: 18/03/2023, 9:59 Domenico,
personalmente non mi sono sentito offeso. Il racconto è abbastanza "intenso", ma preferisco il suo finale reale e saperti a scrivere qui.
Ho notato solo uno strano passaggio da un'apparente condanna iniziale da parte dell'uomo in nero a un elogio nella parte finale. Questo sì, mi ha disturbato, soprattutto considerando che l'uomo in nero era il padre del suicida, soprattutto considerando le prime riflessioni su chi resta. Lui resta e riesce a elogiare il figlio suicida? Mi vien da pensare che qui c'è un altro nodo irrisolto, quello di un rapporto mai chiarito col padre che nel racconto è espresso nella speranza che un giorno il padre possa comprendere il figlio.
Condivido molte delle valutazioni qui espresse sul suicidio. Personalmente, evaderei da una vita nella quale non ho più nulla da desiderare. Il condizionale è una forma retorica.
A latere, ho gustato il doppio punto di vista uomo/pesce d'acquario. Speravo solo avresti fatto risaltare di più il fatto che anche noi siamo pesci d'acquario che nella loro vita compiono migliaia di volte, apparentemente senza senso per chi non sia anch'egli un pesce d'acquario, sempre lo stesso giro.
A presto!
Ciao Marino! Grazie mille per il commento. Anch'io sono contento di essere qui a scriverti (e a fare mille altre cose che hanno reso significativa la mia vita).
Riguardo alla tua prima osservazione credo tu ti riferisca al fatto che inizialmente il protagonista rimprovera il ragazzo per il modo in cui si è suicidato. In questo caso il rimprovero si focalizza sulla maniera di togliersi la vita, non sul togliersi la vita in generale. Poi è vero, penso che tutto il racconto trasudi un nodo irrisolto: un rapporto tra un Padre che sembra usare il Figlio come cavia per un esperimento e un Figlio che si è lasciato sopraffare da relazioni familiari deteriori fino alle estreme conseguenze. Metto le parentele in maiuscolo, perché in fondo mi piace giocare sull'idea che tutto il racconto parli di altro: di una Padre e un Figlio che hanno una natura divina e uno costringa l'altro all'estremo sacrificio (ma il Figlio, suicidandosi, lo respinge o lo accetta questo sacrificio? Boh!).
Non ho insistito troppo sul paragone uomo/pesce d'acquario, perché ho dato per scontato proprio il senso di quella scena, che tu d'altra parte hai colto. Spero anche gli altri.
Un abbraccio!
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Re: Dilemma

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Interessante il Padre e Figlio, Domenico, grazie per gli spunti.
Sull'uomo/pesce d'acquario la mia curiosità andava piuttosto nel senso di: se Domenico esplicitasse l'inversione di ruoli, come lo farebbe? Immaginavo una sola breve frase, o addirittura una sola parola rivelatrice, di quelle che al tempo stesso fanno sorridere, riflettere e lasciano un po' di stucco.
Ma ripensandoci meglio sarebbe stata fuori posto: il momento climatico avviene subito dopo e una doppia cesura non era conveniente.
Un saluto.
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Re: Dilemma

Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

Nel dare una sistemata al testo ho colto l'occasione per rivedere un po' il finale e renderlo meno "brutale". Ringrazio tutti coloro che con le loro critiche costruttive, mi hanno dato modo di migliorare il racconto.
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