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Gara 57 - bando e racconti

Inviato: 20/12/2015, 23:07
da carlocelenza
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Eccoci qui, si inizia la cinquantasettesima gara.
Tra poco è Natale, la fine dell'anno, le litigate in famiglia, non ci sarà molto tempo per scrivere, quindi se il termine di un mese da oggi si rivelasse troppo stretto, diciamo che lo riteniamo elastico.
L'argomento è un incontro, lo avevo detto, tra due, tre, quattrocento, imbranati e questo non lo avevo ancora detto, ma ora l'ho fatto.
Qualunque punto di vista è concesso, e se volete proprio metterci qualche lacrimuccia va bene lo stesso, ma strappate almeno un sorriso.

Vi ricordo il regolamento generale: www.braviautori.it/forum/viewtopic.php?f=80&t=2308

Per chiacchierare e. in seguito, commentare: www.braviautori.it/forum/viewtopic.php?f=80&t=4886

Chi partecipa alla gara e poi non commenta né vota gli altri racconti, sarà escluso.
Lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%.
Ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in apertura del vostro brano.
Voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5).
I racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

Adesso lo posto, tremo al pensiero di quel che potrà succedere.
P.S.
Normalmente l'imbranato sono io.

QUELLA NOTTE (IMBRANATI CRONICI)

Inviato: 23/12/2015, 8:52
da Giorgio Leone
Disegno di Francesca Leone
Disegno di Francesca Leone
Finalmente erano rimasti soli sul dondolo del terrazzo mentre il sole tramontava. Lui aveva l’impressione che lei lo guardasse quando non la guardava, ma non ne era sicuro. Non voleva infatti che lei si accorgesse che la guardava, quindi la guardava solo quando era certo che non lo guardasse e distoglieva velocemente lo sguardo quando gli sembrava che stesse per guardarlo. Lei faceva la stessa cosa, per cui anche lei pensava che lui la guardasse quando non lo guardava, ma a sua volta non poteva esserne certa. Da molto tempo a ognuno dei due piaceva da morire l’altro, ma nessuno dei due aveva mai trovato l’ardire di dichiararsi. Come mai agivano così, quando sarebbe stato invece logico comportarsi in ben altro modo? Tutti e due lo sapevano, perché avevano frequentato la stessa facoltà di psicologia trovando appena il coraggio di parlarsi. Avevano appreso che i soggetti con bassa autostima - conseguenza di eventi dell’infanzia - si sentivano goffi e inadeguati per cui, vivendo nel costante terrore di sbagliare e di essere criticati o derisi, diventavano invariabilmente imbranati. Come se non bastasse erano anche inconsciamente portati a pronunziare parole inopportune e a compiere gesti sbagliati - una volta di più da imbranati - per porsi da soli fuori gioco e far cessare la situazione penosa nella quale si dibattevano al momento. Se però era importante conoscere le motivazioni dei comportamenti pregiudizievoli - e questa era una vera patologia, non un disturbo da poco - occorreva anche agire per superarli. Così lui si fece coraggio e partì all’attacco, rosso come un peperone.
- Che tramonto meraviglioso, non è vero? - osservò pentendosi immediatamente. Che risposta si poteva attendere? Ovviamente un assenso, dopo di che la cosa sarebbe morta lì. Avrebbe invece dovuto introdurre un valido argomento di conversazione.
- Veramente stupendo - rispose lei dopo un lungo e imbarazzante silenzio. Lui pensò disperatamente a come proseguire prima di avere l’idea giusta.
- Speriamo che anche domani sia bel tempo - annunziò. Pure questa era andata, ma si era appena rilassato che lei rilanciò la palla nella sua metà campo.
- Dicono che anche dopodomani potrebbe essere bello - azzardò, e per un po’ tacquero perché il richiamo al giorno successivo al dopodomani sembrava eccessivo a tutti e due. Quindi lui provò ad aprire un altro fronte.
- Lei sembra molto intelligente! - comunicò, e subito ebbe voglia di prendersi a calci perché avrebbe dovuto solo dirle che era intelligente. Quel “sembra” poteva essere frainteso e assumere un significato distorto, come a dire che appariva intelligente senza effettivamente esserlo.
- Come l’ha capito? - rispose lei tentando una battuta e maledicendosi all’istante perché magari lui avrebbe potuto prenderla alla lettera. Ma perché non l’aveva ringraziato e basta, magari ricambiando il complimento?
Fortunatamente stava rinfrescando, lei ebbe un piccolo brivido e lui sorprese se stesso cogliendo l’occasione. Si levò la giacca e gliela mise sulle spalle come aveva visto fare in paio di film, ma subito gli venne in mente che non l’aveva fatta lavare da parecchio e lei avrebbe potuto sentire un odore sgradevole. Il primo impulso fu quello di riprendersela, ma lei lo ringraziò con voce tremante e lui lasciò cadere la sua mano che toccò quella di lei e ambedue sobbalzarono come se avessero preso una scossa elettrica. Ognuno, infatti, pensava che l’altro avrebbe potuto indignarsi per l’improvviso contatto fisico non preceduto da un'adeguata dichiarazione d'intenti.
Lui allora le accomodò meglio la giacca, ma così facendo le cinse le spalle e la mano scese senza volerlo sino a percepirle il seno attraverso la stoffa. In un milionesimo di secondo il cervello trasmise l’ordine irrevocabile di ritirarsi immediatamente, ma il tepore del suo corpo lo immobilizzò, la testa iniziò a girargli, restò come tramortito e la mano rifiutò di ubbidire. Anche lei sapeva che avrebbe dovuto dirgli di togliere la mano di lì, altrimenti lui avrebbe potuto pensare che fosse una poco di buono, ma non ne fu capace perché un caldo piacere le sottrasse la forza di parlare, paralizzandola.
In quel momento qualcuno aprì la porta finestra e uscì per qualche attimo sul terrazzo. Sicuramente era spinto da qualche buon motivo, ad esempio quello di spegnere una sigaretta o prendere una boccata d’aria, ma ognuno dei due si sentì controllato e colto in fallo e lui ritrasse velocemente la mano temendo di essere visto. Alla luce della luna piena lei lo guardò e riconobbe sul suo viso sintomi ben conosciuti, ovvero l’espressione di rinunzia, di rassegnazione e di umiliante sconfitta accompagnata però dal sollievo di non dover più a lungo reggere una situazione troppo stressante. In effetti il momento magico era passato e anche lei provava le stesse sensazioni, ma poi pensò che quella non era una sera qualunque perché il periodo universitario era finito e il giorno dopo avrebbero raggiunto le proprie famiglie in città diverse e non si sarebbero più incontrati. Non era giusto, non era affatto giusto e non poteva finire così senza neppure un inizio, non aveva senso e quella cosa gridava vendetta. Dal nulla una rabbia devastante la pervase, una rabbia folle mista a disprezzo e odio verso di lui, ma anche contro se stessa, una rabbia incontenibile che le fece salire il sangue alla testa e le sottrasse ogni controllo.
- Ma allora, queste tette me le vuoi toccare sì o no? – si sorprese quasi ad urlare con una voce che non sembrava nemmeno sua – Ci vuole così tanto?
Quindi lo guardò atterrita temendo di leggere sul suo volto chissà quale espressione disgustata o schifata, ma vide solo sorpresa, liberazione e la fiamma di un desiderio troppo a lungo represso e un attimo dopo i loro corpi si avvinghiarono in un amplesso devastante mentre gli organi meccanici del dondolo venivano messi a dura prova sino quasi a raggiungere il cedimento strutturale.
E anche adesso si stavano guardando mentre il sole tramontava, così profondamente diversi e nello stesso tempo così eguali ad allora. Perché era la grande festa per le loro nozze d’oro e intorno c’erano figli e nipoti stupendi che non avrebbero potuto mai esserci se lei non fosse andata fuori di melone al momento giusto, quella notte.
Quella notte, quella benedetta, indimenticabile notte di tanto tempo fa.

Re: Gara 57 - bando e racconti

Inviato: 24/12/2015, 13:53
da Angelo Manarola
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L'IMBRANATO E IL VECCHIO SAGGIO



Davide non aveva mai avuto una vita agiata. Colpa forse della sua timidezza ma, soprattutto, del difetto di voler avere sempre tutto e subito.
In questo modo gli amori, i lavori e i vari progetti erano naufragati dopo pochi giorni di vita.
Giunto alla soglia dei trent'anni, amareggiato, incattivito e privo ormai di ogni remora morale entrò in quella banca armato di una pistola e di una sciarpa che gli avvolgeva il volto lasciando solo una fessura all'altezza degli occhi.
Giunto di fronte al cassiere, mentre con una mano puntava la rivoltella contro di esso, con l'altra gli porse un sacco intimandogli:
“Riempilo subito col denaro”
Tremante, l'impiegato ubbidì immediatamente, ma quando gli porse il sacco colmo di banconote, la sciarpa annodata con un nodo inefficiente, gli cadde mostrandolo in viso.
Immediatamente la raccolse riavvolgendola nuovamente sul volto e con voce querula domandò al cassiere:
“Mi hai visto in faccia?”
L'uomo tremante e senza neppure rendersene conto farfugliò:
“No. No. Un poco forse. Ma comunque ero distratto.”
Spaventato e furioso, Davide premette il grilletto e la pallottola raggiunse il poveretto in pieno petto freddandolo all'istante.
Voltandosi per fuggire si trovò un anziano di fronte. Puntandogli contro l'arma ancora fumante gli chiese:
“E tu? Anche tu mi hai visto in viso?”
Quello, con la voce più calma che poté usare in quella tragica e pericolosa circostanza, rispose:
“Non vedi come sono vecchio? Ho gli occhiali spessi due dita ed è già tanto se son riuscito ad intravedere la tua sagoma”
Ma dopo pochi istanti, indicandogli una persona immediatamente dietro a lui proseguì:
“Mia moglie, invece, ti ha visto benissimo.”

Re: Gara 57 - bando e racconti

Inviato: 29/12/2015, 23:00
da Federico Pani
LA PRIMA VOLTA
Se fosse dipeso da Diego, la serata sarebbe finita in compagna di mojito e long island. Non è un tipo dall’ormone onnivoro, né una persona che non sa riconoscere quando è opportuno starsene al proprio posto. La discoteca, specie in pieno agosto, è per lui un luogo quasi inospitale. Troppa gente che porta a spasso il proprio ego; troppe ragazze che, se solo lui provasse ad avvicinarsi, lo rifiuterebbero con sommo sdegno. E’ troppo impacciato, Diego. Troppo imbranato.
E’ stata Luisa a trascinarlo fuori dal suo ineluttabile destino. “Trascinato” in senso letterale: lo ha preso per un braccio e condotto fuori dalla ressa, tra gli sguardi inebetiti dei suoi amici. Diego la conosce bene. Prima che si trasferisse, frequentavano lo stesso quartiere. E’ sempre stata una tipa con la testa tra le nuvole. “Un po’ strana”: così la descrivono, semplicemente perché il parco aggettivi di comune utilizzo, con lei, si rivela piuttosto inidoneo. Da qualche mese ha varcato la fatidica soglia dei diciotto anni e se ne va in giro con un’invidiabile utilitaria di terza mano.
Si trovano appoggiati sulla portiera sinistra dell’auto. Ha cominciato a baciarlo senza troppi indugi e Diego non ha certo opposto resistenza. La fortuna, una volta tanto, gli ha arriso e non ne vuole proprio sapere di indagare su moventi o recondite circostanze.
«L’hai mai fatto in macchina?» chiede ad un tratto Luisa, come se fosse la domanda più naturale di questo mondo.
No, non l’ha mai fatto in macchina. Anzi: non ha proprio mai fatto sesso nei suoi brevi e ingloriosi sedici anni.
«Certo…»
E’ ancora lei a dettare le danze, anche se con decisamente poca leggiadria. Armeggia con la chiave per una ventina di secondi, imprecando contro le tenebre che avvolgono quella sezione del parcheggio ricavata abusivamente poco lontano da un lido.
Diego si incunea non appena lei reclina il sedile anteriore in avanti. Lui e il suo metro e settanta scarso faticano a trovarsi a proprio agio in un auto che garantisce lo spazio vitale di un tonno in scatola. Si domanda come possa quel luogo trasformarsi in qualcosa che assomigli anche solo vagamente ad un letto.
«Forse dovremmo spostare ancora più in avanti i sedili anteriori» ipotizza Luisa, il che gli fa pensare che anche per lei si tratti di una situazione piuttosto inedita.
Da bravo cavaliere, Diego si infila tra i due sedili e allunga le mani verso il basso, alla ricerca delle leve. L’operazione si rivela più complicata del previsto, costringendolo a manovre degne di un contorsionista.
«Maledette auto cinesi!» impreca.
«Veramente la marca è coreana» puntualizza lei, con voce soffusa.
“Si sta togliendo il vestito!” pensa quindi lui, il che lo porta a voltarsi di scatto.
In effetti, Luisa si trova al centro esatto del sedile posteriore, con indosso quello che ha tutte le sembianze di un bikini. L’ha già vista almeno cento volte vestita così, ma la situazione la rende irrefrenabilmente più eccitante. Glie lo si deve leggere in faccia: sembra un bambino da poco atterrato nel paese dei balocchi.
C’è eccitazione, sì, ma anche imbarazzo. I primi dubbi lo assalgono. Poco prima ha ostentato una certa esperienza nel settore, per paura che la sua ammissione di verginità rovinasse la magia venutasi a creare. Ora, però, si domanda se quella mossa non possa ritorcerglisi contro. Da buon adolescente del proprio tempo, Diego ha attinto a piene mani dall’arcipelago di video osé che il web sa offrire. Eppure, proprio nel momento di maggior bisogno, avverte in tutta la sua gravosità il diaframma esistente tra la teoria e la pratica.
“Cosa diamine devo fare?”
«Lo vuoi fare o no?! Togliti quei vestiti, dai!»
L’urgenza di quelle parole lo rinsavisce. Si libera delle scarpe, spazza via la t-shirt e, con estrema difficoltà, riesce anche a far scivolare via i jeans. Luisa ha fatto lo stesso con il perizoma, che Diego si vede recapitare d’un tratto sul viso. Prova a concentrare lo sguardo al di sotto del suo addome, ma il buio non gli consente di vedere alcunché. Comincia a domandarsi seriamente se riuscirà a individuare il pertugio tra le sue gambe.
Con entrambe le mani, Luisa spinge il suo bacino verso di lei. Diego prova ad esorcizzare l’eccitazione dilagante cercando la posizione più naturale. Così allunga le proprie gambe più che può all’indietro, fino a quando un piede non finisce per cozzare sulla radio. Le ingombranti e gracchianti note di una canzone dei Motorhead si sprigionano dalle stanche casse dell’utilitaria coreana, facendoli sobbalzare.
«Dannazione, spegni quella fottuta radio!»
Il perentorio ordine di Luisa lo getta ancora più nel panico. Con un altro movimento istintivo, oltreché energico, Diego colpisce la manopola del cambio. Per Luisa, l’unica che si trova in una posizione tutto sommato ordinaria, è fin troppo facile accorgersi che l’auto, lentamente, ha cominciato a muoversi.
«Cosa cavolo stai facendo?!» impreca lei.
Lui non sa davvero cosa sta facendo, né si rende conto della gravità della situazione. Sa soltanto che i suoi sogni di gloria stanno andando in fumo a causa della sua inguaribile imbranataggine.
«Ferma la macchina, cazzo!» grida Luisa.
Anche lei è nel panico: si è accorta solo ora di aver dimenticato di azionare il freno a mano. E’ caduta sull’abc del neo-patentato, e poco importa che senza la sbadataggine del marmocchio che ha di fronte non si troverebbe in quella situazione. Se dovesse succedere qualcosa, suo padre la mangerebbe viva. “Sei un’imbranata” le direbbe, per l’ennesima volta, subito prima di toglierle le chiavi dell’auto. Ammesso che qualcosa di servibile rimanga di quella dannata auto.
A causa del lieve declivio, l’auto ha man mano preso velocità. Luisa capisce di non poter contare sulla collaborazione di Diego, che si trova quasi in uno stato di trance.
«Spostati!» ordina, spingendolo in avanti fino al punto di schiacciarlo sul cruscotto.
Diego si ritrova tutto rannicchiato sulla parte anteriore dell’auto, con le ginocchia posate sui due sedili, le mani che arpionano i poggiatesta e il collo piegato poco sotto lo specchietto retrovisore interno. Luisa, avendo finalmente campo libero, si scaglia in avanti, riuscendo così a tirare il freno a mano. A pochi centimetri dal suo naso, inevitabilmente, si trova un pene eretto. Un pene che, ancora una volta, è condannato all'insoddisfazione.
La corsa termina ad appena dieci metri dal muro di uno stabilimento balneare. L’auto, dunque, è salva. Lo stesso non può dirsi, però, per la loro reputazione. I tanti ragazzi nei paraggi, complice l’indiscreta luce dei lampioni sul lungomare, si ritrovano di fronte ad una scena che verrà tramandata di generazione in generazione, fino ad assumere i contorni di un’autentica leggenda.

LUCA

Inviato: 02/01/2016, 14:29
da Eliseo Palumbo
C'è questo mio amico: Luca.
Luca è malato di donne. Malato nel senso che ama stare dietro le donne, corteggiarle e farci l'amore.
Luca non è un tipo fedele. Non è in grado di portare avanti una relazione stabile. La sua relazione più lunga è durata venti giorni.
Lei era molto bella: Francesca. Occhi cerulei e capelli rossi. Sorridente, cordiale, simpatica e, purtroppo, timida da fare schifo.
Una sera, appartati dietro lo stadio, si scambiavano effusioni e preso dalla foga, Luca, inizia a palparla. Ribalta lo schienale, le si mette sopra, la bacia, le toglie la maglietta, fa scivolare la zip dei jeans.
Lei ferma. Muove solo la lingua.
Luca non ci fa caso e continua a spogliarla, slaccia il reggiseno, toglie le mutandine e lei continua a restare immobile. Un paio di carezze sul volto e la lingua che gira. Nient'altro.
Luca inizia a slacciarsi i pantaloni, li abbassa insieme alle mutande e poggia il suo caldo membro su Francesca. Con una leggera pressione è dentro.
Lei immobile.
Lui preso dalla foga spinge, gira, tocca, lecca e infine esplode sul sedile. Lei non lo guarda nemmeno. Lui torna sul lato guida e si siede sopra il suo seme. Impreca, cerca un fazzoletto, si pulisce si riallaccia i pantaloni. Francesca intanto si veste velocemente.
- Cosa c'è che non va?
- Niente Luca.
- Ho come avuto l'impressione che eri assente – è sempre stato molto arguto Luca.
Silenzio.
Luca la riaccompagna a casa. Dopo qualche minuto gli squilla il cellulare. E' un messaggio da parte di Francesca: “Scusami per stasera ma io ho ancora la testa al mio ex, non ci potrà mai essere nulla tra noi”
Luca passa il palmo sullo schermo catturando lo screenshot, clicca su condividi, posa l'indice sull'icona dell'app di messaggistica, seleziona il destinatario ( che dovevo essere io) e digita come didascalia: “ma chi si crede di essere questa? Io me la volevo solo bombare e tra l'altro era una galleria” seguito da diverse faccine sorridenti. Invia e scrive anche la brevissima conversazione avuta sull'auto.
Dopo due secondi gli squilla nuovamente lo smartphone. Una chiamata in entrata. E' Francesca.
- Pronto?
- Mi fai schifo! Sei un pezzo di merda! Non hai rispetto per le donne! Sei un volgare materialista! Sei così stupido che di sicuro non ti sei reso conto di aver sbagliato! Te la farò pagare!
Francesca chiude bruscamente la chiamata. Luca apre l'app e si accorge di aver mandato lo screen proprio a lei. Batte la testa contro il finestrino e si stropiccia la faccia.
Il giorno dopo ha trovato la scritta IMBRANATO, spruzzata con una bomboletta nera, sullo sportello dell'auto.
Oggi ogni volta che vanta una nuova conquista noi lo riportiamo con i piedi per terra ricordandogli la bella figura di M.

Re: Gara 57 - bando e racconti

Inviato: 14/01/2016, 16:16
da Alberto Tivoli
PATATRAC
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Tututum! Faceva il cuore di Elio. Tututum!
— Prego, scegli prima tu — serrò il pugno e ficcò il gomito tra le costole.
— Che hai? — chiese lei.
— Oh, nulla, mi stava cascando il tovagliolo — la guardò scrollare le spalle e immergersi nel menù. “Non muoverti” si disse “non un muscolo”, chiuse gli occhi e si visualizzò seduto al tavolo, inspirò profondamente. — Che fragranza qui sul terrazzo, il profumo dei fiori si sposa con il tuo — sussurrò.
— Grazie. Pensavo che non volessi guardarmi — lei arricciò le labbra e velò le iridi con le ciglia — Io ho scelto, tu cosa prendi?
Elio deglutì, una, due, tre volte; fissò il menù semiaperto e sospeso tra il centro tavola infiorato e la candela a lato. Si figurò un obelisco in fiamme rovinare su un’oasi e infuocarla, e l’esondazione di un fiume sorgente dal bicchiere di fronte a lui, e detriti di cristallo tra le pieghe della tovaglia color sabbia. — Io prendo sempre la stessa cosa, grazie. — La lista atterrò tra l’apparecchiato senza danni.
Movimenti minimi, solo forchetta, niente combinazioni con coltello e cucchiaio. La cena fu ottima.
Poi lei, con la sigaretta tra le labbra, chiese d’accendere. — Io non fumo — si difese lui, ma lei occhieggiò la candela.
Elio si mosse come un fiore che si apre al primo sole, il suo braccio trasportò la mano intorno al portacandele, trasferimenti osmotici di fluidi ansiosi fecero chiudere le sue dita sulla basetta di legno. La candela si innalzò sulla tovaglia beccheggiando, gocce colavano lungo lo stelo di cera e giù dalla sua tempia. La fiamma arrivò a toccare la punta della sigaretta, e poi baciò lei con focosa passione.
— Ma che fai! Mi hai bruciato la bocca!
Le braccia e le gambe di Elio fendettero l’aria come tensostrutture squassate da un terremoto e lui versò vino e acqua, sparse fiori e cibo e precipitò all’indietro sperando di spappolarsi il cranio.

Susanna scandagliava la terrazza semibuia scrutando le facce degli uomini. Era come un periscopio sottile sottile, decorato da un caschetto biondo e, quando esplose il patatrac, guizzò girandosi e abbassandosi ad altezza tavolo. “Oh mamma! Quello c’è rimasto” temette con un filo di pensiero.
Osservò il cameriere risollevare l’infortunato, il poveretto se ne rimase solo rischiando nuovamente di collassare a terra quando un gamba della sedia si piegò mogia. Guardò la compagna di lui filare via come una torpedine e in fondo alla sala, sorto dai glutei isterici di lei come se l’avessero beccato ad assaggiarli, riconobbe il viso del suo innamorato. Era lui, il suo corpo ne era convinto.
Lo raggiunse e lo salutò con un “ciao” al miele.
— Ciao — rispose lui guardandosi intorno.
— Scusa, ho fatto tardi. Faccio sempre casino con gli orari — Susanna si accomodò prendendogli la mano e stringendola più volte perché la sentiva incerta e sfuggente.

Elio faceva forza con i quadricipiti per ridurre il peso sulla sedia, ma non poteva rimanere così, doveva arrischiarsi a cambiare seduta. “Tanto il danno è fatto” pensò.
Si mosse incassando la testa tra le spalle e, mentre aspettava l’arrivo di ulteriori disastri, una scena lo incuriosì: una rossa virago baccagliava di fronte a una testa pelata in ascetica attesa del fulmine e a una bionda minuta. Quest’ultima suscitò in lui un notevole interesse: sembrava un’appassionata dentista che indagava le qualità ortodontiche di una tigre, sacrificando la paura al bisogno di comprendere.
Quando la biondina si congedò profondendosi in scuse, Elio si rese conto di essersi accomodato su una sedia sana e nulla era in aria, a fuoco, allagato o fracassato. Allora, quando lei passò vicino al suo tavolo, non poté fare a meno di ammiccarle come un complice grato.
Susanna sentiva le guance bruciare. “Vergogna! Vergogna! Vergogna! Ti sbagli sempre! E che vuole questo? Vuoi vedere...”
— Ciao — salutò lei, all’acqua tonica.
— Sei un po’ scossa, ma guarda me — Elio guidò con le mani lo sguardo di lei tra le rovine che lo circondavano.
— Hai fatto un macello — ridacchiò Susanna.
— E tu? La moglie ti ha pizzicato?
— Non è come pensi. E poi che vuoi, manco ti conosco... non ci conosciamo, giusto?
— Mai incontrati prima d’ora. Però, mi fai un effetto strano. — Elio affondò il cucchiaino nel dessert, con movimenti ampi si riempì la bocca e non esplose nulla.
— Rompi sempre tutto? Sbatti dappertutto?
— Totalmente, inesorabilmente, eternamente imbranato — dichiarò lui con accademico cipiglio.
— Io confondo i giorni, le ore, non azzecco mai un appuntamento.
Elio scrollò le spalle — Non mi sembra così grave.
— Scambio anche i posti. Se mi dici di vederci in piazza, io magari ti aspetto tutto il giorno davanti al tribunale. E rimango lì, fino a sera, perché nessuno mi cerca, visto che il giorno è sicuramente quello sbagliato.
— Sì, ma prima o poi ti incontrerai con chi ti dovevi vedere, e ci starai insieme, e non rimarrai da sola. Io, invece, non riesco a stare con nessuno. Insomma, anche chi resiste di più, alla fine scappa, si mette paura.
— Sì ma... io scambio anche le persone.
— In che senso?
Elio attese. Lui non rompeva niente e lei era una bambolina. Immaginò una cosa così impossibile: sognò di baciare una mora, facendo una boccuccia piccola piccola, gustando ogni drupa. Incantato, guardò Susanna accomodarsi.
— So di essere innamorata ma confondo i fidanzati — concluse lei con una risata schioccante.
“O che benedizione!” Pensò lui. — Beato il fortunato. È come vincere alla lotteria.
— Davvero lo credi? Perché io sono sicura di non averti mai incontrato prima, e sento che ti riconoscerò tra tutti dopo questa sera. Anche se... — agitò le mani, dirigendo il crescendo di felicità che i tratti di lui componevano — intorno a te non fosse un campo di battaglia!
— Allora dovremmo metterci insieme, per prenderci cura l’uno dell’altra — cantò Elio.
Susanna gli carezzò la mano e lui gliela coccolò. Le dita non sfuggirono le une dalle altre. Non ci furono incertezze.

Re: Gara 57 - bando e racconti

Inviato: 16/01/2016, 14:46
da Skyla74
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La cena di Natale

Per la cena di Natale erano stati categorici.
A Sabri sarebbero toccati gli antipasti, a Eli i dolci.
Sai mai che a qualcuna di quelle imbranate venisse in mente di preparare i santissimi primi. La lasagna spettava prepararla solo alla mamma. Per quanto riguardava i secondi, rovinare il cervo in agrodolce di zia Concetta era fuori discussione, come quella volta che Eli lo aveva cosparso di grani di pepe grossi come pallini di fucile.
Era la regola di casa.
Ogni donna portava una pietanza, ma alle sorelle imbranate spettavano cose di poco conto. L’antipasto lo si spiluccava appena, per non rovinarsi l’appetito, il dolce veniva dimenticato in mezzo ai Pandori. Seppellito, potremo dire, in attesa del volo nella pattumiera (umido, non riciclabile).
Povere cretine. Idiote patentate. Anzi la patente neppure erano riuscite a prenderla, infatti giravano in autobus. Eli quell’anno esibiva uno scandaloso pancione frutto di chissà quale notte d’amore. Pensare a qualcuno in grado di fare l’amore con lei era qualcosa a cui nemmeno la mamma osava pensare. Sabri era sempre la solita. Occhiali sul naso, le guance paonazze, rideva come la deficiente che era. Impiegata in un ortofrutta. Aveva le mani tagliate dalle ragadi che si formavano ogni inverno col freddo. Colpa sua che non aveva studiato. Con quelle mani violacee aveva imburrato il pancarré. Ci aveva sminuzzato sopra il patè. La sera prima aveva lavorato sodo mentre Amedeo, il fratellone cuore di mamma, le diceva al telefono che lei e Eli potevano anche andare a fare in culo che la mamma gli aveva intestato tutto, altro che lei e quell’altra svergognata schifosa. A Sabri non interessava niente di se stessa, ma Eli… era buona come il pane. Sabri aveva continuato a preparare gli antipasti con le lacrime agli occhi, osservando di sottecchi la sorella che rideva guardando Jerry Scotti. Quel pancione. Diseredate. Oh sì, potevano fare causa. Con che soldi? E con le mani tutte piene di ragadi Sabri aveva continuato a spalmare tramezzini, sapendo che almeno un po’ ne avrebbero mangiati. Per decenza.
Ed eccoci qua nella Santissima notte della vigilia.
Amedeo era stato il primo. Un paio di minuti dopo avere assaggiato gli antipasti vomitava sul focolare. Trenta secondi dopo si accasciava sugli alari, i baffi che prendevano fuoco in una mirabolante vampata.
Poi aveva fatto il suo ingresso la mamma con le lasagne fumanti. Era una donna robusta, difficile da piegare. Cadde giù anche lei mentre la teglia si spaccava sul pavimento in cento pezzi. Schizzi di besciamella incandescente volarono dappertutto mentre la stanza si riempiva di lamenti. Poi il silenzio. Il caminetto schioccò scintille e Amedeo era ancora là, con la bocca spalancata nella cenere. La mamma sempre per terra. La zia Concetta era quasi arrivata al telefono. Quasi.
Sabri spense la luce della tavernetta.
Eli emerse dalla scaletta che portava in cantina proprio in quel momento. Aveva fatto come le era stato detto, perché era una scema e faceva tutto quello che le si chiedeva senza obiettare. Era stato così anche col papà del bambino. In mano aveva una sacca voluminosa. I soldi dell’eredità. Quelli che la mamma avrebbe voluto regalare al fratello. I soldi che aveva tirato fuori da tutti i libretti postali perché nessuno potesse obiettare nulla. Trent’anni di risparmi del defunto papà. L’unico che volesse bene a quelle imbranate di figlie. Certo che ne aveva di amore per Amedeo, la mamma, considerando quanti giri doveva aver fatto in posta per tirare fuori tutto il malloppo.
«E il mio dolce?» chiese Eli, le guance illuminate dal fuoco. Guardava le sagome accasciate al buio.
«Lo mangeranno dopo, adesso sono molto stanchi» rispose Sabri.
Chiusero la porta e s’incamminarono sulla statale della Futa.
Gli alberelli di Natale brillavano nei giardinetti delle case. La bora soffiava appena.
I trolley facevano molto rumore, ma nessuno si affacciò, in quella notte speciale. Anche l’autista dell’autobus, ultima corsa verso la stazione, le degnò appena di uno sguardo. Pregustava la cena.

Viaggio in metropolitana

Inviato: 17/01/2016, 23:32
da Marina Paolucci
Il convoglio della metropolitana è in arrivo alla fermata “Duomo”, con un rumore stridente sta per fermarsi. Tra poco scatterà lo sblocco delle portiere e gli utenti potranno salire e scendere liberamente. Sono le cinque del pomeriggio, la banchina è gremita.

Tak. Ta-tak!

— Togliti, devo scendere.
— Oh! Non sono mica sua sorella!
— Muoviti!
— Non mi sposto di un millimetro.
— Peggio per te!

Un anziano, con un gesto deplorevole, spinge una giovane all’esterno. La ragazza dagli occhi di cielo vacilla come una bambola di pezza gettata via a fine gioco. Si frena addosso a un coetaneo in procinto di salire. I loro occhi, due smeraldi dentro a scampoli di cielo, s’incrociano smarriti. Lui, pressato alle spalle, la catapulta di nuovo sul metrò e per non farla cadere la cinge al girovita.

Tak. Ta-tak!

Il vagone è un carro bestiame, non c’è un posto libero per sedersi. La gente è ammassata in piedi, manca l’aria, i finestrini sono sigillati, il sistema d’aerazione non funziona. Si avvertono addosso gli aliti dei compagni di viaggio. I ragazzi hanno puntati gli occhi addosso: dei vicini e di chi svetta in altezza e capta dettagli ovunque. Nella confusione, la curiosità regna sovrana, si origlia la discussione.

— Ehm… Scusa. — si giustifica, tenendola ancora abbracciata.
— Non è stata colpa mia.
— C’è chi scende e c’è chi sale.
— Io non dovevo scendere. Puoi levarmi le mani di dosso?
— Dove metto le braccia?
— Mettile in tasca o lasciale a penzoloni.
— Se le mollo, finiscono sui tuoi fianchi.
— Se mi tocchi il sedere ti mollo un calcio. Incolla le mani sulle tue gambe.
— Sarebbero adese alle tue.
— A-dese? Oh, ma come parli? Ho capito, vuoi palparmi.
— Ma no! Cosa dici?
— Guarda che ti hanno sentito tutti. Ti mangi le parole?
— Tu non mi conosci. Io non ho mai balbettato.
— Allora, straparli.
— Sei tu che parli. Stai facendo un cinema.
— Credi che sia una regista in metropolitana?
— Pensavo di più un’attrice.
— Assomiglio a un’attrice?

Il treno viaggia nel sottosuolo della metropoli a grande velocità. Durante la tratta a volte si perdono parole, si alterano, si troncano discorsi che aspettano di essere ricomposti sul filo del discorso, che si aggomitola dentro il rumore scassa timpani del locomotore lanciato a tutta corsa.

Tak. Ta-tak!

— Uscite ragazzi!
— Non devo scendere.
— Neppure io, cambi porta.
— Hai visto che gente? Altro che cinema!
— Vi faccio vedere io!

Una signora spinge la coppia, abbracciata, fuori dal convoglio. Il ragazzo, mantenendo la ragazza, sbatte il corpo contro i passeggeri in sosta sulla banchina. Lei, di nuovo, è una bambola sballottata.
All’improvviso lui si distacca, insegue la donna villana. La raggiunge con poche falcate, le urla dietro. Il convoglio fischia, pronto a ripartire.
Lei deve salire, le manca qualche fermata per arrivare a destinazione. Lui si volta di scatto, corre alla banchina.
Quando le è di fronte, fulminea, lei lo strattona, portandolo in carrozza. Lui, più alto di lei di un bel pezzo, barcolla e la trascina a terra nel corridoio, liberatosi.

— Occhi blu, stai bene?
— Sì. Scusa. Se non ti prendevo al volo perdevi il treno.
— Io sono un tipo puntuale, difficilmente perdo il treno.
— Sei un pendolare?
— Tranquilla, ti posso perdonare.

Lui si alza goffamente, ha la giacca impolverata. La scuote energicamente con le mani verso il basso. Lei si rannicchia e si copre gli occhi con le mani.

— Etciù!
— Hai preso un colpo d’aria. — le dice il ragazzo, sollevandola da terra. Poi, aggiunge: — C’è un posto. Siediti.
— Siediti lo dici a tua madre.
— Mia madre non mi ascolta quando le parlo. Dai, mi siedo, tu ti metti sulle mie ginocchia.

Qualcuno li guarda sconcertato e scuote la testa.

— Così prendiamo la multa, oppure cado e mi rompo la testa.
— Scendo alla prossima.
— Sei arrivato?
— Ti lascio il posto, cambio carrozza. Magari trovo un’altra da abbracciare che non si lamenta.

Lei, permalosa, sentendosi punzecchiata cede. Si accomoda sbuffando, dandogli la schiena. Nel viaggio shackerato lui la abbraccia al girovita.

— Scusa, non come so come ti chiami, è meglio che ti alzi.
— Mi chiamo Ines. Tutto a posto? Insisti che mi sieda, poi devo alzarmi. Mah! E, non dirmi che sono pesante, sono 45 chili.
— Assolutamente! Ines, sei leggerissima! Piacere, Federico. Ehm… mi sento sottosopra, tutto qui.
— Ah no! Non vomitarmi addosso!
— Devo prendere una boccata d’aria.
— Quindi, scendi?
— Alzati!
— Oh! Anche tu mi dai gli ordini? Non ti permettere! Si può sapere che cosa vi ha preso, a tutti, su questo metrò?

Le persone nel vagone la guardano male ma non rispondono. Meglio, quando s’innesca la miccia basta un attimo a scatenare l’inferno.
Ines si solleva dalle gambe di Federico, permettendogli di alzarsi.

— Scusa, sono un imbranato. — le mormora, arrossendo.
— Intendi, sei innamorato?
— Come faccio a saperlo? L’amore è una cosa seria.
— Allora, ciao.
— Ti faccio sapere.
— Che cosa devo sapere?
— Se mi trovano le farfalle nello stomaco.
— Va bene, allora chiamami.
— Dove ti chiamo?
— Anche in metrò.
— Ok.

Tak. Ta-tak!

Federico scende in fermata. Dalla banchina guarda Ines con lo sguardo inebetito, la saluta sventolando la mano.

Fiuuu!

Il convoglio fischia. Ines si precipita verso l’uscita, inciampa sui suoi passi, cade tra le braccia di Federico. I due scoppiano a ridere.

— Sarò imbranato, ma tu mi batti!
— Mi sono scordata di lasciarti il numero di cellulare.
— Non c’è bisogno che urli, stavolta nessuno ti ha spinto. Dì la verità, volevi buttarti tra le mie braccia.
— Tu sei fuori come un balcone.
— Posso abbracciarti?
— Basta che non mi fai cadere.

Federico abbraccia Ines, respira il profumo di cocco nei suoi capelli abboccolati, glieli scompiglia con le dita tremolanti. All’improvviso lei si stacca.

— Nello stomaco tu hai un tamburo che batte, altro che farfalle svolazzanti!

Di nuovo ridono insieme. Poi, si spingono per gioco, urlano, si rincorrono per le scale, regalano alcune monete a un senzatetto. Infine, prendendosi per mano, risalgono all'aperto.
Li accoglie un inatteso tramonto e una piazza che non conoscono. Quella non è la loro fermata! Sono usciti a caso, distratti da ogni accadimento, tra una chiacchiera e l’altra. Tornano in metrò con i biglietti ormai scaduti, scavalcano i tornelli privi di vigilanza.

Tak. Ta-tak!

Ines e Federico, giovani imbranati, sono saliti sul metrò in arrivo. Il nuovo chiassoso viaggio li porterà a destinazione, con un identico sfarfallio nello stomaco.

Re: Gara 57 - bando e racconti

Inviato: 21/01/2016, 21:07
da Lodovico
In morte di un imbranato

La strada è in salita. Il vento freddo di fine gennaio s'insinua sotto la mia gonna in lana grigia, l'unica del mio armadio adatta a un funerale. Avrei dovuto mettere i pantaloni, visto il clima, ma è in questi momenti che ci si rende conto di avere solo jeans. Quindici, solo quindici. In un paese così piccolo, dove ci si conosce tutti, è incredibile che al funerale di un quarantenne si siano presentate solo quindici persone. Ma tant'è. Se si escludono genitori e parenti, i conoscenti di Marco che sono venuti a salutarlo per il suo ultimo viaggio sono sei o sette.
I tacchi s'infilano tra le fessure del pavè. Spero di non cadere, non sarebbe proprio il momento. Marco. Da una vita lo conoscevo. Capelli corti, camicia e golfino girocollo, sguardo perduto. Così lo ricordo il primo giorno delle medie, Entrambi in prima G.

La professoressa di ginnastica sorrise, avendo cura di non farsi notare troppo. Gli altri compagni non ebbero la stessa sensibilità. Paolo si esibì in una risata tanto forte che rimbombò nella palestra creando un'eco sinistra. Sotto la pertica, Marco, abbracciato al palo come un panda, tentava goffamente di arrampicarsi. Lungi dall'andare verso l'alto si era invece ritrovato seduto a terra, ma con le braccia stoicamente strette al palo.
- Va bene, Marco, basta così. Ora passiamo al quadro svedese.
Fu ancora peggio, in due lo recuperarono là in alto dove le sue vertigini gli impedivano di scendere.

Il carro funebre procede lentissimo, pare che anche lui senta il freddo. Alberi spogli segnano il confine della strada che porta al cimitero. Nessuno dei quindici partecipanti alle esequie parla. Gli automobilisti, in coda dietro di noi, mostrano insofferenza. Per Marco è una colpa anche disturbare con il suo funerale.

Mamma entrò nella mia camera mentre stavo studiando fisica.
- C'è Marco, vieni di là o lo faccio entrare?
Seduto sul divano, con la solita aria spaventata dalla vita, Marco mi salutò. E basta.
- Hai bisogno di qualcosa?- dissi imbarazzata dal silenzio.
- Ehm, avrei bisogno del tuo aiuto, tu hai già compiuto diciotto anni, vero?
Capii che la domanda non prometteva niente di buono. Ma lo aiutai. E feci un grave errore.

La mamma di Marco, infagottata in un cappotto scuro, non piange. Non la conosco bene, ma ha lo stesso sguardo del figlio. Lo sguardo terrorizzato di chi si sente inadeguato, anzi di chi sa di essere inadeguato.

Marco salì sul palco per ultimo. La sua chitarra nera brillava sotto le luci. Fino a mezz'ora prima era terrorizzato. Del pubblico, di sbagliare. Era bravissimo, Marco, con la chitarra, le sue dita fini volavano sul manico come rondini, avanti e indietro. I suoni della sua Fender riempivano la sua stanza, finché non si accorgeva di non essere solo, poi le dita si ingarbugliavano in nodi inestricabili. Ma aveva capito cosa fare. Lo chiamava la sua "pozione magica". Uno o due sorsi di whisky e la sua tempra da imbranato veniva lavata via dall'alcol. Il whisky che gli avevo comprato io.
Le luci multicolore guizzavano avanti e indietro mentre i suoni della band si spargevano nella sala. Marco si muoveva come un vero musicista, camminava, saltava, correva. Ma la "pozione". dopo un po' finisce i suoi effetti. E dimenticarla dietro il palco non fu una buona idea. Il pubblico se ne andò molto prima della fine del concerto.


Ormai non sento più i piedi, ma il cimitero appare dietro la curva. La sofferenza sta per finire. Ma a Marco lo devo. Anche perché, in parte, tutto ciò è colpa mia. Una folata di vento scompiglia i miei lunghi capelli castani. E asciuga le lacrime che stavo tenendo disperatamente nascoste.

Entrò in chiesa come mai lo avevo visto. Pettinato, elegante, sottobraccio a sua mamma. Marco, comunque non sorrideva. Fingeva di sorridere e nemmeno troppo bene. La sposa giunse con il ritardo di rito, ma in questo caso qualche dubbio sul suo arrivo era serpeggiato in chiesa. Il vestito in raso candido tradiva una pancia al quinto mese. Nemmeno lei sorrideva, ma non fingeva nemmeno.
Le mani tremanti e sudate di Marco si lasciarono sfuggire l'anello d'oro che rotolò distante sul pavimento della chiesa. Vidi l'espressione insofferente della quasi moglie. Pensai che il matrimonio sarebbe durato poco. Durò ancora meno.
Pinot, Chianti, Aglianico. Tre bottiglie vuote davanti al piatto di Marco che, dopo avere slacciato la cravatta dell'abito da sposo, chiacchierava amabilmente, con voce impastata, con gli invitati. Almeno finché il vino non decise di liberarsi dal suo stomaco per raggiungere il pavimento. La donna dal vestito bianco invece, raggiunse la porta del ristorante.

La bara in legno lucido viene scaricata dall'auto per essere appoggiata su un grande carrello. L'ultimo viaggio in compagnia di noi quindici. Le uniche quindici persone che sopportavano quell'imbranato di Marco. La sua "pozione" gli aveva regalato l'illusione, in alcuni momenti, di essere normale, di potere parlare, agire, amare come tutti gli altri. E anche di potere guidare, con mezza bottiglia di whisky in corpo. Ma la curva era arrivata prima dei suoi riflessi annebbiati.
La tomba di famiglia è aperta, mi giro dalla parte opposta. Dalla tasca, con mani tremanti, prendo una fiaschetta piena di "pozione". Devo farmi coraggio per parlare con le altre quattordici persone senza balbettare.
La lastra di marmo si chiude. Addio, Marco. C'è una cosa che non sai e che non saprai mai. Che il mio cuore era tuo, ma non ho mai avuto il coraggio di regalartelo. Troppo uguali noi due. Difficile l'amore tra sfigati.
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Testo definitivo per ebook

Inviato: 11/02/2016, 15:35
da Giorgio Leone
QUELLA NOTTE

Finalmente erano rimasti soli sul dondolo del terrazzo mentre il sole tramontava. Lui aveva l’impressione che ogni tanto lei lo guardasse, ma non ne era sicuro. Non voleva infatti che lei si accorgesse del suo sguardo, quindi la guardava solo quando era certo che stesse guardando altrove. Lei faceva la stessa cosa per la stessa ragione. Da molto tempo erano innamorati, ma nessuno dei due trovava il coraggio di dichiararsi. Tutti e due sapevano il motivo del loro comportamento perché avevano frequentato la stessa facoltà di psicologia dove avevano appreso che i soggetti con bassa autostima - conseguenza di eventi dell’infanzia – si sentivano goffi e inadeguati per cui, vivendo nel costante terrore di sbagliare e di essere criticati o derisi, quasi sempre diventavano timidi e imbranati. Come se non bastasse erano anche inconsciamente portati a pronunziare parole inopportune e a compiere gesti sbagliati - una volta di più da imbranati - per porsi da soli fuori gioco e far cessare la situazione logorante nella quale si dibattevano in quel momento. Se però era importante conoscere le motivazioni dei comportamenti pregiudizievoli - e questa era una vera patologia, non un disturbo da poco - occorreva anche agire per superarli. Così lui si fece coraggio e partì all’attacco, rosso come un peperone.
- Che tramonto meraviglioso, non è vero? - osservò pentendosi immediatamente. Che risposta si poteva attendere? Ovviamente un assenso, dopo di che la cosa sarebbe morta lì. Sarebbe invece stato meglio introdurre un valido argomento di conversazione.
- Veramente stupendo - rispose lei dopo un imbarazzante silenzio.
- Speriamo che anche domani sia bel tempo! - pure questa era andata, ma si stava appena rilassando che lei rilanciò la palla nella sua metà campo.
- Dicono che anche dopodomani potrebbe essere bello - azzardò, e per un po’ tacquero perché il richiamo al giorno successivo al dopodomani sembrava eccessivo a tutti e due. Quindi lui provò ad aprire un altro fronte.
- Lei sembra molto intelligente! - comunicò, e subito ebbe voglia di prendersi a calci perché quel “sembra” avrebbe potuto essere frainteso, come a dire che appariva intelligente senza esserlo.
- Come l’ha capito? - rispose lei tentando una battuta e maledicendosi all’istante perché lui avrebbe potuto prenderla alla lettera. Ma perché non l’aveva ringraziato e basta, magari ricambiando il complimento?
Fortunatamente stava rinfrescando, lei ebbe un piccolo brivido e lui sorprese se stesso cogliendo l’occasione. Si levò la giacca e gliela mise sulle spalle come aveva visto fare in paio di film, ma gli venne in mente che non l’aveva fatta lavare da parecchio e si sarebbe potuto sentire un odore sgradevole. Il primo impulso fu quello di riprendersela, ma lei lo ringraziò con voce tremante. Distrattamente lui lasciò cadere la sua mano che toccò quella di lei e ambedue sobbalzarono come se avessero preso una scossa elettrica. Ognuno, infatti, temeva che l’altro avrebbe potuto indignarsi per l’improvviso contatto fisico non preceduto da un'adeguata dichiarazione d'intenti.
Lui allora le accomodò meglio la giacca, ma così facendo le cinse le spalle e la mano scese senza volerlo sino a percepirle il seno attraverso la stoffa. In un milionesimo di secondo il cervello trasmise l’ordine irrevocabile di ritirarsi immediatamente, ma il tepore del suo corpo lo immobilizzò, la testa iniziò a girargli, restò come tramortito e la mano rifiutò di ubbidire. Anche lei sapeva che avrebbe dovuto dirgli di togliere la mano di lì, altrimenti lui avrebbe potuto pensare che fosse una poco di buono, ma non ne fu capace perché un caldo piacere le sottrasse la forza di parlare, paralizzandola.
In quel momento si aprì la porta finestra e qualcuno uscì per pochi istanti sul terrazzo. Probabilmente voleva spegnere una sigaretta o prendere una boccata d’aria, ma tutti e due si sentirono colti in fallo e lui si ritrasse velocemente temendo di essere visto. Alla luce della luna piena lei lo guardò e riconobbe sul suo viso sintomi ben conosciuti, ovvero l’espressione di rinunzia, di rassegnazione e di umiliante sconfitta accompagnata però dal sollievo di non dover reggere più a lungo una situazione troppo stressante. In effetti il momento magico era passato e anche lei provava le stesse sensazioni, ma poi pensò che quella non era una sera qualunque perché si erano laureati e il giorno dopo sarebbero tornati con le rispettive famiglie in città diverse e non si sarebbero più incontrati. Però non era giusto, non era affatto giusto e non poteva finire così senza neppure un inizio, non aveva senso e quella cosa gridava vendetta. Dal nulla una rabbia devastante la pervase, una rabbia folle mista a disprezzo e odio verso di lui, ma anche contro se stessa, una rabbia incontenibile che le fece salire il sangue alla testa e le sottrasse ogni controllo.
- Allora, queste tette me le vuoi toccare sì o no? – si sorprese quasi ad urlare con una voce che non sembrava nemmeno sua – Ma ci vorrà poi così tanto?
Quindi lo guardò atterrita temendo di leggere sul suo volto chissà quale espressione disgustata o schifata, ma vide solo sorpresa, liberazione e la fiamma di un desiderio troppo a lungo represso e un attimo dopo i loro corpi si avvinghiarono in un amplesso devastante mentre gli organi meccanici del dondolo venivano messi a dura prova sino quasi a raggiungere il cedimento strutturale.
E anche adesso si stavano guardando mentre il sole tramontava, così profondamente diversi e nello stesso tempo così eguali ad allora. Perché era la grande festa per le loro nozze d’oro e intorno c’erano figli e nipoti stupendi che non avrebbero potuto mai esserci se lei non fosse andata fuori di testa al momento giusto, quella notte.
Quella notte, quella benedetta, indimenticabile notte di tanto tempo fa.