Susette

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2023.

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Sondaggio concluso il 20/06/2023, 1:00

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Domenico Gigante
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Susette

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“Io lavoro al bar di un albergo a ore
Porto su il caffè a chi fa l'amore
Vanno su e giù coppie tutte uguali
Non le vedo più manco con gli occhiali”
(Herbert Pagani, Albergo a ore)

Mi trovavo a Milano da pochi giorni, invitato a tenere alcuni seminari in facoltà. Erano molti anni che non rimettevo più piede a casa. Nulla ormai mi legava a quella città. I miei genitori erano morti poco dopo che ero partito per gli Stati Uniti. Gli amici li avevo quasi tutti persi di vista, quando si erano sposati e avevano iniziato a fare figli. Gli unici che cercai, in quel breve periodo, furono Nadia e Francesco. Lei era stata una mia compagna di università ed ex-fidanzata. Erano una coppia molto carina, socievole, borghese. Francesco lavorava per una qualche società di consulenza; Nadia, invece, era entrata – dopo molti sforzi – all’università come ricercatrice. Due persone di cultura, senza figli e con un certo senso dell’umorismo tipico del loro ceto – che poi era anche il mio. La sera in cui conobbi Susette ero a cena da loro.
Abitavano in un vecchio palazzo vicino a largo della Crocetta. L’appartamento era stato ristrutturato in modo elegante e moderno. Un impianto di filodiffusione trasmetteva in tutte le stanze musica jazz, che avrebbe dovuto metterci a nostro agio. Nadia aveva preparato un succulento roast beef per impressionarmi – e c’era riuscita. La conversazione era stata molto piacevole per tutta la cena. Mi avevano chiesto della mia esperienza negli Stati Uniti e io avevo dato un’immagine alquanto brillante della mia vita, che invece era tutt’altro che entusiasmante: apatica e piuttosto solitaria, sempre alle prese con la noiosa routine di un piccolo campus universitario. Tutto sembrava filare liscio nella quieta monotonia di un’artificiosa ospitalità, fino a che Nadia non cominciò a parlare della sua attività di ricercatrice.
«Gli studenti… i dottorandi sono troppo remissivi. Accettano passivamente di essere annullati dai professori. Non reagiscono. Non è più come ai tempi dell’Onda. A quel tempo facevamo sul serio», proruppe Nadia riferendosi al movimento studentesco, a cui avevamo aderito durante il nostro ultimo anno alla Statale. Lei amava riesumare vecchi episodi dei nostri trascorsi alla facoltà di Lettere: forse perché la facevano sentire ancora una contestatrice di quel sistema che l’aveva accolta e integrata.
«Ti ricordi quando occupammo i binari a Lambrate?», mi puntò il dito con gesto complice.
«Non è che ricordi poi molto di quel periodo. – risposi con aria di scherno – Mi sembrava sempre di essere fatto, anche quando non avevo fumato nulla».
«Ma dai! Non fare sempre il solito fricchettone. C’eri anche tu», mi punzecchiò. «Ci vennero a prendere di peso quelli della brigata mobile. E le prostitute lì alla stazione che ci guardavano come fossimo degli imbecilli. Che stronze!», sorrise.
«Gli stavi rovinando la piazza», la stuzzicai.
«Vaffanculo! Non sono mai stata una di quelle. Mi davo solo un po’ da fare», replicò stizzita.
Ci fu un lungo silenzio. Francesco era palesemente in imbarazzo a sentir parlare la moglie così dei suoi trascorsi sessuali, anche se all’epoca ancora non si conoscevano.
«Per fortuna hai messo la testa a posto. – dichiarò con il pragmatismo tipico dell’ingegnere milanese – Altrimenti non ti avrebbero mai fatto entrare all’università».
Lei lo ignorò, infastidita da quella battuta, e proseguì rivolta a me: «A proposito di prostitute, lo sai che è successo ad Alberto?».
«Certo che non lo so! Saranno sette anni che non lo sento più», risposi caustico alla domanda.
«Beh! Te lo dico io, allora. Lo hanno beccato con una di quelle. La moglie lo ha lasciato di punto in bianco».
«Mi sembra un po’ esagerato per una scappatella», replicai senza particolare interesse.
«Chiamala scappatella! Stava con una ragazzina. Poteva quasi essere sua figlia. Sembra se ne fosse invaghito, come in un romanzo di Nabokov. Pare le avesse fatto delle promesse… di aiutarla o che so io!», insistette infervorata. «Ti rendi conto! Farsela con una puttana qualunque. Per giunta straniera e minorenne. Con la famiglia da cui viene. Con una moglie deliziosa come Charlotte». Pronunciò quel “deliziosa”, attorcigliando la lingua sulle labbra, quasi fosse miele.
Per un attimo immaginai la scena: Alberto che rinnegava platealmente il suo passato e scappava con quella ragazza per sottrarla alla sua famiglia benpensante e alla moglie svizzera calvinista. Provai quasi tenerezza – forse orgoglio – per lui. «Una volta non ti saresti espressa così. Avevi meno pregiudizi. Ti sei imborghesita», le sbattei in faccia senza pensarci su. Mi guardò esterrefatta, inorridita, quasi l’avessi toccata nei suoi più profondi principi.
Francesco provò a intervenire per spegnere l’incendio. «Lo sai che Nadia ha lo spirito di un puritano», disse rivolto a me. Nadia lo incenerì con lo sguardo.
«È tardi e domani ho lezione. Sarà meglio che vada a dormire», colsi l’occasione per congedarmi. «È stata un’ottima cena. Grazie mille!». Mi alzai, presi la giacca e Francesco mi accompagnò alla porta. «In bocca al lupo!», lo incoraggiai strizzando l’occhio. Non feci in tempo a scendere la prima rampa che udii le urla della moglie rimbombare per le scale.
Uscii da casa loro brillo e disilluso. Quella serata così anonima e l’infelice conclusione non avevano fatto che acuire il mio senso di noia e solitudine. Sentivo il bisogno di riempire quel vuoto con qualcosa di profondamente provocatorio e scandaloso per la mia gente – per noi relitti di una stagione di contestazioni, l’ennesima, mancata all’appello con la storia. Fu proprio l’immagine dei grossi seni di Nadia compressi da quel maglioncino nero, che mi tormentava da diversi minuti, ad eccitarmi, conducendomi verso l’incontro proibito e decisivo.
Quasi automaticamente mi diressi nella zona della Stazione centrale in un bar di via Vitruvio che conoscevo dai tempi del liceo, anche se lo frequentavo solo per prendermi gioco dei suoi avventori. Era un locale aperto tutta la notte e frequentato da prostitute più – diciamo così – discrete, che non ci tenevano a dare troppo nell’occhio: per lo più italiane, donne senza protettore, casalinghe disperate, qualche scambista. Quelli che lo bazzicavano sapevano cosa aspettarsi. Mi sedetti a un tavolino un po’ appartato e non ci volle molto per essere adescato.
«Ciao!». Alzai lo sguardo per trovarmi di fronte una ragazza di poco più di vent’anni, che indossava una maglietta bianca molto scollata, una minigonna nera, degli stivali sopra le ginocchia e un lungo soprabito di lana. Risposi al saluto con un cenno del capo.
«Posso sedermi?», domandò accomodandosi senza aspettare una risposta. Aveva con sé un succo d’arancia con una cannuccia. Tirò su un sorso, continuando a fissarmi. «Vuoi un po’ di compagnia?», mi chiese in modo esplicito. «Sì!», risposi. «Qui di fronte c’è un albergo a ore, che ha una stanza libera. Se ti va, sono sessanta euro». Trovai l’approccio alquanto convenzionale, ma efficace. Mi alzai, pagai la birra che avevo consumato solo a metà e ci dirigemmo in fretta dall’altro lato della strada.
Non ci trattenne alcuna formalità. Il tizio alla reception ci diede una stanza al secondo piano senza fare domande o chiedere documenti. Salimmo per le scale, perché non c’era ascensore. Fu in quel momento che iniziai ad avvertire un senso di malessere alla bocca dello stomaco, come se stessi per violare una zona proibita delle mie fantasie. Mi tornò in mente l’immagine di Alberto e della sua Lolita.
Entrammo nella stanza che appariva alquanto anonima, se si eccettuano le pesanti tende lilla, che evidentemente servivano a rendere più discreta l’attività che si andava solitamente consumando tra quelle pareti. La mia accompagnatrice si tolse il soprabito e lo appese a un attaccapanni fissato al muro. Lo stesso feci io con più disagio. Non avevo idea di cosa dovessi fare – di come avvenivano solitamente questi incontri. In modo istintivo mi avvicinai al comodino e posai lì i sessanta euro.
«È la prima volta?», chiese. «Sì!». Notai che fino ad allora non mi aveva rivolto altro che domande e io non avevo fatto altro che assentire meccanicamente. «Si vede!», sorrise in modo sfuggente. «Non ti preoccupare. Lascia che ci pensi io».
Si mise in ginocchio davanti a me, tirando un po’ su la gonna in modo che potessi vederle il sedere. Cominciai ad avvertire un’erezione. Mi slacciò i pantaloni e li abbassò un po’ in modo da poter tirare fuori il mio pene e iniziò una fellatio.
Non ci volle molto perché venissi. L’ansia, l’eccitazione e lo stimolo insieme erano troppo forti, perché potessi resistere più di pochi secondi. Mi piegai, ansimando come un adolescente al suo primo rapporto. Lei si alzò, sputò lo sperma in un bicchiere di plastica sul comodino e cominciò a risistemarsi la gonna per uscire. Io mi ero seduto sul bordo del letto. Mi sentivo atrocemente imbarazzato, frustrato, fragile.
«Non andartene via, ti prego!», la supplicai. Lei sembrò ignorarmi. «Sono qui a Milano per pochi giorni. Non conosco nessuno. – mentii – Non mi va di rimanere solo questa notte. Ti pagherò tutto il tempo che passerai con me». Solo a quel punto lei mi rivolse lo sguardo. Sembrava piuttosto seccata, ma si sedette sul letto accanto a me. Provai di nuovo un senso di disagio, come un viaggiatore in un paese sconosciuto.
«Come ti chiami?», chiesi per rompere l’imbarazzo.
Lei mi squadrò, infastidita dalla domanda. «Susette!».
«Come Susette Gontard!», esclamai compiaciuto. E fui sorpreso dal ricevere in risposta uno sguardo incuriosito. «Non è il tuo vero nome, vero?».
«No! – disse – E tu?».
«Carlo!», risposi. «È il mio vero nome», sottolineai in modo allegro e accogliente.
«Che fai nella vita, Carlo?». Pronunciò la frase con tono ironico, come se volesse stare a quel gioco dei convenevoli.
«Sono un professore di greco».
Questa volta l’espressione che incontrai era chiaramente di interesse. «Cioè?».
«Beh! Insegno Greco antico in un’università americana». Feci un breve silenzio, come se non ci fosse altro da aggiungere, ma il suo sguardo mi incoraggiò a proseguire.
«Sono più di dieci anni che vivo lì. Sembra che gli americani abbiano una gran voglia di conoscere Omero. E – può sembrare assurdo – ma hanno anche un mucchio di soldi da spendere in studi sulle strofe saffiche». Immaginai di aver pronunciato parole alchemiche. E invece la mia interlocutrice non appariva affatto confusa.
«Sono anche abbastanza famoso, sai! Mi hanno invitato, come ex alunno della Statale, a tenere dei corsi: cose tipo “il linguaggio politico nel Prometeo di Eschilo”», dichiarai enfatizzando il tema di uno dei miei seminari. Ancora una volta mi stupii per il fatto di non aver suscitato i soliti sorrisi di scherno o battute sarcastiche. Desideravo enormemente capire il perché.
«E tu, invece, che fai?», chiesi senza pensare a quanto appariva stupida la domanda. «Cioè, voglio dire, a parte questo!», accompagnai l’affermazione con un gesto alquanto insulso con le mani.
«Cioè a parte fare la puttana?!».
«Sì, scusami!», dissi imbarazzato.
«Studio». Fece una breve pausa, come a indagare se poteva fidarsi di me. Il mio sguardo d’interesse dovette rassicurarla. «Studio all’università: filologia germanica».
«Adesso è più chiaro il riferimento a Susette», annuii soddisfatto della mia intuizione.
Lei accolse il mio entusiasmo con un: «Già!».
Un silenzio imbarazzato – questa volta da entrambe le parti – scese nella stanza. Quelle confidenze erano state alquanto strane per una coppia come la nostra e adesso necessariamente provavamo un senso di nudità, che esulava dallo stare insieme per consumare un rapporto sessuale basato sullo scambio di denaro.
«Scusami! Sono molto sorpreso. Sapevo che c’erano ragazze che si prostituivano per pagarsi gli studi, ma pensavo che…».
«Che fossero più idiote o seguissero corsi più comuni?».
«No! Non intendevo questo. Credevo che frequentassero posti diversi».
Lei fece una smorfia di disagio. «Beh! In genere è così. Ma io sono nel giro da poco e mi sto facendo una clientela. Per questo bazzico i bar, come quello dove mi hai incontrato».
«Capisco! Ti è andata male stasera. Sei incappata in un novellino come me», dissi sperando di sembrare spiritoso.
«No! Anzi, sei stato una bella sorpresa. Non so niente delle università americane. Deve essere fico insegnare lì. Pagano bene?».
«Sì, pagano abbastanza bene, ma non è così entusiasmante come sembra. E poi ho fatto una cazzata: una storia con la moglie di un collega. Lei era molto più grande di me e io completamente preso da questa storia clandestina. Alla fine lei è rimasta con il marito, ma la vicenda è uscita fuori in qualche modo e io ho finito per non essere più ben accetto. Nulla di particolare: sguardi sfuggenti, inviti mancati. Però era chiaro che non facevo più parte del loro mondo». Chinai il capo in segno di delusione. «Adesso sono piuttosto freddi con me, laggiù».
Mi guardò teneramente, come se mi comprendesse. Evidentemente anche lei non si era integrata bene in questa città e il lavoro che aveva deciso di intraprendere non doveva aiutarla: troppi segreti da nascondere; troppi luoghi da non frequentare di giorno per non essere riconosciuti.
«E tu, invece, perché fai questo lavoro?», approfittai della nascente complicità per saperne di più.
«Sono qui con una borsa di studio, ma non mi basta neanche per l'affitto della stanza. I miei non possono darmi una mano e quindi... mi arrangio. Ho provato a fare la commessa in un negozio di abbigliamento. Poi, però, un'amica mi ha aiutato a iniziare il mestiere e in questo modo guadagno molti più soldi di quanti ne possa spendere. Direi che il gioco vale la candela, no?». Mi scrutò come a cercare approvazione.
«Perché i tuoi non possono aiutarti?», chiesi con l'ingenuità di chi non ha mai dovuto lavorare - almeno non seriamente.
«Che ti credi! Vengo da un piccolo paese del Sud: un buco con le fogne pagate dalle rimesse degli emigrati in Argentina. Mio padre è morto due anni fa di infarto. Mia madre faceva la casalinga e si è dovuta mettere a servizio presso altre signore. Mi dà qualche soldo ogni tanto... pochi spicci... ce la fa a mala pena per sé». Si interruppe un attimo come presa da un senso di colpa, poi concluse: «A lei ho detto che faccio la cassiera in un supermercato».
«Capisco!», le dissi in modo apparentemente un po’ convenzionale, ma che era tutt’altro che formale. Percepivo nitida la sofferenza di quella ragazza e il bisogno di comprensione e di intimità, come se la realtà mi avesse appena pestato un piede per svegliarmi dai miei sogni: una storia come tante altre, totalmente estranea al mio mondo, simile alle altre in tutto, se non per il fatto che questa stava davanti a me. Sentii all'improvviso che era caduto ogni velo di imbarazzo e di reticenza tra noi due. E in questa complicità sempre più stretta l’abbracciai forte e finii – non so come – per baciarla. Lei ricambiò senza riluttanza. E finimmo per fare l’amore.
Quando mi svegliai verso le quattro del mattino, non c’era più. Aveva raccolto le sue cose e se ne era andata, prendendo i soldi che avevo lasciato sul comodino. Al loro posto c’era un bigliettino: “Se ti va ancora di stare con me, questo è il mio numero di telefono. Susette”.
La chiamai diverse volte prima di tornare negli Stati Uniti. Ci davamo appuntamento al bar di via Vitruvio. La trovavo sempre lì a bere il suo succo d’arancia al bancone. Indossava rigorosamente una minigonna studiata per immaginare cosa sarebbe successo dopo. Sorridendo mi invitava a sedere accanto a lei. Prendevo qualcosa da bere anch’io e ci intrattenevamo senza fretta. Poi attraversavamo la strada diretti al nostro albergo a ore. Chiedevamo sempre la stessa stanza: quella con le tende lilla. Se capitava che non era disponibile, tornavamo al locale o vagabondavamo senza meta per un po’, aspettando che si liberasse. Avevamo ormai inconsciamente deciso che quella stanza era la nostra stanza e che lì potevamo parlare e fare l’amore come in nessun altro posto.
Poco a poco perfezionammo i nostri incontri: questo gioco sottile nella mia vita così priva di giochi. Di Susette adoravo quella capacità di sedurmi con un sorriso, la rapidità di una rana nei salti mentali quando parlavamo dei miei corsi all’università e la leggerezza con cui poteva accettare ogni mia speciale richiesta senza le trattative e i negoziati delle mie amiche del versante diurno della società. E questo a prescindere dalla tariffa che lei sempre segnalava e incassava senza approfittarsi del mio felino riposo accanto al suo corpo. Alla fine darle del denaro ogni volta che ci incontravamo non era troppo diverso che portare dei fiori o offrire una cena a Nadia. Non ho mai veramente percepito l’incongruenza tra me che la baciavo per un diritto acquisito e lei che mi accoglieva con un sorriso gratuito che valeva più di qualsiasi somma di denaro. Valori falsi, senza dubbio, ma non più falsi di quelli diurni frequentati dalle persone borghesi e perbene, che incontravo ogni giorno. Lo so che sto tratteggiando un’ipocrita felicità pre-adamitica, che tutto era convenzionale e falsamente anarchico e non si può sperare di ritrovare lo stato di purezza originario in un albergo a ore. Ma a Milano – o in qualsiasi altro posto – devi inventarti delle isole; altrimenti è il bulldozer a tempo pieno: o così o la formazione coniugale che pochi sanno portare a compimento; e di certo non io. Semplicemente avevo trovato la mia isola in Susette.
Talvolta i nostri appuntamenti si concludevano con una cena di mezzanotte, in cui potevamo parlare senza il peso di quello che ci aspettava dopo. Erano momenti molto intimi, che potevano riservare delle trappole. La sera prima di partire le chiesi se non aveva paura che, prima o poi, sarebbe finita a letto con un suo professore. Piegò la testa in basso e, quando la rialzò, il suo sguardo era pieno di disprezzo per me. Ne fui amareggiato. Pensai che il problema fosse che le avevo messo ansia con quella domanda: la paura di ritrovarsi additata da tutti, smascherata agli occhi della sua famiglia. Mi rendo conto solo ora di aver profanato con quell’accenno alla sua professione un momento che lei mi stava concedendo liberamente e che era fuori dal nostro commercio; avevo spezzato una fiducia e un rispetto reciproci: un tacito accordo come quello che si tesse tra due amanti. Finì così che ci salutammo un po’ freddamente e il giorno dopo tornai alla mia consueta esistenza di professore.
Non ho saputo più nulla di lei per due anni. Poi ieri all’improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare. Un messaggio WhatsApp, poche semplici parole: “Salve! Lei non mi conosce. Sto inviando lo stesso messaggio a tutti i contatti di questa rubrica per avvisarvi che Giulia ci ha lasciato una settimana fa. Mi spiace darle in questo modo la notizia e spero di non averla disturbata”. La comunicazione si chiudeva così, senza nessuna firma. Rimasi interdetto. Chiunque aveva mandato quel messaggio era certamente al corrente di quale lavoro facesse Susette e forse avrà deciso, in un gesto di compassione, di proteggere il suo segreto con la famiglia. Oppure - preferivo pensare - era stata la stessa Susette a scriverlo per troncare ogni legame con tutti i suoi ex-clienti; e anche come una sorta di castigo: per suscitare un ricordo imbarazzante o un rimorso crudele in noi che eravamo stati insieme a lei. Con me aveva colto nel segno.
Non so perché sto scrivendo queste righe. Forse spogliare Susette è stato per me come mettere a nudo i miei desideri nascosti. Nel perdermi in questa storia breve e strana ho la sensazione di aver ritrovato me stesso: un’autenticità clandestina e romantica, fuori dagli stereotipi di una vita borghese, come in un romanzo dell’Ottocento. Adesso, però, ho anche la consapevolezza che, nel condividere un’esperienza intima ed estrema con lei, Giulia mi ha macchiato di rosso, lasciandomi irrimediabilmente legato e complice della sua esistenza: un filo sottile che si è spezzato all’improvviso portandosi via un pezzo della mia anima. O – chissà! – il mio è solo il rimpianto per aver perso, forse per sempre, una cosa bella.

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Egon Schiele, L'abbraccio, 1917, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna
Allegati
Schiele-abbraccio.jpg
Ultima modifica di Domenico Gigante il 21/05/2023, 10:52, modificato 6 volte in totale.
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Messaggio da leggere da Macrelli Piero »

Non ricordo in questo momento se si chiama epigrafe o epigramma quell'elemento introduttivo fra titolo e racconto, ma siccome ne faccio ampio uso, sono rimasto colpito dalla sua presenza nel tuo racconto.
Il racconto mi piace molto ma proprio molto, ma i complimenti non servono quanto le critiche che vado a iniziare. Il passaggio da casa degli amici al bar delle puttane avviene senza un chiarimento sul carattere del protagonista, non è da tutti andare a puttane dopo una cena dagli amici. Forse qui ci voleva un espediente. Poi cazzo e non pene; bocchino non fellatio.
Il messaggio in cui si dice che Giulia-Susette ci ha lasciati potrebbe anche essere che ha smesso di prostituirsi e non che è morta il che aprirebbe la strada verso un finale un po' diverso che non scioglie il dubbio, ma lascia il protagonista più indeterminato. haqi pesente le ultime righe del finale di Solaris?
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Messaggio da leggere da Domenico Gigante »

Macrelli Piero ha scritto: 22/03/2023, 1:14 Non ricordo in questo momento se si chiama epigrafe o epigramma quell'elemento introduttivo fra titolo e racconto, ma siccome ne faccio ampio uso, sono rimasto colpito dalla sua presenza nel tuo racconto.
Il racconto mi piace molto ma proprio molto, ma i complimenti non servono quanto le critiche che vado a iniziare. Il passaggio da casa degli amici al bar delle puttane avviene senza un chiarimento sul carattere del protagonista, non è da tutti andare a puttane dopo una cena dagli amici. Forse qui ci voleva un espediente. Poi cazzo e non pene; bocchino non fellatio.
Il messaggio in cui si dice che Giulia-Susette ci ha lasciati potrebbe anche essere che ha smesso di prostituirsi e non che è morta il che aprirebbe la strada verso un finale un po' diverso che non scioglie il dubbio, ma lascia il protagonista più indeterminato. haqi pesente le ultime righe del finale di Solaris?
Ciao Piero! Intanto grazie per il commento. Le tue critiche sono molto interessanti.
La prima, devo dire, mi ha dato una mazzata. Ho pensato "Cazzo, è vero! Perché non ci ho pensato?". Effettivamente non è da tutti passare da una cena tra amici a un bar per puttane. Ho scritto che era un po' brillo ed eccitato per i discorsi della cena, ma forse non basta a giustificare. Proverò ad aggiungere qualche riga di approfondimento anche sul senso di solitudine e sulla voglia di scandalizzare l'ambiente borghese a cui appartiene.
Sulla seconda questione è stata un'autocensura: sentivo che cazzo e bocchino (io preferisco pompino o raspone) sarebbero risultati inutilmente provocatori in un racconto che è molto sobrio da questo punto di vista. Però davanti a una tua più argomentata critica mi sentirei di rivedere la mia posizione.
Ultima, ma non meno importante, la critica sulla vera sorte di Susette. Sinceramente non avevo pensato a un finale tanto aperto. A me bastava lasciare il lettore insoddisfatto riguardo al come era morta. Diciamo che se non è morta, la mia storia perde un po' di senso. Quindi su questo mi è difficile fare marcia indietro.
Grazie ancora per le tue osservazioni. Un abbraccio!
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Un buon racconto, Domenico.
Dal punto di vista formale ti segnalo quelle che per me, bada bene, sono errori nella punteggiatura. Inserire una virgola o un punto fermo dopo un punto esclamativo o interrogativa in uscita dal discorso diretto è per me errato. I segni di interpunzione che scandiscono il discorso scritto non variano a seconda che si tratti di un discorso riportato o meno. Lo so che sempre ho parlato di coerenza come massima generale e che le case editrici si comportano un po' come vogliono al riguardo, ma per me la coerenza in questo caso è seguire una regola uniforme nell'inserire la punteggiatura, discorso diretto o meno.
Non sei stato coerente in un'altra occasione, quando hai inserito i trattini per interrompere brevemente il discorso diretto. Lo so, alcune case editrici lo fanno. Ma allora, e qui sta la mancanza di coerenza, non adoperare i trattini per gli incisi del narratore. Cambia i segni.
A ogni segno la sua funzione.
Va beh, pistolotto antipatico, lo ammetto.
Quanto al racconto, provi a delineare l'epifania di un rapporto conflittuale, dove per me il conflitto è prevalentemente sociale, di classe. Susette è un'esponente di una minuta borghesia in difficoltà che per mantenere lo status e le prospettive non teme di confrontarsi con la realtà. In Susette c'è coraggio, sfrontatezza, audacia nel lanciarsi in un mestiere che comunque mette a rischio la sua vita.
La sua controparte, senza nome mi pare, e quindi anonima ab initio forse inconsapevolmente, è un professore universitario milanese che lavora in America, si presume stapagato, e che, si desume dalla conversazioni a cena con gli amici, non ha mai conosciuto difficoltà economiche o di altro tipo nella sua vita. Vita da ZTL dicono oggi i giornalisti. La medesima massima vale per Nadia e Francesco (protagonisti à rebours) con i loro bei lavori tranquilli e ben pagati e casa in centro. Così il tuo protagonista, alla fine della cena, decide di farsi adescare da una prostituta ventenne (si suppone) per noia se non per evitare di pensare a Nadia, sua ex fiamma, appena lasciata con un altro. Lui è a Milano in visita di lavoro, sente forse la vita sfuggirgli senza avere osato, senza aver nulla assaggiato. Un po' Humbert, d'altra parte Nabokov lo citi tu, ma la simmetria tra la passione per Susette Giulia e quella per Lolita termina qui, a mio avviso.
Sia perché Susette è comunque un'adulta, sia perché tu offri al lettore una impronta marcatamente di differenza di classe tra i due protagonisti. Le differenze sociali si assopiscono durante la breve relazione tra i due, ma fanno capolino quando a lui sfugge un riferimento al possibile interesse di lei per un professore. Un professore qualsiasi, ma in realtà lui sottintende se stesso. Quasi che la relazione con il professore che lui è possa aiutarla a far carriera, a superare le avversità. Lui in questo modo dimostra di sentirsi usato. Beh, i ricchi si sentono sempre usati quando danno lavoro ai propri dipendenti, è un fatto. Fanno dei favori a dei morti di fame, non è mai l'esatto contrario, ossia lo sfruttamento del debole da parte del forte.
Quando Susette si avvede che il suo regalarsi, donarsi, con l'unica reciprocità possibile che è l'amore condiviso, è scambiato per una profferta, una transazione economica, come quella tra richiedente e committente, ecco che lei subito lo lascia.
La reciprocità per Susette era il darsi per amore, o semplice trasporto, amicizia. Per lui era lo sfruttamento della sua posizione.
L'essenza della lotta di classe.
Quanto alla struttura, la lunga sequenza introduttiva, quella della cena, che culmina in una sequenza dialogica, benché illuminante della personalità del protagonista è forse preponderante rispetto al resto del racconto. Seppure sia scritta molto bene. Più che accorciarla allungherei il resto. Su Susette Giulia dici poco e forse varrebbe la pena sapere di più per bilanciare quanto so del professore. Anche la relazione tra i due andrebbe approfondita. L'epilogo l'ho trovato forzato. La morte di Susette, a mio avviso bada bene, non aggiunge nulla alla narrazione. Lei se n'è andata quando doveva farlo. È quello l'epilogo perfetto.
Il racconto mi ha un po' ricordato il discreto romanzo di Villain, Pas son Genre, da cui è stato tratto un buon film, forse sottovalutato. Situazione simile, non identica, appassionante relazione, poi lei lo lascia e va via. Perché si rende conto che le differenze tra loro due vanno al di là delle disparità culturali (quindi forse risolvibili, che con Susette neanche sono poi così pronunciate), ma vi è una diffrenza di classe, un salto sociale non riducibile. Lei sa che verrà usata, che si trova in una posizione di minorità non risolvibile, e perciò scappa. La fuga è l'unica alternativa, come per la tua Susette. Per Susette si aggiunge il marchio d'infamia della prostituzione che scava un solco maggiore dello iato culturale di Villain.
A ogni modo, un buon racconto, bravo. L'ho letto volentieri. Ne hai abbastanza per scrivere un romanzo.
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Laura Traverso
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Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Il tuo racconto ha personaggi un po' odiosi. A partire dalla radical chic Nadia per poi estendersi alla figura principale della storia che hai narrato: in quanto nonostante la parvenza di una sensibilità intravista, si è comportato infine da gran cafone. Circa la terminologia usata per descrivere il consueto rapporto tra cliente e prostituta per me va bene, mi è piaciuta e ne ho apprezzato la delicatezza: detesto la volgarità inutile quando si può descrivere comunque un fatto senza cadere nel becero con parole a effetto. In merito alla trama del tuo racconto, non saprei tanto che dire. Il racconto scorre e non annoia, la scrittura è corretta e bene impostata; la trama, appunto come dicevo, non è molto coinvolgente, secondo me.
Il finale, poi, è un po' cosi, direi superfluo. Avrei preferito leggere solo l'ultima parte in cui lui, ricordandola indipendentemente dal messaggio che la dichiarava defunta, esprime per le meretrici pensieri e sentimenti di rispetto e gratitudine. Perché in fondo è così che dovrebbe essere... Circa la valutazione non saprei, ci devo pensare un poco. Ciao Domenico, un caro saluto
Ultima modifica di Laura Traverso il 22/03/2023, 22:05, modificato 1 volta in totale.
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Namio Intile ha scritto: 22/03/2023, 17:54 Un buon racconto, Domenico.
Dal punto di vista formale ti segnalo quelle che per me, bada bene, sono errori nella punteggiatura. Inserire una virgola o un punto fermo dopo un punto esclamativo o interrogativa in uscita dal discorso diretto è per me errato. I segni di interpunzione che scandiscono il discorso scritto non variano a seconda che si tratti di un discorso riportato o meno. Lo so che sempre ho parlato di coerenza come massima generale e che le case editrici si comportano un po' come vogliono al riguardo, ma per me la coerenza in questo caso è seguire una regola uniforme nell'inserire la punteggiatura, discorso diretto o meno.
Non sei stato coerente in un'altra occasione, quando hai inserito i trattini per interrompere brevemente il discorso diretto. Lo so, alcune case editrici lo fanno. Ma allora, e qui sta la mancanza di coerenza, non adoperare i trattini per gli incisi del narratore. Cambia i segni.
A ogni segno la sua funzione.
Va beh, pistolotto antipatico, lo ammetto.
Quanto al racconto, provi a delineare l'epifania di un rapporto conflittuale, dove per me il conflitto è prevalentemente sociale, di classe. Susette è un'esponente di una minuta borghesia in difficoltà che per mantenere lo status e le prospettive non teme di confrontarsi con la realtà. In Susette c'è coraggio, sfrontatezza, audacia nel lanciarsi in un mestiere che comunque mette a rischio la sua vita.
La sua controparte, senza nome mi pare, e quindi anonima ab initio forse inconsapevolmente, è un professore universitario milanese che lavora in America, si presume stapagato, e che, si desume dalla conversazioni a cena con gli amici, non ha mai conosciuto difficoltà economiche o di altro tipo nella sua vita. Vita da ZTL dicono oggi i giornalisti. La medesima massima vale per Nadia e Francesco (protagonisti à rebours) con i loro bei lavori tranquilli e ben pagati e casa in centro. Così il tuo protagonista, alla fine della cena, decide di farsi adescare da una prostituta ventenne (si suppone) per noia se non per evitare di pensare a Nadia, sua ex fiamma, appena lasciata con un altro. Lui è a Milano in visita di lavoro, sente forse la vita sfuggirgli senza avere osato, senza aver nulla assaggiato. Un po' Humbert, d'altra parte Nabokov lo citi tu, ma la simmetria tra la passione per Susette Giulia e quella per Lolita termina qui, a mio avviso.
Sia perché Susette è comunque un'adulta, sia perché tu offri al lettore una impronta marcatamente di differenza di classe tra i due protagonisti. Le differenze sociali si assopiscono durante la breve relazione tra i due, ma fanno capolino quando a lui sfugge un riferimento al possibile interesse di lei per un professore. Un professore qualsiasi, ma in realtà lui sottintende se stesso. Quasi che la relazione con il professore che lui è possa aiutarla a far carriera, a superare le avversità. Lui in questo modo dimostra di sentirsi usato. Beh, i ricchi si sentono sempre usati quando danno lavoro ai propri dipendenti, è un fatto. Fanno dei favori a dei morti di fame, non è mai l'esatto contrario, ossia lo sfruttamento del debole da parte del forte.
Quando Susette si avvede che il suo regalarsi, donarsi, con l'unica reciprocità possibile che è l'amore condiviso, è scambiato per una profferta, una transazione economica, come quella tra richiedente e committente, ecco che lei subito lo lascia.
La reciprocità per Susette era il darsi per amore, o semplice trasporto, amicizia. Per lui era lo sfruttamento della sua posizione.
L'essenza della lotta di classe.
Quanto alla struttura, la lunga sequenza introduttiva, quella della cena, che culmina in una sequenza dialogica, benché illuminante della personalità del protagonista è forse preponderante rispetto al resto del racconto. Seppure sia scritta molto bene. Più che accorciarla allungherei il resto. Su Susette Giulia dici poco e forse varrebbe la pena sapere di più per bilanciare quanto so del professore. Anche la relazione tra i due andrebbe approfondita. L'epilogo l'ho trovato forzato. La morte di Susette, a mio avviso bada bene, non aggiunge nulla alla narrazione. Lei se n'è andata quando doveva farlo. È quello l'epilogo perfetto.
Il racconto mi ha un po' ricordato il discreto romanzo di Villain, Pas son Genre, da cui è stato tratto un buon film, forse sottovalutato. Situazione simile, non identica, appassionante relazione, poi lei lo lascia e va via. Perché si rende conto che le differenze tra loro due vanno al di là delle disparità culturali (quindi forse risolvibili, che con Susette neanche sono poi così pronunciate), ma vi è una diffrenza di classe, un salto sociale non riducibile. Lei sa che verrà usata, che si trova in una posizione di minorità non risolvibile, e perciò scappa. La fuga è l'unica alternativa, come per la tua Susette. Per Susette si aggiunge il marchio d'infamia della prostituzione che scava un solco maggiore dello iato culturale di Villain.
A ogni modo, un buon racconto, bravo. L'ho letto volentieri. Ne hai abbastanza per scrivere un romanzo.
Caro Namio! Grazie mille per il tuo commento. Riguardo alla punteggiatura, ogni tanto la uso a "sentimento". Cercherò di starci più attento.
Trovo giusta la tua critica: effettivamente avrei dovuto dare più spazio al rapporto tra i protagonisti e, in particolare, alla figura di Susette. Ne terrò conto per rivedere il racconto.
In quanto alla tua analisi è sostanzialmente corretta, anche se tu estremizzi una lettura marxista in termini di lotta di classe, che io non volevo dare. Quello che mi solletica della faccenda è la contrapposizione tra un certo romanticismo ottocentesco nella sua forma ideale (questo sì molto borghese, come genesi storica) e il carattere prosaico della relazione cliente/prostituta come si svolge nei fatti (compresi i pagamenti sempre richiesti e soddisfatti). In fondo il protagonista è un borghese annoiato e un po' disilluso, che cerca in un rapporto atipico e clandestino quell'emozione di matrice rousseauiana per un amore pre-sociale (fuori dagli schemi rigidi della morale borghese). Ma il tutto è palesemente falso, è solo una fantasia. E lui finisce per rendersene conto. Forse è proprio per il fatto di essermi molto più concentrato sulla figura maschile (che del resto è il narratore), che ho trascurato il lato femminile. In fondo mi interessava molto meno la Susette reale rispetto a quella ideale, che il protagonista va costruendo nel racconto. Ed è per questo che anch'io - buon borghese - ho finito per innamorarmi follemente di Susette man mano che scrivevo la storia. Ti dirò di più: nella mia mente Susette non ha mai neanche pensato che quel rapporto potesse essere qualcosa di diverso da un semplice commercio.
La morte: per me è un'ossessione più che un espediente narrativo. Non riesco a chiudere un racconto senza la morte; non riesco a pensare altrimenti. E' un limite, lo riconosco. Magari con il tempo e l'esperienza riuscirò a superare questa fissazione.
Un grazie immenso come sempre, perché con i tuoi commenti mi dai modi di ragionare più a fondo su ciò che scrivo.
Un abbraccio!
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Laura Traverso ha scritto: 22/03/2023, 19:16 Il tuo racconto fa incetta di personaggi odiosi. A partire dalla radical chic Nadia per poi estendersi alla figura principale della storia che hai narrato: in quanto nonostante la parvenza di una sensibilità intravista, si è comportato infine da gran cafone. Circa la terminologia usata per descrivere il consueto rapporto tra cliente e prostituta per me va bene: detesto la volgarità inutile quando si può descrivere comunque un fatto senza cadere nel becero con parole a effetto. In merito alla trama del tuo racconto, non saprei tanto che dire. Il racconto scorre e non annoia, la scrittura è corretta e bene impostata; la trama, appunto come dicevo, non è molto coinvolgente, secondo me. Trovo non offra nulla di originale.
Il finale, poi, è un po' cosi, direi inutile. Avrei preferito leggere solo l'ultima parte in cui lui, ricordandola indipendentemente dal messaggio che la dichiarava defunta, esprime per le meretrici pensieri e sentimenti di rispetto e gratitudine. Perché in fondo è così che dovrebbe essere... Circa la valutazione non saprei, ci devo pensare un poco. Ciao Domenico, un caro saluto
Cara Laura! Hai ragione, il mio protagonista si comporta da "gran cafone". E' il frutto della tensione tra ideale e reale: tra il rapporto fantasticato e quello concreto. Si finisce per ritornare alla normalità per l'incapacità di conciliare questi due estremi. D'altra parte la mia non voleva essere una favola, ma il racconto della fine di un'illusione: e le illusioni non hanno un lieto fine.
Mi spiace che il racconto non ti abbia coinvolto. Ma è giusto così: ognuno ha la sua sensibilità.
Grazie per il tuo commento e un abbraccio!
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Domenico Gigante ha scritto: 22/03/2023, 21:59 Cara Laura! Hai ragione, il mio protagonista si comporta da "gran cafone". E' il frutto della tensione tra ideale e reale: tra il rapporto fantasticato e quello concreto. Si finisce per ritornare alla normalità per l'incapacità di conciliare questi due estremi. D'altra parte la mia non voleva essere una favola, ma il racconto della fine di un'illusione: e le illusioni non hanno un lieto fine.
Mi spiace che il racconto non ti abbia coinvolto. Ma è giusto così: ognuno ha la sua sensibilità.
Grazie per il tuo commento e un abbraccio!
Ciao Domenico, ho modificato un poco il commento, questo sopra, in quanto mi è parso di essere stata poco cortese e non vorrei mai. Ho valutato e optato per il voto alto = 4
Ultima modifica di Laura Traverso il 22/03/2023, 22:16, modificato 1 volta in totale.
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Laura Traverso ha scritto: 22/03/2023, 22:09 Ciao Domenico, ho modificato un poco il commento, questo sopra, in quanto mi è parso di essere stata poco cortese e non vorrei mai.
Grazie! Ma non mi sono sentito affatto offeso. Anzi! Hai espresso la tua opinione in maniera sincera. Non c'è nulla di offensivo nella sincerità.
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Domenico Gigante ha scritto: 22/03/2023, 22:15 Grazie! Ma non mi sono sentito affatto offeso. Anzi! Hai espresso la tua opinione in maniera sincera. Non c'è nulla di offensivo nella sincerità.
Si, però occorre fare attenzione alle parole, e io a volte vado troppo d'impulso e rischio di infastidire, e come detto poco fa, davvero mi dispiacerebbe farlo, soprattutto con persone come te estremamente gentili.
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Macrelli Piero ha scritto: 22/03/2023, 1:14 Non ricordo in questo momento se si chiama epigrafe o epigramma quell'elemento introduttivo fra titolo e racconto, ma siccome ne faccio ampio uso, sono rimasto colpito dalla sua presenza nel tuo racconto.
Il racconto mi piace molto ma proprio molto, ma i complimenti non servono quanto le critiche che vado a iniziare. Il passaggio da casa degli amici al bar delle puttane avviene senza un chiarimento sul carattere del protagonista, non è da tutti andare a puttane dopo una cena dagli amici. Forse qui ci voleva un espediente. Poi cazzo e non pene; bocchino non fellatio.
Il messaggio in cui si dice che Giulia-Susette ci ha lasciati potrebbe anche essere che ha smesso di prostituirsi e non che è morta il che aprirebbe la strada verso un finale un po' diverso che non scioglie il dubbio, ma lascia il protagonista più indeterminato. haqi pesente le ultime righe del finale di Solaris?
Ciao Piero! Ho aggiunto poche righe dal momento in cui il protagonista lascia la casa a quando si dirige al bar di via vitruvio. Vedi se è quello che pensavi. Fammi sapere.
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Albapratalia ha scritto: 28/03/2023, 18:41 Riscrivo il post

Ho letto e riletto il racconto, i commenti e ho riflettuto su quello che avrei potuto scrivere
Mi spiego, non mi sto riferendo a una riflessione di "calcolo" né a un dire le cose cercando di piacere.
Condivido il commento di Laura, forse un racconto del genere meriterebbe un maggior approfondimento caratteriale dei personaggi, ma, tutto sommato, va bene così.
Ciao Albapratalia! Intanto grazie per il commento.
Non ho capito bene dov'è la differenza tra i due post che hai scritto.
Perdonami, ma non sono riuscito neanche a capire questa tua frase: "Mi spiego, non mi sto riferendo a una riflessione di "calcolo" né a un dire le cose cercando di piacere.". Che cosa intendi?
Cmq grazie di aver letto e riletto il testo: significa che in qualche modo ha catturato la tua attenzione.
A questo punto, però, mi hai messo la curiosità: tu come avresti approfondito i personaggi? Magari può essere un buon suggerimento per sistemare il testo.
Grazie ancora e un abbraccio!
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Xarabass ha scritto: 01/04/2023, 15:26 Racconto scritto molto bene, forse un po' troppo lungo e la morale finale poteva tranquillamente essere eliminata.
Il continuo rimestare nelle classi sociali fa molto anni '60 ed è noioso.
Non mi ha molto coinvolto.
Ciao! Intanto grazie per il commento. Sì, forse il ricorso alle classi sociali fa un po' anni Sessanta. Mi spiace che non ti abbia coinvolto. Spero di fare meglio la prossima volta. Un abbraccio!
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Ho trovato questo racconto ben scritto e anche piuttosto "spinto", considerando il contesto. In effetti il protagonista passa disinvoltamente da una cena a una sveltina rimediata in un bar, e questo un po' destabilizza un lettore come me che s'aspettava un tipo che almeno s'illudesse di trovare una parvenza di romanticismo nella situazione. Chessò, magari che Susette gli sussurrasse all'orecchio:"σ' αγαπάω", come nel film "Il giovane favoloso" di Martone. Poi però inizia davvero una relazione simil-romantica, anche se la ragazza è la prima a non crederci.
Fai bene a rimarcare le differenze di classe, e che nei giovani sia talmente introiettata da essere diventata invisibile: è il progresso, bellezza!
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Andr60 ha scritto: 06/04/2023, 10:16 Ho trovato questo racconto ben scritto e anche piuttosto "spinto", considerando il contesto. In effetti il protagonista passa disinvoltamente da una cena a una sveltina rimediata in un bar, e questo un po' destabilizza un lettore come me che s'aspettava un tipo che almeno s'illudesse di trovare una parvenza di romanticismo nella situazione. Chessò, magari che Susette gli sussurrasse all'orecchio:"σ' αγαπάω", come nel film "Il giovane favoloso" di Martone. Poi però inizia davvero una relazione simil-romantica, anche se la ragazza è la prima a non crederci.
Fai bene a rimarcare le differenze di classe, e che nei giovani sia talmente introiettata da essere diventata invisibile: è il progresso, bellezza!
Ciao Andr60! Hai, secondo me, colto un aspetto importante del racconto quel mix tra poetico e prosaico, tra romanticismo e gretto realismo. Sì, il protagonista vive (o immagina di vivere) un avventura con un'amante che ha i tratti ideali della Musa, ma che è e resta una prostituta che fa i conti con la realtà. Un po' come Catullo con la sua Lesbia, che - ci dicono i critici - storicamente era una tenutrice di un bordello.
Il mondo oggi è fatto di questi "eroi romantici" che hanno abbandonato ideali e battaglie politiche e si sono arresi all'idea che si sopravvive solo nella loro piccola isola di illusioni poetiche. Io sono tra questi.
Un grande abbraccio!
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Dicono che sia l'argomento più vecchio del mondo e secondo me l'hai toccato con la giusta delicatezza (forse troppo nel passaggio clou). Mi sembra anche una storia che potrebbe accadere ogni sera in una grande città come Milano. A parte la morale finale, poetica ma forse troppo lunga, mi sono fatto l'idea che Carlo potrebbe non essere la prima volta che cerca un amore mercenario, mentre Susette non è morta ma ha cambiato vita e ha mandato il messaggio ad un uomo che non aveva dimenticato. Perchè anche le puttane hanno un cuore.
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Athosg ha scritto: 20/04/2023, 15:57 Dicono che sia l'argomento più vecchio del mondo e secondo me l'hai toccato con la giusta delicatezza (forse troppo nel passaggio clou). Mi sembra anche una storia che potrebbe accadere ogni sera in una grande città come Milano. A parte la morale finale, poetica ma forse troppo lunga, mi sono fatto l'idea che Carlo potrebbe non essere la prima volta che cerca un amore mercenario, mentre Susette non è morta ma ha cambiato vita e ha mandato il messaggio ad un uomo che non aveva dimenticato. Perchè anche le puttane hanno un cuore.
Ciao Athosg! Grazie come sempre per il commento.
Mia moglie mi aveva già stroncato il finale. Quindi lo avevo un po' ridotto di lunghezza - senza toglierlo, perché a me è caro. Però comincio a pensare che abbiate ragione voi e bisogna rivederlo e ridurlo ai minimi termini. In questo senso ti chiedo di segnalarmi anche tu la parte che reputi di troppo, in modo da farmi un'idea più precisa di come intervenire.

Per quanto riguarda la vita dei due personaggi sono profondamente agnostico. Ho lasciato volutamente vago il riferimento ad altri episodi del genere da parte di Carlo e sulle cause della morte di Susette non mi sono pronunciato. Quindi - sì - è possibile che non sia morta, ma abbia semplicemente cambiato vita e quindi rotto i rapporti in modo drastico con i precedenti clienti.
Non sta a me deciderlo. D'altra parte scrivere questo racconto è stato per me tremendamente coinvolgente. E' come se Susette avesse una vita propria... e io mi sono follemente innamorato di lei. E ho finito addirittura per scriverle una poesia, che adesso è in gara nel GranPrix https://www.braviautori.it/forum/viewtopic.php?t=7051
Figurati come sono messo :-))
Un abbraccio!
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Re: Susette

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Accogliendo i suggerimenti di Namio e Athosg ho modificato il racconto: ho aggiunto qualcosina in più su Susette e tagliato il finale. Spero che così funzioni meglio.
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Commento : Susette

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Apprezzo le tue capacità e perciò ho deciso di farti una critica impietosa, perché il tuo racconto merita molto, anzi, potrebbe essere la trama di un romanzo, come dice Namio.

Concordo con la segnalazione di Namio sulla punteggiatura e il resto. Parole sue “pistolotto antipatico”.
Sempre Namio ti ha già fatto una dettagliata disanima e non mi ripeto.

Se anche una sola delle mie considerazioni la troverai utile, allora avrò già raggiunto il mio scopo.

Temo tu sia caduto nella trappola del “che” (81), ma non ti preoccupare. È solo una mia “menata”. Avendo a disposizione decine di migliaia di romanzi pubblicati in formato WORD, a volte mi sacrifico a cercare quanti “che” ha usato questo o quello scrittore osannato e ne trovo parecchi di questi “geni della scrittura” lanciati in un utilizzo pazzo di questo magico “che”.
Quasi ti direi: “Vai tranquillo, più ne usi e meglio è.”

Ci sono ben 27 avverbi in …mente.

Refuso - …stretta l’abbraccia forte e finii…

Quando il protagonista dice a Nadia, sua ex-fidanzata, la frase: «Gli stavi rovinando la piazza», entra decisamente a gamba tesa, dopo una “conversazione molto piacevole per tutta la cena” e spiazza totalmente il lettore, non preparato a una simile “uscita”. Carlo sembra voglia rivangare passati rancori di cui nulla si è detto fino a questo punto.

La reazione di Francesco per me non ci sta. Non può aver capito tutto dalla semplice frase di Nadia: “Mi davo solo un po’ da fare”, permettendogli di saltare subito alle conclusioni. Minimo una domanda, Francesco l'avrebbe dovuta fare, prima di partire in quarta.

“Non feci a tempo a scendere” – io preferirei - Non feci tempo a scendere –

“un po’ brillo ed eccitato da quei discorsi.” – più che eccitato io direi incazzato. Rinfaccia alla sua ex dopo molti anni di essere stata una quasi puttana e poi si eccita?

“acuire il mio senso di noia” – ma se era eccitato? Io quando mi eccitavo, mica ero annoiato, ti pare?

“come se stessi per commettere un incesto: un atto riprovevole nei confronti di mia madre.” – io cambierei la similitudine. Perché tirare in ballo un rapporto incestuoso con la madre, di cui non sappiamo niente?

“«Non andartene via, ti prego!», la supplicai.” – uno che prega già sta supplicando, per me “la supplicai” non ci vuole.

“Non mi va di ritornare nella mia stanza.” – detto così sembra che Carlo alloggiasse in quello stesso albergo a ore.

“ad iniziare” – a iniziare

“nella mia doppia vita” – perché doppia vita? Non ne sappiamo nulla.

“all’improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare:” presumo il nome sia quello di Susette. Da qui a intuire che il vero nome di Susette sia Giulia ce ne corre.

A questo punto Carlo presume una serie di cose abbastanza confuse.

Primo. I cellulari sono due: uno per il lavoro e uno privato?

Secondo. Quello perso deve essere quello di lavoro, perché poi?

Terzo. Chi l’ha detto che Susette avesse tutti i nomi dei clienti anche sul suo cellulare privato? Se ha smarrito quello di lavoro, infatti, i numeri di cellulari dei clienti non li aveva più.

Quarto. Sembra di capire che i messaggi li invii Susette, e perché non lo sconosciuto che si diverte a nominare questa Giulia, nome che Carlo non ha mai sentito, spedendo messaggi con WhatsApp inventati di sua sana pianta.

Quinto. Se è Susette a spedire i messaggi, per proteggere il suo segreto con la madre, e Carlo vede apparire il nome di Susette sul suo cellulare, allora lui doveva avere in rubrica anche il numero privato di Susette, o no? E quanti altri clienti lo avevano?

Spero di non essermi confuso anch’io con questa storia ingarbugliata, se così mi scuso in anticipo.

I miei dubbi non sono finiti, ma preferisco fermarmi qui. Direi che è abbastanza.
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Re: Commento : Susette

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Alberto Marcolli ha scritto: 11/05/2023, 20:19 Apprezzo le tue capacità e perciò ho deciso di farti una critica impietosa, perché il tuo racconto merita molto, anzi, potrebbe essere la trama di un romanzo, come dice Namio.
Ciao Alberto! Grazie moltissimo per il tuo commento. Ogni nota è preziosa. Dato che le cose sottolineate sono molte, ti rispondo di seguito, citando quanto scrivi. (Per quanto riguarda gli avverbi in ...mente, sono la mia ossessione: certe volte mi capita di scherzarci sopra pure io).

Quando il protagonista dice a Nadia, sua ex-fidanzata, la frase: «Gli stavi rovinando la piazza», ...

Io l'ho intesa come una battuta, che ci può stare tra persone che si conoscono da tanto tempo e hanno avuto anche una relazione. Non mi sembra strana.

---

La reazione di Francesco per me non ci sta. Non può aver capito tutto dalla semplice frase di Nadia...

Mi sembra chiaro dalla battuta del protagonista e dalla successiva risposta di Nadia il senso del discorso. Forse la cosa che suppongo è il fatto che Francesco sapesse abbastanza del passato della moglie. D'altra parte non vedo perché Nadia doveva nasconderglielo. L'imbarazzo è dovuto al fatto che si faccia riferimento alla cosa (un po' di orgoglio virile ferito)

---

“un po’ brillo ed eccitato da quei discorsi.” – più che eccitato io direi incazzato...

Proprio il fatto che la conversazione verteva sul sesso può generare eccitazione. D'altra parte non do l'idea che il protagonista si sia incazzato. Quella incazzata è Nadia.

---

“acuire il mio senso di noia” – ma se era eccitato? ...

Giusta considerazione! Ha senso.

---

“come se stessi per commettere un incesto: un atto riprovevole nei confronti di mia madre.”...

Vero! E' una parte che mi proponevo di cambiare, perché suona strana.

---

“«Non andartene via, ti prego!», la supplicai.” – uno che prega...

Anche questa è una giusta osservazione. Però non penso che sia pleonastico; rafforza il concetto.

---

“Non mi va di ritornare nella mia stanza.”...

Oddio! Forse hai ragione, ma con cosa sostituirlo? "a casa"? ma non ha una casa. "nel mio appartamento"? Suona poco naturale. Non so... Se hai un consiglio...

---

“nella mia doppia vita” – perché doppia vita? Non ne sappiamo nulla...

Concordo! Non so perché me ne sono uscito così.

---

“all’improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare:” presumo...

Il nome Giulia è citato nel messaggio che ha ricevuto, non lo presume.

---

Primo. I cellulari sono due: uno per il lavoro e uno privato?...

Ipotizza che usasse due cellulari, il che è abbastanza comune.

---

Secondo. Quello perso deve essere quello di lavoro, perché poi?...

Perché perso? Non ho mai detto che lo ha perso.

---

Terzo. Chi l’ha detto che Susette avesse tutti i nomi dei clienti...

Non ha smarrito il cellulare di lavoro. Qualcuno lo sta usando per inviare messaggi ai clienti, avvisandoli che Giulia/Susette è morta.

---

Quarto. Sembra di capire che i messaggi li invii Susette...

Susette è morta (forse ha solo deciso di fingere per chiudere definitivamente con la prostituzione). Carlo ha il nome Susette in rubrica, ma nel messaggio si fa riferimento a Giulia. Lui sa che Susette non è il vero nome della ragazza (non sappiamo se lei gliel'ha mai detto, ma la cosa ha poca importanza). Il punto è che Carlo fa semplicemente due più due.

---

Quinto. Se è Susette a spedire i messaggi...

Non aveva il numero privato. Il messaggio gli viene inviato da quello di lavoro. Non so veramente come sia nato questo equivoco. Magari segnalami dove ti sembra che creo questa confusione.

---

Grazie ancora e un abbraccio forte!
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Re: Susette

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Il tuo è tuo è un racconto che finalmente (avverbio in ...mente!) mi esercita a pensare.
--
“Non mi va di ritornare nella mia stanza.” -- non mi va di rimanere solo questa notte.
--
“all’improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare:” - il nome che appare può essere solo quello di Susette. Che Giulia sia il vero nome e Carlo faccia due più due è possibile.

A scanso di equivoci io riscriverei l’intero paragrafo così:

- Non ho saputo più nulla di lei per due anni. Poi ieri, all’improvviso, è apparso sul mio cellulare un misterioso messaggio WhatsApp con il suo nome:

“Salve! Lei non mi conosce. Sto inviando lo stesso messaggio a tutti i contatti di questa rubrica per avvisarvi che Giulia ci ha lasciato una settimana fa. Mi spiace darle in questo modo la notizia e spero di non averla disturbata”.

Rimasi interdetto. Era lei l’autrice del messaggio oppure Susette, alias Giulia, era veramente morta e il suo cellulare era stato usato da uno sconosciuto?
Preferii pensare che Susette avesse deciso di troncare con la prostituzione, e volesse spezzare ogni legame con tutti i suoi ex-clienti, soprattutto per proteggere il suo segreto con la madre; e anche come una sorta di castigo: per suscitare un ricordo imbarazzante o un rimorso crudele in noi che eravamo stati insieme a lei. Con me aveva colto nel segno.

Un possibile cambiamento della frase finale potrebbe anche essere quello di aggiungere un “forse”, allo scopo di non voler chiudere del tutto questa esperienza “intima ed estrema con lei”
- – il mio è solo il rimpianto per aver perso, forse per sempre, una cosa bella.
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Domenico Gigante
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Alberto Marcolli ha scritto: 12/05/2023, 10:24 Il tuo è tuo è un racconto che finalmente (avverbio in ...mente!) mi esercita a pensare.
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“all’improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare:” - il nome che appare può essere solo quello di Susette. Che Giulia sia il vero nome e Carlo faccia due più due è possibile.

A scanso di equivoci io riscriverei l’intero paragrafo così:

- Non ho saputo più nulla di lei per due anni. Poi ieri, all’improvviso, è apparso sul mio cellulare un misterioso messaggio WhatsApp con il suo nome:

“Salve! Lei non mi conosce. Sto inviando lo stesso messaggio a tutti i contatti di questa rubrica per avvisarvi che Giulia ci ha lasciato una settimana fa. Mi spiace darle in questo modo la notizia e spero di non averla disturbata”.

Rimasi interdetto. Era lei l’autrice del messaggio oppure Susette, alias Giulia, era veramente morta e il suo cellulare era stato usato da uno sconosciuto?
Preferii pensare che Susette avesse deciso di troncare con la prostituzione, e volesse spezzare ogni legame con tutti i suoi ex-clienti, soprattutto per proteggere il suo segreto con la madre; e anche come una sorta di castigo: per suscitare un ricordo imbarazzante o un rimorso crudele in noi che eravamo stati insieme a lei. Con me aveva colto nel segno.

Un possibile cambiamento della frase finale potrebbe anche essere quello di aggiungere un “forse”, allo scopo di non voler chiudere del tutto questa esperienza “intima ed estrema con lei”
- – il mio è solo il rimpianto per aver perso, forse per sempre, una cosa bella.
Grazie mille! Nel we mi metto a lavorare per accogliere i tuoi suggerimenti.
Vorrei essere il mare che si muove per rimanere se stesso e più di tanto non lo sposta il vento. Fragile ma tenace.
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Re: Susette

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Alberto Marcolli ha scritto: 12/05/2023, 10:24 Il tuo è tuo è un racconto che finalmente (avverbio in ...mente!) mi esercita a pensare.
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“Non mi va di ritornare nella mia stanza.” -- non mi va di rimanere solo questa notte.
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“all’improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare:” - il nome che appare può essere solo quello di Susette. Che Giulia sia il vero nome e Carlo faccia due più due è possibile.

A scanso di equivoci io riscriverei l’intero paragrafo così:

- Non ho saputo più nulla di lei per due anni. Poi ieri, all’improvviso, è apparso sul mio cellulare un misterioso messaggio WhatsApp con il suo nome:

“Salve! Lei non mi conosce. Sto inviando lo stesso messaggio a tutti i contatti di questa rubrica per avvisarvi che Giulia ci ha lasciato una settimana fa. Mi spiace darle in questo modo la notizia e spero di non averla disturbata”.

Rimasi interdetto. Era lei l’autrice del messaggio oppure Susette, alias Giulia, era veramente morta e il suo cellulare era stato usato da uno sconosciuto?
Preferii pensare che Susette avesse deciso di troncare con la prostituzione, e volesse spezzare ogni legame con tutti i suoi ex-clienti, soprattutto per proteggere il suo segreto con la madre; e anche come una sorta di castigo: per suscitare un ricordo imbarazzante o un rimorso crudele in noi che eravamo stati insieme a lei. Con me aveva colto nel segno.

Un possibile cambiamento della frase finale potrebbe anche essere quello di aggiungere un “forse”, allo scopo di non voler chiudere del tutto questa esperienza “intima ed estrema con lei”
- – il mio è solo il rimpianto per aver perso, forse per sempre, una cosa bella.
Ciao Alberto! Ho fatto diverse modifiche approfittando del tuo aiuto.
Non so come ringraziarti. I tuoi suggerimenti sono stati preziosi e hanno certamente reso più chiaro il testo.
Un abbraccio!
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Riletto, direi che è migliorato, Domenico. Soprattutto il finale, se non sbaglio, mi pare meno evanescente, più rotondo.
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Re: Susette

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Namio Intile ha scritto: 15/05/2023, 10:19 Riletto, direi che è migliorato, Domenico. Soprattutto il finale, se non sbaglio, mi pare meno evanescente, più rotondo.
Lo penso anch'io. I consigli sono stati molto utili.
Vorrei essere il mare che si muove per rimanere se stesso e più di tanto non lo sposta il vento. Fragile ma tenace.
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Se Namio approva, sei a cavallo.
Scrittura matura e scorrevole. I "che", come sai, sono un mio pallino, ma sembra non interessi a nessuno.
Sei riuscito, nel finale, a rendere quasi simpatico il tuo protagonista, e non è poco.
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Alberto Marcolli ha scritto: 22/05/2023, 17:29 Se Namio approva, sei a cavallo.
Scrittura matura e scorrevole. I "che", come sai, sono un mio pallino, ma sembra non interessi a nessuno.
Sei riuscito, nel finale, a rendere quasi simpatico il tuo protagonista, e non è poco.
voto 5
Grazie ancora a te per l'aiuto! Chissà come mai vi sta così antipatico il protagonista? Io lo trovo così ironico con la sua disillusione da sinistra liberal.
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Devo fare una piccola premessa: ho il vizio di immedesimare nelle trame che leggo, personaggi miei; lo so, è un vizio supponente e presuntuoso, ma mi coglie spesso. Andando a immedesimare, la prima cosa che d'impatto, d'acchito mi salta alle sinapsi è che la protagonista femminile del mio racconto, odierebbe francamente quella Nadia, mentre Susette le starebbe anche simpatica... Aimè, non so quando le starebbe simpatico però l'io narrante. Il problema è che lui e Nadia in sintesi fanno parte della stessa categoria, che non definirei propriamente radical chic ( sebbene considerando estremamente in negativo questo termine) ma con un lessico più attualizzato, dei boomers. Entrambi si portano dietro qualcosa che è simile a ciò che potrebbe caratterizzare l'uomo "civilizzato" che va a vivere con i primitivi: una differenza che si fa spocchia. Lei è una "sciura bene" con tutti i vizi e le ipocrisie della categoria, compreso quel dito sempre puntato, quella morale "di classe" tipicamente "bene" più ancora che "ben pensante": con un anelito di fondo, difende non un'altra donna tradita dal marito, ma una simile borghese che sulla sua strada comoda ha trovato una pericolosa concorrente. Lui, non dimentica mai d'essere un professore. Trasgredisce ma rimane all'esterno. Sembra quasi supporre che a lui sia concesso ciò che in un commerciante di abiti o di insaccati risulterebbe squallore. Anche il sogno di riuscir a conquistare una "professionista", è tipico della categoria. Si innamora veramente di lei? Ci lascia questa domanda.
Curiosità: a parte l'utilizzo di marchingegni attuali, il testo reggerebbe benissimo se riferito agli anni '80 con dei reduci del '68 e una ragazza "moderna", cioè dell'epoca. Questa curiosità stuzzica.
Comunque è scritto bene, e l'aver "limato" le situazioni più "crude" non lo considero un difetto, anzi...
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Giuseppe Ferraresi ha scritto: 30/05/2023, 12:15 Devo fare una piccola premessa: ho il vizio di immedesimare nelle trame che leggo, personaggi miei; lo so, è un vizio supponente e presuntuoso, ma mi coglie spesso. Andando a immedesimare, la prima cosa che d'impatto, d'acchito mi salta alle sinapsi è che la protagonista femminile del mio racconto, odierebbe francamente quella Nadia, mentre Susette le starebbe anche simpatica... Aimè, non so quando le starebbe simpatico però l'io narrante. Il problema è che lui e Nadia in sintesi fanno parte della stessa categoria, che non definirei propriamente radical chic ( sebbene considerando estremamente in negativo questo termine) ma con un lessico più attualizzato, dei boomers. Entrambi si portano dietro qualcosa che è simile a ciò che potrebbe caratterizzare l'uomo "civilizzato" che va a vivere con i primitivi: una differenza che si fa spocchia. Lei è una "sciura bene" con tutti i vizi e le ipocrisie della categoria, compreso quel dito sempre puntato, quella morale "di classe" tipicamente "bene" più ancora che "ben pensante": con un anelito di fondo, difende non un'altra donna tradita dal marito, ma una simile borghese che sulla sua strada comoda ha trovato una pericolosa concorrente. Lui, non dimentica mai d'essere un professore. Trasgredisce ma rimane all'esterno. Sembra quasi supporre che a lui sia concesso ciò che in un commerciante di abiti o di insaccati risulterebbe squallore. Anche il sogno di riuscir a conquistare una "professionista", è tipico della categoria. Si innamora veramente di lei? Ci lascia questa domanda.
Curiosità: a parte l'utilizzo di marchingegni attuali, il testo reggerebbe benissimo se riferito agli anni '80 con dei reduci del '68 e una ragazza "moderna", cioè dell'epoca. Questa curiosità stuzzica.
Comunque è scritto bene, e l'aver "limato" le situazioni più "crude" non lo considero un difetto, anzi...
Ciao Giuseppe! Grazie per il commento. Io non definirei Nadia e il protagonista né dei radical chic, né dei boomers (credo che il termine si applichi a quegli individui appartenenti alla generazione precedente all'attuale rivoluzione tecnologica, che non riescono ad imparare ad utilizzare smartphone e e-reader). Sono semplicemente quella sinistra che per un breve ed incerto periodo ha combattuto la globalizzazione (vedi Genova) e poi, cavalca cavalca il mainstream, sono diventati i tristi vincitori della guerra sociale tra chi ha prosperato e chi è crollato (città e campagna, centro e periferia, glocal e local). Per questo non li vedo adatti agli anni 80 o al post sessantotto. Sono una generazione dopo, in cui la sinistra ha perso orientamento e vocazione e, quindi, è rimasta impigliata ad un ideale liberale meritocratico e di ascesa sociale che nei fatti non esiste.
La povera Susette non è che l'alter ego di questa cultura che non sa più comprendere e governare i processi che portano migliaia di persone (soprattutto giovani) ad abbracciare una cultura individualista e indifferente ai valori comunitari e al disastro sociale che stiamo vivendo.
Però sia il narratore sia Susette sono in qualche modo consapevoli di questo e ciò li rende drammaticamente in contrapposizione alla società: sono l'uno per altro un'isola in cui trovare la felicità. In questo senso sono personaggi totalmente romantici, idealisti e sognatori, legati a mondi (la Grecia antica e il primo Romanticismo) in cui si sviluppa (anche ma non solo) una forma di amore e incanto per una bellezza superiore che trasporti fuori dalle cose mondane.
Grazie ancora e un abbraccio!
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