Terza prova olimpica: racconto breve

L'anno 2012 porta con se lo spirito olimpico e BraviAutori non poteva perdere un'occasione tanto nobile per ideare una nuovo gioco ispirato alle Arti.
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Angela Di Salvo
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Terza prova olimpica: racconto breve

Messaggio da leggere da Angela Di Salvo »

"La terza prova delle Olimpiadi consiste nella stesura di un racconto di massimo 18.000 caratteri (spazi inclusi) sul tema "IL GROTTESCO".
Con questo termine ci si intende riferire a un testo narrativo in cui sia presente una situazione "realistica" (e quindi perfettamente calata nella realtà, e non surreale, inverosimile o fantascientifica) connotata dalla presenza di personaggi coinvolti in una situazione assurda e paradossale in cui siano presenti elementi comici e seri nello stesso tempo.
Per meglio intenderci, il racconto deve rappresentare una vicenda apparentemente comica e bizzarra, dietro cui si cela però una causa, una spiegazione o una motivazione drammatica o tragica che l'autore deve cercare di svelare al lettore utilizzando la tecnica dell'ironia o dell'umorismo.
Per chi non conosce questo genere, si vada a documentare! Ricordate: in questa prova conta più la tecnica del racconto che il contenuto in sè (che comunque avrà il suo peso).
Usate questo topic per inserire solo i racconti.

Per informazioni e commenti: viewtopic.php?f=105&t=3947

PROROGA: IL TERMINE PER IL RACCONTO BREVE SCADE IL 20 APRILE ALLE 23:59!

Buon “grottesco” a tutti!
Le parole non possono cambiare il mondo ma sono un buon modo per provarci. (A. Di Salvo)

77, le gambe delle donne
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concorso per racconti sulle donne

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Rona
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Re: Terza prova olimpica: racconto breve

Messaggio da leggere da Rona »

Vademecum del pendolare
Genesi e suggerimenti di un viaggiatore incallito



PROLOGO

Immaginate una riunione degli alcolisti anonimi. Persone depresse che cercano una speranza nella condivisione e la presa di coscienza dei propri mali. L'affermazione dell'Io che parte dalla consapevolezza dei propri limiti e si stabilizza con il supporto e la comprensione degli altri "anonimi" che partecipano alle riunioni.
Questi ritrovi, nell'immaginario collettivo, sono svolti in scantinati scarsamente illuminati. L'arredamento è composto da armadi accatastati, la muffa annerisce le pareti e la polvere ricopre ogni superficie. Le sedie, disposte in cerchio, permettono a tutti i partecipanti di osservarsi. Siamo tutti uguali, uno di fronte all'altro. La sedia su cui mi trovo è di legno e lo schienale cigola di un rumore acuto, non saprei dare una spiegazione, ma lo trovo confortante. In silenzio attendo il mio turno per confessarmi agli altri partecipanti.
Ci siamo, mi alzo in piedi e osservo quei volti spenti che mi circondano. Non li guardo in viso, sarebbe imbarazzante ma osservo piccoli particolari, come il risvolto della manica di uno, le scarpe di un' altra. Resto in silenzio per attirare l'attenzione su di me e poi rivelo chi sono:
"Ciao, mi chiamo Davide, non mi manca nulla nella vita, una moglie, due figli, un mutuo e…".
Chiudo gli occhi per prendere coraggio e poi aggiungo con voce mesta:
"… sono, un Pendolare. Da 15 anni"
Questa è la mia vera identità, per qualcuno sono un impiegato, per mia moglie un marito affettuoso e un padre premuroso ma la mia vera natura, quella che mi identifica nella società in cui vivo è l'essere un pendolare.
Il pendolare è un mestiere a tempo pieno, uno stile di vita e una volta che si comincia non ne puoi più fare a meno.
Completata la presentazione e l'ammissione mi risiedo. Mi appoggio allo schienale e il cigolio si trasforma in uno squittio irritante, come se qualche simpaticone avesse passato le unghie su una lavagna. Mi alzo e strillo:
"Che schifo, un Topo!"


GENESI — PARTE I

La vita del pendolare inizia prestissimo. La mia sveglia è alle 5:58. Vi domanderete perché non le 6:00. Lo so, avrebbe più senso, ma vedete, è qui che si sviluppa la filosofia del pendolare. Sta tutto in quei due dannatissimi minuti.
Ho scelto quest'orario dopo anni di studi e tentativi per arrivare alla stazione ferroviaria puntuale e prendere il treno che mi porterà al mio secondo lavoro, l'impiegato.
A occhi esterni il pendolare è una persona ossessiva compulsiva, ma non è così, è molto peggio. Per percorrere la distanza che lo separa dal lavoro deve prevedere un numero inquietante di imprevisti. Trai i più temuti ci sono:
Soppressione del treno.
I dipendenti delle Ferrovie dello Stato sono una casta remunerata per il numero di assenze fatte. Più ne accumulano più soldi ricevono. Ogni giorno, un addetto alla locomotiva potrebbe decidere di non recarsi al lavoro. Come conseguenza della sua legittima scelta (avrà anche lui una famiglia da mantenere) il treno non parte. Il personale è scarso e ovviamente è difficile trovare un sostituto. Al povero Pendolare non resta altro che aspettare il treno successivo.
Nell'impossibilità di procedere con mezzi di fortuna, la comunicazione del ritardo viene puntualmente annunciata da una voce gracchiante, emessa da un altoparlante posto a circa 2km di distanza dalla banchina. Il messaggio recita più o meno così:
"TRenn crrr Itaaa a crrrrr si cr scusa trecrrr treccrr Sopprescrr Biiip Apologiaiesssccc per il zzz servizio".
Secondo evento: il Maltempo.
Gli eventi atmosferici di per se non rappresentano un vero e proprio problema, figuriamoci se noi pendolari ci arrendiamo alla pioggia o a qualche fiocco di neve. Il problema è che se il pendolare non si ferma difronte a nulla, l'amico ferrotranviere ha un motivo in più per giustificare la propria assenza e quindi, il treno, come è logico immaginare, è soppresso.
Terza categoria: i guasti e o incidenti.
O per meglio dire, la Sfiga. La malasorte da tempo immemore è sempre in agguato. Ma soprattutto non è cieca e anzi, tende ad accanirsi.
Tra i guasti e o incidenti vi potrei menzionare la caldaia che si rompe mentre siete sotto la doccia, il motorino che non parte o la nettezza urbana che svolge le sue funzioni occupando la carreggiata impedendo la regolare circolazione.
Ognuno di questi eventi rallenta il sottoscritto nella sua escursione per raggiungere il posto di lavoro, così dopo anni di studi e tentativi, ho decretato che le 5:58 sono l'orario perfetto per alzarsi, lavarsi, gestire gli eventuali imprevisti e raggiungere la stazione ferroviaria e quindi il posto di lavoro.


TESTIMONIANZA — LA SVEGLIA

Vivo a Monterotondo, una sorridente cittadina alle porte di Roma e lavoro a Fiumicino. La distanza è di 45KM che percorro in 5 minuti con un motorino Kimko, (casa, stazione) per 1 ora 35 minuti sul treno delle FS e gli ultimi 3 minuti a piedi per entrare in ufficio. (tra le 8:15 e le 9:00).
Alle 5:58 la sveglia sul comodino suona discretamente. Noi pendolari abbiamo un sonno leggerissimo perché rapidi come felini interrompiamo lo scampanellio per non svegliare i propri famigliari. Un secondo orologio proietta sul muro un'ora diversa, le 6:00. L'ho sfasata volutamente per avere l'idea di alzarmi come una persona normale. Mi alzo e come un ninja mi dirigo in bagno. Devo essere fuori casa alle 6:30 in punto. Mi lavo e mi vesto in soli 16 minuti poi saluto mia moglie, recupero l'immondizia e controllo dal balcone che il motorino sia ancora legato al palo.
Abito al nono piano e decido di scendere a piedi. L'ascensore si trova al pian terreno ed è occupato dal sig. Ferretti, un pensionato particolarmente lento. Ho scoperto che sono molto più rapido se scendo le scale a due a due e gli ultimi 5 scalini li salto.
Raggiunto il mio amato Kimko, gli assesto subito due calci all'altezza della marmitta. Non è cattiveria, ma senza quei due colpi non parte. Indosso i guanti per togliere la catena. Non sono schizzinoso ma voglio evitare di sporcarmi le mani con il piscio di un cane che ogni notte svuota la vescica sulla catena. Indosso il casco e parto per la stazione in perfetto orario.


GENESI — PARTE II

Il pendolare è una categoria poco riconosciuta dalla società, in parte perché si muove in orari che i comuni mortali abitualmente usano per riposare, in parte perché rispondono a regole di condotta incomprensibili ad altri. È uno stile di vita che non tutti sono capaci di sostenere, ci vuole una grande preparazione fisica e psicologica con dedizione al sacrificio e determinazione per guadagnarsi un posto sul treno.
La gente comune è abituata alla Business Class, la First o Second Class, i pendolari ne hanno una propria, la Fight Class. Ai pendolari è richiesto di combattere con i suoi simili per accedere all'ambita carrozza. È ammesso qualsiasi stile, il più gettonato è la lotta greco romana. Contorsioni, mosse del caimano e atterramenti sono leciti per farsi strada tra gli altri pretendenti al vagone. Oltre agli stili di lotta generica, ogni pendolare sfrutta caratteristiche peculiari.
La figura più temuta è la Vecchietta. Questo particolare lottatore si insinua silenziosamente sotto l'ascella e sgomitando usa il proprio cappellino piumoso per accecarti e confonderti. È dotato di una forza incredibile che usa nei momenti più difficili, appoggiando il petto alla schiena del suo antagonista, spinge provocando un risucchio verso l'interno della carrozza e facendo cadere chiunque gli stia affianco. La vecchietta non può essere respinta altrimenti si scatena e si appella alla fragilità della sua veneranda età, scatenando il dissenso degli altri pendolari sul malcapitato che l'ha provocata.
Il meno pericoloso e mansueto, se si muove in solitario, è lo studente. La sua attitudine cambia quando si riunisce ai propri simili. La loro tecnica, suggerita dai libri di scuola, ricorda la testuggine romana. Usano gli zaini come scudi e serrano i ranghi prendendosi a braccetto. Assieme creano una barriera solida come un muro, difficilissima da superare anche per la vecchietta. Un’altra strategia è l'uso improprio dei cellulari. Questi apparecchi, attraverso l'emissione di musica a volumi assordanti, provocano onde soniche capaci di rallentare le capacità motorie degli altri pendolari.
Un'altra categoria è l'uomo o donna d'affari, i Business Man. Si riconoscono perché sono ben vestiti e non sembrano vivere su questo pianeta. Con aria trasognata si aggirano sulla banchina per consentire ai propri cellulari di sintonizzarsi con l'e-mail del lavoro. Si muovono tra la folla apparentemente come se tra loro e la carrozza non ci fosse nessuno e attraverso costanti spinte si guadagnano il proprio posto sul treno. I Business Man hanno la tendenza a entrare rapidamente in ansia, condizione che li porta a staccare il segnale satellitare e ritornare alla realtà che li circonda. Quando si trovano in questa condizione diventano particolarmente aggressivi e inveiscono contro gli altri contendenti rivendicando il loro diritto assoluto a raggiungere il proprio posto di lavoro, in quanto manager, o comunque persone di spicco della società per cui lavorano.
Io appartengo all'ultima categoria, i Topi Indovini. Le mie strategie si articolano in due fasi. La prima, è indovinare il luogo esatto dove si fermeranno le porte del vagone. Questa strategia, come la scelta dell'ora della sveglia, richiede un periodo di osservazione. In base al numero di matricola del treno, alle condizioni climatiche e a un po' di sano culo è possibile determinare all' 80% l'esatto punto dove si apriranno le porte e di conseguenza farsi trovare in prima fila pronti a salire per primi. Ovviamente, se la probabilità ricade nel 20%, subentra l'abilità del topo. Ho una spiccata capacità a intrufolarmi tra un pendolare e un altro, come un topo farebbe tra le intercapedini di un muro. Ovviamente è necessario avere un corpo longilineo e articolazioni snodabili.


TESTIMONIANZA — SALIRE SUL TRENO

Arrivo puntuale alla stazione di Monterotondo per prendere il treno delle 6:45
Alle 6:47 ne viene annunciata la soppressione, manco fosse un animale agonizzante. La corsa successiva arriva con un ritardo di 2min, poca roba, quello che preoccupa sono i pendolari del treno successivo che si sono accumulati alla banchina. Non conosco le loro abilità e questo rende più difficile l'accesso al treno. Ci studiamo e qualcuno comincia a farsi strada al margine della banchina con i gomiti alzati. Sono le 7:05 e come animali in gabbia sbaviamo tutti per un posto sul vagone. È difficile indovinare dove si posizioneranno le porte del treno così punto sulle abilità del Topo. Mi apposto dietro una vecchietta, non ha il cappellino, ma il peso di circa 215kg intimoriscono gli altri pretendenti. Ho deciso: sfrutterò la forza di risucchio provocata dalla nonnina. È una manovra pericolosa, ma l'ho fatto altre volte e con un po' di fortuna dovrei riuscire a prendere il treno.
La locomotiva è annunciata da due colpi di clacson, la lotta ha inizio. Tra gomitate e insulti i pendolari si accalcano uno sull'altro. La porta si apre e la vecchietta posiziona il piede sinistro leggermente indietro, era il segnale che aspettavo. In pochi secondo l'anziana spinge con il busto creando il famoso effetto risucchio, mi aggrappo alla borsa, mi avvito sul torso, la gamba si incaglia alla caviglia di un Business Man. Sento dolore, sopporto e stringo i denti, non mollo la presa. Un altro topo si attorciglia alla mano, questo mi permette di fare perno sulla clavicola e liberare il piede, sono dentro. Gli altri passeggeri salgono a rilento, qualcuno rinuncia e resta fuori e dopo 10 minuti finalmente si parte.


GENESI — ATTO III

L'avventura prosegue durante il tragitto. Solitamente il pendolare sviluppa un certa solidarietà con i viaggiatori che come lui sono riusciti a salire. Spesso questo spirito di unione è facilitato dal numero di passeggeri a bordo. Il pendolare viaggia in carrozze esageratamente affollate, così tanto strabordanti che non è possibile cadere. Questa condizione dona una certa tranquillità a chi non è in forma, in caso di svenimento resta comunque in posizione eretta.
La vita del pendolare si sviluppa in tre fasi: la prima è raggiungere la stazione in tempo, la seconda è salire a bordo del treno, la terza è resistere alle pressioni psicologiche del viaggio.
Le ferrovie dello stato mettono a dura prova la parte emotiva di noi pendolari e lo fa sfruttando tre strategie, con soste prolungate, cambiando i binari di arrivo dei treni e annullando il tempo. Gli amanti dei complotti, in realtà, ipotizzano un accordo con qualche forma aliena che rapendo i pendolari, cercano di sviluppare un siero capace di creare una razza suprema. Il superuomo, un giorno, sovvertirà l'ordine sociale del pianeta Terra. Chissà se è vero, di certo l'esperienza mette alla prova le mie capacità analitiche.


TESTIMONIANZA — IL VIAGGIO TEMPORALE

Siamo a bordo e la malasorte è sempre in agguato. In poco tempo si accumula altro ritardo e alla stazione di Ostiense l'attesa dura 15 minuti. Quando il carro bestiame riprende il suo lento cammino, lo speaker annuncia che il treno è in orario. La notizia crea sbigottimento. Un giovane socchiude la bocca a formare una "O" e con voce tremolante esordisce:
"Come, in orario?!"
È impietrito, non ha retto allo stress, sviene adagiando il capo sul seno procace di una donnona che imperterrita lo spinge verso il basso inveendogli contro:
"Non sono mica tua madre"
Il ragazzo scompare dalla mia vista. Non lo invidio, un giorno capiterà anche a me.
Osservo gli altri pendolari. Alcuni fanno il segno della croce, sono complottisti e pensano che il ritardo sia dovuto al rapimento alieno. Io ho un'altra spiegazione, le Ferrovie dello Stato hanno deciso di allineare il treno (partito alle 7:05) all'orario del treno successivo (quello delle 7:25) dichiarando così la puntualità del convoglio su cui viaggio. Forse è banale, ma potrebbe avere un senso. Sono pronto ad affrontare altri imprevisti.
Giunti alla stazione di Garbatella il treno si ferma. Dopo 2 minuti ci fanno scendere per un guasto al motore. Inizia la fase della "transumanza". Il prossimo treno partirà dal binario 1, poi al binario 3 e in fine al 6 che non esiste. Il realtà, si tratta del 5bis, ma lo speaker non lo sapeva. Tra un annuncio e un altro una mandria di pendolari si muove da una banchina a un'altra, tutti in gran fretta per guadagnarsi un posto sul treno.
In questo trambusto, altri pendolari cedono psicologicamente perdendo la ragione.
Una signora disperata cerca di salire e trovare un posto nell'affollata carrozza. I tentativi sono diversi e inefficaci. Tra uno spostamento e un altro ha perso una scarpa e agitandola come una bandiera inveisce contro chi è riuscito a salire:
"Siete tutti stronzi!"
La persona che gli sta di fronte manifesta il proprio risentimento per le offese subite:
"In che senso?"
La signora osserva la scarpa, si ricompone aggiustandosi il ciuffo penzolante:
"Mi scusi non dicevo a lei".
E dal fondo della carrozza un uomo distinto in giacca e cravatta interviene:
"Ma che cazzo stai a di?!"
Un coro di ragazzini esaltati si unisce alla diatriba urlando a ritmo delle sonorità disco emesse dai cellulari:
"SCENDI, SCENDI"
Poco dopo le porte si richiudono la signora non è salita e il treno ha accumulato altri 10 minuti di ritardo.
Avrei dovuto prendere il treno alle 6:45 e arrivare in ufficio alle 8:05. Ho preso quello delle 7:03 che è stato associato dalle Ferrovie dello Stato al treno delle 7:20, aggiungiamo altri 10 minuti di ritardo, arrivo in ufficio alle 8:40. Le Ferrovie dichiarano che il ritardo è di 10 minuti per il mio datore di lavoro sono 35. A fine giornata ancora mi interrogo su dove siano finiti i 20 minuti. Non trovo una spiegazione e mi consolo con una citazione di Conan Doyle "Scartiamo tutte le soluzioni improbabili e quello che resta, per quanto assurda, è la verità".
Sono un Pendolare e non posso fare altro nella vita. Chiudo il pc, saluto i colleghi e mi appresto al viaggio di ritorno.

di Roberto Napolitano (Brave4Art)
Ciò che non ci uccide ci rende più forti
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Bludoor
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Re: Terza prova olimpica: racconto breve

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PER IL TUO BENE!

Premessa
Lui si è preparato un super panino e lo lascia momentaneamente incustodito ed esce di scena per prendere una birra, lei entra in scena, sistema dei giornali e vede il panino che prende e accartoccia, gettandolo nel cestino, ed esce. Lui rientra, si accomoda e non trova il panino:

Lui	Dove diavolo è finito? Ah Lei! Caraaaa…

Silenzio

Lui	Cara! Luisa! Luisaaaa!!

Lei entra in scena insofferente.

Lei	Cosa c'è? Perché strilli così?

Lui	Dov'è la mia merenda?

Lei	La tua merenda?! E cosa vuoi che ne sappia io!

Lui	Cosa voglio? Era qui. L'ho lasciata un secondo, una frazione di secondo… Dov'è?

Lei	Non lo so!

Lui	Ah sì che lo sai. L'hai nascosta.

Lei	Ma ti pare! Io avrei nascosto la tua merendina…

Lui	Lo vedi! Il tuo tono è sardonico! L'hai nascosta! Dove?

Lei	Smettila per cortesia, sembri un affamato! Come se avessi perso chissà quale tesoro!

Lui	Perché?! Perché mi rovini sempre tutto!

Lei	Ah, grazie eh!

Lui	Ma non dovevi uscire? Andare per negozi, in palestra, da tua sorella, da tua madre?

Lei	No. Oggi no. Tra due ore è pronta la cena.

Lui	La cena! Sentila, la cena. Fammi il piacere. Le bietoline lesse e 20 grammi di formaggino la chiami cena?

Lei	E tu? Quella carica di carboidrati da mezzo chilo imbottita di grassi e colesterolo, me la chiami merenda!

Lui	Ah ecco la prova! Dove lo hai nascosto?

Lei si avvicina al cestino

Lei	Mi spiace, caro, credo sia immangiabile!

Lui	(prendendo il cartoccio dal cestino) Ma no! Ma sei crudele!

Lei	Crudele?! Io che voglio il tuo bene sarei crudele? Guardati, sei sempre più grosso!

Pausa

Lei	Perché non dimagrisci?

Lui	Mica è colpa mia. Io ci provo, ma è difficile.

Lei	Difficile? Basta non mangiare.

Lui	È 'na parola! Mangio pochissimo…

Lei	Ma fammi il piacere, pochissimo! Tu mangi come un lupo. Non mangi, divori!

Lui	Se ho fame! Faccio astinenza per giorni interi. È per questo che poi divoro.

Lei	Smettila di mangiare… Sei troppo grasso. Finirai col farti del male.

Lui	Lo so, sono consapevole. Soggetto a infarto. Il mio giro vita è oltre la soglia…

Lei	Altroché! Molto oltre. Io lo dico per il tuo bene. Non è per l'estetica…

Lui	Lo so, ti dico che lo so. Che me lo ripeti a fare? Credi che io non voglia dimagrire?

Lei	Volere è potere!

Lui	Ma basta co' 'ste frasi fatte! Volere è potere. Sai che ti dico? Io voglio, ma è evidente che non posso.

Lei	Non puoi? Certo che puoi. Chi ti impedisce di non mangiare, scusa?

Lui	La mia fame! Ho fame che vuoi che ti dica.

Lei	Allora sei malato. Bisogna che tu vada da un medico.

Lui	No! Basta con i dietologi… ne ho le palle piene! Sono tutte stronzate e soldi buttati.

Lei	Non un dietologo… forse ci vorrebbe un… neurologo.

Lui	Addirittura! Un neurologo? Ma stai scherzando? A che mi serve un neurologo?

Lei	Evidentemente il tuo è un problema nervoso, avrai un difetto delle cellule nervose che non ti fa avvertire la sazietà. Ho letto un articolo su 'Le Scienze applicate a…'

Lui	No eh! Non mi citare i tuoi articoli scientifici per carità, ma non fai altro dalla mattina alla sera? Leggere riviste scientifiche e mediche… Che bel passatempo!

Lei	Meglio del tuo, certamente. Almeno non ingrasso come una balena e mi tengo aggiornata sulla salute e sul benessere fisico.

Lui	Va bene. Ho capito, ma adesso possiamo cambiare argomento? Sono ore che ne parliamo. Non ce la faccio più.

Lei	Magari parlandone ti convinci che devi assolutamente dimagrire. Insomma non hai rispetto per me? Nessun rispetto.

Lui	Ma che centra la mia ciccia con il rispetto? Scusa, ma non ti capisco.

Lei	Ma come non capisci. Che figure faccio con gli amici, con la gente che mi conosce? Guarda che la gente è cattiva… Fa la carina, ti sorride, ma lo so io cosa pensa di te.

Lui	Cosa? Cosa pensa di me? Sentiamo.

Lei	Che sei una palla di lardo. E sono buona. Tu ti illudi di piacere solo perché sei simpatico, brillante, perché sei un affermato avvocato. Ti hanno fatto elogi, complimenti, plausi per la pubblicazione dei tuoi libri sì… Solo facciata.

Lui	Invece alle spalle…

Lei	Invece alle spalle pensano e dicono che sei un bove, che non hai ritegno e mangi come un porco! Ecco.

Lui	Credevo di piacere agli amici e alla gente. Mi cercano tutti con tanto affetto, e poi i libri… ho venduto migliaia di copie… Credevo mi stimassero per la mia intelligenza, per la mia genialità. Credevo che le apparenze non contano se si è brillanti e ricchi dentro…

Lei	Credevo… credevo. Tutte stronzate. Se togli il tuo talento di scrittore, la tua brillante carriera di avvocato, togli la tua ironica e simpatica spontaneità… che ti resta? Lardo. Io ti voglio bene… e non sopporto gli sguardi schifati con cui ti guardano, mi sento… come posso dire? Mi sento ferita ecco.

Lui	Sguardi schifati? Non me ne sono mai accorto…

Lei	Certo, tu non ti accorgi mai di niente. Ma io sì. E meno male che ci sono io. Facciamo una cosa… Un esperimento.

Lui	Un esperimento?

Lei	Sì, dai. Se ti vuoi bene. Se mi vuoi bene, se davvero mi vuoi bene… Ti prego.

Lui	Ma che esperimento… Lo sai che odio gli esperimenti. L'ultimo che mi hai fatto fare per poco non mi faceva collassare. Ti prego io… basta co' 'sta storia.

Lei	Ma allora non mi vuoi bene. Vedi che egoista che sei. E pensare che dicono che la gente cicciona è generosa e altruista… tutte stronzate.

Lui	Ma si che ti voglio bene… ma è tutto inutile lo sai. Abbiamo fatto tutti gli esperimenti possibili: diete, digiuni forzati, clisteri, purghe, palestra, corsi di yoga… Ho speso un capitale, tutti gli introiti dei miei libri… Non ne posso più. Mi dispiace, ma non so se ho la forza per un ulteriore esperimento.

Lei	Ma ti aiuto io, che ti adoro. Che ci sto a fare allora? Ti prego tesoruccio mio… ti prometto che dopo non dirò più nulla. Anche perché, sono certa, non ce ne sarà bisogno. Questa volta il mio piano funzionerà…

Lui	Sentiamo di che si tratta, ma promettimi che la pianti di rompere. Se non dovesse funzionare, non mi tormenterai più e mi lascerai vivere!

Lei	Prometto, ma sono certa che funzionerà. (pausa) Sai Salvo, il macellaio?

Lui	Eh? Salvo?

Lei	Sì, il macellaio. L'altra settimana sono andata a comprare delle fettine di vitello e, parlando così del più e del meno, mi ha suggerito una bella idea!

Lui	No scusa, tu vai dal macellaio e parli di me? Del mio più e del mio meno?! Ma è una fissazione la tua! Pensi sempre alla mia ciccia.

Lei	Allora? Vuol dire che ti voglio bene. Penso alla tua salute, al tuo benessere… Ho chiesto a Salvo come facesse ad avere un fisico così asciutto e dei muscoli così… ehm ben scolpiti.

Lui	Ma va? E scommetto che lui ti ha risposto che segue una dieta equilibrata, che frequenta la palestra otto giorni a settimana e che fa sesso due volte al giorno!

Lei 	Come fai a saperlo?

Lui	È un classico. Mi stai descrivendo una delle tue fiction a puntate… quella merda che guardi in televisione.

Lei	Insomma… la vuoi sapere la bella idea che mi ha suggerito il macellaio?

Lui	No! Non mi interessano le idee di un macellaio palestrato. Io non ho bisogno delle idee di uno stupido e ignorante macellaio. Ho un quoziente intellettivo di molto superiore alla media, io.

Lei	Certo che ce l'hai e si vede dalla tua mole! Allora dato che sei così intelligente, super genio, trova un modo di dimagrire altrimenti il sesso, quella volta alla settimana che mi tocca farlo, te lo scordi!

Lui	Ah! Credi che per me sia un problema trovar donne? Sono famoso io…

Lei	Ma piantala. Allora non hai sentito nulla di quel che ho detto fin'ora? Tu sarai pure famoso, geniale e con una mente scintillante, ma fai schifo che non ti si può guardare. Nemmeno a pagamento ci verrebbero con te…

Lui	Vuoi mettermi alla prova? È questo che vuoi? Ah, capisco. Vorresti che io ti tradissi così chiederesti il divorzio e dovrei darti gli alimenti, dato che il reo sarei io. Sei furba tu, ma io sono più furbo di te. Col cavolo che ti tradisco, e poi il sesso non mi interessa più di tanto.

Lei	Lo so. (pausa) D'accordo, non vuoi aiutarti né aiutarmi. Ogni volta che cerco di discutere con te serenamente, finisce sempre così…

Lui	Certo, perché è il termine che è usato in maniera errata: discutere. Tu lo usi nel significato di criticare, contraddire… litigare.

Lei	Io?! È colpa tua se finiamo sempre con il litigare, non vuoi sentire ragioni. Non mi vuoi dare ascolto e sei sempre sulle difensive qualsiasi siano le mie proposte. Comunque basta. Sai che ti dico? Mi sono rotta di lottare con te, per te, per la tua salute e per la tua vita… Che me ne frega se ti viene un infarto, un ictus, se schiatti. Cavoli tuoi. (pausa e cambio di tono. Piagnucola) Non capisci niente. Sono seriamente preoccupata per te… Io non voglio perderti.

Lui	Ma dai. Lo so che sei preoccupata per me, vorrei tanto dimagrire, vorrei vederti felice. Mi arrabbio ogni volta che ne discutiamo perché so che hai ragione e so che ho una volontà di ricotta. Credi che non vorrei essere anch'io come il macellaio? Ah che darei per avere trenta chili in meno, rinuncerei anche a qualche etto di sapienza!

Lei	(incalzante) Faresti qualsiasi cosa? Lo faresti?

Lui	(rassegnato) Cosa? Dimmi cosa posso fare? Facciamo questo ultimo esperimento.

Lei	Bene. Sono certa che funzionerà. Salvo va in macello tutti i mercoledì. Mi ha detto che me la procura, ma dato che è illegale, deve corrompere l'addetto alla sorveglianza. Mi ha chiesto cinquemila.

Lui	Cinquemila?! Cosa?

Lei	Euri. Cinquemila euri.

Lui	E che vuol dire? Cosa c'è in commercio una fettina dimagrante che costa quanto un brillante?

Lei	Ma no. Non una fettina, tesoruccio, una larva. Una larva di tenia.

Lui	Cosa? Ma sei completamente impazzita?! No tu sei matta davvero, comincio a preoccuparmi.

Lei	Ma funziona. La prese anche Maria.

Lui	Chi? Ma chi se ne frega di 'sta Maria.

Lei	Ma la Callas! Dimagrì tantissimo… e dopo divenne la Divina cantante che fu.

Lui	È morta! Dopo è morta, e poi io non ho bisogno di dimagrire per diventare famoso, lo sono già!

Lei	Ecco, ricominci. Ti stai rimangiando quello che hai affermato pochi minuti fa. Che avresti fatto qualsiasi cosa…

Lui	Ma questo no. Dai, questo è troppo. Ti rendi conto? Un verme solitario dentro di me, che cresce dentro me!

Lei	Ascolta, mi sono documentata ben bene. Lo tieni un mesetto, al massimo due, il tempo di perdere una ventina di chili o anche più, e poi lo facciamo rimuovere. Si può fare.

Lui	Sì? Si può fare! Intanto io devo tenermelo in corpo… una gestazione immonda!

Lei	Ma potrai mangiare tutto quello che vuoi…

Lui	No, non se ne parla. Toglitelo dalla testa. Smettila di dirlo che ti faccio internare… Tu sei folle.

Lei	Potrai mangiare tutto. Dolci, la torta millefoglie che ti piace tanto…

Lui	Non ci senti? No!

Lei	I profiterole…

Lui	No!

Lei	La pasta al forno con il sugo di cinghiale e le polpette…

Lui	Zitta! Smettila!

Lei	Le patatine fritte con la salsa…

Lui	Ho detto zitta!

Lei	Gli hotdog, il bigmac, il cheesburgher…

Lui	No! Basta, è una tortura, non mangio da due giorni…

Lei	Hai fame tesoruccio? Andiamo a mangiare da Totonno… una spaghettata ai frutti di mare… una fritturina di pesce…

Lui	Magari con qualche triglietta di scoglio… è una vita che me le sogno di notte!

Lei	Pensa, basta ingoiare una piccola minuscola cosetta. È come una compressa di lievito! Un sorso e via!

Lui	È una assurdità… No, non posso.

Lei	Ma dai. Domani è mercoledì… Guarda, facciamo una eccezione speciale. Stasera si va a mangiare da Totonno. Mangi tutto quello che desideri, poi… ecco… magari… a casa ci beviamo quella bottiglia di champagne che ti hanno regalato, (avvicinandosi ammaliante) e… poi… che ne dici?

Lui	Da Totonno? Tutto quello che voglio?

Lei	Sì!

Lui	Proprio tutto?

Lei	Sì, sì! Tutto!

Lui	E poi, a casa?

Lei	E poi, a casa!

Lui	Come una compressa di lievito… che sarà mai. Ma solo un mese. Un mese soltanto, poi si rimuove.

Lei	D'accordo, un mese e poi si rimuove… è per il tuo bene! Oddio non vedo l'ora di vederti bello, magro e… sexy!

Lui	Sì, sì… sexy, ma adesso andiamo… andiamo da Totonno…

Lei	Sì andiamo da Totonno…

Lui	Tutto quello che voglio! Sant'iddio, tutto quello che voglio… (uscendo di scena) Allora, prendo antipasti misti, di mare e di monti… e di campagna… Spaghetti alle vongole, risotto alla marinara, bucatini alla amatriciana, penne alla carbonara, riso patate e cozze, triglie, bistecca, agnello, sarde… Torta caprese, dolce della casa, vino frizzante, prosecco, birra…
di Mariadele Popolo (The Isle)
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Il sogno più bello è quello che, domani, sarà realtà.

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Ser Stefano
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Re: Terza prova olimpica: racconto breve

Messaggio da leggere da Ser Stefano »

STUPEFACENTI SPADE
(Botswana Team)

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1
Il rito richiede massima concentrazione, assoluto silenzio. Max regge tra le dita un filtrino e una cartina, con la tensione di un assistente infermiere durante un delicato intervento chirurgico. Osserva la maestria con cui Ale mischia gangia e tabacco.
- Cartina – dice Ale, moderno Dr. House e con un gesto rapidissimo vi rovescia il contenuto del palmo della mano.
– Filtrino – chiede ancora con voce ferma, mentre sagoma cautamente il tutto tra i polpastrelli.
Poi chiude l’artigianale sigaretta leccandola lungo il bordo e inizia a batterla delicatamente sul tavolino per compattarla a dovere.
Avevano spento la luce del portico per evitare gli sguardi indiscreti dei vicini, portando a termine l’intera procedura con il solo chiarore lunare. Ale è un artista del rollaggio ed è riuscito a creare un perfetto cilindro dall’aria estremamente aggressiva.
Max pregusta un weekend da sballo, assicurato dall'assenza dei genitori. Scruta le casette a schiera disposte tutto intorno alla sua abitazione. Brulicano di persone incapaci di pensare ai fatti propri: sempre a spiarlo, a guardare cosa combina e come si veste, pronti a giudicare e puntare l'indice. Lui, invece, avrebbe voluto mostrargli il medio. Era già finito diverse volte nel loro mirino, ci mancava solo che lo vedessero fumare erba. Lo avrebbero riferito subito ai suoi genitori e poi, salvati cielo.
- Accendino – dice con voce professionalmente piatta Ale.
Il bagliore della fiamma rischiara tetramente il porticato per un istante.
Alcuni colpi di tosse di Ale. Poi quelli di Max.
- Cazzo se è forte. Quanta ne hai messa? -
- Sshhh, tira e muto!
Altri colpi di tosse.


2
“QUESTA È SPARTAAAA” urla il seminudo Leonida, mentre scaraventa il messaggero di Serse nel pozzo senza fondo.
Colori rossi e gialli vengono sparati in faccia ai due giovani, ora seduti sul divano del soggiorno.
Entrambi hanno gli occhi che sembrano due fessure per l’inserimento delle monete di un distributore di caffè, la bocca leggermente aperta e il respiro nasale affannato. Ale regge un popcorn nella mano da più di dieci minuti. Sembra essersene dimenticato.
- Da grande – annuncia con un filo di voce – voglio essere uno spartano.
Passa qualche minuto. Max si gira verso Ale e lo scruta – Ma non è un lavoro! E poi non penso esistano più – replica con la bocca impastata.
- Ti sbagli. Atene c’è ancora e quindi da qualche parte della Grecia c’è anche Sparta.
Max ci pensa. La logica è ineccepibile. – Forse hai ragione.
Vede il popcorn, sospeso a mezz’aria – Lo mangi o aspetti che parli?
Ale guarda il piccolo grano di mais scoppiato come fosse la prima volta che ne vede uno.
Inizia a ridere. Poi ride anche Max. Ridono fino a che Leonida non inizia a brandire fendenti.


3
Rumore di vetri infranti.
I sensi ragno di Max lo percepiscono, ma ci vuole tempo perché lui ne riconosca il suono, lo assimili, decida di prendere il telecomando, trovi il tasto pause e chieda all’amico – Hai sentito?
- Sì. Ha detto: “non un passo indietro”.
- Non il film – sbotta spazientito Max – Al piano di sopra, un rumore di vetri, come se qualcuno avesse rotto una finestra.
Ale resta in ascolto e proprio in quel momento, si sentono distintamente dei passi.
Si alzano di soprassalto dal divano. La testa annebbiata, il cuore incastrato in gola.
- Tranquillo – dice Ale fingendo di esserlo – saranno i tuoi.
- Ma se siamo a casa da soli. Tu pensi che i miei entrino rompendo una finestra?
Ale ci pensa. – I miei non lo fanno, credo. Ma può darsi che lo facciano quando non li vedo.
- Tu hai il cervello in poltiglia – Max deglutisce a stento – Ne hai messa troppa e ora siamo...
Dalle strette scale che svaniscono nell'oscurità, si sente un altro piccolo tonfo e le ultime parole gli muoiono sulle labbra.
- Ladri – mormora Max con un brivido che gli sale dalla schiena e lo fa sudare freddo. Non è da lui. Di solito è forte e spavaldo, anche troppo. Ora invece è in completa paranoia da canna.
- Scappiamo – dice Ale.
- Col cazzo! – replica Max – Chiamiamo i carabinieri.-
- Seee, e quando ci guardano negli occhi, sai che festa ci fanno? –
- Allora che facciamo? -
I due si spremono il cervello così forte che pare di sentire rotelline scricchiolare. Poco prima che il sistema neurale di Ale vada in crash, escogita una soluzione apparentemente logica – Facciamo rumore, così sentono che c’è qualcuno e scappano.
- Giusto – risponde entusiasta Max.
Si avvicinano alla rampa delle scale che porta al primo piano e iniziano a battere forte sui muri, pestano i piedi per terra e urlano frasi senza senso.
Entrambi hanno il fiatone quando smettono. Ascoltano. Nessun rumore.
Max fissa l’amico – Che se ne siano andati?
Ale deve essere preso male più di quanto si possa pensare: ha un colorito giallognolo e una faccia di pura sofferenza. Un rigurgito gli gonfia le guance. Scansa Max e infila il bagno come una saetta.
Rumori atroci giungono dalla fessura della porta, atlantiche agonie di succhi gastrici accompagnati da titanici conati.
Forse, in un'altra situazione, Max avrebbe riso e preso in giro l'amico per ore, ma ora non ci trova nulla di divertente. Alterna occhiate preoccupate alle scale con sguardi ancor più preoccupati alla porta del bagno.
Un rumore dal buio lo fa sobbalzare. Vede un’ombra scendere piano i gradini.
Il terrore gli fa rizzare letteralmente i peli sulla nuca. Sembra che sulla pelle ci siano milioni di piccolissime formiche che fanno stretching. Cerca di resistere, di farsi coraggio. Perde miseramente e inizia a indietreggiare. Inciampa sullo spigolo del divano e ci cade sopra. In un gesto disperato cerca il telecomando.
L’ombra è quasi arrivata agli ultimi scalini illuminati dalla luce del televisore. Indossa luride scarpe da ginnastica piene di terra e dei jeans scoloriti.
Max preme il tasto pause, ma l’ombra continua imperterrita a concretizzarsi davanti ai suoi occhi: una maglietta verde, la faccia anonima appesa sotto un cappello da boscaiolo.
L’uomo scende l'ultimo gradino ed estrae un coltello a serramanico – Tu fa rumore, io taglio gola. Zack! - dice con un accento dell’Europa dell’Est.
'Oddio' pensa Max 'ora mi violenta'.
- No, senti - dice stridulo – Prendi ori, soldi, tutto quello che vuoi, ma lasciami in pace.
L’intruso si avvicina a piccoli passi e fa saettare il coltello nell’aria che sembra quasi Zorro – Tu fa ancora rumore?
- No, no, no , no, no, noo… no.
Giunge ai piedi del divano. Max è ancora sdraiato di traverso, paralizzato, col dito ancora premuto sul pause, quasi aspettando che l'intera scena si blocchi, cercando un minimo controllo su ciò che sta succedendo.
Il coltello cade a terra e l’uomo strabuzza gli occhi in un rantolo. Crolla di peso addosso a Max che urla come la protagonista femminile di un pessimo film horror. S’inerpica sulla spalliera del divano e si scaraventa dall’altra parte.
Guarda nello specchio e vede un’immagine a dir poco inquietante: è ricoperto da goccioline rosse, dalla testa ai piedi.
Si volta lentamente verso il divano, iniziando a capire.
Ale è in piedi e brandisce il porta spazzola del water, un pesante cilindro in ferro, pessimo acquisto in qualche mercatino dell’antiquariato.
Ale fissa l’uomo a terra. Max fissa Ale. L’uomo a terra fissa il pavimento.
Max si avvicina. Sul divano sono apparse grandi macchie scure, il tappeto si sta lentamente impregnando.
- Cazzo Ale – mormora Max guardando ipnotizzato quello che resta della testa del ladro – gli hai aperto la testa!
Ale non risponde, intento a fissare la fontanella che zampilla dalla nuca dell’uomo.
- Ale – lo richiama Max – il Tappeto… il divano… la mia maglietta della Diesel.
- Pensavo che volesse infilzarti – mormora sottovoce.
Max riflette – Sì, ma non so se volesse adoperare il coltello o qualcos'altro. È proprio il caso di dire che... mi hai salvato le chiappe.
L'amico non capisce subito, poi abbozza un sorriso e infine si piegano entrambi dalle risate.
A stento riescono a placarsi. Max si asciuga le lacrime. Ale si massaggia la mandibola dolente per le risate.
Fissano con disgusto la cosa immobile sul pavimento. Il tempo sembra fermarsi.
- E ora che si fa? - chiede infine Max.
- E che ne so. Io non avevo mai ucciso nessuno finora -
- Mi sa che dobbiamo farlo sparire.
Ale pensa intensamente a tutti i film che ha visto, cercando informazioni sull’argomento “eliminazione di cadavere”. Le due cose più sensate che gli passano per la testa sono: a) seppellirlo in giardino; b) darlo in pasto a dei maiali. La prima gli sembra troppo sciocca, sarebbe il primo posto dove guarderebbero; per quanto riguarda i maiali… dove cavolo può trovarli?


4
Luce blu, a intermittenza.
Max va alla finestra. Davanti alla casa c’è la Panda della Polizia Municipale. Conosce molto bene quel vigile, gli ha sequestrato più di una volta il motorino perché era senza casco. Un esaltato che si crede dei Marines, mentre invece è solo un rompicoglioni.
Il vigile si ferma davanti al cancello e si mette a fissare il piano superiore. Poi la porta dell’abitazione.
Per un soffio Max si ritrae dalla finestra prima di essere visto.
- Merda, il vigile.- dice
Ale impallidisce e pensa intensamente a dove ha parcheggiato l’auto.
Facciamo finta di non essere in casa.
Il fastidioso trillo del campanello li fa sobbalzare. Ne segue subito un altro e un altro ancora.
Max si porta le mani alle orecchie, la suoneria gli sta spappolando la testa.
- Cazzo – esclama Ale, ricordandosi due cose importanti. La prima è che ha lasciato la macchina sul passaggio pedonale. La seconda è che non è sicuro di aver chiuso il cancello.
Proprio in quel momento, un cigolio toglie ogni dubbio alla seconda.
- Non avevi chiuso il cancello? - sussurra Max a cui è ritornata la voce da ragazzina di film horror.
- No – Risponde con aria di scusa Ale – Non lo chiudo mai perché tu continui a dimenticarti di aprirlo e io per uscire devo scavalcare ogni volta.
Max chiede comprensione direttamente a Dio e a tutti i santi, senza risultato.
I passi sul selciato si avvicinano.
- Cambiati – dice Ale – io lo tengo sulla porta e gli dico che non è successo niente. Poi arrivi e confermi.
- Ok –
Due colpi secchi scuotono il portoncino d’ingresso.


5
- È sicuro che vada tutto bene?
Il vigile sembra non credere a una sola parola. Ale si sente la bocca collosa ed è convinto che il suo alito potrebbe stendere sei mucche, su sei montagne diverse.
Tiene lo sguardo basso perché l'altro continua a fissarlo. Deve evitare a tutti i costi che quello scorga i suoi occhi rosso-canna. Spera di essere convincente, ma più si sforza di esserlo, meno ci riesce.
'Cazzo' pensa Ale 'uso di sostanze stupefacenti e omicidio! E questo cazzone non la smette di fissarmi'. Immagini vorticose nella sua mente: lui in una bruttissima tuta arancione, con piedi e gambe intrappolati in lunghe catene, a camminare tra le celle sotto gli sguardi di eccitati energumeni che gridano oscenità e battono contro le sbarre.
Spazza via l’immagine scuotendo la testa - Sì, sì, agente. Adesso arriva anche Max e glielo conferma. Max? Maaax?
Posso entrare? - Quattro giorni di duro addestramento nel corso per vigili urbani lo ha reso sospettoso di tutto e tutti.
Intanto la mente di Ale sta tornando a “Paranoia” con biglietto di sola andata. Se non lo fa entrare, i sospetti aumenteranno. Se gli permette di avvicinarsi al divano, vede tutto e sono spacciati. Comunque vada, l’arancione è assicurato.
Il vigile scruta l’interno del soggiorno. Max ha spento la luce prima di andare a cambiarsi e il salotto è in penombra. C’è solo il fermo immagine rossastro della tenuta di Leonida a illuminare il divano. Il corpo non si vede, se non quando ci si avvicina e anche le macchie si notano poco.
Ale arretra di due passi, mentre il vigile avanza di due.
Oh, “300”! – esclama guardandosi intorno come il miglior detective della CSI – Gran bel film!
- Morti a iosa e sangue a fiumi – risponde Ale che inorridisce appena si accorge di quello che ha detto. Guarda la rampa delle scale pregando che Max faccia presto.
- Lo sapete che avete una finestra rotta al piano di sopra? Temo che abbiate subito un furto.
-Noo? – Ale finge di essere sorpreso.
-Meglio che spegni la tv. Dovremo controllare tutti insieme se vi manca qualcosa e fare verbale. Sarete assicurati, spero.
- Ma no, agente – dice Ale balbettando – Ora siamo stanchi. Non possiamo fare tutto domani mattina?
Il vigile scuote la testa e allunga il collo per dare una sbirciata alla cucina. Squadra la porta del bagno e poi la rampa di scale, per poi tornare sul ragazzo. Non è del tutto convinto e forse ha visto qualcosa perché si avvicina al divano.
Il videoregistratore va proprio in quel momento in stand-by e lo schermo diventa nero. Un colpo di fortuna che spinge Ale ad andare verso la cucina e accendervi la luce - Vuole una tazza di caffè? – chiede tentando di farsi seguire.
Il vigile non risponde. Ale ripete la domanda e torna in salotto.
Vede l'agente scosso da sussulti, le ginocchia leggermente piegate. Un piccolo cono argentato gli esce dalla gola. Poco dopo il sangue inizia a sgorgare ovunque investendo Ale che si ritrae disgustato.
Il corpo del vigile si accascia a terra.
Dietro di lui Max estrae con un colpo secco l’asta con la quale gli ha trapassato la laringe.
- Max, ma porca…, adesso sì che siamo nella merda! Hai ucciso un agente di polizia, con un… che cazzo è ‘sto coso?
Max guarda l’asta che tiene stretta fra le mani – È il ferma tende di mamma.
- Oh, cazzo, cazzo, cazzo – Ale saltella sul posto come se gli scappasse di andare in bagno – Me lo vedo il processo, i giornalisti ci sguazzeranno con le armi usate. Saremo gli zimbelli dell’intero pianeta. Due omicidi, duecento anni. Secchi.
Max si stringe nelle spalle – Be', è un omicidio a testa e quindi fanno cento ciascuno.
Ale capisce che Max è ancora mentalmente labile, ma non gli può dare contro per come ha agito. Il vigile aveva visto qualcosa. Ormai erano spacciati: Max aveva coperto con un omicidio il suo. Se non è vera amicizia questa!
Pensare. Ora deve pensare e in fretta. Ragionare è così difficile e non riesce a concentrarsi. Due corpi da far sparire. Perché deve essere tutto così dannatamente complicato?
- Ok – dice infine – Prendo la macchina del vigile e la porto in garage. Domani mattina, quando ci sarà passata la botta, carichiamo i corpi e li gettiamo nel canale. Tutto pulito e a posto. E poi bocca cucita! Noi non sappiamo niente e non abbiamo fatto nulla.
- Geniale – esclama Max sorridendo. I due si scambiano un “cinque”.
Venti minuti dopo sono sdraiati di nuovo sul divano.


6
- Che cazzo fai? - dice Max all’amico.
Ale sta rollando un’altra canna. – Sono davvero troppo, troppo nervoso. Ho il sangue che mi batte in testa. Devo calmarmi. Calma! Questa mi farà pensare lucidamente ai dettagli.
Max ci pensa su. Lui non è mai stato un genio, ma Ale, nessuno mette in dubbio la sua intelligenza
- Giusto – risponde.
- E poi – continua l’amico – devo togliermi dalla bocca ‘sto sapore di vomito e popcorn.
Ale accende e inspira profondamente. Tossisce un po’. Fa un paio di tiri e poi la passa a Max.
Fumano in silenzio. Nel soggiorno si è creata una densa coltre di fumo da fare invidia al miglior coffe-shop di Amsterdam.
Ad Ale viene in mente l’ordine delle cose da fare: pulire il tappeto, lavarsi e bruciare i vestiti sporchi di sangue, risistemare il salotto, spostare la macchina dalle strisce pedonali.
Ma l'amico preme il tasto play e come d’incanto, dimentica tutto, ammaliato dagli spartani che affrontano a viso aperto il più grande esercito della storia.


7
Alcuni voci dal vialetto scuotono i due ragazzi.
Max mette in pausa e quasi piangendo sussurra – Ma questa storia finirà mai?
Corre verso la finestra, restando basso. Giusto un’occhiata fuori e poi prorompe in una fantasiosa esclamazione sulla discutibile vita sessuale delle mucche.
Ale preoccupato, cerca di aprire gli occhi al massimo, ma con scarsi risultati – Che c’è?
- Ci sono tre vicini di casa. Sembra vogliano entrare.
- Forse hanno sentito rumore, o forse mi hanno visto spostare la Panda del vigile.
Max è sul punto di mettersi a piangere – Ma non finirà mai. Mai. Maiiiii!
- Sii uomo - Ale è in piedi. Il volto di pietra, i vestiti cosparsi di sangue.


8
Il lampione getta uno spettrale cerchio di luce gialla fino alla soglia d’ingresso.
I due giovani aprono la porta ed escono spavaldi. I vicini sono pigiati addosso al cancello aperto e li guardano incuriositi.
- È tutto a posto – dice loro Max con voce seria – Tornate pure a casa.
Incapaci di vivere una propria esistenza, borbottano qualcosa tra loro. Poi uno si fa portavoce:
- Abbiamo visto la macchina del vigile. Dov’è? Perché l’avete portata in garage, perché…
Ale sussurra a Max: – Te l’avevo detto che non se la sarebbero bevuta!
Le tempie pulsano forte. L’adrenalina scorre nelle vene sculettando. Camminano piano sul selciato, determinati come guerrieri di Sparta.
I tre vicini li guardano, sorpresi e un po’ stupiti.
Ale e Max si scambiano un’occhiata d’intesa in sintonia perfetta. Forse è solo la droga, forse questa notte senza fine. Sono diversi ora, più forti, inarrestabili, decisi a cavalcare questa notte, a farla propria.
Ale si allarga sulla destra, verso il barbecue. Agguanta una spatola affilata e il forchettone per le salsicce.
Max invece si allarga sulla sinistra e afferra un nano da giardino per le gambe, la punta del cappello rivolta contro i vicini. Con voce bassa e piena di rabbia esclama: – Uccidiamoli tutti!
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Re: Terza prova olimpica: racconto breve

Messaggio da leggere da Manuela »

La melodia di un sorriso

Il mio studio odorava di alcol. E canfora. E di fiori freschi. Che Assunta, la signora che veniva per aprire lo studio e far accomodare i pazienti, cambiava ogni giorno. Un mucchio di volte le avevo detto che i pazienti non volevano vedere i fiori, pensavano al cimitero e non era una buona cosa andare dal medico e pensare al cimitero ma lei non mi ha mai dato retta e ha continuato a portarli. Ogni santo giorno.
Ho lavorato per tanti anni come medico condotto, ne ho viste parecchie, sono stato il medico e il confidente delle persone di questo piccolo paese di campagna, dove ancora vivo.
Era il mio ultimo giorno di lavoro.
Sì, ne ho viste parecchie. Ho curato persone e pure animali qualche volta, quando il veterinario non c’era: tra bestie e cristiani, almeno a livello di cuore e sangue non c’è poi tutta questa differenza. Mi è capitato anche di veder morire bambini e il dolore che mi porto dietro è inconsolabile. Ripagato in parte, dalle cure che hanno avuto effetti miracolosi su altri bambini, altri cristiani, altri pazienti. E altri animali.

Facevo queste riflessioni quella mattina, spinto da una forza più grande di me, era tempo di bilanci: quando termina una fase della vita, i bilanci sono necessari, non ho ben capito perché. In realtà mi è capitato spesso di provare a farne, anche adesso che sono vecchio, proprio vecchio, ma ogni volta è sempre la stessa storia: i miei bilanci non quadrano. Non perché la colonna del dare non corrisponda con quella dell’avere, non è questo il problema. Il punto è che i bilanci di una vita non quadrano mai, qualsiasi formula matematica o scientifica si applichi. La vita è magia, nient’altro. E senza trucchi, per giunta.
Mi perdo. Mi capita spesso. Comincio a pensare a una storia, a raccontarla a me stesso e mi perdo, intraprendo strade misteriose, impensabili da percorrere. Però le intraprendo. E le percorro.
Dicevo.
Bussarono alla porta.

— Avanti — feci, a voce alta.

Una ragazza si affacciò alla porta, era un po’ intimorita, si muoveva lenta, come se dovesse stare attenta a non farsi male. Non ricordavo di averla mai vista, ed era strano, proprio strano, in paese ci conoscevamo tutti.
— Buongiorno, sono morta da tre settimane. Può dirmi, per favore, se mi trovo in paradiso? — esordì, serissima.
Io la guardai e restai zitto. Per la verità, mi scappò un po’ da ridere, ma il suo volto serio mi impedì di farlo.
— Signorina — le dissi, — si accomodi. Adesso facciamo una bella visita.

Lei si sedette e mi guardò. Il suo sguardo era perso, spento negli occhi spalancati, fissi e indifferenti, come se non fossero puntati su di me, ma su qualcosa di molto lontano, al di là di un’ampia distesa.
— Sono morta, dottore, può dirmi se mi trovo in paradiso? — ripeté.
Era convinta di quello che diceva, evidentemente.
Forse era un po’ fuori di testa, ma qualcosa mi diceva che c’era qualcosa di più di questo.
— Signorina, lei è qui, sta parlando con me, perché è convinta di essere morta?
— Perché non sento niente.
All’improvviso si alzò e prese dalla borsa un fazzoletto ricamato, cominciò a sfregarsi il viso.

Intanto, appena fuori la porta, sentivo il brusio dei pazienti in attesa farsi più alto, più rumoroso. Dovevano aver sentito le parole della ragazza. Lavoravo come medico condotto, l'ho già detto, ma la mia sala d'attesa sembrava più che altro un ritrovo di agenti segreti. E di quelli bravi.

Sempre, capitava sempre, che quando uno veniva lì, fuori sapessero già tutto. E quando non lo sapevano, lo venivano a sapere, in qualche modo. E lo riferivano in giro.
Le spie, quelle vere, lavorano in silenzio. Le mie spie, invece, lavoravano al contrario.
Pochi minuti e tutto il paese conosceva la storia di Rosa o di Mario, dico per dire. O di chiunque altro. Una volta, anni fa, una donna aveva avuto una grave emorragia. Si vide recapitare bistecche in grande quantità. E in quell'occasione si comportarono bene, in fondo.

Ma più spesso capitava che venire a conoscenza delle malattie o dei problemi dei loro compaesani li portasse a escludere i malcapitati o, peggio ancora, a ingigantire quello che, nato ad esempio, come un semplice herpes labiale, diventasse una condotta sessuale a dir poco disdicevole. Ecco, come capitava allora, e come capita ancora adesso, ne sono convinto, sono il sesso, o i soldi, a provocare e alimentare le chiacchiere di paese.

Mi sono ritrovato tante volte a dirimere liti coniugali per questioni di corna. O liti familiari per prestiti non restituiti.

Quella volta furono colti di sorpresa.

La ragazza mi disse di chiamarsi Sabrina. La visitai e non notai nulla di strano. Cuore e polmoni stavano bene. Così come stomaco e reni. Certo, visitare il cervello sarebbe stato utile, ma come si fa a entrare nella testa di una persona? Di qualsiasi persona? Non riuscii a convincerla del fatto che non fosse davvero morta. Altrimenti, se non altro, non sarebbe stata lì a dirmelo. Però, in quel caso, avrei dovuto avere qualche segnale. I fantasmi si riconoscono, no?

Decisi allora di cambiare le carte in tavola. Era il mio ultimo giorno di lavoro, avrei chiuso in bellezza.

— Vuole parlarne con gli altri? Magari ci danno qualche idea su come poterla aiutare! — le dissi.

— Gli altri sono gli angeli? Sì, chiediamolo a loro — fece lei, annuendo.

Ci spostammo nella sala d’attesa. Portammo le sedie con noi, non c’erano posti liberi.
La ragazza si sistemò vicino a me.
Tutti ci guardavano con un punto di domanda stampato in faccia ma nessuno proferiva parola.

— Signore e signori, oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, lo so che vi mancherò — e sorrisi sornione.

La signora Lorella levò le mani al cielo come per sottolineare il fatto che era vero che le sarei mancato. A chi avrebbe raccontato i suoi piccoli e immaginari dolori? Chi l’avrebbe ascoltata pazientemente da oggi in poi? E a chi avrebbe portato le uova fresche fresche, da bere subito?

La ragazza di fianco a me restava seria, si guardava intorno, continuava a sfregarsi il fazzoletto sul viso. Credo sperasse di veder spuntare le ali a qualcuno. Del resto, lei era quasi convinta di essere in paradiso. E che quelle persone fossero angeli. Mi chiedo ancora oggi chi pensava potessi essere io. Ho paura di conoscere la risposta.

Ripresi: — Lei è Sabrina. Mi ha appena detto di essere morta. E da tre settimane, per giunta. Anche se non c'è traccia di rigor mortis. Vuole sapere se questo è il paradiso. Lo so che sentite tutto quello che viene detto di là della porta, lo so bene, e lo sentite pure se parlo a bassa voce. Come riuscite a farlo è un mistero, io vi proporrei per i servizi segreti, magari è una possibilità da non escludere… ma non divaghiamo. Come possiamo aiutarla?

— Effettivamente è un po’ pallida — disse il signor Diego, il capomastro del paese. Il colore dei suoi occhi variava non in base al tempo, ma in base all’umore. In quel momento aveva gli occhi grigi.

Nessuno rise alla battuta. Forse non lo era.

— Secondo me — intervenne Antonella, che era la mia paziente più giovane e simpatica, un portento di simpatia, — se Sabrina è morta ci vuole uno specialista.

Ci rimasi un po’ male. Antonella stava dicendo che non ero un bravo medico, in fondo. Ma lei era giovane, e anche Sabrina era giovane, magari fra giovani si capivano.

Diego si alzò in piedi. Gli occhi erano verdissimi in quel momento. Quando uno prende una decisione, sulla sua faccia accade qualcosa di impercettibile, un cambiamento che dura una frazione di secondo. Qualunque cosa accadesse sulla faccia di Diego, passava attraverso gli occhi. Aveva appena preso una decisione.
— Posso fare una telefonata? — mi chiese.
— Certo — gli dissi.
Si alzò e andò nel mio ufficio. — Pronto Don Massimo? Può venire qui dal Dottor Alessandro? Abbiamo una malata morta, un grosso problema, dovrebbe venire subito.
Ecco qua. Il prete e il dottore.
Chi altri doveva essere chiamato?
Il maestro, forse. O il sindaco.
Ma no, c’era una malata morta. Dottore e prete erano le persone giuste.
Decidemmo di aprire la porta della sala d’attesa che dava sulla piazza, perché la questione si faceva lunga, più lunga del previsto. C’era bisogno di aria. E di qualcosa da mangiare.
La piccola platea aumentava. Sembrava che quella mattina, nessuna delle care massaie che usavano riempirmi di prelibatezze preparate con le loro mani, decidesse che era ora di tornare a casa per preparare il pranzo. E pure gli uomini che se non stavano a lavorare, per l’età o per la mancanza di lavoro, a quell’ora, di solito, chiacchieravano davanti al bar, si avvicinarono incuriositi.

Arrivò la signora Angela e poggiò un cesto di vimini sul tavolinetto al centro della sala.
— Dotto’ — mi disse — ho pensato che avevate fame. Pure se la ragazza è morta e dobbiamo trovare una soluzione, si deve mangiare, no? Prima però, permettetemi, devo fare una cosa...

E senza aspettare il permesso, aprì il barattolo che teneva in mano, e cominciò a versare il sale grosso nei quattro angoli della stanza, recitando una litania incomprensibile. Si rivolse verso di me: — Dotto’, non si sa mai…
Poi si sedette, si trascinò al tavolinetto e tolse lo strofinaccio quadrettato che copriva il cesto. Una meraviglia di fette di pane e salsiccia, due bottiglie di rosso e bicchieri, quelli di vetro, la signora Angela non avrebbe mai portato bicchieri di plastica.
La prima a essere servita fu, ovviamente, Sabrina.
— Bevete, signori’, vi farà bene.
Sabrina prese il bicchiere e senza dire una parola, ringraziò, con un cenno.
Tutti erano rivolti a lei, in attesa che bevesse, in attesa che il vino rosso facesse il suo miracoloso effetto. Le avrebbe almeno colorito le guance.

— Ah, lo sapete che l’altro ieri è morta pure Maria? — disse poi Caterina, la mia vecchietta preferita. Una donnina minuscola che profumava sempre di borotalco. — E che ci volete fare, signorina, quando ti tocca ti tocca. Mi sa che la prossima sono io.
— Ma no, Cateri’, fidati, la prossima sono io — intervenne Teresa, convinta.
— E che non può essere? Maria stava così bene. E poi, una botta e c’è rimasta secca. Così è la vita… — terminò Caterina, come se avesse emesso una sentenza.

— Ma ve l’ho raccontato invece quando è morto mio marito? Povero Pasquale! — riprese poi Teresa, facendo gli scongiuri per il malaugurio che le aveva mandato Caterina.
Gli altri scrollarono la testa, Sabrina compresa.
— Ma veramente dite? Ah, e allora ve lo devo proprio raccontare.
Teresa si sistemò meglio sulla sedia, si aggiustò la gonna e prese a parlare: — Io quella mattina mi sentivo male, mi sentivo che stavo per morire e chiamai Pasquale. Lui mi disse: “Tere’, tu stai sempre per morire. Se fossi morta tutte le volte che dici di stare per morire, a quest’ora staresti sul guinnes dei primati.” E poi invece s’è sentito male pure lui. E quando è venuta l’ambulanza, che l’ha chiamata mio cognato Antonio, perché io non sono pratica col telefono, volevano caricare a me sulla barella e invece dovevano caricare a Pasquale, che poi è morto. Capite che ero veramente malata? Volevano caricare a me!

Sabrina ascoltò attenta. Tutti gli altri sembravano divertiti e dispiaciuti allo stesso tempo. In quel momento un gatto fece irruzione nella sala. Scappò via, quasi subito, spaventato da tutte quelle persone che gli gridavano appresso.
— Oh, Signore! Un gatto nero!
— Ma sei sicura?
— Sì, era nero, proprio nero nero.
— Ma no, ti sbagli, tu non ci vedi per niente, aveva una macchia grigia sotto al collo.
— E basta una macchia grigia?
— Guarda, basta anche un puntino grigio, l’importante è che non sia completamente nero.
Il problema del gatto fu risolto velocemente, anche se, ancora oggi, qualcuno continua a parlare del suo effettivo colore.

Sabrina si era un po’ rilassata. A guardarla bene, pareva le piacessero le coccole di quelle chiacchiere, di quegli aneddoti, di quelle persone semplici e genuine. E il suo sguardo, adesso, appariva un po’ più presente.

Antonella le sedette vicino, le prese il polso.
— Non sento il cuore, ci vuole il cardiologo, qua!

Continuavo a restarci male.

Lorella corse a prendere le sue uova miracolose, quelle che avrei dovuto bere io.
— Questo farebbe resuscitare pure un morto vecchio, figuriamoci una giovane come voi! — disse, bucando l’uovo.
Diego rimaneva in piedi vicino alla porta, sembrava volesse accelerare l’arrivo di Don Massimo.
Angela versava ancora un po’ di vino. Caterina e Teresa avevano iniziato a recitare il rosario, con lo stesso proposito di Diego, probabilmente.

Strano a dirsi, ma quei richiami funzionarono. Don Massimo arrivò trafelato.
— Dove sta la ragazza morta? — esclamò, restando sulla porta.
Gli sguardi si volsero, all’unisono, verso Sabrina. Don Massimo si accostò a lei e le poggiò una mano sulla fronte, forse per accertarsi delle sue condizioni fisiche. Poi guardò me. Aveva lo stesso punto di domanda degli altri, stampato in faccia.
Gli spiegai la situazione.
Neppure lui sorrise. Esortò tutti a una preghiera, il buon Dio ci avrebbe aiutato a trovare la soluzione giusta.

Avevamo mangiato, avevamo bevuto e avevamo pregato. Nessuno si era mosso. Gli uomini avevano ceduto il posto alle signore o ai più anziani. Era presente tutto il paese.

Fu una sorpresa quando Sabrina sorrise. Sembrava rinfrancata. Le sue guance avevano preso colore e il suo sguardo, adesso, era proprio lì con noi.

— Vi racconto una storia, — cominciò, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e con la faccia tra le mani. — Sarete gli unici a credermi, ne sono sicura. Io sono morta, da tre settimane. Non lo so come è successo, non me lo ricordo, ma so che sono morta. Sono stata da un altro dottore, in città, sapete, io vivevo in città quando ero viva. Solo che lui mi ha detto che il paradiso non esiste, non da vivi almeno, e mi ha detto che io non sono morta, sono solo malata. Una strana sindrome, mi pare abbia detto Cotard, o qualcosa del genere. E si è messo a ridere. E allora sono andata via. E ho camminato per tanto tempo, in cerca del paradiso. Quando uno muore e sa di non aver fatto troppe cose cattive, spera che il suo posto sia proprio il paradiso o, almeno, come dice quel cantante, il purgatorio, ma tutti quelli cui l’ho chiesto si sono messi a ridere. Così, ho ripreso a camminare. Per cercare il paradiso. Sono arrivata fino a qui. Forse l’universo è mosso da una melodia perfetta, forse il mio purgatorio era proprio cercare tanto prima di arrivare nel posto giusto. Perché a un certo punto ho sentito una nota diversa ed è cambiata l’intera melodia. Voi siete quelli giusti.
— Perché? — le chiesi.
— Perché nessuno di voi si è messo a ridere. C’è un vecchio proverbio che dice qualcosa proprio in merito a chi ride troppo. E i vecchi proverbi raccontano sempre grandi verità. Quelli giusti ridono solo quando c’è davvero da ridere.

Sabrina ringraziò e abbracciò tutti, disse che doveva andare via. Nessuno la fermò.

Sono passati tanti anni da quell’episodio. Non ho più visto Sabrina. Ho studiato la sindrome di Cotard, esiste davvero. Ma non è questo che importa.
L’importante è sapere che quel giorno, Sabrina, fu felice.
Perché nessuno di noi pensò a quella malattia, perché nessuno di noi si preoccupò delle stranezze che diceva e, anzi, ci prodigammo tutti per aiutarla. Perché nessuno di noi rise di lei.
Le avevamo creduto, aveva ragione. E prima ancora che ci raccontasse la sua storia.

Di lei mi resta un sorriso dolce che, insieme al nostro, diede vita a un’unica magica melodia.
E un fazzoletto ricamato.
Manuela Costantini
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«Capisco» disse. E più o meno aveva capito. - Neil Gaiman
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Re: Terza prova olimpica: racconto breve

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Il maglione color malva



Giovedì 7 marzo, ore 15.00 circa.

— E allora, questo maglione a girocollo, alla fine, come hai deciso di realizzarlo? — chiese la signora Marta all'amica.
— Mah, non so. Pensavo a punto riso la parte centrale, mentre vicino alle cuciture volevo fare due file di trecce, che ne pensi? — rispose Lea afferrando un dolcetto al cocco.
— Le maniche però senza ghirigori, vero? — osservò Marta sorseggiando il suo the.
— Certo, certo, si capisce. Rigorosamente a punto riso. Per lo scollo, invece, pensavo di farlo all'uncinetto, non so, mi sembra più fine.
— Tua nuora ne sarà felice. Per il suo compleanno è convinta che le regalerai i tuoi orecchini antichi stile borbonico, sai che faccia farà quando vedrà il maglione — rise Marta.
— Mio figlio la costringerà a indossarlo per farmi piacere. Prima di liberarsi di me dovrà festeggiare ancora molti compleanni — disse Lea servendo altro the all'amica.
— Dove hai comprato la lana?
— Lana? Vorrai scherzare, puro acrilico. Un pacco grosso così, dieci gomitoli cinque euro al banco del cinese. Che pensavi? Voglio che si gratti per tutto il giorno — precisò seria la signora Lea.

Sabato 16 marzo, ore 16.00 circa.

— Non ne posso più, credimi. È una tortura — sussurrò Giulia al cellulare nuovo di zecca, camminando su e giù sul marciapiedi davanti al salone di bellezza Le Belle Svampite.
— Avanti, cosa è successo adesso? — rispose laconica l'amica, all'altro capo del telefono, intenta a farsi laccare le unghie da una manicure brufolosa e raffreddata.
— Niente di nuovo, è la solita rompiscatole. Per il mio compleanno, ricordi? Mi aspettavo in regalo i suoi orecchini antichi, quelli che conserva nella cassetta di sicurezza. L'ha fatto apposta! — sbottò la donna.
— Cioè?
— Per mesi non ha fatto che promettermi un dono originale e molto, molto brillante, che si adatta bene ai miei occhi. E sai ieri alla festa che cosa ha avuto il coraggio di regalarmi? Un maglione di acrilico color malva fatto con le sue preziose manine! Dico, mi ci vedi? E per fare piacere a Paolo ho dovuto indossarlo per tutta la cena. Non ti dico l'umiliazione…
— La vecchia non si arrende, è davvero ostinata. Mi sa tanto che dovrai tenertela a lungo in casa — abbozzò l'amica.
— Eh no, basta, questa è l'ultima. Ho già cominciato a fare il lavaggio del cervello a Paolo: prima dell'estate la voglio a Villa Serena — dichiarò Giulia con decisione.
— See… e quando la convinci ad andare in casa di riposo? È lucida e autonoma, e anche molto ricca. Hai fatto male i tuoi conti, cara mia.
— Paolo non c'é quasi mai a casa, per lavoro passa cinque giorni a settimana all'estero, sono io che devo sopportare la vecchia. Lo convinco, non temere.
— E come farai?
— Semplice, bastava pensarci. Ho una complice: la sua badante — dichiarò trionfante.
— Ma chi? Romina? E quanti soldi le hai promesso?
— Abbastanza per disfarmi della vecchia. Basterà solo che ammetta che la signora Lea non è più lei, che si alza di notte a cercare nei cassetti, che ha cercato di dare fuoco alla casa, e il gioco è fatto. Guarda, non è nemmeno una bugia, poi, è successo davvero — concluse Giulia.
— Ma davvero ha cercato di dare fuoco alla casa? — chiese stupita l'amica.
— Che dici! No, certo. Ma l'altra notte l'ho sorpresa mentre frugava nei cassetti della madia in cantina. Ha detto che stava cercando una candela!
— Vuoi farla passare per matta?
— No, no, niente di tutto questo. Disorientamento, affaccendamento, incapacità di ricordare. Si chiama Alzheimer — dichiarò orgogliosa.

Domenica 17 marzo, ore 21.00 circa.

La mano di scopa era servita. La signora Lea inforcava i suoi occhiali preferiti e alla sua destra il bicchiere di brandy era pieno a metà. Il figlio Paolo stava esaminando le carte con attenzione, nonostante l'età sua madre era davvero imbattibile a carte. Lui, di contro, era un perdente nato. Un perdente astemio.
— La prossima estate pensavo di andare in vacanza a Rapallo — dichiarò la signora Lea dopo aver effettuato una presa di coppe e denari.
— Nella casa al mare? E chi ti accompagnerà? Non certo Giulia, sai com'è fatta, non ama le vacanze sedentarie — rispose Paolo.
— Lo so bene — disse la donna, valutando se lasciare a terra il nove di spade e fare le prossime tre prese.
— E allora, come pensi di fare? Non contare su di me — l'avvertì il figlio.
— Ma certo, stai tranquillo. Mi accompagnerà Romina, mi ha già detto che è d'accordo. Rientrerò a Roma in settembre, così tu e Giulia sarete più liberi — disse la signora Lea giocando il Sette Birillo.
Paolo sospirò. Stava perdendo, di nuovo. L'unica era giocare le ultime carte assecondando il gioco della madre senza però perdere il filo del discorso.
— Un'altra cosa, figlio mio. Mi sembra che tua moglie non stia tanto bene — la donna gettò l'amo.
— In che senso?
— Non so, vedo che sta spesso male, vomita e ha mal di stomaco. Le ho detto di andare dal medico, ma non mi vuole ascoltare. Non sarà mica un brutto virus? — chiese accigliata facendo l'ultima presa.

Domenica 17 marzo, ore 23.00 circa.

— Tua madre è matta! — gridava la donna scagliando contro il marito tutto ciò che le capitava a tiro.
— Giulia, calmati, è solo preoccupata per te. I tuoi sbalzi d'umore sono evidenti, non sapevo poi delle tue indisposizioni frequenti, perché non me ne hai parlato?
— Semplicemente perché sto benissimo! È lei che è strana, ti dico. Si alza di notte e getta all'aria i cassetti, dimentica le promesse fatte e fa regali inappropriati — le scappò.
— A cosa ti stai riferendo?
— Ma sì, dai, l'hai capito benissimo. Aveva promesso di regalarmi gli orecchini, ricordi? E invece, ciccia!
— Eh no, Giulia, lei non lo ha mai detto, sei tu che hai frainteso. Ma di cosa ti lamenti, lei è autonoma, non ci limita in niente, ha una badante che la segue passo passo, e un giorno tutta la sua ricchezza sarà nostra — la abbracciò Paolo.
Giulia si calmò. Si sedette sul letto e respirò piano, poi riprese a parlare lentamente.
— Paolo, fidati, non sta bene. Adesso questa storia del mio malessere, si sta immaginando tutto.
— Va bene. Quando torno dal Brasile ne riparleremo, ma tu stai calma. E vai a farti vedere dal dottore — concluse Paolo.
Il vaso di Murano, regalo di nozze della zia Pia, volteggiò brevemente in aria prima di schiantarsi con grande fragore contro la parete, a pochi centimetri dalla testa dell'uomo.

Giovedì 21 marzo ore 15.00 circa

— Guarda che ti sbagli — osservò la signora Lea.
— No, sono sicura. Venti minuti bastano.
— Ma cosa dici? Per un buon tiramisù i tuorli vanno sbattuti a mano per almeno venticinque minuti, non uno di meno. Ma che, stiamo scherzando?
— Vabbè, vabbè, devi sempre avere ragione tu. E alla fine com'é venuto?
— Buonissimo, direi, Giulia l'ha apprezzato molto — commentò la signora Lea agitando una mano.
— Beh, non è una novità, tua nuora va matta per i dolci — osservò Marta sgranocchiando un amaretto.
La signora Lea servì il the nelle consuete tazze di porcellana sorridendo all'amica, per qualche minuto restarono in silenzio a sorseggiare l'infuso caldo.
— Allora è deciso. La prossima estate andrai a Rapallo. Come hai fatto a convincere tuo figlio e sua moglie? — riprese Marta aprendo la confezione di biscotti secchi per il the.
— Con Paolo non ci sono stati problemi, pensa solo al suo lavoro. L'importante per lui è sapere che mi porto dietro la badante — spiegò Lea.
— E tua nuora?
— Ah, Giulia. Non sta molto bene, ultimamente, mi preoccupa un po'. Pensa, va dicendo in giro che ho l'Alzheimer. Vuole farmi ricoverare in casa di riposo — rise la donna.
— L'alzheimer? Tu?
— Figurati! Comunque, anche mio figlio l'ha trovata cambiata, più nervosa. E non vuole ammettere di aver bisogno di un medico per i forti dolori allo stomaco.
— Ed è per questo che è di sopra a letto e che si lamenta? Non sarà mica stato il tiramisù? — chiese Marta senza scomporsi.
— Ah beh, non ci sono dubbi, certo che sì. Il mascarpone era scaduto da diversi giorni.
— Allora alla fine hai deciso di non usare più il veleno per topi che nascondevi in cantina.
— No, purtroppo si è accorta che ero scesa di notte a prendere un'esca, ma grazie al cielo mi ha fermato prima che aprissi il cassetto.
— E tu cosa le hai detto?
— E che potevo dirle? La prima cosa che mi è passata per la mente, che stavo cercando una candela. Deve proprio avermi presa per matta — rise Lea.
— Come hai fatto, allora? — incalzò Marta.
— Semplice, ho cercato su internet. La risposta é una parola difficile, ma molto chiara: botulismo — spiegò la donna.
— E lei, golosa com'é, non ha sentito un sapore strano?
— E chi lo sa, intanto ne ha mangiato una bella porzione intera. Dici che basterà?
— Certo che sì. L'importante è che tu abbia fatto sparire tutto. Non avrai gettato il dolce nella tua spazzatura, spero — chiese Marta.
— Ma allora anche tu credi che abbia l'Alzheimer! — rise la donna — Certo che no, ho buttato via tutto, confezione di mascarpone e gusci d'uova comprese, giù nel cassonetto di via Martiri, a due chilometri da qui. Guarda che so ancora camminare bene!
— Cosa dirai a tuo figlio, tra qualche giorno, quando saprà che Giulia è morta intossicata?
— E che ne so? Gli dirò di trovarsi una nuova moglie meno golosa e, soprattutto, amante della Riviera Ligure.

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