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Spazio dedicato alla Gara stagionale d'inverno 2022/2023.

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Namio Intile
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Hai chiuso la porta dietro di te e preferisci le scale all’ascensore: guadagni l’uscita e ti ritrovi fuori.
Ci vivi ormai da parecchi anni, a Lione, e ci lavori, al consolato generale d’Italia in Rue du Commandant Faraux, proprio a due passi dall’ingresso del Parc de la Tête d’Or.
I soliti amici in vena di buone azioni una sera ti hanno presentato Virginie, la donna poi divenuta tua moglie, e per la quale hai detto addio all’Italia.
Di figli non ne sono arrivati, siete rimasti soli, e a te è rimasta l’abitudine di tornare a Milano una volte al mese, per non lasciare soli a lungo i tuoi genitori purtroppo avanti con gli anni.
Sei un viaggiatore, ma allergico agli aerei, la cui unica alternativa all’automobile per spostarsi tra le due città è il Freccia Rossa Lione Milano in partenza dalla stazione di Part Dieu alle 17.20 con arrivo a Milano Centrale poco dopo le ventidue.
Occupi sempre un posto defilato sulla vettura centrale, vicino al finestrino lato marcia: sistemi la giacca nel posto accanto al tuo con la speranza che il convoglio non si riempia mai abbastanza da indurre qualcuno a pregarti di toglierla.
«È libero?» Ti domanda, poco prima della partenza, una voce femminile, piuttosto acuta ma gradevole.
Volgi leggermente il busto, alzi lo sguardo, e inquadri una donna, una ragazza di sì e no venticinque anni: ti pare abbia un aspetto piacevole ma degli occhi tristi, uno sguardo distante ma non freddo, e noti la cascata di capelli castani cadere sulle spalle coperte dal cappotto scuro chiuso anche sul davanti, a camuffare le forme femminili.
Ti sforzi a replicare un sì e abbozzi uno scarno sorriso a significare: trovi dei sedili liberi in cui starai più comoda avanti.
Ma lei non sembra accorgersi del tuo tacito invito, china invece il capo per un cenno di ringraziamento, si sfila il soprabito e ti siede accanto: mentre sentori di mughetto e frutti di bosco ti dilatano le narici ti consoli pensando che tra le tante probabilità lei è forse il male minore.
Rincuorato da quel pensiero ti accucci nel tuo angolo e riprendi a leggere, sollevato dal rinnovato silenzio di quella presenza indesiderata.
Dopo neanche un quarto d’ora la confusione scema in un ronzio confuso, dal finestrino osservi le banchine accelerare e, abbandonato il riparo della stazione, la campagna sostituirsi alla città.
Quando viaggi in treno il tempo si trascina come un’onda lenta e vischiosa, una pasta di vetro liquida sulla cui superficie si notano miriadi di scintille che attraggono la tua attenzione e alterano i significati, mentre in profondità ti appare il nucleo, scuro e inquietante, motore di ogni movimento. Si succedono così le ore in quella cappa nebbiosa e gelida che alternamente sale dalla terra e scende dal cielo.
Concentrato sulle tue pagine di carta, nemmeno ti accorgi della varia umanità che tutt’intorno a te parla al telefono o gli picchietta sopra in maniera compulsiva.
Tutti quanti, tranne te e la tua vicina.
«Ne vuole?» Ti rivolge la parola, e ti offre una Alpenliebe.
Ti volti e, alla tenue luce dei diffusori notturni, incroci occhi chiari che sembrano più chiari e un bel viso agitato da reconditi pensieri.
La bellezza, lo hai sempre pensato, in una donna giovane sarebbe oscena se non fosse per quell’alone di tristezza capace di mutarne i tratti e fartela apparire attraente.
«Mi chiamo Clelia» si presenta, senza neanche tentare un sorriso.
Ti porge la mano, e la stringi.
Una delle conseguenze di un viaggio in treno, ne sei ben consapevole, è quello di agevolare gli incontri, alle volte piacevoli, altre meno.
«E io Olmo» rispondi.
«Olmo?»
Sai bene quante domande inneschi quel nome, breve al punto da essere ingombrante, sì da indurti a conservare pronte quel numero sufficiente di risposte tra cui selezionare la più comoda a soddisfare le ineguali categorie di richiedenti.
«Chi amava Novecento? Il papà o la mamma?»
Stupito, le concedi un sorriso: si contano sulla punta delle dita di una mano le persone in grado di intuire la fonte al primo colpo.
«Che poi Olmo è un omaggio alla Rivoluzione Francese» sottolinea lei, e neanche questa volta riesce a sorridere.
La scruti con la curiosità di chi nota un particolare nuovo in un paesaggio che si credeva di conoscere.
«Sì, Bertolucci non l’ha scelto a caso.»
«Fai spesso questo viaggio?» Ti domanda passando al tu.
«Spesso» le rispondi.
Ancora preferisci scoraggiare la continuazione di quella conversazione.
«Anche tu odi gli aerei, vero?»
Annuisci e increspi le labbra in una smorfia simile a un sorriso.
«Non hai voglia di parlare, e ti capisco» Quasi approva e incoraggia il tuo riserbo. «Incontro sempre qualcuno che non riesce a far a meno di raccontarti la propria vita» ti dice, con un accenno di indifferenza più che di insofferenza. «Prima di arrivare a Chamonix già conosci vita, morte e miracoli.»
«Molto spesso, hai ragione» rispondi, e decidi di chiudere il volume in una mano per poterti girare a tre quarti per poterla guardarla come lei ti guarda.
«Per quale ragione, secondo te?» Ti domanda lei.
«La maggior parte della gente ha paura del silenzio» provi a rispondere, «lo considerano un’assenza di comunicazione e non sanno come gestirla. Forse non considerano che si può comunicare nei più disparati modi. Anche stando zitti.»
«Il silenzio o la parola» la senti borbottare, e subito ti incalza. «E non credi invece che colgano l’opportunità di sfogarsi senza il timore di esser giudicati? Magari di essere capiti, consolati, anche se per un breve tratto?» E per un attimo i suoi occhi ti sembrano farsi lucidi.
«Fa parte del medesimo desiderio di comunicazione» dici, intransigente come tuo solito, nel tentativo di incasellare quella considerazione in uno schema a te congeniale: pur disprezzandoli tutti gli schemi, pur detestandole tutte le categorie, convinto come sei che non esista metafisica che non si lasci trattare come il più sordido angolo del mondo.
Lei annuisce riluttante, sconfitta o forse senza voglia di controbattere, e poggia le spalle allo schienale, di nuovo in silenzio.
«Una buona lettura?» Riprende dopo un po’, di nuovo provando a sortire dal suo inconoscibile lago di tristezza.
Le mostri la copertina, con il titolo dell’opera e il nome dell’autore a lettere argentee.
«Sei un insegnante di filosofia» le viene naturale chiederti, con voce spenta.
«Sono un funzionario del consolato generale di Lione.»
Ti concede uno sguardo meno distratto.
«Cosa cerchi allora, in un testo del genere… la verità?»
Si fa beffe di te, pensi, con una domanda dal sapore di sfida.
«A te non interessa la verità?» Le domandi a tua volta, forse per evitare di dovere la risposta.
«Anche una persona poco attenta a certe cose come me sa che di verità ne esistono tante, e sono sempre l’una contro l’altra. Finché non lotteranno tra loro non si saprà dov’è la menzogna» dice, e ti spiazza, ti costringe a guardarla e a riflettere.
Ma tu sai perfettamente che non è la verità lo scopo della filosofia. La verità è il terreno infido della religione, delle ideologie, o della scienza.
Eviti di dirlo, la filosofia è profetica, sai bene, ed è l’unica arma a disposizione per sottrarsi all’oggettivazione del mondo.
Clelia ti sorride senza voltarsi, socchiude gli occhi e ti sembra provare ad addormentarsi.
Con lei il mondo non ha ancora vinto, pensi, lei sta ancora lottando.
Il treno oltrepassa Bourgoin e punta verso Sudest in direzione di Chambéry. Si fa strada nella nebbia fitta e hai l’impressione di avanzare in uno spazio in apparenza vuoto, senza dimensioni, senza stelle, senza direzioni.
«Dove siamo?» Ti domanda dopo un’ora.
Il treno si è fermato e una zaffata di freddo gelido entra nella carrozza dalle porte aperte.
«Saint Jean de Maurienne. Stanno scendendo dei passeggeri.»
«È rimasta quasi vuota» osserva lei, quasi contrariata, mentre si guarda intorno.
Scrolli le spalle e non ritieni necessaria una risposta.
«Sei sposato da molto?» Ti interroga, e questa volta si gira verso di te, di nuovo alla ricerca dei tuoi occhi avvolti in una penombra color arancio. «Ho visto l’anello al dito» prova a giustificare la sua invadenza con un’ammissione di colpa.
«Quasi vent’anni.»
«E non ti pesa vivere insieme alla stessa persona da tanto tempo?»
«Abbiamo imparato a non farci del male» ti limiti a precisare.
«Non è un granché come dichiarazione d’amore» ti dice, con un tono che sa di rimprovero.
«Alla tua età si cerca l’amore romantico, o la passione travolgente: alla mia riuscire a prendersi cura l’uno dell’altra è già un successo.»
«E la filosofia? Cos’è, provi a dare un senso alla tua vita?» Cambia argomento, ma non il suo sarcasmo.
«Al contrario» decidi di esser schietto. «Mi è servita a comprendere l’inutilità della ricerca di ogni senso» ma te ne penti, come se, con quel particolare, ti sia spinto oltre, a disvelare una parte di te fino a quel momento ritenuta inadatta a essere mostrata.
Lei scuote la testa, la sua espressione non ti nasconde un moto di disapprovazione. «Io ho sempre pensato che per ben vivere fosse fondamentale dare un senso a quel che si fa» ti dice a voce più alta, e non capisci perché abbia perduto la pazienza. «Sai, sin da piccola ho creduto fosse mio dovere progettare ogni passo, soppesare ogni conseguenza… proprio per poter dare un senso alla mia esistenza. Dare un senso alla vita dà un senso anche alla morte» aggiunge.
«Così ci raccontano, hai ragione» ammetti.
Potresti raccontarle che siamo liberi solo in apparenza, che sin da bambini siamo addestrati ad agire e pensare in un determinato modo. Potresti dirle che non esiste il libero arbitrio, ma unicamente le limitate possibilità offerteci dall’ambiente in cui ci ritroviamo a nascere e a vivere, l’unico modo in cui sia possibile ogni nostro fare. Oppure che sin dalla prima infanzia ci viene mostrato ciò che è giusto e sbagliato, la necessità di un nesso di causa ed effetto per ogni evento, insieme a ciò che si deve fare e non, all’imprescindibilità dell’origine per ogni fatto: che la nostra vita è guidata da una bussola interiore pronta a indicarci la direzione e a spingerci a decidere. Ma a cosa servirebbe? E ripieghi per la soluzione che ti appare più diplomatica.
«Ciascuno di noi cerca la propria strada e tenta di dare un senso alla propria vita: riuscirci dimostra a se stessi di aver speso bene i propri talenti. Ma che sia proprio questa ossessiva ricerca di senso a indurci a non riflettere sulla vera essenza dell’esistenza? Forse cercano un senso gli animali per vivere? O il cielo sopra di noi, la terra sopra cui camminiamo? Eppure, a prescindere da qualunque senso possiamo attribuirgli, sono per noi insostituibili. Solo l’uomo pensa al significato: con la certezza che egli stesso debba la propria esistenza a qualche magnifica ma nascosta ragione.»
«Quindi per te vivere o morire, non fa nessuna differenza?» Ti accusa con livore.
«Non ho detto questo» ti difendi, «ma l’esatto contrario. Proprio perché una direzione non esiste la nostra strada, qualunque essa sia, è unica e preziosissima. Non solo la mia vita, ma tutta la vita. E non solo la vita, ma tutto ciò che esiste invece di non esistere. Mentre chi cerca un senso attribuisce valore solo a ciò che si trova all’interno di quel ristretto orizzonte, per negare tutto il resto. Ecco, la ricerca di senso è un atto di negazione, in cui ciò che sta al di fuori di quel perimetro di significato non è degno di esistere. E se quel baluardo cade, come oggi spesso avviene, allora nulla ha più senso e la tentazione di negare qualsiasi cosa diventa prorompente, per rimanere preda del nichilismo più assoluto.
Lei ti guarda con aria interrogativa.
«Perdonami, Olmo, ma sembrano parole da libro scritto. La realtà è… se ti dicessero che tra un anno devi morire, cosa faresti? Non proveresti a dare un senso a quanto ti rimane da vivere?»
La guardi perplesso e decidi di stare al gioco.
«Quello è un altro paio di maniche: scrollarsi di dosso tutte le sovrastrutture per provare a vivere quanto rimane in modo autentico, non condizionato e non controllato dalle necessità imposte dall’esterno, da quella rete di rapporti che chiamiamo società.»
Ti fa cenno di continuare.
«Questo sentimento, di esser costretta a vivere una vita che non t’appartiene, senza libertà, condizionata dalle scelte altrui, io lo capisco. Perché oggi non è richiesto nessun atto specifico di devozione, ma è presupposto un assenso implicito, e fideistico, all’ordine sociale. Però, ecco, se tu fossi al termine della tua vita, forse potresti percepire come infondate e inutili queste istanze sociali, delle costrizioni che ti impediscono di vivere la tua vita secondo le tue personalissime esigenze. Siamo tutti degli iniziati alla fine e forse per essere liberi bisognerebbe rinunciare a ogni rappresentazione della realtà, a ogni valore, e riconoscere come imposta ogni costruzione sociale. Prima della libertà di scelta viene quella di comprendere.»
E ti decidi a farla tu una domanda.
«Dimmi allora, qual è il senso della vita per te?»
Lei ti guarda con fastidio.
«Mi sono laureata in medicina, ho gli esami di specializzazione a breve. La mia vita è stata finora soltanto studio, impegno, rinunce. In vista di un bene più grande, per costruirmi una posizione e ricambiare i sacrifici dei miei genitori. È un momento davvero no, scusami» ti rivela turbata, con voce sottile, mentre lo sguardo si flette.
«Problemi di cuore?» Provi a stemperare la tensione percepita nella voce di lei.
«Si potrebbe anche metterla così...»
E ti sembra che attenda una tua replica.
Ma hai appreso a trincerarti dietro il tuo riserbo, non ti va per nulla di perderti tra problemi familiari, o angosce esistenziali di una perfetta estranea.
Nel duello tra opposte visioni vince il silenzio e vedi lei rintanarsi sotto quel cappotto a farle da coperta.
La imiti, e al risveglio ti accorgi di aver oltrepassato il tunnel del Frejus. La neve abbondante, ai bordi della ferrovia, riflette il candore della luna che illumina un paesaggio fitto di montagne e boschi coperti dal silenzio del vento. Viaggiare in treno ti permette di godere del paesaggio. Senti la mano di Clelia cercare la tua, imbarazzato ricambi la stretta con ambe le mani, e le accarezzi finché non senti la sua ansia scomparire.
«Stai meglio?» Le chiedi dopo che il convoglio ha iniziato la sua discesa verso Torino.
«Ho lasciato il mio ragazzo» si giustifica.
E scopri la luna a colorare le sue lacrime.
«Avrai avuto dei buoni motivi» provi a confortarla.
«Non c’era altra via» ti confessa. «Ma è stato doloroso. Straziante. Come se avessero strappato una parte di me.»
«Da come parli sembra che tu ne sia ancora innamorata.»
«Ci si confida con gli estranei perché non ti giudicano» ti ripete quanto prima ti aveva accennato, quasi un invito a se stessa a continuare.
Di nuovo si stringe al tuo braccio, come una bambina spaventata.
«Io sto morendo» ti rivela.
E vieni percorso da un brivido.
«Tutti moriamo» provi a stemperare quell’annuncio con un gioco da sofisti.
«Ho un tumore alla ghiandola lacrimale» ti rovescia addosso. «Un brutto melanoma. È raro, un caso ogni milione di persone, mi hanno detto. Come vincere la lotteria, ma al contrario. Non è operabile, né trattabile. Non arriverò all’estate è la mia condanna.»
La odi con tutto se stesso per quella confessione, ma l’abbracci d’istinto e la stringi forte a te.
A Torino Porta Susa il treno si ferma per qualche minuto, pochi i passeggeri a scendere e ancora meno a salire.
«C’è un vagone ristorante in coda» le proponi.
Entrate abbracciati nell’ultima carrozza in cui ti sembrano radunati i pochi viaggiatori del convoglio.
«Prendi qualcosa di forte» le consigli, come se fosse un ordine.
«Di solito non bevo» si confida ancora. «Figurarsi con un estraneo» aggiunge, e quella parola quasi le si strozza in gola.
«Non esiste la possibilità che si siano sbagliati?»
«Sono un medico, Olmo. Tre diverse diagnosi, ma tutte uguali. Che faccio adesso?»
È quasi un’implorazione, e ancora una volta ti sbalordisce.
«Da quando mi hanno dato la notizia mi sorprende non riconoscere in me alcun sentimento… forse è questo il destino: sapere quello che succederà, sapere che non c’è nulla che lo possa evitare e restarsene tranquilli, a guardare, come semplici spettatori dello spettacolo del mondo e intanto immaginare che sarà questo il mio ultimo sguardo sul mondo.»
Frughi alla ricerca di una risposta onesta, pure se scontata.
«Vivi, Clelia. Meglio che puoi. Il più intensamente possibile» riesci solo a dirle.
«L’ansia m’impedisce persino di respirare. E nessuno sa nulla. Non il mio ragazzo, non i miei genitori. Solo a te ho avuto il coraggio…»
Ti senti perso, indifeso, meschino per le vaghe farneticazioni di prima.
«Stai tornando per dirglielo?»
«No. Sono venuta a salutarli, per l’ultima volta.»
Le afferri la mano. «Che cosa dici, Clelia? Non puoi farlo, non è giusto» e subito te ne penti.
«Ho già deciso. Aiutami ad affrontarlo, puoi farlo?»
«Perché io? Perché a me questo peso?»
«Perché lo puoi sopportare» ti dice senza esitare.
La senti stringersi a te, forse prova a farsi coraggio col calore della tua presenza.
«Non ti lascio sola, quando arriviamo ti accompagno io dai tuoi» le dici, quando Milano è ormai alle porte.
Ci rifletti, inizi a parlare poi ti fermi, poi ricominci ancora.
«Anzi, ti aiuterò a dar loro questa notizia» le proponi senza incertezze.
«No» ti dice lei, e si allontana da te, adirata, incupita. «Non posso dar loro questo dolore. Ma non capisci? Io sono la loro unica figlia. Li voglio vedere, per l’ultima volta, felici.»
«Ma cosa dici, Clelia? Non puoi portare questo fardello. Sono tuo padre e tua madre, devi permetter loro di vivere questi mesi con pienezza insieme a te, e di farlo anche tu. Anche con il tuo ragazzo hai sbagliato. Chiamalo e raccontagli la verità.»
«Non permetterti di dirmi ciò che devo fare» la senti ruggire, si divincola, si alza e si allontana da te. La segui e, quando siete tornati alla vostra carrozza, la fermi per un braccio, le stringi le spalle.
«Non sempre si può scappare, Clelia. Solo in apparenza è la via più indolore.»
La donna ti guarda piena di rabbia, e poi crolla in un pianto dirotto tra le tue braccia.
«Non ce la faccio» la senti singhiozzare. «Lasciami andare. Non dicevi prima che dobbiamo esser liberi di scegliere? Lasciami scegliere, allora. E va’ via. Ho sbagliato ad aprirmi, a coinvolgerti. Fa’ decidere a me come gestire la mia vita. O le tue erano solo parole?»
Ti fermi, e per un momento accarezzi l’idea di liberarti di quel fardello, di lasciarla libera al suo destino.
«Ma tu non sei libera, Clelia. Non ti permetterò di rinchiuderti in una prigione di menzogne. Non ora.»
Quando arrivate Clelia ti indica i suoi genitori da lontano, la attendono sorridenti, ti sembrano una coppia felice e affiatata e persino più giovani di te.
Ti chiedi cosa possa significare ricevere una notizia di quel genere dalla propria figlia.
«Clelia, è successo qualcosa?» Li senti domandare quando ti vedono stretto alla loro figlia, tu un uomo forse più anziano di loro e con la fede al dito.
«Lui è un mio amico, può venire a casa?» Lei propone.
Porgi loro la mano e loro ti guatano con stupore, o forse è paura, pensi.
«Clelia deve dirvi una cosa importante» spieghi loro.
Rimangono muti, e salita in auto di nuovo si stringe a te.
Durante il tragitto nessuno ha la forza di aggiungere altro.
Quando arrivate a casa il padre sbotta esasperato.
«Mi volete spiegare che diavolo succede? E lei» ti rivolge contro i suoi occhi accesi come cerini. «… lei chi diavolo è?»
«Non sono nessuno» dici loro, e accarezzi il volto pallido di Clelia, insegui i suoi occhi nell’oscuro anfratto in cui si sono ritirati e, quando inizia a piangere, la stringi più che puoi.
Alla fine di quel momento che sembra non aver mai fine senti che ti lascia e la vedi condurre suo padre e sua madre in un’altra stanza.
Passa un minuto e ascolti l’uomo gridare, la donna piangere.
È quasi mezzanotte, chiudi la porta dietro di te, preferisci le scale all’ascensore, e vai incontro alla notte.
Ultima modifica di Namio Intile il 08/02/2023, 18:10, modificato 2 volte in totale.
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Refusi
una volte al mese –
«È libero? » - togliere lo spazio
a se stessi - - manca l’accento
tutto se stesso - - tutto te stesso
metterla così... » - - togliere lo spazio
ho avuto il coraggio… » idem c.s.
è la mia condanna. » - - idem c.s.
in questa frase: “Ma hai appreso a trincerarti dietro il tuo riserbo…” il verbo appreso è giusto?

in questo periodo ci andrebbe qualche virgola:
“Sei un viaggiatore, ma allergico agli aerei, la cui unica alternativa all’automobile per spostarsi tra le due città è il Freccia Rossa Lione Milano in partenza dalla stazione di Part Dieu alle 17.20 con arrivo a Milano Centrale poco dopo le ventidue.”
Avrei lo stesso suggerimento in altri periodi, se fossi io l’autore, ma non lo sono, quindi non vorrei fosse una mancanza voluta. Per me ci vorrebbero, giusto per agevolare la lettura, ma “de gustibus…”
Sempre in tema di gusti personali, è presente, specie in alcune righe, una concentrazione eccessiva di “che”.
A un certo punto, in circa 750 parole usi ben 15 volte la parola “senso”.

Breve commento:
affronti in questo racconto il problema dell’esistenza umana e non è semplice uscirne vivi. Ci sarebbe materiale a sufficienza per un romanzo.
Io l’avrei scritto in un altro modo, ma il bello dello scrivere è che ognuno lo fa a modo suo e se il lettore apprezza, lo scopo è raggiunto. A me è piaciuto.
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Messaggio da leggere da Andr60 »

Ho aspettato molto prima di scrivere un commento, perché il tema è piuttosto impegnativo, e pone il lettore nella posizione di doversi chiedere: che cosa avrei fatto, al posto di Olmo? Non tutti (sinceramente, credo quasi nessuno) avrebbero fatto come il protagonista, ovvero aiutato la ragazza nel dare il tragico annuncio. Io, come sempre in treno, avrei dormito o fatto finta di dormire pur di non rivolgere la parola a nessuno. Ma Olmo no, lui è diverso: si prende cura della ragazza, la "adotta" anche se per poco e l'accompagna a casa. Credo che il tema, più che il significato della vita, sia il senso di ingiustizia che la ragazza sente, quello di avere pescato il biglietto perdente della lotteria della vita.
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Messaggio da leggere da RMarco »

Questo racconto ha la capacità di farti salire sul treno. Sei seduto poco lontano ma puoi vedere i loro sguardi e forse ascoltare qualche frammento di conversazione. Non sei fortunato come Olmo che è protagonista non di meno non vorresti che il treno arrivasse in centrale ma proseguisse ancora. Anche quando le infinite possibilità della vita sembrano volgere al termine, seppur compresse in un tempo ridotto il terzo viaggiare attende che Olmo e Clelia parlino ancora alla sua anima
Non sono in grado di dare un giudizio su come è scritto ma aspetto un nuovo viaggio
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Re: Commento : Non sono nessuno

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Alberto Marcolli ha scritto: 31/01/2023, 14:46 Refusi
una volte al mese –
«È libero? » - togliere lo spazio
a se stessi - - manca l’accento
tutto se stesso - - tutto te stesso
metterla così... » - - togliere lo spazio
ho avuto il coraggio… » idem c.s.
è la mia condanna. » - - idem c.s.
in questa frase: “Ma hai appreso a trincerarti dietro il tuo riserbo…” il verbo appreso è giusto?

in questo periodo ci andrebbe qualche virgola:
“Sei un viaggiatore, ma allergico agli aerei, la cui unica alternativa all’automobile per spostarsi tra le due città è il Freccia Rossa Lione Milano in partenza dalla stazione di Part Dieu alle 17.20 con arrivo a Milano Centrale poco dopo le ventidue.”
Avrei lo stesso suggerimento in altri periodi, se fossi io l’autore, ma non lo sono, quindi non vorrei fosse una mancanza voluta. Per me ci vorrebbero, giusto per agevolare la lettura, ma “de gustibus…”
Sempre in tema di gusti personali, è presente, specie in alcune righe, una concentrazione eccessiva di “che”.
A un certo punto, in circa 750 parole usi ben 15 volte la parola “senso”.

Breve commento:
affronti in questo racconto il problema dell’esistenza umana e non è semplice uscirne vivi. Ci sarebbe materiale a sufficienza per un romanzo.
Io l’avrei scritto in un altro modo, ma il bello dello scrivere è che ognuno lo fa a modo suo e se il lettore apprezza, lo scopo è raggiunto. A me è piaciuto.
Ciao, Alberto. Grazie per la considerazione, tengo molto al tuo punto di vista.
Ho corretto gli spazi, dove hai segnalato. Quanto alle virgole, non sempre concordo con i suggerimenti. Sull'abbondanza di relative hai ragione, proverò a diminuirle. Quando si parla di senso è difficile adoperare sempre sinonimi, vedrò quel che posso fare. Su se stesso hai però torto. Quando è preceduto da medesimo o stesso il sé non va accentato, perché la sua funzione è chiara. È un errore l'accento, non la sua mancanza.
Sull'utilizzo del verbo apprendere, non mi pare vi sia errore. Apprendere come sinonimo di imparare, coniugato come prendere e quindi appreso al participio. Se sai qualcosa di diverso fammi sapere.
Un caro saluto
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Re: Commento

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Francesco Pino ha scritto: 31/01/2023, 21:27 Un racconto incentrato su degli ottimi dialoghi che poi sfocia nel dramma della malattia senza scampo.
C'è il pensiero dell'autore, espresso attraverso il protagonista. C'è il confronto tra un punto di vista maturo e quello di chi è più giovane. Le descrizioni, a differenza di altri tuoi racconti, mi sembrano particolarmente ben misurate e fanno da buon corollario al tema centrale.
Lo scambio di battute che segue il punto in cui Clelia rivela la sua malattia mi sembra la parte più debole della storia. Ma, d'altrocanto, che parole usare in una situazione del genere? Last but not least, l'uso della seconda persona dà un tocco di stile in più.
Voto 5

Occhi chiari che sembrano chiari?
Ciao, Francesco.
Grazie per il voto stellare. Belle considerazioni. Hai ragioni, è più asciutto rispetto ad altri miei, con meno descrizioni, ho lasciato spazio al dramma della protagonista. Questo rivelare la malattia è il punto nodale della storia, hai ragione. E potrebbe apparire debole, anzi è il punto meno credibile. Ma se il racconto ti è risultato gradito significa che la sospensione dell'incredulità, il patto narrativo tra lettore e scrittore, ha comunque funzionato.
Occhi chiari che sembrano più chiari. È un modo per far risultare quei magnifici occhi senza adoperare inutili aggettivi.
Grazie, alla prossima.
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Andr60 ha scritto: 07/02/2023, 11:25 Ho aspettato molto prima di scrivere un commento, perché il tema è piuttosto impegnativo, e pone il lettore nella posizione di doversi chiedere: che cosa avrei fatto, al posto di Olmo? Non tutti (sinceramente, credo quasi nessuno) avrebbero fatto come il protagonista, ovvero aiutato la ragazza nel dare il tragico annuncio. Io, come sempre in treno, avrei dormito o fatto finta di dormire pur di non rivolgere la parola a nessuno. Ma Olmo no, lui è diverso: si prende cura della ragazza, la "adotta" anche se per poco e l'accompagna a casa. Credo che il tema, più che il significato della vita, sia il senso di ingiustizia che la ragazza sente, quello di avere pescato il biglietto perdente della lotteria della vita.
Voto 5
Ciao, Andr. Grazie, splendide riflessioni le tue. La adotta, è vero. È come se fosse sua figlia, la accompagna nelle mani dei genitori, letteralmente.
Anch'io dormo, come Olmo. Ma una cosa molto simile a quella narrata mi accadde in un viaggio in bus tra Roma e Palermo. Ricordo ancora le sue mani tra le mie, secoli fa. Non era una malattia mortale la sua, ma una cosa molto grave. Provai ad aiutarla e alla fine di quel viaggio mi sentii profondamente gratificato per esser riuscito ad aiutare una sconosciuta.
Ultima modifica di Namio Intile il 08/02/2023, 18:26, modificato 1 volta in totale.
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RMarco ha scritto: 07/02/2023, 20:14 Questo racconto ha la capacità di farti salire sul treno. Sei seduto poco lontano ma puoi vedere i loro sguardi e forse ascoltare qualche frammento di conversazione. Non sei fortunato come Olmo che è protagonista non di meno non vorresti che il treno arrivasse in centrale ma proseguisse ancora. Anche quando le infinite possibilità della vita sembrano volgere al termine, seppur compresse in un tempo ridotto il terzo viaggiare attende che Olmo e Clelia parlino ancora alla sua anima
Non sono in grado di dare un giudizio su come è scritto ma aspetto un nuovo viaggio
Voto 5
È la prima volta che ci incrociamo. Benvenuto su BA. Le tue riflessioni non sono banali. Ho provato a far salire il lettore su quel convoglio, è vero, la scelta del treno, di un luogo chiuso da cui non è possibile tirarsi fuori non è casuale. E se tu hai sentito il bisogno di continuare il viaggio in compagnia di Olmo e Clelia vuol dire che a te sono riuscito a consegnare la necessità di questo mio viaggio.
Grazie ancora.
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Marino Maiorino
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Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Namio...
capace ogni volta di vivisezionare i sentimenti.
Fuochino. Non nel senso che il tuo racconto non meriti il massimo (infatti non avrei potuto attribuire di meno), ma che ho indossato panni simili a quelli di Olmo. Hai dipinto alla perfezione quello che si sente.
Non riesco a dire di più.

P.S.: Avevo notato ma ho dimenticato di commentare sulla forma in seconda persona. È ovvio il tentativo di far calare il lettore nei panni di Olmo ma non so se sia perfettamente riuscito. Alle volte la forma sembra virare sulla terza persona, almeno narrativamente, e questo genera un leggero disorientamento.
«Amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza» - Diotima

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Roberto Bonfanti
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Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

Ottimo racconto, come sempre, impreziosito dalle considerazioni personali del protagonista dove emerge l'ombra dell'autore. Olmo sa, pur con qualche reticenza, quando è il momento di tirar fuori umanità e solidarietà, che in un mondo di individualismi non sono per niente scontati e quando è opportuno farsi da parte e scivolare via in silenzio.
Una curiosità: perché, nella seconda stesura hai cambiato origine e destinazione del viaggio, mezzo di trasporto e nome della ragazza?
E poi, se non sbaglio, non è il primo racconto dei tuoi dove usi la seconda persona come pov, soluzione difficile, che trovo solo nei grandi, Calvino, per esempio, ma tu la padroneggi con maestria.
Voto massimo.
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
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Giovanni p
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Messaggio da leggere da Giovanni p »

Buona sera, Namio

Come sempre i tuoi racconti riescono a incollarmi allo schermo. Tratti un argomento difficile, dove non esiste giusto o sbagliato, ma solo la coscienza. Io avrei assecondanto la ragazza ad esempio.
La scrittura come sempre è di altissimo livello, quindi complimenti.

Voto 5
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Roberto Bonfanti ha scritto: 16/02/2023, 21:35 Ottimo racconto, come sempre, impreziosito dalle considerazioni personali del protagonista dove emerge l'ombra dell'autore. Olmo sa, pur con qualche reticenza, quando è il momento di tirar fuori umanità e solidarietà, che in un mondo di individualismi non sono per niente scontati e quando è opportuno farsi da parte e scivolare via in silenzio.
Una curiosità: perché, nella seconda stesura hai cambiato origine e destinazione del viaggio, mezzo di trasporto e nome della ragazza?
E poi, se non sbaglio, non è il primo racconto dei tuoi dove usi la seconda persona come pov, soluzione difficile, che trovo solo nei grandi, Calvino, per esempio, ma tu la padroneggi con maestria.
Voto massimo.
Non sbagli, già avevo provato in passato con la seconda persona. Il punto di vista è quello di Olmo, la seconda persona permette, per come la vedo io, di rendere intense le vicende dei protagonisti, permette una compenetrazione emotiva del lettore. Non è una questione di genere, e forse neanche di temi trattati. Ma la seconda consente all'autore una intimità coi suoi personaggi che la prima (a volte troppo autoreferenziale) e men che mai la terza (a volte distante, asettica) lasciano raggiungere e per il lettore, credo, l'elemento più attrattivo sia proprio questa vicinanza.
Il racconto l'ho cambiato in corsa, è vero. Ho preferito una versione più breve, meno connotata geograficamente, e in seconda persona. La verità è che i miei racconti li scrivo e li riscrivo con tecniche diverse, per vedere come va.
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Sempre puntuali le tue osservazioni, Roberto, e i riferimenti letterari.
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Namio Intile
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Giovanni p ha scritto: 19/02/2023, 20:41 Buona sera, Namio

Come sempre i tuoi racconti riescono a incollarmi allo schermo. Tratti un argomento difficile, dove non esiste giusto o sbagliato, ma solo la coscienza. Io avrei assecondanto la ragazza ad esempio.
La scrittura come sempre è di altissimo livello, quindi complimenti.

Voto 5
Ciao, Giovanni, grazie per la visita e la lettura, e per quell'altissimo livello. Sono convinto che una struttura narrativa funzioni se in qualche modo la contrapposizione tra diversi elementi rimanga viva. Senza contare che il protagonista, l'eroe, non può perdere.
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Laura Traverso
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Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Ciao Namio, avevo già scritto il commento dettagliato e non me lo ha preso (già successo), quindi riscrivo un po' più sinteticamente. Il tuo racconto è molto coinvolgente anche se trovo sia un po' irreale: Olmo così schivo e solitario che addirittura si "converte" al punto di accompagnare la ragazza a svelare il dramma ai suoi genitori. Ma compito dello scrittore è inventare fantasiosamente, quindi ci sta.
Mi sono anche chiesta se non sarebbe stato meglio che la giovane seguisse il suo intendimento di non raccontare nulla, così da evitare, anticipatamente, il dolore straziante ai suoi genitori, espresso come bene hai descritto, tra urla e pianti. Mah, non saprei...
D'altra parte il finale non avrebbe potuto essere di così bell'effetto che immaginare Olmo allontanarsi solo nella notte.
Molto belli i dialoghi tra i protagonisti che si sono addentrati (addentrandoci...) tra i lati più profondi della vita.
Scritto, come sempre, molto bene. Alla prossima, ciao
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Messaggio da leggere da Mariovaldo »

oltre che molto bravo hai anche un pizzico di fortuna: oggi, qui è una giornata grigia e gelida che si sposa perfettamente con l'atmosfera creata dal tuo ottimo racconto. I due personaggi sono ben delineati e ogni loro gesto, ogni loro parola si accorda con questa atmosfera, mettendo in secondo piano le piccole imperfezioni già segnalate da altri. Ora mi alzo dalla sedia e guardo fuori, dove spira un vento gelido e dove una coppia di passanti si stringe , tenendosi per mano, come a darsi sostegno. Sembrano proprio Olmo e Clelia.
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Domenico Gigante
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Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

Caro Namio! Leggendoti ho avuto la strana sensazione che tra i nostri due racconti ci sia una sorta di fil rouge che li accomuna. Anche nel tuo caso - sebbene il mio precipiti - siamo sul filo del baratro tra il credibile e l'incredibile: il tuo Olmo, un cinico misantropo, si lascia irretire da una giovane completamente sconosciuta, che gli rivela di avere un tumore incurabile. Lui le crede senza riserve - il che forse può risultare una conversione a U rispetto ai valori di cui si era fatto portatore nella prima parte (una nota di scetticismo e di incredulità, prima della totale accettazione, poteva starci bene) - e finisce addirittura a casa dei suoi genitori per aiutarla a "confessare" il suo male. Per questo motivo tutta la seconda parte suona un po' melò - ma di buon livello naturalmente. Il tuo protagonista subisce una metamorfosi che è l'esatto opposto di ciò che il mio racconto lascia intravedere: un amore più forte per la vita (primum vivere deinde philosophari). Il che ci può stare.
E poi il finale mi ha messo i brividi. Non per quello che accade, ma per quel "non sono nessuno" che sembra sovrapporsi e quasi sostituirsi al "ero suo padre" pronunciato dal mio protagonista. Insomma una sorta di déjà vu, che mi ha lasciato di stucco.
Ottimo lavoro, ovviamente - come ci si deve aspettare da te. Un forte abbraccio!
Vorrei essere il mare che si muove per rimanere se stesso e più di tanto non lo sposta il vento. Fragile ma tenace.
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