Gara 62 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
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Angela Catalini
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

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LA DIVA

Barbara Belmond guardò la foto che la ritraeva durante un ricevimento e storse il naso. Le riviste scandalistiche usavano spesso Photoshop per attenuare le rughe, ma nulla avevano potuto per restituirle un’espressione naturale.
I continui ritocchi a cui si era sottoposta durante gli anni, le avevano regalato un viso spianato che si allungava verso le orecchie deformandole gli occhi e la bocca. Gettò la rivista oltre il ripiano del tavolo e decise di accettare la proposta del suo agente per rilanciare la sua carriera e rimpolpare il magro bilancio: avrebbe incontrato la vecchia madre che non vedeva da almeno trent’anni a beneficio di stampa e televisione.
Due giorni dopo Alfred Mortimer aveva già organizzato ogni cosa, contattato i giornali, affittato una Land Rover d'occasione e acquistato un completo di Armani che avrebbe messo come sempre, sul conto della diva.
Barbara entrò nella vettura con l’ingombrante pelliccia e si sistemò sul sedile. “Se dobbiamo fare questa pagliacciata, facciamola” disse. “Ma se non dovesse bastare a rilanciare la mia carriera, considerati licenziato”.
Arthur Mortimer bofonchiò qualcosa e mise in moto il vecchio catafalco che, sputando un fumo denso e scuro, partì a singhiozzo.
Secondo le informazioni ricevute, la signora Lennington viveva in Florida in un ospizio che era finito nell’occhio del ciclone per una faccenda di droga. Mortimer aveva saputo che la madre della sua protetta era proprio in quella residenza e aveva pensato bene di programmare l’incontro del secolo che avrebbe fruttato a entrambi popolarità e contratti.
I giornalisti erano già assiepati fuori dall'edificio per anziani e Barbara, nonostante la stanchezza del viaggio, sfoderò un sorriso radioso e accettò il braccio che Mortimer le porgeva per poi strattonarlo subito dopo, una volta al riparo dalle telecamere.
“Non ho visto le reti principali ad attenderci, solo quelle di mezza tacca. Sei un dannato incapace” gli sibilò.
“Barbara, credimi, è tutto ciò che sono riuscito a trovare con così poco avviso.”
“Appunto. Non capisco il perché di tutta questa fretta. Non vedo mia madre da anni, avremmo potuto aspettare una dannata settimana!”
Alfred scosse la testa. “Da quel che mi è stato detto, tua madre ha già un piede nella fossa; l’alcool le ha distrutto il fegato, credo sia questione di giorni. Mi dispiace, Barbara.”
Lei annuì e si fece seria. Il dirigente della struttura e il personale, li accolsero con calore e il tutto fu immortalato da numerosi scatti in cui la diva si dimostrò affabile e cordiale con tutti.
Il momento dell’incontro fu toccante. Le telecamere erano già in posizione quando la diva entrò nella stanza e pronunciò la parola fatidica che tutti aspettavano: “Mamma.”
Non ci furono baci e abbracci come molti speravano, perché le condizioni di quella povera donna erano molto gravi, ma Barbara si inginocchiò davanti al letto e pianse stringendo la mano scheletrica e accarezzando i capelli radi che si allungavano sul cuscino come fili di ragno.
Quando le due donne si separarono, con la promessa solenne da parte di Barbara che quello era solo l’inizio e che presto sarebbero tornate ad essere unite come prima, ad Alfred sembrò di aver toccato il cielo con un dito. Finalmente Barbara sarebbe tornata in prima pagina e forse qualche produttore si sarebbe fatto avanti. Vedeva già i titoli sui quotidiani: “Barbara ritrova la madre scomparsa”, “Madre e figlia di nuovo insieme.”
Durante il viaggio di ritorno, pontificò per tutto il tempo e si fermò a fare qualche telefonata, mentre Barbara era taciturna, assente. Il manager attribuì questo suo cambiamento d’umore alle emozioni, in fondo la scena era stata davvero toccante e poteva aver scosso profondamente una donna che era nota per essere una vera roccia, impermeabile ai sussulti del cuore.
“Mi rendo conto che deve essere stato difficile per te, Barbara. E se non fossi un dannato figlio di puttana, credimi, mi sarei messo a piangere anch’io.” disse Alfred mentre guidava finalmente rilassato.
“Sì, è stata una buona interpretazione” rispose la diva infilando le mani nel panciotto di pelliccia.
“Non puoi aver recitato davvero, Barbara, eri commossa anche tu. Ammettilo” la incalzò il suo Manager.
“Commossa? Non ho idea di chi sia quella donna, Alfred. Scommetto che non hai approfondito la segnalazione, ti sei gettato su quella poveretta come un avvoltoio e quando si verrà a sapere la verità, finiremo al bando come due reietti.”
Barbara Belmond scese dalla macchina lasciando il suo Manager con la bocca spalancata. Si raddrizzò e con il suo incedere regale, si avviò verso casa. Sorrise al pensiero dei aver messo tutti nel sacco e si rese conto, forse per la prima volta nella sua vita, di essere una vera attrice. La migliore di tutti.
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Eliseo Palumbo
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LE 5 REGOLE DEL LATIN LOVER

Messaggio da leggere da Eliseo Palumbo »

LE 5 REGOLE DEL LATIN LOVER

Regola numero 1
Per avere successo con una ragazza non devi mai essere te stesso, dimostrazione ne è il fatto che cerchi sempre qualcosa in più, sempre qualche consiglio e cerchi di imitare qualcuno.

Regola numero 2
Per conquistare una ragazza devi essere chic. Devi vestirti bene e curare il tuo aspetto. Ciò non vuol dire che tu debba spendere vagonate di euro, puoi vestire bene spendendo poco. Impara ad abbinare i colori, a usare qualche camicia e maglioncini vari, non indossare sempre tute e scarpe da ginnastica. Crea un tuo stile, o copialo, ma modifica il tuo attuale stile.

Regola numero 3
Sii sempre sicuro di te. Non mostrare debolezze. La donna è già insicura di suo e il suo uomo ideale deve essere una roccia. Prendi in mano la situazione e prendi decisioni. Non avere paura delle responsabilità e degli errori perchè non esistono al mondo scelte giuste o scelte sbagliate, esistono solo decisioni e conseguenze, quest'ultime poi possono essere più o meno belle.

Regola 4
Gioca con la sua insicurezza ma occhio a non ferirla. Cammina con il piede sul freno, usa l'intelligenza che ti è stata donata e fermati quando è il momento(vedi Regola numero 3)

Regola 5
Questa è la regola fondamentale: mostrati attaccato alla famiglia.
La famiglia viene prima di tutto, lei è importante ma la famiglia lo è di più. Oggi tu sei quest'uomo solo grazie ai sacrifici dei tuoi cari, i quali hanno sopportato i tuoi pianti, le tue cacche, i tuoi capricci, ti hanno dato un'istruzione.
Ogni famiglia è diversa. Ogni famiglia ha i suoi problemi. Ogni famiglia può distruggersi da un momento all'altro ma in ogni famiglia l'amore è innato. Non esiste cattivo al mondo che non ami la propria famiglia. La famiglia è l'ancora di salvezza, la famiglia è rifugio, la famiglia è tutto. Dimostra alla tua donna che tu ami la tua famiglia e falle capire che amerai ancor di più una famiglia che avrai creato tu, la tua discendenza, i piccoli che porteranno il tuo nome.
Niente è più sexy per una donna di un uomo dedito alla famiglia, sicuro di se, elegante e che legge per migliorarsi
Mostrare ad altri le proprie debolezze lo sconvolgeva assai più della morte

POSARE LA MIA PENNA E' TROPPO PERICOLOSO IO VIVO IO SCRIVO E QUANDO MUOIO MI RIPOSO


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Giorgio Leone
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FAMIGLIA FORMATO FAMIGLIA

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Notte fonda nella saletta dell’ospedale, dove ci siamo solo noi che siamo autorizzati. Su un tavolino è accesa, ma con il volume a zero, una vecchia televisione con tubo catodico e decoder.
Siamo in attesa di notizie che non arrivano mai. La mamma sfoglia un settimanale che qualcuno ha lasciato, mia sorella traffica con il cellulare e io leggo un ebook, ma non riesco a concentrarmi e resto a lungo sulla stessa pagina. Ogni tanto vado a fumarmi una sigaretta su un terrazzino, pieno zeppo di cicche, che è come sospeso sulla città addormentata. Quando torno non è cambiato niente.
Infine alle tre la porta si apre e s’affaccia un’infermiera. Nella stanza entra lo stesso odore del mio vecchio refettorio scolastico: un misto di disinfettante, bollito e pastina in brodo. Mentre in lontananza si sente cigolare un carrello, lei ci guarda e scuote il capo. Poi chiude la porta e se ne va. Quindi papà è ancora in terapia intensiva e, per le ferree regole dell’ospedale, potremo vederlo solo domani mattina alle sette. Se sarà ancora vivo, perché il messaggio silenzioso è stato anche sin troppo eloquente. Mia madre soffoca un singhiozzo nel fazzoletto.
- Sta succedendo davvero! – dice con voce tremante – Ma poi come faremo? E’ vostro padre a tenere insieme questa famiglia. Senza di lui siamo perduti, completamente allo sbando! Ci lascia soli, e noi non siamo pronti...
- Non dire così, mamma, – interviene mia sorella – pensa invece che saremo sempre uniti nel suo ricordo. Anzi, volevo proprio dirvi che ho intenzione di tornare a vivere a casa.
La guardo con ironia perché le leggo nella mente, così come lei può leggere nella mia. Se ne accorge e assume l’espressione imbronciata e offesa di quando, da bambina, la coglievo in castagna. Qualche anno fa ci ha lasciato per andare a vivere con un imbecille mezzo drogato che frequenta strani giri. Da allora papà, sostenendo che lui russa e la mamma si agita parecchio nel sonno, è andato a dormire nella camera lasciata libera, che purtroppo ora tornerà di nuovo libera. Quella di non arrecarsi vicendevolmente disturbo è la versione ufficiale, ma sappiamo tutti che non è così.
- Fammi indovinare – le dico – l'amico ha fiutato l’aria e sa che le cose cambieranno. Ha capito che non riceverai più il tuo mensile, che tanto gli fa comodo, per cui ti ha già dato lo sfratto o sta per farlo. Come vedi lo so, che papà ti ha sempre passato dei soldi!
- E ci mancherebbe ancora che non l’avesse fatto, a compensare il fatto che tu te ne stai a ciondolare per casa facendo finta di studiare giurisprudenza: pulito e stirato, servito e riverito, mangiando e bevendo gratis. E con tutti i soldi che ciuccia l’università, vorrei proprio sapere quanti esami hai dato in tutti questi anni!
- Guarda che non te l’ha mica ordinato il medico, di convivere con quello sfigato! Potevi restare anche tu e laurearti, già che sei così intelligente.
- Basta! – urla la mamma – Ma come fate a parlare così in questo momento? Non avete la minima dignità! La verità è che tutti e due state benissimo al traino e nessuno ha voglia di trovarsi uno straccio di lavoro per rendersi indipendente. E pensare che, alla vostra età, ero già moglie e madre e accudivo pure i genitori di vostro padre, anziani e malati.
- Già, allora si usava impiccarsi da giovani! Ma si può sapere di quale lavoro parli, che per colpa di quelli della tua generazione non ce n’è più per nessuno? Bel Paese di merda che ci avete lasciato! Se fossi in te, poi, eviterei di parlare di dignità. Da donna a donna, ma come fai a sopportare che papà si faccia i comodi suoi con quell’ucraina che ha solo qualche anno più di me? Letti separati? Io l’avrei sbattuto fuori di casa a calci in culo!
- Stai zitta! Non sai proprio nulla, del rapporto mio e di papà, e ci sono cose personali e intime che non si raccontano ai figli. La vita può essere difficile e complicata, i problemi sono tanti e non sempre è giusto fare quello che si vorrebbe.
In quel momento la porta si apre e la caposala entra come una furia.
- Ma la volete finire di strillare, che vi si sente ovunque? Siamo in un ospedale dove la gente soffre e deve riposare. Se non la piantate vi sbatto fuori e tornerete domani. La seconda moglie del suo ex marito, quando viene, non fa questo casino. E poi parlano male degli stranieri!
- Guardi che si è fatta prendere in giro, quella è la sua troia. L'unica moglie sono io!
- Beh, comunque sia, è molto educata.
Se ne va e per parecchio tempo restiamo in silenzio.
- Molte cose dovranno cambiare! – borbotta poi la mamma come in trance – Papà lavorava e guadagnava ancora bene, ma ora dovremo vivere solo con la pensione di reversibilità. Meno male che abbiamo un po' di risparmi da parte e, se tiriamo la cinghia, ci dovrebbero bastare anche per gli imprevisti. Voi siete giovani, ma io ho un’altra età e inizio ad avere un mucchio di paure. E se poi non fossi più autosufficiente e avessi bisogno di una badante? Questo pensiero mi terrorizza.
- Potresti sempre assumere la sua ucraina, tanto già la conosciamo ed è così educata! – le rispondo sghignazzando. Non so perché, ma questi discorsi mi hanno incattivito.
- E poi, che ne sai che i soldi ci sono ancora tutti? In questi anni ne avrà passato una bella fetta a lei, e magari ha fatto anche testamento da un notaio lasciandole la quota disponibile. Come vedete, un po’ di legge l’ho studiata!
- Sei proprio uno stronzo! - mi aggredisce mia sorella – Ti diverti a farla piangere?
Una volta tanto ha ragione e sto per chiederle scusa, ma la porta si apre ed entra un medico con la faccia seria. Ci siamo, penso trattenendo il respiro.
- Esistono cose che scienza e medicina non possono spiegare... – dice invece molto turbato – Questo è un miracolo, mai visto niente di simile! Non dico che ve lo riconsegneremo domani, ma l’abbiamo già dichiarato fuori pericolo. È come se qualcuno avesse ascoltato le vostre preghiere, sono senza parole!
Noi lo ringraziamo commossi e poi ci abbracciamo fra le lacrime.
- L’incubo è finito, ora tutto tornerà come prima! Ci sarà ancora vostro padre a tenere insieme questa famiglia, senza di lui ci saremmo persi! Dio, ti ringrazio!
Vado fuori sul terrazzino e respiro a pieni polmoni l’aria inquinata, poi fumo l’ennesima sigaretta mentre le parole della mamma mi girano nella mente. È vero: siamo ancora uniti, siamo salvi, e siamo pur sempre una famiglia!
Allora mi sento finalmente sereno e in pace e appoggio le spalle al muro guardando a est, dove la cappa di smog impallidisce tentando di far filtrare la luce del nuovo giorno che sta per sorgere.
Ultima modifica di Giorgio Leone il 28/01/2017, 19:14, modificato 5 volte in totale.
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Laura Usai
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Il dono

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Dipinto a olio di Elena Oleniuc. Titolo: Bambina

La camera da letto era immersa in un buio quasi totale; filtrava solo un debole raggio di luce artificiale da sotto la porta che dava sul corridoio. C’era un gran silenzio, alternato a respiri dal ritmo regolare.
Solo Gemma era ancora sveglia. Si rigirava inquieta nel suo lettino, prima coprendosi fino al mento, poi gettando via malamente le coperte. Era sempre l'ultima ad addormentarsi. Non ci riusciva proprio a prendere sonno facilmente come accadeva alle sue sorelle e a i suoi fratelli. Sua mamma ormai lo sapeva, quindi spesso sgattaiolava in camera, la prendeva per mano e la portava in cucina per farle bere una tazza di latte caldo.
Ma quella volta non venne. Anche lei era irrequieta e si muoveva nel letto senza darsi pace, tormentata da mille pensieri. Il viso angelico di Gemma continuava a galleggiare nella sua mente, motivo di conforto ma allo stesso tempo causa del turbamento che l'affliggeva. Una lacrima sfuggì infine al suo controllo e venne accolta silenziosamente dal cuscino, perenne testimone di altri pianti come quello. Se lo prometteva ogni volta di non piangere, dandosi dell'egoista al formulare certi pensieri, ma non ce la faceva. Era sempre doloroso e non c'era cura per quel dolore.
Gemma si era accorta che sua mamma era triste, ma non ne aveva capito il motivo. Il suo umore era mutato di punto in bianco, forse dopo pranzo. Le si era avvicinata con aria grave e le aveva detto che il giorno dopo avrebbero avuto visite. Poi l'aveva riempita di raccomandazioni che la bimba non aveva compreso. E ora era agitata perché non sapeva cosa aspettarsi. E sua mamma era agitata perché sapeva esattamente cosa sarebbe successo.
I misteriosi visitatori arrivarono in mattinata. Gemma era già pronta, con indosso il suo vestitino più bello e i capelli d’oro intrecciati con due nastrini blu nuovi di zecca. Sua mamma la prese per mano e la portò in una stanza che di solito rimaneva chiusa. La stavano già aspettando. Un uomo e una donna, entrambi giovani e belli. Quando la videro, sorrisero felici e quasi si commossero. Gemma fu lasciata da sola con i due estranei e, superato l'imbarazzo iniziale, li trovò molto simpatici. La fecero ridere, le chiesero quali fossero le attività che preferiva, se le sarebbe piaciuto andare al mare, avere un cane e tante altre cose. Tutte quelle attenzioni la fecero sentire importante perché in famiglia erano in molti e non era facile farsi notare.
Dopo quel giorno, Mario e Linda, questi erano i nomi degli sconosciuti, vennero a trovarla spesso e Gemma presto cominciò a sentire la loro mancanza quando non c'erano. Certo, era contenta di giocare con le sue sorelle e con i suoi fratelli e voleva bene alla loro mamma, però quelle persone le piacevano proprio. Le facevano desiderare di andare via con loro. Un giorno glielo disse. E in breve tempo lo sapevano tutti, come se fosse una gran cosa. Quando vennero a trovarla di nuovo la riempirono di promesse, coccolandola a gesti e a parole. Lei era così triste quando dovettero separarsi, che corse in giardino per vederli andare via. Uno dei suoi fratelli, forse il maggiore, le si avvicinò per darle un bacio sulla testa, poi le strinse piano la spalla. Lei osservò la coppia salire su una macchina rossa e salutarla con la mano.
Linda la salutò ancora tirando giù il finestrino. Era così una bella e brava bambina, la piccola Gemma. Rimase a guardarla anche dopo che erano partiti, finché la palazzina divenne sempre più piccola, così come il cartello appeso al cancello: “Il Dono, orfanotrofio".
Ultima modifica di Laura Usai il 21/02/2017, 18:23, modificato 1 volta in totale.
È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.

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Francesca Facoetti
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

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ritratto di mia mamma da bambina
LA FAMIGLIA

C’è un uomo che ha una moglie: questa coppia ha avuto due belle bambine ed è molto felice per questo.
Ho incontrato questa coppia giusto ieri davanti ad un caffè: mentre mangiavamo un pasticcino lui, che si chiama Felice, mi ha detto che di figli ne ha tre.
Sorrideva tutto proprio come suggerisce il suo nome, io invece sono rimasta sorpresa, lo guardavo e pensavo alle cose più strane.
Poi lui mi ha parlato dell’affido:
“sai, c’era questo bambino, figlio di un papà che era manesco con lui, e allora io e mia moglie abbiamo deciso di prenderlo in casa nostra per due settimane…”
“Ah, l’hai tenuto in casa per due settimane?” l’ho interrotto io.
“...Ora sono otto anni che vive con noi, e ci chiama mamma e papà.”
Felice mi ha spiegato che questo bambino è stato il normale completamento al suo nucleo famigliare, e mentre me lo diceva guardava sua moglie sorridere: “ora la mamma biologica si è risposata, e quando il mio bambino la va a trovare ci dice: <<mamma, vado un po’ dall’altra mamma!>>”
Felice e Costanza hanno tre figli, ma le sue femmine soltanto sono nate da loro; il terzo, invece, è venuto da un destino più sfortunato.
“Ma come mai, avendo già due figlie, avete deciso di fare un affido?” ho chiesto io, e la risposta di Felice mi ha sorpreso: “perché dalla vita noi abbiamo ricevuto tanto e volevamo condividere questa nostra felicità con gli altri.”
“Non è facile prendere bimbi in affido – aggiunge Costanza – soprattutto perché arrivano da situazioni disperate e la reintegrazione nella nuova famiglia è un cammino lungo e doloroso… Per anni abbiamo dovuto vedere settimanalmente psicologi e assistenti sociali, ma la gioia che tuo figlio ti dà quando cresce e affronta i piccoli dolori della vita, ti ripaga di tutto!” Esclama Costanza con il voltro illuminato da un sorriso.
Ed io osservo questa coppia, mentre sorseggio il mio caffè; e mi vengono in mente le tante persone che anziché adottare un bimbo nato da un destino sfortunato, prediligono l’egoismo d’una fecondazione assistita… e penso che sono fortunata a conoscere persone speciali come la coppia che ho davanti.
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Gabriele Ludovici
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

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Tigan

― Spinga, signorino.

Tigan, maggiordomo in capo della tenuta degli Szekely, rievocò mentalmente il protocollo cui doveva attenersi. Lo conosceva bene, ma le circostanze non gli permettevano di concentrarsi.
Quanti membri di quella famiglia aveva fatto partorire? La tradizione era chiara, nessun Szekely sarebbe mai nato fuori da quelle mura. Lo sapeva bene, Tigan: lavorava lì da più di un secolo. Era l’oggetto più anziano presente in quella tenuta con centinaia di stanze. Ogni cosa era stata rinnovata, lì dentro: dal grammofono si era passati agli Hi-Fi, dal televisore in bianco e nero al computer, dalla poliomielite alla rigenerazione cellulare. Tigan era frutto di quest’ultimo prodigio. Non potevano fare a meno di lui, era la memoria storica degli Szekely. Solo lui sapeva gestire quel processo, dal quale dipendeva la loro sopravvivenza.

― Ci siamo! Un gagliardo diciottenne come lei non dovrebbe fare queste scene.

In realtà Tigan considerava Piotr un pusillanime, che avrebbe approfittato delle proprie ricchezze per non lavorare. Se solo avesse potuto conoscere il suo antenato, il geniale Gyorg Szekely!
Quell’uomo aveva brevettato il rimedio farmaceutico del secolo. Tigan ripensò ai racconti che Gyorg gli elargiva, in quei pomeriggi invernali trascorsi a lavorare sui Karpatok. Il capostipite degli Szekely era un valido tagliaboschi (professione che non aveva mai abbandonato) ma anche un luminare della biologia. Era stato proprio Gyorg a scoprire il modo di rendere immortali gli organismi cellulari, studiando i processi di rigenerazione. Strappò persino dei finanziamenti allo Stato.

Lo “scienziato della montagna” decise di applicare le sue teorie solo per la cura delle malattie. I risultati furono incredibili e ridarono speranza a coloro che erano affetti da patologie un tempo incurabili.
Nel suo testamento, scrisse di non aver mai aspirato alla vita eterna. Il grande passo sarebbe stato compiuto dai suoi eredi scientifici, in quanto non intendeva legare il suo nome a qualcosa che avrebbe scatenato una guerra etica. Non riponendo fiducia in Pal e Karola, i suoi due figli, aggiunse a margine che la “cavia” designata per gli esperimenti sarebbe stato proprio il fedele Tigan.
Pal e Karola crebbero viziati, dediti alla cupidigia ereditata dalla madre, che il signor Gyorg dovette sposare per “riparazione”. Quando il Grande Vecchio tirò le cuoia, il maggiordomo temette di essere licenziato e chiese numi.
― Ma le pare, Tigan? Lei fa parte del lascito di nostro padre, ― affermò con ambiguità Karola. Tigan si tranquillizzò, ancora ignaro del suo destino.

Un pomeriggio fu mandato a chiamare da Pal, il figlio maggiore. Lo fece accomodare nel suo studio privato, un evento eccezionale.
― La volontà di mio padre va rispettata. Deve sottoporsi a una cura sperimentale. Se rifiuta, la farò cacciare dalla tenuta.
Tigan, già logorato dall’artrite, accettò. Fu sottoposto per un mese a delle strane iniezioni. Venne seguito da un’equipe di medici di fiducia, selezionati da Gyorg Szekely prima di morire.

-

― Signorino, ma vuole mollare proprio ora?
Mentre si apprestava a far nascere il primo membro della quarta generazione di Szekely che aveva attraversato, Tigan ripensò a quando divenne un fenomeno da baraccone.
Un uomo immortale si poteva considerare umano? No, sentenziò il prefetto supportato dal capo della Chiesa. Per questo, il vecchio e scuro Tigan divenne formalmente un oggetto. Decadde ogni diritto e dovere civile. La proprietà sarebbe rimasta, senza discussioni, agli Szekely. E i cristiani del mondo sarebbero dovuti morire in pace.

-

Istvanna, la fidanzata di Piotr, fingeva eccitazione. Aveva convinto quel rampollo di famiglia a farsi impiantare gli attributi femminili necessari per portare avanti una gravidanza. Quella ragazza temeva di morire di dolore durante il parto, cosa che a rigor di logica sarebbe potuta accadere più facilmente a Piotr. Ma negli alti circoli del paese era malvisto che una ragazza sotto i venticinque anni fosse costretta a deturpare il proprio aspetto per un parto.
Tanto, nonostante l’etica avesse vietato l’immortalità, gli Szekely continuavano a sottoporsi a quel trattamento. Diffusero notizie false in merito alla dipartita dei membri più anziani, che invece continuavano a occupare le stanze della tenuta. Istvanna aveva giurato di non rivelarlo a nessuno, come gli altri membri “acquisiti”.

Il maggiordomo terminò l’operazione, trattenendo i conati. Non aveva mai fatto partorire un uomo. Notò subito che qualcosa era andato storto. Il corpicino estratto non emise alcun vagito e Piotr fece intendere di non riuscire a respirare. Un arresto cardiaco. Dopo lunghi decenni, la famiglia riassaporò la morte. Piotr e suo figlio vennero sepolti dopo lunghe esitazioni. La catena di eternità si era interrotta.

-

Tigan entrò nella chiesa di Debrecen per assistere ai funerali privati, in mezzo a decine di persone “decedute” ma in grado di reggersi sulle gambe. Le loro pelli, tirate e grigiastre, lasciavano traspirare delle esalazioni rancide.
Istvanna, la vedova, era circondata da sguardi d’odio. Che miserabile! Avrebbe avuto la sua fetta di ricchezza senza prendersi il disturbo di occuparsi della famiglia.
“Chissà se manterrà il segreto, a patto che abbia ancora senso, ” si chiese il maggiordomo.
Non ebbe più esitazioni. Quella tipa era un’arrivista come tante altre, seppur ventenne. Col tempo sarebbe peggiorata. E nessuno in quella chiesa poteva dirsi realmente vivo, o non-stanco-di-esserlo. Ripensò con nostalgia alle lunghe chiacchierate con Gyorg, che aveva preventivato il cattivo uso che avrebbero fatto delle sue ricerche.
Così fece cadere dalle proprie tasche una fiala, che si svuotò tra le assi del pavimento. Seguì la caduta di un cerino acceso. Poi Tigan uscì e bloccò con una pala da neve le porte di quella chiesuola di legno tra le montagne, a decine di miglia dalla città più vicina. Essa divenne una macchia incandescente che attirò l’attenzione dei primi boscaioli infreddoliti della giornata.
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Mirtalastrega
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

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Mostri

Londra, 1908.
Da bambina credevo che ci fosse un mostro sotto al mio letto. Ora che sono grande ne ho uno che dorme con me. Preferivo quello sotto al letto perché con la luce del giorno mi sembrava solo una sciocchezza, quello che ho sposato invece non sparisce all'alba.
Mi picchia, spesso torna a casa ubriaco, però mi malmena anche da sobrio. All'inizio sembrava un uomo per bene, l'uomo del quale mi ero innamorata; invece è diventato dapprima distaccato, poi blandamente cattivo e infine crudele. È stato difficile accettarlo, ma non ho altro posto dove andare e nulla di che vivere. Talvolta credo di essermi meritata i suoi schiaffi, i suoi pugni, e quando questo accade devo sforzarmi di ricordarmi che nessuno può meritarsi un simile inferno.
Passo le giornate a tirare a lucido la casa per non irritarlo, perché odia il disordine o la sporcizia. Passo le serate a temere di scatenare la sua furia, magari con una frase sbagliata.
Passo la vita ad avere paura. Paura di lui e a volte di me, temo di impazzire, di perdere il contatto con la realtà e di finire per pensare che tutto ciò che ho sempre ritenuto giusto sia sbagliato e viceversa.
Le metamorfosi non avvengono mai di colpo, bensì lentamente. Mio marito è diventano un mostro piano piano e temo che potrebbe accadere anche a me. Forse il male è contagioso, come una malattia.
Ho sposato un uomo benestante, all'inizio il mio consorte era anche divertente, simpatico, sembrava innamorato quanto me. Capelli neri sempre impomatati, elegante, occhi grigi, ciglia folte, alto ma non allampanato, un fisico vigoroso, dita lunghe e nervose che sanno fare molto male. Era un bell'uomo. Oh, lo è ancora, ma io ora vedo soltanto il mostro dentro di lui, la sua bellezza esteriore prima oscurata e poi soppiantata dallo squallore interiore.

La prima volta che mi ha dato uno schiaffo è stato perché avevo bruciato la cena. Non mi ha fatto troppo male fisicamente, ma mi ha devastata interiormente. Da allora il mio delicato universo si è guastato e qualcosa di marcio ha iniziato a divorarlo poco a poco. Sono passati più di sei mesi prima che mi picchiasse di nuovo.
Stavamo cenando. Lui aveva fatto tardi al lavoro e quando era rincasato si era seduto a tavola senza nemmeno cambiarsi. Era inverno e le luci dei lampioni sulla strada che intravedevo dal nostro appartamento erano contornati da uno spettrale alone giallo, nella foschia della serata londinese. Sembravano occhi.
Avevo fatto un movimento maldestro, e gli avevo schizzato un po' di zuppa sulla camicia. Quando avevo alzato lo sguardo su di lui ho visto che il suo viso era strano. Quasi una sorta di levigata inespressività gli alterasse i lineamenti. Ricordo di aver pensato che sembravano quelli di un morto.
È durato un attimo, il tempo di sentire un brivido arrampicarmisi addosso e poi quel viso è diventato quello del mostro che abita con me. Mi sono ritratta ancora prima che lui si alzasse rovesciandosi dietro la sedia, ma non l'ho fatto abbastanza in fretta. Pensavo mi avrebbe afferrato, invece mi ha spinto con violenza verso il lavandino, istintivamente mi sono riparata il viso. Lui però mi ha colpito al fianco con un pugno così forte da farmi perdere l'equilibrio. Mentre tutto diventava sbiadito dinanzi a me e mi piegavo per poi rannicchiarmi, lui mi ha detto in tono perfettamente controllato: — È un camicia costosa, stupida donna!— Poi come se io non fossi lì, accasciata a terra, ha preso a ripulirsi con un canovaccio, senza guardarmi.
Ho cercato di parlare, ma tutte le mie parole si traducevano in sciocche lacrime e lui, minaccioso ma controllato, ha detto: — Se capita un'altra volta ti ammazzo di botte, e se osi ancora ridere di me ti uccido e basta.

Poi ci sono stati altri episodi, la sua violenza nei miei confronti è stata un crescendo. Ogni motivo era buono per “punirmi”, ogni sciocchezza una valida scusa per picchiarmi. Ho sopportato, ho medicato le mie escoriazioni, ho sorbito decotti per mitigare il dolore, ho applicato intrugli sui lividi. Però i lividi spariscono solo dalla pelle e non dall'anima. Restano lì in quel punto nevralgico fra il corpo e la mente, a volte fanno male anche se non ci sono più, il tempo non li lenisce e spesso il ricordo li ingrandisce. Soprattutto quando sei sola a guardare fuori le luci dei lampioni illuminare la nebbia, i tuoi dubbi, le tue paure, mentre immagini come sarebbe la tua vita senza mostri.
Mio padre, che ormai se ne è andato da tempo, una volta mi disse: “Non mostrare mai il mostro che c'è in te, se non è indispensabile. Perché quando le persone lo vedranno, sapranno come tenerlo a bada, come affrontarlo e infine come poterlo sconfiggere”.
E io gli ho sempre dato retta. Non ho mai provato a reagire.
Però ci sono sere in cui il mostro che ho dentro scalpita, ringhia, snuda zanne stillanti saliva. Ha fame. Una fame insaziabile. E quella fame non si chiama vendetta e neanche giustizia, si chiama istinto.

Stamattina mio marito mi ha preso a pugni perché il porridge aveva dei grumi. Mi ha spaccato uno zigomo. Quando mi guardo allo specchio sembra che il mostro che ho dentro faccia capolino da quella ferita. Forse il dolore fisico che provo alimenta la sua rabbia, fino a renderlo impaziente, fremente. È affamato.
Sento le chiavi girare nella toppa e mi apposto dietro alla porta. Il mostro che c'è dentro di me stringe forte le dita sul manico della mannaia e ringhia sommessamente.
Mio marito entra in casa, si volta per chiudere il battente, e mi vede. La luce dei lampioni si riflette sinistra sulla lama. Lui sembra sgomento e io sorrido poi approfitto della sua incredulità. Calo l'arma con tutte le mie forze su di lui. Un urlo, stavolta non è il mio. Poi un altro. Nessuno ci farà caso, lo so perché nessuno ha mai badato alle mie grida, alle mie richieste di aiuto. Sono un'estranea fra gli estranei. Il sangue che stilla dalle ferite nutre il mio mostro, mentre l'altro tenta di difendersi. Ma io so dove colpire. Lì in fondo e poi ancora e ancora. Finché il mio istinto non è sazio.
Il mostro che avevo sposato è morto e giace in una pozza di sangue. Non gli ho mai fatto scorgere il mio mostro, così come mi aveva detto mio padre. Ecco perché ho avuto il vantaggio della sorpresa. La gente chiamava mio padre Jack lo squartatore, ma per me era solo papà. Scommetto che sarebbe fiero di me.
Ultima modifica di Mirtalastrega il 08/03/2017, 16:31, modificato 1 volta in totale.
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Patrizia Chini
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... e così sia

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... e così sia
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─ Perché mai ho comprato un portatile se lo lascio sempre nello stesso posto? ─ mi domando ogni sera dopo cena quando, lavati quei tre piatti... tre, mi siedo in sala da pranzo davanti a questo moderno strumento multifunzionale.
Come tutte le sere, in questa stessa stanza, mia madre è seduta davanti al televisore, nella poltroncina spostata qui dalla mia camera da letto, proprio per lei che è venuta a stare con noi dopo la morte di mio padre. Noi? Chi siamo noi? Io e mio marito.
Dov'è ora mio marito? Naturalmente a letto e sono le 21:30 ma si è infilato tra le lenzuola appena ha finito di cenare.
Tra noi il dialogo stenta a dispiegarsi nei modi e nei tempi stabiliti dalle regole della comunicazione. In sostanza, di solito, ci limitiamo ad annuire o a scuotere la testa in segno di diniego, oppure utilizziamo un "Sì" o un "No" ma a volte non ci schieriamo in modo netto e ci rifugiamo in un neutrale quanto anemico "Forse". Lo so è un po' poco ma è per quieto vivere, se rispondo con dovizia di particolari, se la prendo un po' alla larga, insomma se non vado subito al sodo, vengo sommersa dalle rimostranze ad alta voce del mio compagno di vita.
Eh, sì! A casa mia bisogna essere veloci: rispondere in fretta e se mi chiedono (uno a caso? mio marito) di trovare un oggetto o di fare una qualunque altra cosa, qualsiasi cosa, bisogna che io lo faccia in fretta, nel minor tempo possibile. Ed è vero che il tempo è denaro ma io vorrei avere la possibilità di spenderne un po’ di più e con cognizione di causa.
Penso spesso di vivere in uno di quei giochi moderni dove vince chi è più veloce. Invece no, non è un gioco e per evitare di battibeccare su ogni "che" evito... e, se necessario, evito anche di respirare.
Considerate le premesse e il fatto che io non ami la televisione trasforma il mio dopo cena in una gran noia!
Per fortuna mi piace scrivere o navigare on line anche se ogni tanto ho bisogno di staccarmi da questo ipnotizzatore che è il pc e andare in cucina a bere un sorso d’acqua oppure a mangiare un pezzetto di pane... tanto per ammazzare il tempo.
─A mangiare o a bere?─ mi raggiunge la voce di mia madre con una nota di disapprovazione perché non condivide tale comportamento.
─Che noia!─ rispondo al suo velato rimprovero, sbadigliando e cercando di farlo leggere come il motivo plausibile che giustifica il mio allontanamento.
Così, dopo essermi stiracchiata un po’ distendendo le membra intorpidite dalla immobilità, mi sono alzata e mi sono diretta in cucina lasciandomi alle spalle il brontolio sommesso di quella santa donna di mia madre.
La porta della cucina è chiusa come ci ha abituato a tenere... lei, mia madre:
─ Le porte vanno sempre chiuse altrimenti si viziano! ─ non si stanca mai di ripeterci intendendo con quel “si viziano” “si deformano”.
Eccomi, dunque: sono davanti alla porta.
La apro.
Il finimondo! M’investe una nube di fumo nero.
Ho creduto che l’immenso ammasso di ceneri del vulcano Eyjafjallajokull dall’Islanda fosse arrivato in massa in Italia e fosse penetrato nelle case ma poi ho pensato che eruttasse fumo una bocca lavica aperta per far defluire il suo fiume micidiale proprio nel terreno in corrispondenza della mia cucina!
La vista mi si è offuscata e contemporaneamente un bruciore insopportabile agli occhi mi ha costretto a lacrimare!
Un odore acre di bruciato mi chiudeva la gola e il fumo nero che, non più costretto in quello spazio limitato a onde si riversava fuori, mi travolgeva e mi soffocava...
Non c’era tempo per pensare… dovevo agire!
Chiuse con due dita le narici, serrate le labbra e proteggendomi gli occhi con l’altra mano, mi sono diretta velocemente (fortuna sono abituata) alla finestra e l’ho spalancata. Poi sono fuggita da quell’inferno e ne ho richiuso la porta per non rischiare un’intossicazione.
Stavo urlando... ma né mio marito, beatamente già tra le braccia di Morfeo, né mia madre che è un po’ sorda, sono accorsi in mio aiuto. Che fare? Vedevo già bruciare la mia casa e poi il palazzo intero! Panico! Dovevo scuotermi.
Non avevo alternative, non potevo aspettare che il fumo svegliasse mio marito o arrivasse a mia madre.
Dopo aver messo a fuoco la sua origine, realizzato mentalmente il piano d’intervento e facendo appello a tutte le mie forze, ho aperto nuovamente quella porta sapendo che solo la velocità poteva essere la mia arma vincente.
Eh, sì! Senza potermi permettere il lusso di star lì a commiserarmi, dovevo assolutamente spegnere il forno che continuava a eruttare un denso fumo nero, aprirne lo sportello e, cosa che mi spaventava più di tutto, estrarre la teglia proteggendomi le mani in qualche modo per spegnere il pane che continuava a carbonizzarsi...
Che pane? Il pane raffermo che, quando se ne è accumulata una quantità consistente, metto a tostare per il caffèlatte della colazione della mattina.
E’una mia abitudine, mutuata naturalmente da mia madre che dall’alto della sua saggezza continua a ripetermi:
─ Non si spreca niente!
─ … e così sia! ─ le rispondo con tutto l'affetto che merita.
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Alberto Tivoli
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

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E ALLE PULIZIE DI CASA CI PENSA ZIA

Ali smontò dal suo taxi e sgusciò tra le persone che affollavano Chowpatty beach. Con i baffetti brizzolati che fremevano, si piazzò di fronte al chioschetto di momo del fratello.
L’avambraccio atrofizzato e insensibile di Aziz si immergeva periodicamente nel pentolone colmo di acquoso masala bollente. I ditini, che sembravano rametti di mandorlo fossilizzato, sorreggevano il momo, accompagnandolo nel moto alternativo che lo trasformava da pallido bocciolo di farina d’orzo a un grumo verde e marrone intriso di spezie. Cucinare involtini nepalesi sudati dell’essenza del Maharashtra era il modo in cui Aziz coniugava la discendenza himalayana con il presente indiano. Ali sospirò, ben sapendo che l’aspetto delle preparazioni e il braccio rachitico del fratello facevano fuggire qualsiasi mumbaikar da quella proposta gastronomica. Considerando che la maggior parte dei turisti non erano così avventati da darsi allo street food a Mumbai, che Aziz fosse in grado di mantenersi era un vero e proprio mistero. Comunque, ora il problema era dove si fosse andata a cacciare quell’impertinente di sua figlia.
— Allora, confessa una buona volta! Vedi che mi ingannate? Asha dice di lavorare con te tutto il giorno ma non c’è. Dunque dillo, vigliacco traditore del tuo stesso sangue!
Aziz lo guardò dondolando il capo, con un sorriso che suggeriva il vuoto dietro di sé. — Asha e io ti amiamo e ti rispettiamo, pandit.
— Filosofo? Ti prendi gioco di me? Meglio avere una parete della baracca fatta di libri che di avanzi puzzolenti come fai tu. Sei appestato dal puzzo di quello che cucini!
Aziz si sporse in avanti, fiutando.
— Odoro di benzina, io! Devo guadagnare i soldi per tutti — lamentò Ali.
Un corvo si posò sul banchetto incrostato, con il becco aperto si guardò intorno. Saltellò da un lato all’altro agitando il nastrino giallo legato intorno a una zampetta. Si bloccò allo zufolare di Aziz, quindi spiccò il volo.
— Dov’è mia figlia? Non voglio ripeterlo.
— Asha è andata a prendere la farina. Non ne ho più.
Ali girò intorno al cucinino mobile e, scostato il fratello con gli indici puntati come piccoli pugnali, frugò nel vano posto sotto il piano di cottura: unto ma mancante di farina. — Aspetterò qui — dichiarò.

Asha ordinò i fogli a quadretti in una risma frusciante al vento salato e la passò ad Abdul. — Bene, con questi ripaghiamo la settimana a zio Aziz. Tu sei a posto?
— Per un paio di giorni. Non sto riuscendo a dedicarmi al mio secondo lavoro. Ricordi? I temi me li hai consegnati tre giorni fa e non fai che mandarmi avanti e indietro dalla biblioteca. E ora dovrò consegnare anche questi calcoli entro sera, altrimenti quei poverini non supereranno l’esame. Potevi darmeli già ieri, così oggi avrei potuto raccattare rifiuti.
— Ma ieri gli studenti non ti avevano pagato una rupia! E poi di che ti lamenti? Sei contento di andarmi a prendere i libri.
Abdul mostrò la dentatura abbagliante, dondolando la testa. — È bella come una maharani la ragazza che da i libri, una principessa nascosta nella sala del vento. Oh, la amo!
— Ma sentilo, il maharaja! Non sposerà mai un cameriere. — Asha pizzicò la guancia tonda del fratello.
— Ma io sono un cameriere d’albergo, mica da bettola.
— E sei musulmano, mentre lei è induista.
— E per fortuna non siamo tutti intelligenti come te da far caso a certe cose.
Scoppiarono a ridere, poi Asha tornò seria. — Nostro padre non la vorrebbe come nuora, è troppo libera, ha un lavoro.
— Lo convincerai tu.
— Io? Sei impazzito, Abdul? Devo studiare di nascosto per prepararmi a un esame d’ammissione che forse non potrò mai sostenere! Se non ci fossi tu e zio Aziz...
Un corvo atterrò sulla sabbia di fronte ai ragazzi. Gracchiò all’indirizzo di Asha e poi si concentrò nella selezione di rametti e sassolini.
Visto il nastro giallo, Asha scattò in piedi e afferrò le stanghe del carretto caricato di un sacco di farina. — Devo andare! — annunciò a uno stralunato Abdul. — Aspettami qui finché non dovrai andare a lavorare, conto di tornare tra poco. Devo assolutamente imparare quella poesia.
— Ti terrò il segno — assicurò Abdul ma la sorella già gli dava le spalle. Il sari, colorato e luccicante, sventolava nella brezza soffiata dal Mar Arabico. Asha camminava lungo una falce di luna di sabbia, l’estremità appuntita e ombreggiata dagli alberi di baniano, sotto l’orizzonte dominato dalla casa più costosa del mondo.
Abdul pensò che un giorno, da vecchio, avrebbe finalmente compreso il padre e si sarebbe spiegato perché avesse conservato i libri ritrovati nel portabagagli del taxi di terza mano, tappezzando una parete della baracca nello slum – completandola in alcuni punti, a dire il vero – e nello stesso tempo ostacolasse il volo di Asha fuori da Dharavi. Forse la vedovanza lo faceva soffrire troppo, più dei fumi del riciclo di plastica e metalli che aleggiavano negli spazi claustrofobici tra le loro casette.
Per ora non importava. Non mosse il dito sudato, stretto nel mezzo del tomo che reggeva, così, quando Asha sarebbe tornata, subito gli avrebbe aperto il volume alla pagina giusta. Diede una sbirciata, alcune parole che componevano i versi le riconosceva ma non riusciva ad apprezzare il significato generale. Indubbiamente più facili da leggere erano i menù in inglese.
Se Asha fosse riuscita a farsi ammettere all’università, il loro padre si sarebbe dovuto arrendere all’evidenza. Lei avrebbe dato valore a tutta la famiglia e lui avrebbe potuto sposare la sua maharani, nonché farsi insegnare a leggere e scrivere in urdu.
Pulì con cura il libro dai granelli di sabbia e si sentì sprofondare, piccolissimo al cospetto dei grattacieli di Marine Drive.
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Fabrizio Bonati
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Fabrizio Bonati »

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UNA TRANQUILLA GIORNATA

h. 6.00 Suona la sveglia
h 6.03 Riesco finalmente a spegnere la sveglia
h. 6.07 Mi rendo conto di dove sono, di che giorno è, e soprattutto

E’ TARDI!!

Mi catapulto fuori dalle coperte, rabbrividisco per il freddo, maledico l’inverno che porta il freddo (che odio più dei leccaculo). Abbranco la stampella nella sinistra e vado. A causa di questa gamba zoppa devo dormire in sala, al piano di sotto. Fare su e giù non è proprio il top, dovendo percorrere quella scala ripida.
Devo sbrigarmi ad accendere la stufa.
La legna è finita.

MERDA

Mi metto qualcosa addosso e vado a vedere, zoppico in cortile ma anche la catasta è finita, qualcuno avrà preso gli ultimi ceppi e non si è preoccupato di avvisare.
Rientro in casa e vado in caccia di tutte le fonti di calore che trovo.
Accendo la stufetta del bagno, quella della cameretta la porto in cucina e la accendo.
Accendo il forno e lo lascio spalancato.
Accendo tutti i fuochi della cucina a gas. Emette una fiamma strana, brutto segno.

h 6.45 Dal buio della scala proviene una voce <<CHE FREDDO!!>>

Mia moglie si è alzata

h 7.00 “COSA C’E’ DA MANGIARE PER COLAZIONE?!”

I bambini si sono alzati

Accendi la tv, prepara la colazione, cerca di prepararti per andare a lavorare, vesti uno, vesti l’altro.
Mancano le calze.
Cerca le calze. Sono di sopra.
Merda.
-Non voglio i cereali per colazione!!-
- Mangia e taci, ci sono solo quelli- rispondo.
-Perché la stufa è spenta? FA FREDDOOOO!!!- Coro di voci

-Perché qualcuno ha finito la catasta della legna e non ha avvertito, ieri sera. Dai sbrigatevi-

-Non ho voglia di andare a scuola. FA FREDDOOOO!!!-

-Sbrigati-

h. 8.00 Finalmente sono pronti. Come da pronostico il gas è finito quindi la cucina si è spenta.

h. 8.05 Dopo avere litigato con mia moglie per la legna, finalmente esco. Ah, già, non ho fatto
colazione, alla fine. Vabbè tanto i cereali sono finiti.

h. 10.00 Whatsapp, moglie: “ricordati di comprare la bombola del gas”
“Si, cara”

h. 10.45 Whatsapp, moglie: “ricordati della legna”
“Si, cara”

h. 13.00 Whatsapp, moglie: “Fabio non sta bene, vai a prenderlo a scuola, io non posso”
“chiedo il permesso a lavoro e vado, cara”

h. 13.30 Sono davanti scuola, ma la bidella audiolesa ha dimenticato l’apparecchio acustico a
casa e non sente il citofono: - SONO VENUTO A PRENDERE FABIO BIANCHI, 4^ C
SONO IL PAPA’-
-COME?!?! CHI E'??!!!- risponde la bidella.
-L’anima de li mortacci tuoi…-
-NON E’ IL CASO DI ESSERE VOLGARI, ADESSO APRO-

Allora ci senti quando vuoi…

h. 13.45 Lascio Fabio dai nonni, qualsiasi malessere accusasse è passato, alla vista della torta al
Cioccolato, farcita di crema al cioccolato, fatta da nonna.

h. 14.30 Whatsapp, moglie: ”COME STA?! Devo chiamare il pediatra? “
“no, magari il 118, dopo che avrà finito con la torta di mia mamma”
“tu minimizzi sempre, io lo chiamo”
“si, CARA”
“perché lo scrivi maiuscolo, CARA?”
“IL T9 FA COME GLI PARE… cara”
“tu non me la conti giusta, poi ne parliamo”
“si, cara (minuscolo, vedi? Il T9 è tornato nei ranghi”
“S T R O N Z O”
“si, cara”

h. 15.45 Whatsapp, moglie: “alle 18.00 porto Fabio dal pediatra, è dai nonni?”

no, l’ho abbandonato per strada in preda ai (FINTI) crampi alla pancia, confido che qualche passante l’abbia raccattato e accudito. Ci contatteranno i servizi sociali.

“SI, cara”

h. 16.37 Whatsapp, moglie: “ricordati i biscotti e le uova”

“Si, cara”

Adesso mi prostituisco un attimo, e con i soldi ricavati compro queste due cose, se ce la faccio. D’altra parte un prostituto vestito da meccanico e con la stampella ha un mercato ben preciso.

h. 17.30 finalmente finito di lavorare.

Passo a recuperare Andrea, mio figlio più grande, a casa del suo amico e andiamo a prendere le due cose che mancano. La legna l’ho già ordinata, questa sera la consegnano. Il venditore ha detto che se non lo pago entro settimana prossima non me la porta più.
Ok, ci penseremo.

Ho tirato fuori dalla tasca delle emergenze il biglietto da Venti Euro che avevo imboscato. Andrea si offre di comprare i biscotti con i Cinque Euro che gli ha regalato nonno. Reprimo a stento una lacrima, dico una preghierina per ringraziare di avere dei figli così generosi, e gli dico che per questa volta non serve, di mettere i soldi nel salvadanaio.

h.18.30 Whatsapp, moglie: “TUO figlio non ha niente, mi ha fatto spendere i soldi del pediatra per
niente”

ma va?

“Lo sospettavo, cara. Comunque è anche tuo figlio”

“Stiamo arrivando, prepara la cena”

“Si, CARA”

h. 22.30 Mi sono inventato una cena con il nulla che aleggiava in dispensa, tutti hanno mangiato,
i bambini hanno fatto i compiti e finalmente vanno a dormire.

Buona notte.

h. 23.45 Whatsapp, moglie: “Andrea ha la febbre, prepara lo sciroppo di paracetamolo”

“Si, cara.”
Ida Dainese
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Ida Dainese »

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Festa di compleanno

Il campanello suonò tre volte, accompagnato da un allegro bussare.
— Che c’è? Che c’è? — brontolò irritata la padrona di casa ciabattando e aggiustando gli occhiali sul naso.
Il sorriso della ragazza era di quelli che non si infrangono nemmeno con un mattone sui denti:
— Ciao nonna! Buon compleanno!
La porta non era ancora aperta del tutto che lei era già entrata con le borse della spesa e filava verso la cucina ridendo e parlando, lasciando la lieve scia di un profumo nell’aria.
“Mele e fragole” pensò l’anziana. — Cos’è quest’odore? Sei tu o la spesa?
La ragazza rispuntò dalla cucina sempre sorridendo:
— Ti piace? È il profumo che mi ha regalato Teo per Natale.
— Invece di farti regalare profumi da tuo fratello perché non ti trovi un fidanzato?
— Perché tu lo spaventeresti, nonna. Su, perché non vai a vestirti? Non puoi ricevere gli ospiti in camicia da notte.
— Quali ospiti? Tu e tua madre?
— Viene anche papà, e poi Teo con Giulia e il piccolo.
— Come mai quest’invasione?
— Per festeggiarti, e dato che è sabato è più facile essere tutti liberi. Tra poco arriva anche mamma e ci mettiamo a cucinare.
— E se io non vi volessi intorno? A tuo nonno non piaceva la confusione.
— È una scusa vecchia, il nonno è morto quando Berta filava. Inventane un’altra.
— Sono depressa.
— Nonna, mi dispiace dirtelo, ma anche la depressione ha paura di te.
Brontolando, l’anziana cercò di tornare in camera ma il campanello suonò di nuovo.
Aprì la porta con uno scatto insospettabile per i suoi sett… insomma ottant’anni.
— Buon compleanno, mamma! — esclamò la nuova arrivata, reggendo altre sporte, — Flora è già arrivata?
Madre e figlia si riunirono in cucina e prepararono il caffè mentre la padrona di casa stringeva la cintura della vestaglia, fissando ostentatamente l’orologio sulla parete, che segnava le otto e dieci.
— Dovete cucinare qualcosa di estremamente elaborato o il pranzo sarà alle nove del mattino? — ironizzò.
Le due donne più giovani ridacchiarono. La nonna al mattino era peggio di un orso strappato al letargo ma fingevano di non notarlo. In realtà, Eugenia Rosati oltre a un carattere forte aveva un cuore tenero che nascondeva dietro una brillante ironia. Sapeva essere petulante, amabile, burbera e gentile.
Restò tranquilla nella sua poltrona a sorbire il caffè mentre Flora e sua madre riordinavano in giro e preparavano il tavolo in sala da pranzo. Le sentiva andare e venire tra il tintinnare di posate e il lieve sbattere dei piatti. Sembrava ieri che sua figlia, la madre di Flora, correva traballante, trascinando la bambola sul tappeto. Come passava il tempo.
Posò la tazza e sbirciò tra le verdure e le altre cose che quelle due avevano lasciato in cucina ma fu subito mandata a prepararsi e invitata a chiamare se avesse avuto bisogno di aiuto.
Eugenia si avviò, digrignando tra sé che non era ancora così vecchia da aver bisogno di impiccione.
— Ti abbiamo sentita! — la provocò Flora.
Quando tornò giù, un’ora e mezza dopo, non sembrava la stessa persona. Alta, con la collana di fili d’oro sulla camicia di seta scura, il golfino elegante, i capelli biondo pallido e gli orecchini di smeraldo, scese le scale con la lentezza di una diva.
“Eccoci qua,” pensò, “sono arrivata agli ottanta. In salute e con le rotelle a posto. Non male in fondo.”
Dalla cucina cominciavano a spargersi aromi stuzzicanti. Il primo ad arrivare fu Teo con la moglie e il figlio di sei anni. Una mezz’ora più tardi il padre di Flora. Nell’ingresso cominciarono ad accumularsi pacchetti e mazzi di fiori.
— Nonna, hai un aspetto splendido. Come ti stanno bene gli smeraldi!
— È inutile che guardi. Non presto i miei gioielli.
Flora sorrise. Era vero. Li regalava, come aveva fatto con la collanina che portava sempre al collo.
— Bisnonna, il tuo compleanno è super bellissimo! — s’intromise il figlio di Teo.
— Grazie, caro. Penso che sia merito tuo. — rispose Eugenia carezzandolo lieve con un dito. Il bambino corse via felice. Gliel’avevano detto che poteva chiamarla semplicemente “nonna” ma lui non intendeva ragione. Ragazzo di carattere, chissà da chi aveva preso.
Mancava poco all’ora di pranzo quando Eugenia ebbe modo di osservare con calma la tavola apparecchiata. Stavano tutti di là, chi in cucina, chi a lavarsi le mani. Era bello, ogni tanto, sentire rumori di gente in casa. Contò otto coperti, “ma siamo in sette”, rifletté. Per un momento pensò a suo marito, l’unico che mancava in quella bella congrega. Erano passati tanti anni ma ricordava ancora la sua voce al mattino che la chiamava “la mia puledra ombrosa”.
Di nuovo il campanello. Questa volta però, andò ad aprire offrendo la sua immagine migliore e il ragazzo sulla soglia rimase affascinato, con un mazzo di rose in mano.
— Sono per me? — flautò lei.
— Certo, bella signora.
Flora si materializzò accanto al giovanotto e gli diede un bacio.
— Nonna, ti presento il mio fidanzato.
— Ah, il numero otto. Benvenuto, caro nipote.
Beh, era decisamente una bella festa di compleanno, comoda, a casa sua ma senza dover alzare un dito, festeggiata e omaggiata di regali. Dal suo posto a capotavola osservò ogni componente di quella famiglia serena, i suoi discendenti e i familiari acquisiti. Doveva aver fatto qualcosa di davvero buono per meritarseli. Il suo tavolo a otto posti era completo. Otto posti, ottant’anni, che fosse un segno, un avviso del destino sul traguardo raggiunto?
Flora venne a sedersi accanto a lei, mentre gli altri gironzolavano o sprofondavano sul divano.
— Contenta del pranzo?
— Siete ottime cuoche. Mi si alzerà il colesterolo e la glicemia.
— E non è ancora arrivata la torta con le candeline.
— Voglio vedere come fai a farcele stare.
— C’è una candela a forma di otto.
Lo sguardo di Eugenia si spostò sul ragazzo che rideva con gli altri.
— Mi piace il tuo numero otto. È un bel regalo saperti fidanzata.
— Nonna, non hai ancora visto il mio regalo.
— Ah no? Deve arrivare qualcun altro? Non ho più posti a tavola.
Flora sorrise senza rispondere. Qualcosa le splendeva dietro agli occhi e la rendeva incantevole. Le sue mani si tesero a prendere la mano di Eugenia e la appoggiarono sul ventre.
— Gli daremo il nome del nonno.
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Nunzio Campanelli
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Re: Gara 62 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Nunzio Campanelli »

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Un libro

La mattina presto le ore sembrano trascorrere più lente, come se avessero bisogno di un periodo di prova per riallinearsi con la vita che intanto scorre via con il suo consueto ritmo. Da quando aveva sepolto Otello in quel cimitero di campagna, piccolo e sbrindellato come il paese poco distante dove era nata quasi sessant’anni prima, Laura ogni mattina alle sette e trenta era lì, davanti alla tomba di suo figlio. A quell’ora il cancello doveva essere chiuso, ma il vecchio guardiano era morto da un paio d’anni, e da allora nessuno si prendeva più la briga di far rispettare gli orari. Per circa un’ora se ne stava immobile a guardare la fotografia di Otello, di quel figlio che credeva di aver ritrovato e che invece aveva definitivamente perduto. Quella mattina si era svegliata con una sottile inquietudine, come se qualcosa d’incombente la stesse aspettando. Smise di guardare il simulacro di Otello, che dal canto suo la fissava con il solito sguardo di sfida. Fu allora che la notò. Poco distante, seduta su una panchina, c’era una ragazza vestita di rosso. La stava guardando. Laura non diede segno di aver colto la novità, facendo anzi mostra di volersene andare.
- Lei è la mamma?
Gridò l’altra. Laura provò un senso di smarrimento che subito mimetizzò con la sua proverbiale severità.
- Le sembra questo il modo…
La ragazza si avvicinò, mentre il suo sguardo smise di indagare.
- Sì, lei sicuramente è Laura. Non si preoccupi, devo solo darle questo.
Un vecchio libro si era materializzato tra le sue mani, un’edizione dell’universale economica Feltrinelli. Il libro era di Borges, l’Aleph per la precisione. Appena lo ebbe tra le sue mani, Laura gridò come se avesse paura di aprirlo.
- Che devo farci? Eh, che devo…
- Leggerlo, magari. Senta, se lei è Laura, la madre di Otello, io quello che dovevo fare l’ho fatto. Addio.
- Mi scusi per i modi, cerchi di capirmi. Chi è lei?
- Chi sia io non ha alcuna importanza. Lei ha dato la vita ad Otello, io l’ho assistito nella morte. L’abbiamo amato entrambe.
La ragazza vestita di rosso accennò un sorriso, poi s’incamminò verso l’uscita. Laura cercò di fermarla, afferrandole un braccio.
- Aspetti! La rivedrò?
L’altra sfuggì alla presa, e rapidamente sparì dalla vista.
Laura rimase immobile per alcuni minuti, lo sguardo fisso sulla copertina del libro, l’espressione assente. Poi si avviò verso l’uscita, il passo sempre più veloce, come se dovesse fuggire da qualcosa. O da qualcuno. Nel piccolo camposanto tornarono a regnare la quiete e la pace.
Giunta a casa, Laura appoggiò il libro sopra il tavolo del soggiorno facendo finta di dimenticarsene, come se non avesse nessuna importanza per lei. Lei che più di ogni altra cosa aveva sofferto perché Otello aveva deciso di non lasciarle niente di sé, né una lettera o un foglio, neanche una sola riga. Niente. Fino ad ora. Suo figlio era morto senza lottare contro il male che l’aveva colpito all’improvviso. Lei non riusciva a capire e questo scavò un solco tra loro. Nel momento in cui lui aveva più bisogno della vicinanza della madre, lei si allontanò. Otello andò a morire lontano. Le ultime parole che Laura rivolse al figlio furono urlate con rabbia, per poi pentirsi di averle pronunciate nell’istante stesso in cui le uscirono di bocca. Lui era tutto per lei, la sua famiglia, la sola che avesse mai avuto. L’aveva scacciato di casa perché non sopportava lo strazio di vederlo morire senza poter far nulla.
Laura si avvicinò al tavolo, prese il libro e l’aprì. Era un libro di racconti, e dopo una rapida ma scrupolosa ricerca si rese conto che le pagine non nascondevano nessun foglio, tantomeno delle annotazioni. Con un gesto di stizza gettò il libro sul tavolo, poi andò in camera per cambiarsi d’abito. Fino il mattino dopo non sarebbe più uscita da casa. Più tardi, mentre stava preparando qualcosa da mangiare, tornò a indagare con lo sguardo quel piccolo volume, ripensando alla ragazza vestita di rosso. Avrebbe dovuto chiederle qualcosa su Otello, sul significato di quella consegna. Anche se impegnata in quei ragionamenti, Laura non aveva smesso di fissare quel libro. Si era accorta che pur essendo chiuso, proprio all’inizio le pagine presentavano un leggero discostamento tra loro, come se il libro fosse rimasto aperto a lungo sempre allo stesso punto. L’aprì. Un leggero segno fatto a mano con una matita cerchiava il numero che indicava l’inizio del quarto capitolo. Le mani di Laura tremavano mentre iniziò a leggere.
Lesse degli immortali e della loro città e di Omero che vi abitò. Di come sia vana la ricerca dell’immortalità e di come la morte renda preziosi e patetici gli uomini. Lesse, infine, di come Omero, dopo aver cantato la guerra di Troia e le gesta di Odisseo, cantasse la guerra delle rane e dei topi. Quando finì di leggere quelle poche pagine, Laura era preda di un batticuore furioso. Ora sapeva dove cercare. Si avvicinò alla vasta libreria del soggiorno, cercò a lungo finché non trovò, celato dietro una fila di alti volumi, una cartella contenente una tesi di Otello sul Leopardi, dove aveva dato un risalto non convenzionale al “Discorso sulla Batracomiomachia”. Alcune pagine fittamente scritte con la calligrafia ordinata e sottile di Otello erano lì dentro ad aspettarla. Con le mani ancora più tremanti si mise a sedere e iniziò a leggere l’ultima lettera di suo figlio.
Erano le sette e trenta del mattino. Laura era di nuovo davanti alla tomba del figlio nel piccolo cimitero di campagna. A fianco, una ragazza vestita di rosso, la stessa che il giorno prima le aveva consegnato un libro. Lei, che non si era mai rassegnata alle scelte fatte da Otello, al suo modo di vivere. Lei, che non si era mai rassegnata nemmeno al modo di morire di suo figlio, senza lottare, accettando passivamente ciò che il destino gli aveva riservato. Lei, che aveva vissuto la dissoluzione della sua famiglia quando suo figlio era andato a morire lontano, ora si sentiva veramente sola. Poco alla volta delle lacrime le bagnarono il viso, mentre la sua mano incontrava quella della ragazza vestita di rosso. Dall’alto, Otello, le guardava entrambe.
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Gara d'autunno 2021 - Babi Yar, e gli altri racconti

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Calendario BraviAutori.it "Year-end writer" 2019 - (a colori)

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Ero sposata da poco e già mi stavo annoiando

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B.A.L.I.A.

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Esiste tuttavia una fetta di Umanità che rifiuta questa utopia, in quanto la ritiene una distopia grave e pericolosa.
BALIA ha nascosto il Passato ai suoi Assistiti, ma qualcuno di questi ha conservato i propri ricordi in un diario e decide di trascriverli in una rischiosa autobiografia. Potranno, questi ricordi, ripristinare negli Assistiti quell'orgoglio di vivere ormai sopito? E a che prezzo?
Di Ida Dainese e Massimo Baglione.

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I sette vizi capitali

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A cura di Massimo Baglione.

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