Lo scultore di nuvole

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2023.

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Macrelli Piero
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Lo scultore di nuvole

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LO SCULTORE DI NUVOLE

"...Suddenly I stop
But I know it's too late
I'm lost in a forest
All alone..." (A Forest; The Cure, 1980)

Quando il vicino di casa mi venne a chiedere se fossi disposto ad aiutarlo per un periodo nel suo lavoro,
presi l'occasione al volo perché così mi sarei ripagato l'acquisto della moto, una Yamaha XT500 che,
con i suoi cerchioni dorati e l'inconfondibile suono del mono cilindro quattro tempi, assieme al mio look
militare, erano la sintesi perfetta del mio immaginario estetico.
Il tipo si era rotto un femore cadendo e aveva bisogno di qualcuno che guidasse il suo furgone per le
consegne nel ravennate. Partivamo alle tre di notte da un magazzino sulla superstrada per San Marino e
puntavamo verso nord sulla statale Romea. Per me era una novità: la mia vita si svolge completamente a
Rimini; può capitare di andare a sud a Riccione o al massimo a Cattolica, ma verso nord non si va mai
perché lì non c'è nulla o almeno nulla per cui vale la pena andarci. C'è come un confine mentale là, oltre
le terre desolate di Torre Pedrera, con quei sanatori e quegli istituti ospedalieri di lungodegenza, per
gente messa molto male insomma. Al massimo si arriva a Viserba, allo Slego che, come locale
alternativo e di tendenza, trova naturale collocazione in quella zona decentrata.
Così mi ritrovai a guidare un vecchio Saviem furgonato, nel buio pesto e nebbioso della statale Romea.
Il mio compagno era solito tenere accesa una radio a onde medie sintonizzata su radio Rai2, che a
quell'ora trasmetteva il bollettino ai naviganti in attesa dell'inizio delle trasmissioni quotidiane. La voce
stentorea del lettore si mischiava con il ronzio delle onde portanti del segnale radio ed elencava una
lunga lista di dati per me incomprensibili, ma immerso com’ero in quel mare di nebbia notturno, tutto
assumeva una affascinante dimensione: al mio fianco c'era un uomo che con la sua bianca gamba
ingessata immaginavo fosse il capitano Achab ed io il suo timoniere. Indossavo anche una berretta da
marinaio in lana blu scuro. Tutto sembrava avere un senso. Anche il raro traffico notturno di pesanti
autotreni che sbucavano all'improvviso dal mare di nebbia poteva essere immaginato come una
successione di pericolose balene o capodogli.
Verso l'alba arrivavamo in zona e abbandonavamo la statale per dirigerci verso i paesi dell'entroterra, ma
il mio pensiero rimaneva alla pineta, che non avevo mai visto prima e che costeggiava la strada statale e
la linea ferroviaria a binario unico verso nord. Ogni tanto, mentre la attraversavamo, si vedevano bacini
e laghetti artificiali circondati da strutture metalliche abbandonate. C'erano piccoli corsi d'acqua, canali
regolati da chiuse e paratie e poi strade sassose che vi si perdevano dentro in direzione del mare, che
doveva trovarsi là, a una decina di chilometri di distanza. Mi ripromisi che ci sarei tornato con la moto.
Volevo esplorare questo mondo che mi attirava a sé con forza.
E fu così che già dalle prime successive escursioni, cominciai a farmi una mappa mentale dei luoghi e a
delineare anche un mio piano di esplorazione in solitaria. La solitudine di quei luoghi era un nuovo
elemento, una condizione privilegiata: mi sentivo come un archeologo balneare in perfetta sintonia con i
suoi spazi, da esplorare, e che, ben presto, scoprii abbandonati dalla presenza umana nei mesi più freddi.
Avevo cominciato da Milano Marittima dove trovai curiose villette chiuse per l'inverno, al riparo degli
alberi e nascoste dalla nebbia. Certi stili architettonici li avevo visti solo sulle riviste specializzate che
andavo a sfogliare in biblioteca e che qui diventavano reali, davanti agli occhi. Forse erano state
costruite negli anni '50 e '60 e avevano stili raffinati che non sapevo nominare: niente a che vedere con
lo scempio edilizio cui ero abituato a Rimini. Ma Milano Marittima era ancora troppo viva, anche in
inverno. Solo più a nord trovai quella solitudine e quella separazione dal mondo reale che andavo
cercando con tanta apprensione. Lido Di Savio e Lido Di Classe: lì non c'era mai nessuno in giro, solo

il rumore della mia XT500 riempiva i silenzi di quei posti. In realtà ogni tanto mi sembrava di avvertire
un lontano ronzio che andava e veniva, ma non ero ancora riuscito a capire cosa fosse.
Avevo deciso di fare base sul tetto della Colonia Di Varese che da sola valeva una vita di esplorazioni e
da là cercavo di capire fin dove si spingesse la pineta a nord. Dunque, avevo cominciato a tracciare i
confini del mio mondo, che coincidevano con Milano Marittima a sud, mentre verso l'interno la linea
ferroviaria segnava il confine a ovest; a est c'era il mare e la striscia di spiaggia con le dune a ridosso
della pineta che percorrevo a tutta velocità con la moto fino a un fiume che bloccava le mie escursioni a
nord.
La scoperta del Woodpecker fu una cosa incredibile. Avevo notato, durante le mie escursioni,
un’anomalia nella campagna piatta e che si perdeva nella nebbia invernale: una specie di collinetta
piena di boscaglia, che non c'entrava niente con l'ambiente circostante. Così cercai un passaggio che mi
permettesse di attraversare il fosso che correva lungo lo stradone alberato che partiva solitario dal
passaggio a livello vicino alla statale e arrivava fino al mare. Riuscii a raggiungere la collinetta e
parcheggiai la moto. Fra gli arbusti c'era una piccola insegna arrugginita con l'immagine del picchio dei
fumetti con la scritta Woodpecker. Superai il terrapieno facendomi largo tra gli arbusti e le canne e
arrivai nell'invaso, qui sorgeva una enorme cupola di vetroresina coperta di muschio e di fango,
circondata da canne e sterpaglie, inghiottita dalla vegetazione. Mi sembrava un’antica cattedrale
vietnamita dimenticata dal tempo e ingoiata dalla giungla. La cupola poggiava su una pavimentazione in
pietra con una serie di archi che la percorrevano tutta attorno. Sembrava che il pavimento lasciasse
spazio a piscine circolari e ovali, ma era pieno di vegetazione e facevo fatica a capire. Alcune basse
costruzioni in cemento armato dovevano essere state il bar e i bagni di questa folle discoteca. Era tutto
distrutto, ma dentro i bagni rimaneva qualcosa delle piastrelle a mosaico. Staccai alcune tessere e le
lucidai sul tessuto dei miei pantaloni militari e mi ritrovai in mano lucide pietre azzurre e rosse come
preziosi rubini e lapislazzuli che intascai come bottino.
Poi ci fu quel ronzio che mi era già capitato di sentire, ma questa volta molto più chiaro e forte. Uscii
dai bagni diroccati e nel cielo vidi volteggiare a bassa quota l'ala triangolare di un deltaplano a motore.
Cominciai a urlare verso il pilota che non poteva sentirmi. Allora salii sulla massicciata di terra che
formava il cratere del Woodpecker, cercando di non perdere di vista il deltaplano. Il pilota si era messo a
compiere spirali ascendenti attorno ad un basso banco di nebbia e sembrava volesse scolpirlo con le pale
dell'elica del motore. Ogni tanto lo perdevo di vista e quando virava a favore di vento, anche il rumore
del motore scompariva. Mi misi a correre, ma quando arrivai alla moto, lui era già scomparso chissà
dove. Dovevo assolutamente ritrovarlo perché lui era l'unico essere umano che vedevo in questo nuovo
mondo; anche perché doveva esserci per forza un essere umano a pilotare il deltaplano. Logico, certo,
ma non ne ero più tanto sicuro.
Più era il tempo che passavo in questi luoghi, più era grande la frattura fra me e il vecchio mondo che
ero solito frequentare. Rimini, casa mia, i miei amici, tutto aveva cominciato a diventare lontano e
inconsistente e questi paesaggi onirici stavano diventando a poco a poco l'unica realtà possibile. A volte
arrivavo ai confini della pineta verso la statale e, al riparo della boscaglia, osservavo il traffico sulla
strada che mi sembrava cosi alieno e distante. Quando dovevo fare rifornimento alla moto uscivo
controvoglia dalla pineta, guardingo come un predatore in cerca di cibo e mi dirigevo verso un piccolo
distributore di benzina. Si trattava di un piazzale isolato e ghiaioso che costeggiava la statale. Da una
parte c'era un motel con il bar aperto e dall'altra, di fianco ad un laghetto artificiale, un distributore di
carburante con due pompe e un gabbiotto impolverato stile retrò sotto il palo dell'insegna a forma di
conchiglia della Shell. Lo gestiva una ragazza taciturna che compariva solo quando mi fermavo lì.
Evitava di parlare e i nostri sguardi non s’incrociavano mai. Io semplicemente le allungavo diecimila
lire, aprivo il tappo del serbatoio e non scendevo nemmeno dalla moto. Quel rapporto freddo a me
andava benissimo: cercavo di tenere i contatti con gli altri esseri umani al minimo per tornare al più
presto nel mio mondo, dentro la pineta. Anche nel vicino bar del motel non avevo mai messo piede.
Avevo scelto quel posto per fare benzina perché era isolato e perché dalla strada avevo visto una
cisterna senza motrice abbandonata in mezzo a un campo incolto. Era tutta arrugginita e poggiava
davanti su piloni e dietro sulle ruote carenate. La parte di forma ovale, schiacciata, ricordava un design
passato e a stento si vedeva il marchio Shell.~.
Nei giorni successivi passai molto tempo sul tetto della colonia per vedere passare il pilota misterioso,
ma fu solo durante una escursione in pineta che sentii ancora e distintamente il rumore del motore. Vidi

il deltaplano attraversare il cielo. Allora uscii dalla boscaglia e cercai uno spiazzo aperto per non
perderlo di vista e lo inseguii a tutta velocità. Oramai ero padrone dei luoghi e sapevo dove erano stati
gettati in passato dei ponti Bailey per superare i canali che tessevano una complicata ragnatela tra gli
alberi. Oltre la pineta, dopo Lido di Savio, lo vidi in fase di atterraggio dietro un reticolato invaso e
sepolto dalla vegetazione da molti anni. Il recinto circondava un'area ampia che doveva essere stata
oggetto di un tentativo di lottizzazione poi bloccata o fallita. Oltre un cancello che avevo sempre visto
bloccato, ma che ora era aperto, si vedeva tutta una serie di strade con tanto di marciapiedi e pali
dell'illuminazione che dovevano aver formato la piantina stradale di quel progetto fallito. Con il passare
degli anni la pineta si stava riprendendo il territorio e un bel giorno tutto sarebbe scomparso sotto un
intrico di pini e rovi. Mi misi a percorrere quei viali verso la parte più lontana, nascosta alla vista, lungo
un tratto di strada di circa duecento metri, che era stato ripulito alla meglio. Una manica a vento era stata
issata sul palo di un lampione che non era mai acceso. In fondo c’era un'auto, della attrezzatura sparsa,
bidoni e altre varie cose. Un container aperto faceva da magazzino e da officina e, di fianco, un
capanno prefabbricato di lamiera ondulata doveva essere l'hangar di rimessa del deltaplano a motore ora
fermo e con accanto il pilota che cercavo da giorni.
-Salve!
-E tu chi diavolo sei... da quanto sei qui?.
-L'ho vista volare sopra il Woodpecker. Ci ho messo giorni a trovarla
-Da dove vieni? Cosa ci fai qui?
- Da Rimini. Vengo sempre qui, quando posso. Lo trovo un posto fantastico.
-Quando puoi...
-Il tuo deltaplano è stupendo. Monti un bicilindrico; lo sentivo che faceva un rumore diverso. A San
Marino montano tutti i Rotax, quattro cilindri, potentissimi, in due si decolla anche in dieci metri di
pista.
-Voli anche tu?
-No, ma vado spesso al campo volo a San Marino, faccio solo il passeggero. Vedo che anche il tuo è un
due posti, non potremmo...
-Non saprei...
-Ma ti pago.
-Ah, i soldi, già. Non me ne faccio niente.
-Allora ti do una mano a tenere pulita la pista e poi ci capisco un po' di motori. Questo motore è Citroen,
di una due cavalli, come quel rottame abbandonato là, se tieni pulito lo spinterogeno e a posto la pompa
della benzina non ti mollerà mai.
-Sei un meccanico?
-No, mi piace mettere le mani nelle cose.
-Perché vuoi volare?
-Per avere una visione dall'alto di tutto quanto, la pineta, il Woodpecker, la colonia e poi che fiume è
quello là in fondo? non sono ancora riuscito a trovare un passaggio per raggiungerlo.
- Per andare di là devi passare dalla statale. Fin dove riesci a muoverti?
-Quando vengo qui~, non vado mai a Milano Marittima, è deserta in inverno ma non abbastanza per me.
-Non ti piace andare dove c'è gente
-Sono diventato solitario e questo posto sta diventando ogni giorno più reale della mia vita, della mia
vita reale a Rimini, strano...
-E non hai ancora capito tutto
-Che cosa dovrei capire?
-Nulla, dicevo così. Non si finisce mai di imparare.
-Ah, dimenticavo. Quando arrivo qua mi fermo sempre in un posto a far benzina, da una tipa strana, non
parla mai. Non sono mai riuscito a farla parlare. Carina ma strana. La conosci?
-Sì, la conosco.
-A proposito di benzina, giorni fa ho trovato delle taniche spiaggiate sulla riva e adesso ho delle riserve
di carburante. Una è al Woodpecker e l'altra in pineta, se serve...
-Va bene, se serve. Hai mai incontrato qualcun altro da queste parti?
-No, a parte la benzinaia che sta sulla statale, non ho mai incontrato nessuno. Strano, adesso che ci
penso.

-Aiutami a spostare quella manica a vento su un palo più alto. Se vogliamo decollare in due, dobbiamo
aspettare un vento contrario più forte e tutta la pista libera.
Il mio nuovo amico non era molto loquace , di lui non sapevo nulla, non sapevo da dove venisse e cosa
facesse quando non era in pineta a volare. Mi sembrava che fosse molto più grande di me e non amava
che lo andassi a trovare troppo spesso e a volte mi diceva che aveva bisogno di stare solo. Alla fine mi
portò con sé in volo, qualche volta. Io montavo sul sedile posteriore che era rialzato. Eravamo
completamente imbacuccati per il freddo, per fortuna io avevo i guanti da moto e potevo tirare su il
cappuccio della mia giacca militare. Avrei preferito avere anche la mia berretta di lana ma non la
trovavo più, dovevo averla persa da qualche parte durante le mie escursioni in pineta.
Stavamo in fondo alla pista ad aspettare e a guardare la manica a vento in attesa di un buon vento
contrario per decollare. In due eravamo pesanti e il motore era poco potente. Una volta decollati il mio
nuovo amico si dirigeva verso la torre dell'acquedotto, poco distante, e cominciava delle lenti spirali
ascendenti per andare in quota poi, come gli avevo chiesto, mi portava sopra la cupola del Woodpecker
e sopra la vecchia colonia, da dove ammiravo la curiosa pianta di costruzione che si apriva come un
ventaglio verso il mare. Così, riuscii a perfezionare la mappa mentale dei luoghi e vidi anche quella
parte delle paludi che m’impediva di trovare un passaggio per attraversare il fiume che, mi disse, si
chiamava Bevano. Non volle mai portarmi oltre la foce, diceva che non avrebbe avuto abbastanza
carburante per tornare, ma io credo fosse una scusa perché poi si metteva sulla pineta a caccia di banchi
di nebbia da perforare e scolpire con l'elica del motore. Una volta gli proposi di scambiarci i posti sul
deltaplano, perché con le sue indicazioni mi sentivo in grado di pilotare anch’io. Lui scosse il capo e
disse che mi aveva già accontentato abbastanza e che per un po' lo dovevo lasciare solo, che dovevo
continuare le mie esplorazioni senza di lui. Forse più avanti ne avremmo riparlato. Così ripresi a fare i
miei giri in moto e a fermarmi molto tempo sotto la cupola del Woodpecker e sul tetto della colonia.
avevo preso possesso del gabbiotto che dalla tromba delle scalinate facevano arrivare sul tetto e lo
avevo arredato con le cose che trovavo spiaggiate dal mare. Avevo come l'impressione di avere trasferito
tutta la mia esistenza in quei posti e la mia vita a Rimini sembrava lontana e sempre più indefinita e
dimenticata. Passavo del tempo infinito in silenzio a guardare il mare, mentre le dita delle mani
giocavano con le tessere lucidate che avevo preso nei bagni del Woodpecker. A volte mi addormentavo e
quando mi svegliavo non sapevo se era ora di tornare a casa o fossi appena arrivato e la mia giornata in
pineta fosse appena iniziata.
Un giorno decisi di andare sulla statale a fare rifornimento di carburante e a riempire le taniche di scorta.
Per strada cominciò a piovere e mi andai a rifugiare sotto la tettoia del motel vicino al distributore.
Pioveva che Dio la mandava e non si vedeva ad un palmo dal naso. Dal bar uscirono due clienti a
guardare il temporale, non mi notarono e io non feci nulla per farmi vedere. Provavo una certa difficoltà
ad avvicinarmi ai posti abitati e frequentati, come mi era successo a Milano Marittima, e avevo sempre
evitato questo bar quando andavo a fare rifornimento. I due tipi cominciarono a parlare del tempo da
inferno e poi del posto, che secondo loro era diventato maledetto. Era cominciato tutto anni prima,
quando quella giovane benzinaia si era suicidata nel lago e la gente aveva iniziato a parlare di
apparizioni e di fantasmi. E anche dopo quel grande incidente di due mesi fa, di un tir contro quel
furgone per le consegne, dove erano morti tutti. Anche le puttane nigeriane avevano smesso di venire a
battere sul piazzale e dicevano che c'erano gli spiriti e loro di spiriti e di macumbe se ne intendono poi,
cazzo, non avevano ancora portato via il rottame del furgone e lo avevano solo spostato, vicino
all'impianto del distributore abbandonato.
A sentire quelle parole non capii subito i loro discorsi, di quale benzinaia e di quale incidente parlassero.
Poi cominciai a sentirmi strano, ad avere delle convulsioni che mi piegavano in due. Volevo urlare, ma
dalla bocca non usciva suono. La vista mi faceva difetto come un televisore che perde sintonia e
immagine: a volte vedevo la pioggia e a volte vedevo il piazzale con il distributore di benzina intatto. Mi
sentivo lacerato e sbattuto su due piani della stessa realtà. Cominciai a correre piegato dal dolore verso
questa visione che cambiava continuamente. La pioggia cominciò a calmarsi e le immagini alternate tra
le due visioni rallentarono, ora in un modo e ora in un altro, finché si fissarono su una realtà dove il
distributore era distrutto, le pompe divelte e il palo con l'insegna a forma di conchiglia della Shell
giaceva dentro il lago. Lì vicino c'era la carcassa di un furgone che conoscevo benissimo: era il Saviem
che guidavo io. Mi avvicinai a quello che rimaneva della cabina di guida e guardai dentro, tremavo, in

mezzo alla pedaliera c'era ancora la mia berretta in lana che credevo perduta. La presi e la strinsi in
mano. Sono morto, sono morto, sono morto, cominciai a ripetere mentre indietreggiavo. Sì, disse una
voce da dietro, sei morto. Mi girai e vidi la benzinaia uscire dall'acqua in piedi sull'insegna semi
affondata. Ora il giovane corpo della ragazza mi appariva come il cadavere di un affogato in avanzato
stato di decomposizione. Svenni e caddi a terra.
Quando mi risvegliai aveva finito di piovere e la scena era tornata come la conoscevo: il rottame del
furgone era scomparso e l'impianto di benzina era funzionante; la ragazza era lì, in attesa, pronta a farmi
rifornimento con il suo solito fare lontano e distaccato. Io non dissi niente e anche lei non disse niente.
Lasciai il piazzale e tornai nella pineta. Davanti al cancello aperto del reticolato tirai dritto, ma sarei
tornato a chiedere spiegazioni al pilota. Lui doveva sapere molto più di me di questa situazione e ora
capivo anche come avesse cercato in tutti modi di farmela scoprire da solo. Giunto sul tetto della
colonia mi sedetti su una sdraio scassata che avevo recuperato tempo prima in spiaggia e mi sentii
stranamente calmo. Non mi ero mai sentito così vivo come in quel momento e invece ero morto. Ero
morto e non provavo disperazione, non provavo niente. Cominciai a ridere. Dunque questo adesso è il
mio mondo; siamo io, il pilota e la benzinaia. Magari troverò altri come me, chi può dirlo? Adesso
capivo che il pilota era bloccato in un tempo e in un luogo che si ripeteva continuamente e dove aveva
poche possibilità di muoversi. Anche la benzinaia suicida era bloccata là, sul quel piazzale. Solo io
sembravo avessi più mobilità, come mi aveva fatto capire il pilota, e ora comprendevo anche il mio
malessere quando mi spingevo verso Milano Marittima e la difficoltà di trovare un passaggio oltre il
fiume. Ma adesso avevo una speranza, uno scopo e avevo anche un piano. Avrei costretto il pilota a
insegnarmi a volare e nella sua officina al campo volo avrei creato orecchini, bracciali e gioielli con del
filo di ferro e le tessere dei mosaici dei bagni del Woodpecker e così avrei regalato alla benzinai rubini e
lapislazzuli, l'avrei riscattata dai suoi demoni che la tenevano bloccata là e l'avrei portata via sulla mia
moto. Avremmo volato assieme sopra la pineta e scolpito nuvole di nebbia. Un giorno avrei trovato il
modo per arrivare al villaggio oltre il fiume e avremmo preso possesso di un capanno abbandonato;
avremmo passeggiato sulle dune e con un po' di fortuna sarei riuscito a spezzare il loop temporale che ci
relegava in un inverno eterno e finalmente, un giorno, avremmo visto sorgere dal mare il sole di una
nuova estate.
Ultima modifica di Macrelli Piero il 22/05/2023, 14:57, modificato 1 volta in totale.
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Alberto Marcolli
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commento Lo scultore di nuvole

Messaggio da leggere da Alberto Marcolli »

Autentica bufera di “che” ma non farci caso, sono solamente un mio pallino.

Toglierei almeno un “perché” dall’incipit. Lo stile ne gioverebbe.

Spezzerei i periodi, là dove è possibile, con qualche virgola in più

“in moto ad esplorare” - - in moto a esplorare
“Cominciai ad urlare” - - Cominciai a urlare
“sezione ad ovale” - - sezione a ovale
“ad inseguirlo a tutta velocità” - - a inseguirlo a tutta velocità
“Ad sentire quelle parole” - - A sentire quelle parole
“e la la striscia di” - - e la striscia di
“riparo delle boscaglia” - - riparo della boscaglia
“poggiava sui dei piloni” - - poggiava su dei piloni
“diventa ogni giorni più reale” - - diventa ogni giorno più reale
“Così riusci a perfezionare” - - Così riuscii a perfezionare
“fare i mie giri” - - fare i miei giri
“avere degli convulsioni” - - avere delle convulsioni

E ancora non sono arrivato in fondo! Preciso che questi refusi li ho trovati semplicemente usando la funzione revisione-controllo ortografia e grammatica di “word”
Macrelli Piero
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Re: Lo scultore di nuvole

Messaggio da leggere da Macrelli Piero »

Non so se dire accidenti a me o accidenti a te che mi pungolo con osservazioni giustissime. Ancora trovo noia e difficoltà a fate una doverosa revisione fine del testo. Me lo ripeto sempre e non lo faccio mai.
Ma le tue puntualizzazioni sono molto gradite. Io uso Open Office e ho provato a filtrare il testo, ma forse non ho ben capito come si fa.
Sul "che" reiterato, malinconico e dissonante che amo in maniera viscerale, ancora non sono riuscito a domarlo.
Grazie dei commenti.
Macrelli Piero
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Re: Lo scultore di nuvole

Messaggio da leggere da Macrelli Piero »

Il testo del racconto è stato revisionato e corretto. Sperò di aver eliminato le sbavature e gli errori che mi erano stati selezionati dai lettori.
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Antologia visual-letteraria (Volume uno)

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Collage di opere grafiche e testuali pubblicate sul portale www.BraviAutori.it

Il libro è un collage di opere grafiche e testuali pubblicate sul portale www.BraviAutori.it e selezionate tenendo conto delle recensioni ricevute, del numero di visualizzazioni e, concedetecelo, il nostro gusto personale. L'antologia non segue un determinato filone letterario e le opere sono state pubblicate volutamente in ordine casuale.
A cura di Massimo Baglione.

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What if we were cattles grazing for someone who needs a lot of of food? How would we feel if it had been us to be raised for the whole time waiting for the moment to be slaughtered? This is the spark that gives the authors a chance to talk about the human spirit, which can show at the same time great love and indiscriminate, ruthless selfishness. In this original parody of an alien invasion, we follow the short story of a couple bound by deep love, and of the tragic decision taken by the heads of state to face the invasion. Two apparently unconnected stories that will join in the end for the good of the human race. So, this is a story to be read in one gulp, with many ironic and paradoxical facets, a pinch of sadness and an ending that costed dearly to the two authors. (review by Cosimo Vitiello)
Authors: Massimo Baglione and Alessandro Napolitano.
Cover artist: Roberta Guardascione.
Translation from Italian: Carmelo Massimo Tidona.

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Il 20 luglio 1969 è la data che segna per sempre il momento in cui il primo essere umano ha posato per la prima volta i piedi sul suolo lunare. Quel giorno una parte di voi era d'avanti ai televisori in trepidante attesa del touch-down del lander, altri erano troppo piccoli per ricordarselo e altri ancora non erano neppure nati, tuttavia ne siamo stati tutti coinvolti in molteplici maniere.
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Calendario BraviAutori.it "Writer Factor" 2015 - (in bianco e nero)

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(edizione 2015, 3,39 MB)

Autori partecipanti: (vedi sopra),
A cura di Tullio Aragona.
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