Clair de lune

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2023.

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Namio Intile
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Clair de lune

Messaggio da leggere da Namio Intile »

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Il dieci dicembre è morto Luigi Pirandello.

A maggio era caduta Addis Abeba, e il nostro amato re aveva coronato il sogno d’esser imperatore, a luglio in Spagna il colpo di stato nazionalista aveva sancito l’inizio della guerra civile, mentre a settembre il congresso di Norimberga s’era pronunciato sulla denuncia del patto di Locarno e la militarizzazione della Renania.
Vedevamo nubi scure, minacciose, addensarsi ovunque, ma semplicemente le ignoravamo, esibivamo ottimismo, nutrivamo una fideistica fiducia nella saggezza del nostro duce.
Ma per me quel 1936 fu l’anno della laurea in medicina, terminato l’internato preparavo gli esami per la specializzazione.
La sera di quel dieci dicembre mi ero rifugiato nella sagrestia della chiesa di San Giuseppe dei Teatini, quel capolavoro rococò quasi invisibile dalla via, poco discosta dal Teatro del Sole, tra via Maqueda e l’antica via Toledo, dove un mio zio fungeva da cappellano maggiore e la sera teneva una sorta di circolo culturale frequentato da preti, per lo più, e da qualche qualificato civile, tra cui il sottoscritto.
Le nostre conversazioni, in quelle infinite serate al termine dell’autunno, spaziavano dall’esegesi delle Sacre Scritture secondo Agostino al rapporto tra immaginazione e deduzione trascendentale delle categorie in Kant, fino a scivolare prosaicamente sulle opportunità offerte all’Italia dalla conquista dell’Impero e, non so perché, anche quella sera, come ogni sera, sarebbe terminata con una feroce critica di mio zio al Concordato del ‘29.
Conversare con preti vecchi di senno e di esperienza mi faceva bene, e alla fine della giornata ottenevo il risultato di riuscire a liberarmi dei miei affanni.
Zio Nené in passato aveva tanto insistito con mio padre perché seguissi la carriera ecclesiastica. Ma era stato netto a proposito: farà ciò che vuole.
E io l’avevo preso alla lettera: da uomo libero, avevo scelto di curare il corpo piuttosto che l’anima.
Eppure a quelle discussioni tra preti, dove proponevo io l’argomento iniziale come lanciando il pallino sul tavolo da bigliardo, sul sesso degli angeli o sulla crescita del petrosino in inverno, sulle figure retoriche o su quelle grammaticali, sulle varie esegesi degli evangeli non riuscivo a sottrarmi. Forse perché in teologia, come in filosofia, alla fine chi ha ragione è convinto di avere torto e viceversa: e al termine di tanta obliquità tutti i salmi finivano in gloria e ognuno se ne tornava a casa sua soddisfatto di aver avuto torto o ragione, perché in fondo sia l’uno sia l’altra immancabilmente coincidono.

E io me ne tornavo a casa quella sera, colmo di parole di commiato dei miei preti per la morte del nostro amato Luigi, si può dire uno di noi, tante erano state le volte in cui lo avevamo chiamato in causa, preso ad esempio, anche solo citato. Erano già quasi le dieci, e mi trascinavo dietro quelle discussioni con Monsignor Agrusa, canonico di Santa Maria la Nuova, la Cattedrale di Palermo. E col suo alito, che sapeva di fumo recente e di passito, mi riversava le sue considerazioni sui personaggi in cerca d’autore.
Imboccavamo la Discesa dei Giudici, lasciata la Martorana a destra e Santa Caterina d’Alessandria a sinistra, e scendevamo a passo lento verso il mare, a quella Piazza Marina dove era stata la vecchia Al Halisa araba. Da lì risalivamo per via Partanna e ci infilavamo per la via del Merlo, un angolo silenzioso e buio della vecchia città aristocratica che andava scomparendo.
E sostavamo, una sosta quasi d’obbligo, davanti all’augusto palazzo di un antico Pari del Regno e Grande di Spagna, il principe di Mirto Francantonio Filangeri Lanza.
Il palazzo era un grande parallelogramma, un isolato di ricordi, antiche grazie, perdute glorie, che andavano indietro nel tempo a quell’Angerio, figlio del Duca di Normandia, fondatore del Regno insieme ai due Altavilla.
Quello spiazzo, dinanzi al portone d’ingresso, era illuminato da un lampione, lesto a proiettare la sua tenue luce sino ai balconi del primo piano.
Mi sentivo triste ma forte in quello scorcio di dicembre, in quel mese che in futuro sarebbe stato notato da qualcuno per la morte di Ricardo Reis. Avevo la testa piena di idee, forza, teorie, di letteratura, pittura, di frammenti di Eraclito, della Patetica di Beethoven, di scienza. Ero consapevole delle possibilità della professione medica, e vedevo il mio futuro dietro l’angolo. Percepivo la frenesia che anticipa, prepara, grandi conquiste.
Eppure quell’angolo della mia Palermo mi offriva un senso di rilassamento.
Da mesi mi fermavo lì a quell’ora.
Alzavo gli occhi al balcone del primo piano e lei compariva puntuale per farsi ammirare: giovane e bella, altera, con un abito svolazzante color crema a motivi floreali.
Se ne stava affacciata ogni sera, alla stessa ora, ad aspettare me.
Era alta e flessuosa, i capelli castani, quasi biondi, acconciati con uno chignon basso dietro la nuca, capelli che parevano di seta.
Ci avvicinammo, io e Monsignor Agrusa, proprio sotto al balcone.
Potevo quasi vedere gli occhi di lei risplendere nell’oscurità, quando distrattamente si accendeva una sigaretta.
«Eh, il mio caro dottorino» mi canzonava allora don Agrusa. «Avete il vostro amore che vi attende ogni sera, e voi che fate? Non c’è dubbio» aggiungeva. «Proprio alla stessa ora. Sarebbe il momento di darsi da fare.»
Gli sorridevo imbarazzato, mormoravo delle scuse.
«Ma cosa va pensando, monsignore. Le sue sono solo fantasie. Sarà perché questo dicembre pare ancora settembre.»
«È bella» mormorava lui, quasi estasiato. E mi sembrò, da un momento all’altro, capace di spogliarsi da quella divisa nera e viola. «Davvero una donna splendida, di sicuro è la figlia del principe, o magari la nipote» sospirò, e volle una delle mie sigarette, forse per smettere di pensarci su.
Annuivo, distratto dai seni ricolmi di lei, liberi di esser ammirati dalle inferriate a petto d’oca dei balconi.
Dopo aver lasciato monsignore, davanti la Congregazione della Fede nei pressi di Santa Teresa alla Kalsa, sentivo gli occhi della mia dama seguirmi, li sentivo sulla pelle, nella mia carne e più tardi, sapevo, li avrei rivisti nei miei sogni.
Eppure non sapevo nulla di lei, se non dove abitasse, e mi ero astenuto dal chiedere in giro, dall’informarmi, quasi che sapere fosse l’unico modo per spezzare l’incanto, e nelle mie fantasie la paragonavo a una madonna fiorentina del Trecento intenta a suonare il salterio per il suo amore, un giovane come me, l’unico autorizzato a sospirare per lei.

Le sere seguenti, alla fine delle nostre discussioni, non vedevo l’ora di poterla rivedere, anche solo per qualche istante, a distanza, affacciata a quell’augusto balcone.
Dicembre stava per terminare, passato il Santo Natale io e monsignore intraprendevamo la solita passeggiata serale. L’aria era tersa e fredda e al balcone, per la prima volta da settimane, lei non si fece trovare.
Rimasi deluso, quasi fosse un tradimento.
«Andiamo, dottore» mi disse il mio monsignore accondiscendente. «Ogni bel gioco...»
Gli diedi ragione, tra me e me, era quasi una liberazione. Stavamo per riprendere il nostro cammino verso casa quando udimmo le note di un pianoforte provenire da una delle finestre aperte sul balcone.
Riconobbi subito il terzo movimento della Suite Bergamasque di Debussy, il Clair de Lune.
Le note parevano brillare nell’oscurità, all’inizio un pianissimo in un'atmosfera evanescente, passando poi a un tempo rubato dove la melodia si animava crescendo poco a poco; ascoltammo la musica divenire più mossa e, con gli arpeggi di semicrome, giungere a un registro acuto passando, con modalità più intense, a una tonalità di Do diesis minore.
Restammo muti, in silenzio ad ascoltare, e mi si inumidirono gli occhi. Dalla finestra aperta cominciai a distinguere un debole bagliore, come di lume.
Ascoltammo in religioso silenzio riprendere il motivo iniziale, con leggeri arpeggi, in un pianissimo che andava morendo fino alla conclusione finale.
«Abbiamo toccato il cuore pulsante della vita» mi venne da dire, cogli occhi al cielo, quasi in un mormorio.
La risposta che non mi aspettavo fu: «È vero, siamo alle sorgenti della bellezza e del creato» aggiunse il mio monsignore turbato e lo sguardo a terra, come se aspettasse una zampata del demonio aggredirlo dalle profondità.
Non appena la musica cessò lei comparve, bella come non l’avevo vista mai.
Una bellezza impaziente, c’era in lei come un desiderio, una voluttà che non mi sapevo spiegare. Il suo sguardo inquieto passava da noi all’orizzonte stellato, come se non fossimo il soggetto della sua attenzione, come se lei aspettasse qualcun altro provenire da un punto sperduto al di là dal cielo.
Il mattino dopo era l’ultimo giorno dell’anno. Mi svegliai con calma, feci colazione, mia madre e le mie sorelle già indaffarate con i preparativi del cenone di fine anno. Non seppi resistere e mi avviai da casa, dalle parti di via Perez, verso il centro.

Mi accompagnava Margherita, la mia bastardina selvatica ma affettuosa. Da via Oreto giunsi a piazza Giulio Cesare e da lì imboccai la via Roma verso la città antica.
Deviai per la via di Sant’Anna, dove si apriva la piazza con la splendida chiesa barocca e, quasi di fianco, il Palazzo Bonnet austero di fronte all’immenso barocco di palazzo Ganci. Non so perché, invece di procedere per via dell’Alloro, deviai per via Lungarini, che mi avrebbe portato di fianco a Palazzo Mirto.
A circa una cinquantina di metri dalla mia meta Margherita si fermò e iniziò a ringhiare.
La richiamai all’ordine, provai a calmarla con le carezze, ma per poco non mi azzannò la mano pietosa e imprudente.
«Che hai, Margherita? Non c’è proprio nessuno qui. Si può sapere cosa ti prende?» La rimproverai.
Ed ecco, alle nostre spalle, comparire lei, vestita, mi parve, come l’avevo vista la sera prima.
A tu per tu riuscivo per la prima volta a indovinare il colore degli occhi, non castani ma scuri quasi a sembrare viola e a far da contrasto con i capelli chiarissimi e l’incarnato pallido.
Mi sorrise, e il suo mi parve il più celestiale degli inviti.
«Finalmente vi vedo» provai a dire, e mi accorsi di aver adoperato un modo di dire sgangherato e inappropriato.
Continuò a sorridere e mi parse di sentire il suo respiro profumato carezzarmi il viso.
Esistevano ancora le dee, mi domandai. Era candida come la neve, ma dai suoi occhi scintillavano fiamme.
Mi prese sottobraccio e mi propose: «Passeggiamo?»
Non ebbi il coraggio di rispondere, ma mi avviai quasi tremante con l’ardire di porgerle il braccio.
La sua voce sembrava avere le medesime tonalità delle note del Chiaro di Luna.
«L’ho ascoltata suonare iersera. Eravate voi» provai a dire, per rompere il ghiaccio.
«È bello vedervi. Eravate nella mia mente stamattina, ed eccovi qua. Non vi pare una strana coincidenza?» Mi disse-
«Anch’io vi pensavo. Per questo sono venuto sin qui. Forse il mio desiderio ha aiutato la fortuna.»
Non rispose nulla ma sorrise ancora. E il suo mi parve il sorriso più delizioso del mondo.
Aveva un cappottino soffice, ma col bavero rialzato. Ogni tanto si voltava verso di me e rideva.
E io, confuso, non capivo se ridesse di me o per la gioia di rivedermi.
«I vostri occhi sono magnifici» le dissi a un tratto, che il coraggio s’era fatto più spesso. «Sembrano delle ametiste. Non ho mai visto occhi più belli» rivelai imbarazzato.
«Vi credo» disse seria. E quella serietà mi tranquillizzò. «Voi mi ricordate tanto una persona.»
«Una persona cara, spero.»
Si fece improvvisamente triste e silenziosa.
«Come vi chiamate?» Provai a recuperare il tono gioviale di prima.
«Non importa. Facciamo così: per voi sarò la dama dagli occhi viola. Che ne dite?»
Arrossii, mi sentii contento, e per un po’ mi venne a mancare il respiro, quasi da credere di poter morire soffocato.
Riprendevo a porle domande, ma più aumentava la sua reticenza più si alimentava la mia curiosità e la mia passione.
Percorrevamo Piazza Marina dalla parte dello Steri e ci trovammo sul corso. Mi condusse per via Partanna fino al prospetto principale di Palazzo Mirto.
Capii.
«Deve proprio abbandonarmi?» Era un’implorazione.
«E allora venite con me» disse, seria come mai fino ad allora era stata.
Sollevò il batacchio per colpire il mascherone del portone d’ingresso.
La porta si aprì come d’incanto, ma entrando non mi accorsi di nessun portiere.
Ci trovammo nella grande corte interna. Il palazzo dal di dentro pareva ancora più maestoso che dal di fuori.
Tremavo di piacere, di stupore, di paura, di felicità, di ansia.
Mi sentivo smarrito.
Fino a quel momento Margherita ci aveva seguiti a distanza. Ma ora, dentro il palazzo, si era avvicinata a me e aveva ripreso a ringhiare, vidi il suo pelo color crema drizzarsi.
«Stai calma, Margherita» provai di nuovo a tranquillizzarla.
«Potete lasciarla qua, non tema per lei» propose la mia dama dagli occhi viola.
«E fissate il guinzaglio a quell’occhiello, se volete.»
Obbedii e poi la seguii lungo la grandiosa scala a forbice splendida nei suoi marmi rosati.
Percepivo il suo profumo, ma non riuscivo a distinguerne le fragranze, non avevo mai sentito prima d’allora un profumo tanto intenso e paradisiaco da darmi l’impressione di provenire da mondi sconosciuti e lontani, un’essenza di boschi perduti, cieli stellati, brividi notturni.
Mi invitò a entrare in una stanza. Era quella, credetti, da cui ogni sera l’avevo vista affacciarsi. In un angolo v’era un gigantesco Fazioli a coda, quello da cui l’avevo ascoltata suonare la sera prima, immaginai.
Era aperto, si poteva intravedere la sua meravigliosa meccanica, il gioco delle corde già ascoltate vibrare, la cassa armonica ben sviluppata, i martelletti colorati di rosso percossi coi tasti dalle lunghe dita di lei.
Ma era l’intera stanza ad essere strabiliante. Sedie dagli alti schienali, consolles, secretaires, specchi, armadi civettuoli, boiserie, seta finissima decorata alle pareti insieme a opere del Tintoretto, di Tiziano, del Parmigianino, in un trionfo di ameni panorami e di madonne soavi.
«Il vostro mondo è un incanto, una favola» le dissi. «Quello è un Bronzino» domandai stupito.
Lei annuì. «È una favola incantata» mi corresse. «Volete che vi suoni qualcosa?»
«Volentieri» le concessi.
E suonò per me i Notturni di Chopin, dall’undicesimo al quattordicesimo, appassionatamente, disperatamente.
Ero commosso, senza parole, senza fiato, non potevo credere stesse succedendo proprio a me.
Le sue dita scivolavano sui tasti incorporee, eppure mi pareva di poter sentire il suo battito, le sue risonanze, percepivo lo spessore dei suoni come se questi propagassero riflessi argentei sull’acqua, poi sui monti, poi in cielo, per finire sulla Luna, fino alle stelle.
«Volete darmi un bacio?» Mi disse alla fine.
Mi avvicinai a lei tremante e poggiai le mie labbra sulle sue, senza fretta, lasciando una traccia nell’aria.
Lei mi prese la testa tra le mani e mi baciò avida, a lungo, con forza, con disperazione.
«Tu mi farai impazzire» disse alla fine. «Adesso vai» mi comunicò impaziente, come se si fosse spinta oltre.
Mi avviai verso l’uscita. Nel cortile ripresi Margherita, che pareva essersi calmata.
«Non ci vedremo mai più» mi disse quando fui fuori dal portone.

E il mondo sembrò crollarmi addosso, ogni felicità preclusa per sempre.
Ma il mondo non crollò, solo lentamente andò in frantumi.
Conclusi i miei studi, trovai un posto in ospedale, a Catania, abbastanza lontano da dimenticare la mia principessa, la mia dama dagli occhi viola.
Nel 1940 ricevetti la cartolina di precetto, e mi mandarono al fronte, in Africa, come ufficiale medico.
Non ci volle molto a veder sgretolare la nostra fede sotto le bombe degli aerei nemici.
Venni ferito, persi un occhio, catturato dagli inglesi a Tobruk e spedito in uno dei loro campi di prigionia in India.
Tornai a Palermo solo nel dicembre del 1945.
L’antica città aristocratica non esisteva più, era stata squassata dai bombardamenti del maggio-giugno 1943. Quasi tutti i palazzi nobili erano stati distrutti o gravemente danneggiati, ovunque mi voltassi v’erano cumuli di macerie e gente lacera che si vendeva per un tozzo di pane.
Seppi di Monsignor Agrusa, morto il nove maggio del 1943, nel collasso della sacrestia di San Giuseppe dei Teatini, insieme ad altri nove confratelli e a una quarantina di sfollati.
«Quattromila morti in sole tre ore di bombardamenti» mi disse un collega medico, abbastanza anziano da non essere arruolato. «Ci avresti mai potuto credere? Palermo non esiste più.»
Avevo perso anche i miei genitori e le mie sorelle minori nel crollo del rifugio antiaereo di via Oreto. E io, da quel momento, non avevo creduto più a niente e non ero mai riuscito a piangere neanche la loro morte.
La vita esige d’esser vissuta, mi ripetevo.
C’era fame di medici, anche mezzi orbi come me, presi posto all’ospedale civico e fu lì, dopo qualche settimana, che incontrai un paziente affetto da una serie di patologie tali da richiedere l’attenzione della mia specializzazione.
Stavo provando a tirarmi su, come tutti.

Si chiamava Bernabò Camastra, mastro Bernabò, lo chiamavano tutti in corsia.
Era vecchio, vecchissimo, sfuggito ai bombardamenti per essersi rifugiato a tempo debito in campagna, e, appresi dalla sua voce, era stato Maestro di Casa di Palazzo Mirto.
Mi informò delle vicissitudini del vecchio Filangeri, morto nel ‘41 senza eredi, né vicini né lontani, e come tutto il patrimonio sarebbe dovuto passare allo Stato.
«Ma che fine ha fatto sua figlia, la principessa?» Gli domandai un giorno, alla fine della visita mattutina.
Mastro Bernabò mi osservò stralunato.
«Lei la conosceva, dottore?»
«Sì, l’ho conosciuta brevemente, prima della guerra, subito dopo essermi laureato. Aveva quella magnifica stanza quasi all’angolo con la via del Merlo. Quella col pianoforte a coda. L’ho sentita suonare più volte, un vero angelo.»
«Era bellissima, la principessa» mi confidò mastro Bernabò. «D’una bellezza quasi angelica. Ed era un’ottima pianista. E quella, ricordate bene, era proprio la sua stanza.»
«Cosa le è successo?»
«Oh, è morta. Morta di dolore per il suo grande amore morto in guerra. Era il principe Stefano Lanza di Branciforte. Erano fidanzati e dovevano sposarsi.»
«Oh, mi spiace. Sono desolato davvero. Questa guerra ha seminato solo lutti e distruzione» dissi rammaricato.
Il vecchio Maestro di Casa, dubbioso, iniziò a scrutarmi il viso.
«Però, mi dovete scusare, dottore. Vossìa non pare così grande. Ma lei, quando si è laureato?»
«Nel 1936, a settembre.»
«Nel 1936? Ma io parlavo dell’altra guerra. La principessa è morta di mal d’amore nel 1920. Da allora il principe suo padre ha tenuto la sua stanza sempre chiusa.»
Rabbrividii, mi venne la pelle d’oca. E non seppi cosa rispondergli.
«Mi sarò sbagliato» provai a scusarmi. «Magari la ragazza che ho incontrato io era una nipote. O solo un’ospite del principe.»
Il vecchio mi sorrise. «Non aveva nipoti, né ha ospitato mai nessuno a palazzo dopo la morte della figlia. Era il Clair de Lune, vero?»
Annuii, incerto.
«La sentivo anch’io alle volte, quella melodia, provenire da quelle stanze. E lo raccontavo al principe suo padre. Ma non volle mai darmi retta» si guardò intorno furtivamente, come se temesse di essere sentito. «Suonava per lei, vero?»
Ci riflettei qualche attimo. «Suonava per me» ammisi.

E finalmente ritrovai tutte le lacrime che la guerra m’aveva strappato.
Ultima modifica di Namio Intile il 19/06/2023, 10:38, modificato 3 volte in totale.
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Messaggio da leggere da Andr60 »

Se in Scozia sono i castelli, nella Palermo barocca sono i palazzi nobiliari a essere infestati dai fantasmi. Bellissimo racconto ricco di atmosfere sognanti, che rievoca la Palermo distrutta dai bombardamenti alleati. Solo dopo anni, il protagonista si rende conto di aver amato una presenza dall'oltretomba, e la dolorosa rivelazione lo scuote a tal punto da farlo piangere, infine, anche per i suoi cari scomparsi in quel tritacarne di destini che è la guerra.
Per fortuna, dopo la catastrofe, la città conobbe la rinascita: quartieri modello, un piano regolatore fatto a regola d'arte e amministratori capaci e onesti... ovviamente scherzo: il Sacco di Palermo, di Ciancimino & c., è storia nota.
Saluti, e complimenti
Namio Intile
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Re: Clair de lune

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ciao, Andr e grazie per le ottime riflessioni. Pochi sanno che Palermo è stata la città italiana più martoriata dai bombardamenti alleati nell'ultima guerra. Solo nel mese di maggio 1943 morirono, ma posso sbagliare la cifra, circa 9000 civili sotto le bombe. Il bombardamento del 9 maggio è stato, per numero degli aerei coinvolti (più di mille) e dimensioni (chili di esplosivo lanciato, tra cui il famigerato fosforo bianco, che brucia a contatto con l'ossigeno dell'aria), oltre che per le modalità dell'attacco (un primo round in mattinata seguito da uno nel pomeriggio per colpire i soccorritori), del tipo eseguito nelle città tedesche in quegli stessi anni e soprattutto più avanti.
Fu un monito, prima dello sbarco di luglio. Non vi azzardate a reagire o non rimarrà più una pietra al suo posto. Per fortuna l'esercito italiano capì l'antifona e si eclissò senza sparare un colpo.
Palermo venne trasformata in un cumulo di macerie, ma mi è sempre sembrato un particolare ignorato, o non tenuto in considerazione, nel dopoguerra. Certo, le macerie erano ovunque nel paese, ma solo Palermo venne devastata.
E magari il Sacco della città venti anni dopo fosse servito a toglierle di mezzo. Rimasero là, il centro storico abbandonato e i nuovi orribili palazzi a occupare ogni centimetro della Conca d'Oro, che oggi non esiste praticamente più. Solo negli ultimi anni, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, il centro storico è stato parzialmente recuperato con fondi statali. Soprattutto ora, con il 110%, si vedono cantieri ovunque. Ma ancora le rovine ci sono e sono visibili. Credo che Palermo sia l'unica città al mondo a mostrare le ferite di una guerra conclusa per noi oltre ottanta anni fa. La cosa comica è che ormai sono persino reclamizzate dalle guide e ricercate dai turisti. L'abbandono si è trasformato in una sorta di monumento involontario a testimoniare lo scempio della guerra.
Sui perché di questa situazione io ho le mie risposte, mi sono costruito le mie labili certezze, magari in altra sede ti annoierò a proposito.
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Athosg
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Messaggio da leggere da Athosg »

Un racconto misterioso ricchissimo di particolari delle vie di Palermo, di dispute teologiche e di sentimenti antichi. Il protagonista idealizza l'amore per una misteriosa ragazza, una visione quotidiana e silenziosa che gli riempie la vita. E quando finalmente la incontra...puff...è già tutto finito nella polvere della guerra.
Namio Intile
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Re: Clair de lune

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ciao, Athos. Grazie per il passaggio, ho capito che valgono molto.
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Alberto Marcolli
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Commento Clair de lune

Messaggio da leggere da Alberto Marcolli »

Nulla da segnalare sull’uso del “che” (mio noto pallino). Ecco la dimostrazione di come sia possibile raccontare le proprie storie evitando questo (per me barboso e poco elegante) stile di scrittura.
refuso “sperduto al di là da cielo.”
“dalla mia meta Margherita” – manca una virgola.
“poi su monti,” – forse sui monti?
Refuso “del maggio-giungo 1943.”

Mi hai fatto ricordare una mia fugace avventura con la sola donna siciliana con la quale abbia mai avuto a che fare. Chissà come sarebbe stata la mia vita se avessi accettato di seguirla a Palermo dove voleva presentarmi a suo padre, perché solo dopo il suo eventuale benestare, avremmo potuto anche solo frequentarci qui a Milano. Figuriamoci! Eravamo in pieno post ’68 e la sola idea di dover affrontare il giudizio di un severo siciliano, solo per poter invitare sua figlia a teatro o al cinema, mi fece scappare a gambe levate.
La tua descrizione: “Era alta e flessuosa, i capelli castani, quasi biondi, acconciati con uno chignon basso dietro la nuca, capelli che parevano di seta” collima abbastanza con la mia ragazza, salvo il colore nerissimo dei capelli e due occhi tenebrosi che mi avevano stregato al primo sguardo.
Anche la fine del tuo racconto, in un certo senso, potrebbe essere paragonata alla mia avventura, entrambi ci parlano di un’occasione mancata, o quasi.
Accidenti, invece di scrivere la mia critica ho finito con il ricordare una mia remota storia: accidenti a te!
Una regola quando facevo l’editor era questa: “il lettore non deve mai sospettare di essere in un mondo esistente solo nella testa dell’autore, ma credere fermamente nella sua reale esistenza. Terminata la lettura deve provare nostalgia per quel mondo e per i suoi personaggi.
Vedi? È proprio questa la magia della scrittura, ma solo la maestria di un grande scrittore ci riesce. Ora, non vorrei sbilanciarmi troppo, ma certo tu sei sulla buona strada.
Namio Intile
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Re: Clair de lune

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ciao, Alberto. Provvedo a correggere. Per il resto, sei troppo buono.
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Giuseppe Ferraresi
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Messaggio da leggere da Giuseppe Ferraresi »

Mi è piaciuta l'originale interpretazione del tema del "fantasma d'amore", con quell'atmosfera barocca onnipresente, nella quale un "moderno" come Debussy - pur legato al simbolismo e all'esoterismo - fa da gradevole contrasto per enfatizzare l'ambito romantico. Eccellente il ricorso all'altro elemento, quello della guerra con le sue tragedie grandi e piccole, che poi sono le due facce di un'unica tragedia. Un solo particolare: la parte delle riunioni con i preti, a mio parere ( e sottolineo che si tratta di opinione personale) risulta un poco fine a se stessa, non interagisce molto con la trama. Sempre opinione personale, ma un particolare inserito nel testo, non dovrebbe risultare un "pourparler" ma avere sempre un riferimento preciso nel dipanarsi della storia. Comunque, un racconto veramente gradevole.
Gino Savian
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Messaggio da leggere da Gino Savian »

Personalmente questo genere di racconti a me piacciono tantissimo. Mi ha ricordato molto Erri De Luca come tipologia.
Nel leggerlo mi sono fatto trasportare come in un sogno e proprio come tale quando ho finito di leggerlo sono rimasto con una sensazione di amarezza misto nostalgia... Davvero bello
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Ishramit
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Messaggio da leggere da Ishramit »

Mi hai fatto immedesimare in Margherita al punto che mi è venuta letteralmente la pelle d'oca :D Complimenti davvero, è un racconto splendido in cui, almeno lo sospetto, "tutto si tiene". Forse in alcuni passaggi è stato addirittura un po' affrettato: ho la sensazione di essermi perso qualche dettaglio, e forse non conoscere Palermo ha un suo peso.
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A cura di Massimo Tivoli.
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La Gara 19 - Un incipit da Re

La Gara 19 - Un incipit da Re

(febbraio 2011, 70 pagine, 821,30 KB)

Autori partecipanti: nwSkyla74, nwExlex, nwSer Stefano, nwArianna, Emma Saponaro, nwArditoeufemismo, nwGTrocc, nwManuela, nwCarlocelenza, Pia, Hellies15, nwBludoor, nwMastronxo, nwRoberto Guarnieri, Yle, nwTania Maffei, nwAngela Di Salvo, nwLucia Manna, nwMichele, nwStillederNacht, nwVit,
A cura di Miriam Mastrovito.
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La Gara 8 - La vendetta dei cattivi

La Gara 8 - La vendetta dei cattivi

(ottobre 2009, 28 pagine, 470,72 KB)

Autori partecipanti: nwAlessandro Napolitano, nwManuela Costantini, nwMacripa, nwValentina, nwCmt, Bonnie, nwCarlocelenza, nwArditoeufemismo, Barbara Bracci, Daniela Bisin,
A cura di Miriam.
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Alcuni esempi di nostri libri autoprodotti:


Il Bene o il Male

Il Bene o il Male

Trenta modi di intendere il Bene, il Male e l'interazione tra essi.

Dodici donne e diciotto uomini hanno tentato di far prevalere la propria posizione, tuttavia la Vita ci insegna che il vincitore non è mai scontato. La Natura ci dimostra infatti che dopo un temporale spunta il sole, ma ci insegna altresì che non sempre un temporale è il Male, e che non sempre il sole è il Bene.
A cura di Massimo Baglione
Copertine di Giuliana Ricci.

Contiene opere di: Antonella Cavallo, Michele Scuotto, nwNunzio Campanelli, nwRosanna Fontana, nwGiorgio Leone, nwIda Dainese, nwAngelo Manarola, nwAnna Rita Foschini, Angela Aniello, Maria Rosaria Del Ciello, nwFausto Scatoli, nwMarcello Nucciarelli, nwSilvia Torre, nwAlessandro Borghesi, nwUmberto Pasqui, nwLucia Amorosi, nwEliseo Palumbo, Riccardo Carli Ballola, nwMaria Rosaria Spirito, nwAndrea Calcagnile, nwGreta Fantini, Pasquale Aversano, nwFabiola Vicari, nwAntonio Mattera, Andrea Spoto, nwGianluigi Redaelli, nwLuca Volpi, nwPietro Rainero, Marcello Colombo, nwCristina Giuntini.

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Intellinfinito

Intellinfinito

Questo libro è il seguito di "nwUn passo indietro". Come il primo, è autoconclusivo.
"Esistevano davvero, gli dèi. Ma non erano dèi. Non lo erano stati per un'oscura volontà divina, ma lo erano semplicemente diventati mediante un'accanita volontà terrena di sopravvivenza".
L'Evoluzione umana (e non) come non l'avete mai immaginata.
Un romanzo postumano e transumano che vi mostrerà un futuro che forse non tarderà a divenire.
Di Massimo Baglione.

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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.



Biblioteca labirinto

Biblioteca labirinto

Cinque scaffali di opere concatenate per raccontare libri, biblioteche e personaggi letterari

Riportare la lettura e la biblioteca al centro dell'attenzione dovrebbe essere un dovere di ciascuno di noi. Se in qualche misura ci riesce una raccolta di racconti non si può che gioirne, nella speranza che possa essere contagioso, come deve esserlo tutto ciò che ci spinge a riflettere e a interrogarci sull'essenza del nostro esistere.
A cura di Lorenzo Pompeo e Massimo Baglione.
introduzione del Prof. Gabriele Mazzitelli.

Contiene opere di: nwAlberto De Paulis, Monica Porta, nwLorenzo Pompeo, nwClaudio Lei, nwNunzio Campanelli, nwVittoria Tomasi, Cristina Cornelio, Marco Vecchi, Antonella Pighin, Nadia Tibaudo, nwSonia Piras, nwUmberto Pasqui, nwDesirée Ferrarese.

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