Gara 67 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
Ida Dainese
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Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Ida Dainese »

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Un saluto a tutti, pronti per una nuova Gara?

Il tema di Gara 67 è: Cavalieri di ieri, di oggi e di domani.

Cosa fa di un uomo un cavaliere? Quale dote, quale carisma lo distingue dagli altri?
Potete spaziare dal genere fantasy allo storico, dal western alla fantascienza, fino a indicare figure che appartengono alla vostra vita e ai vostri ricordi.
Raccontate di uomini in armatura che lottano con i draghi, di Crociati e di Templari, di cowboys e di Cavalieri dello Spazio, di icone eleganti e benefattori gentili del nostro tempo, di uomini generosi e meritevoli di essere omaggiati.

Vi ricordo le regole ufficiali, che trovate qui: viewtopic.php?f=80&t=2308
Riassumendo:
- lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%;
- chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio; in caso contrario verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione;
- ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in apertura del brano;
- voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5);
- i racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

I racconti potranno essere postati come risposta a questo messaggio fino alla mezzanotte del 15 novembre 2017 (mercoledì).
I commenti e i voti dovranno invece essere postati dal 16 novembre fino alla mezzanotte del 30 novembre 2017 (giovedì). a questo link: viewtopic.php?f=80&t=5149

Chi vincerà avrà l’onore e l’onere di organizzare la gara successiva.
I premi saranno:
1. Pubblicazione dei racconti in digitale, con il consueto e-book.
2. Il vincitore otterrà un abbonamento di 10 euro grazie al quale saranno scaricabili gli ebook integrali (pdf o epub) delle nostre pubblicazioni cartacee (vedi post "I premi delle gare" qui: viewtopic.php?f=80&t=2472
3. L'attestato stampabile che attesta la vittoria.
4. Nel caso in cui si abbia una buona partecipazione di concorrenti, con tutti i racconti sarà creato un libro acquistabile (per un periodo di tempo limitato) il cui ricavato andrà devoluto a BraviAutori.

Buon lavoro!
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Lodovico
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Lodovico »

Earl Grey
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img100c.jpg (53 KiB) Visto 4971 volte

Lo vide arrivare. Elegantissimo. Le parve un angelo inviato in suo aiuto da qualche essere superiore che le voleva bene. Lei, attorniata dai tre giovani ubriachi fradici, ne ascoltò le parole come se arrivassero dal cielo stesso.
— Lasciatela stare.
— Cosa vuoi, imbecille? Fatti i cazzi tuoi — disse uno dei tre giovani.
— Sono cazzi miei. MI pare che la signorina non gradisca la vostra compagnia e non mi piace che le donne siano trattate male. Quindi sono cazzi miei.
Fingendo superiorità il secondo dei ragazzi tagliò corto.
— Tienitela ‘sta troia, andiamo ragazzi, lasciamo il grand’uomo a salvare le donzelle e andiamo a farci un’altra vodka.
Marta con un sospiro si avvicinò all’uomo e lo abbracciò.
— Grazie — mormorò tra i singhiozzi.
— Di nulla, ormai le strade sono pericolose la notte per le donne, purtroppo ne esistono a centinaia di questi tipi. Ma sento che trema.
La paura e il freddo della sera stavano penetrandola, costringendola a battere i denti.
— Senta, signorina, io abito non lontano da qui, se vuole le offro un tè caldo e poi la accompagno in auto a casa sua.
La strada fino a casa dell’uomo fu più lunga del previsto. Marta soffriva per i tacchi alti e la temperatura autunnale, nonostante lui le avesse ceduto la giacca. L’antro signorile del palazzo era luminoso. L’ascensore li abbandonò al terzo piano, la donna pregustava già il promesso tè “Earl Grey” con uno spruzzo di latte.
Il pianerottolo era ordinato. Tre piante lo ingentilivano.
La porta dell’appartamento si aprì.

“Stronzi”. Francesca cominciava a odiare quella chat. Ormai ne era diventata lo zimbello. La sua foto era bersaglio di ironia solo perché lei non era bella come tante altre. In fondo esibire la propria bellezza era naturale, le altre riempivano la chat di foto dei loro bikini, delle minigonne, dei tacchi a spillo in misure improponibili. Lei, occhialuta, sovrappeso, dai capelli di saggina e le cosce da tacchino, avrebbe voluto evitare di farsi vedere, anzi, le sarebbe piaciuto mettere una foto di Charlize Theron, ma non sarebbe stato giusto. Sincera, sensibile, educata, timidissima. Tutti difetti di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Avrebbe potuto abbandonare la chat, ma, in quell’angolo virtuale di Internet, si era creata un suo spazio che nella vita reale non aveva. La tastiera mediava i suoi pensieri e li trasformava in parole. Brutta malattia l’introversione.
STALLION: “Fra95, ma quanto sei bella. Centoventi chili di bellezza”.
L’utente della chat “Stallion” la prendeva in giro come al solito.
FRA95: “Piantala, Stallion”.
STALLION: “Fra95, e che occhi hai, color… color… che colore sono? Non si vedono dietro quei fondi di bottiglia hahahahh”.
EDWARD: “Hai visto, Stallion, che belle gambe ha? Le vedesse un salumiere… HAAHAHA”.
Francesca si accinse a gettarsi a pancia in giù sul letto per lasciare uscire quelle lacrime che spingevano dietro le palpebre. Diede un’ultima occhiata al monitor.
CONTE: “Voi due, imbecilli, la piantate? Credete di essere belli? Uno col naso che fa provincia e l’altro con una pancia che gli impedisce persino di vedersi il pisello”.
STALLION: “A Conte, da dove spunti, chi ti conosce? Che vuoi?”.
CONTE: “Solo che impariate l’educazione e lasciate stare Fra95”.
Francesca si affrettò a mandare un messaggio privato a “Conte”.
FRA95(PVT): “Ciao, grazie mille per avermi difesa, sei stato gentilissimo, ma lasciali perdere quei due sono dei cretini”.
CONTE(PVT): “Ho visto. Buonanotte, spero tu non ti sia troppo arrabbiata”.
FRA95(PVT): “Grazie mille, solo un po’ agitata, mi ci vorrebbe un bel tè caldo”.
CONTE(PVT): “Sei di Milano? Se ti va ti posso offrire un Earl Grey. È molto buono e perfetto per togliere l’agitazione. E poi ho anche un ottimo Plum-cake. Senza nessun secondo fine, io abito in via…”.
Nessun secondo fine. Con Francesca nessuno aveva mai un secondo fine, si dispiacque un po’ di quella frase, in fondo, ma il resto dell’invito la esaltò. Nonostante ciò fece un po’ la preziosa.
FRA95(PVT): “Ci penso su un po’, comunque lasciami il tuo cellulare, se mi va ti chiamo”.
Telefonò dopo un quarto d’ora.
Il portone si aprì con un “clic”. Francesca premette il tasto con la cifra “tre” e l’ascensore ebbe un tremito.
Il pianerottolo era ordinato. Tre piante lo ingentilivano.
La porta dell’appartamento si aprì.

Il diluvio. Lampi e tuoni riempivano il cielo in quel pomeriggio milanese. Giovanna fece un passo verso il “ventitré” che la avrebbe portata a casa. Ma si sa, le scarpe di gomma umide hanno, sui tombini in ferro, la stessa “tenuta di strada” delle gomme lisce sulla neve. Entrambi i piedi decisero di sfuggire al controllo della donna e schizzare in avanti lasciando che il rotondo sedere, seguendo la forza di gravità, si infrangesse sull’asfalto in corrispondenza di una pozzanghera birichina. La botta la lasciò senza fiato. Sarebbe rimasta lì a godersi l’umidità, se una mano non l’avesse toccata e una voce risvegliata dal torpore della caduta.
— Signorina, si è fatta male?
— Beh, un po’ sì, ma ce la faccio…
Il dolore al sedere era notevole.
— La accompagno in ospedale?
— Non credo sia necessario, ho solo bisogno di un cuscino comodo e qualcosa di caldo da bere.
— Se si fida, la mia casa è giusto dietro l’angolo, le posso offrire entrambi. Rubo il cuscino al gatto e, in dispensa, ho delle bustine di Earl Grey ancora lontane dalla scadenza.
Giovanna non si fidava mai degli estranei, ma odiava il sedere bagnato.
L’ascensore raggiunse il terzo piano.
Il pianerottolo era ordinato. Tre piante lo ingentilivano.
La porta dell’appartamento si aprì.
Entrò.
Mezz’ora dopo stava accomodata sul divano del salotto, col sedere asciutto e una tazza di tè profumato di fronte. L’uomo apparve dalla porta della cucina. Il lungo coltello scintillava, riflettendo la luce dell’alogena. A passo lento le si avvicinò. Giovanna si maledisse per avere accettato l’invito, ma non riuscì a muovere un muscolo, nemmeno quelli della gola per gridare. La lama si alzò e, con uno scatto, si diresse verso il basso.
L’uomo le porse il piatto con la fetta appena tagliata di Plum-cake. Il cuore della donna riprese a battere.
— Le piace il tè? È una miscela tradizionale, aromatizzata al bergamotto, la inventò un mio antenato, il Conte Charles Grey, la mia famiglia…
Lo smartphone dell’uomo prese a vibrare. Per la seconda volta il respiro si bloccò alla donna. Sul display apparve la scritta “psichiatra”.
— Sì, dottore.
— Sì, ho preso le pastiglie.
— L’ho qui il quaderno e ho fatto quello che mi aveva detto.
L’uomo aprì un grosso fascicolo ad anelli.
Scritta a mano, ripetuta molte volte questa frase: “Sono un camionista, non un conte inglese”.
E nella pagina precedente: “Sono un camionista, non un supereroe Marvel”.
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Patrizia Chini
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Il cavaliere Skateboard

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skateboard.jpg (17.4 KiB) Visto 4848 volte
Era l’alba del 24 agosto del 2022.
Nella piazza del Municipio di una piccola città sorgeva il sole che illuminava un UFO, l’astronave che vi stazionava da qualche ora, fermo e silenzioso.
Allertate dai radar, sul posto c’erano le forze dell'ordine insieme al sindaco e altre autorità e, non appena la notizia dell’evento si diffuse, anche numerosi curiosi. Tutti parlottavano e discutevano tra loro, ognuno con la sua verità. Improvvisamente… silenzio.
Si era aperto il portello. Per una manciata di lunghi secondi, rimase aperto ma sguarnito, senza che vi si affacciasse anima viva o accadesse altro. Solo quando giunse un’eco di passi strascicati la piazza si rianimò.
Faticando un bel po’ per la dimensione ridotta dell’uscita, apparve un vecchio curvo, di bassa statura, di etnia non classificabile; con due orecchie accartocchiate in continuo movimento che si srotolavano in tutte le direzioni e lunghissimi capelli bianchi che teneva raccolti nella mano sinistra. Appena fuori fissò la sua mano destra e subito da terra si sollevò, come un periscopio, un bastone di luce, sul quale si appoggiò con forza per raddrizzarsi.
Guardò dritto davanti a sé, poi si scosse come volesse liberarsi di polvere o altro, o forse per riattivare la circolazione sanguigna o chissà cosa.
Mosse un po’ le braccia e i piedi poi si fermò e aprì la bocca... ma non uscì suono.
Bisbigli diffusi serpeggiarono nella piazza mentre richiudeva la bocca; sembrò contrariato ma determinato. Si aggiustò di nuovo e riprese la posizione eretta, mosse le labbra ma… nulla.
Nessuno ci capiva niente, allora il sindaco si affrettò a far chiamare l’interprete più quotato e preparato di cui si avvaleva il comune nelle conferenze internazionali.
L’interprete chiese “Do you speak English?” e, al silenzio che ne seguì, ripropose la domande in tutte le lingue che conosceva.
Nessuna risposta dal vecchio. O non capiva o non sentiva. Era palese, però, che ci stava male per quel suo scrollare la testa… in un inequivocabile gesto di disappunto.
Il sindaco cominciò a parlare, qualcuno doveva ben farlo!
«In qualità di primo cittadino di questa città, le do il benvenuto sperando possa comprendermi»
Il vecchio sembrò interessarsi al nuovo messaggio, alzò la testa e aprì di nuovo la bocca... ma niente: niente di niente. Forse non aveva forza sufficiente per parlare visto il suo aspetto malaticcio.
«Siamo disponibili a intrattenere con lei e con il suo mondo, buoni rapporti di amicizia e di collaborazione» si affrettò a comunicare il sindaco, sbrigandosi a mettere le cose in chiaro per evitare di trovarsi nel bel mezzo di un conflitto interplanetario.
Le sue ultime parole ebbero, comunque, un effetto...
Si aprirono contemporaneamente due oblò laterali e da lì, uno alla volta uscirono degli esseri lillipuziani, alti sì e no cinquanta centimetri, completamente pelati come biglie¸e con al posto del viso un monitor, al posto delle orecchie due antennine nere alla sommità delle quali si accendeva e si spegneva a intermittenza una luce che cambiava ogni volta colore, passando per tutte le noinces dell’arcobaleno.
A un cenno del vecchio gli si schierarono a righe di quattro avanti e dietro..
Erano sicuramente guardie di un esercito, di uno stato o di un sovrano lontano dalla Terra.
Preceduto da un ronzio fastidioso, si materializzò un robot somigliante più a un gioco che all’uomo bionico qual era in realtà. Avanzava, due spanne sopra il terreno, su una specie di skateboard che ronzava come un’apona in cerca di cibo...
A quel punto dalla piazza sorpresa, qualche coraggioso cominciò a urlare.
«Chi siete? Che volete? Perché non rispondete?»
Il sindaco, il prefetto e il capo della polizia iniziarono a discutere sul da farsi aumentando man mano i toni…
Il grande vecchio alzò il braccio con il quale teneva il bastone e fece cenno di tacere.
La piazza ammutolì.
L’essere sullo skateboard avanzò fermandosi davanti alle guardie schierate a difesa del vecchio.
Cessò il ronzio che accompagnava i suoi movimenti e, contemporaneamente, si alzò una tendina che gli nascondeva il petto mettendo in luce un monitor che si accese e un cursore bianco sullo sfondo azzurro cominciò a lampeggiare e a scrivere:
«Io sono Ty. Sono il capo dei Cavalieri del pianeta Skateborg. A me e gli altri Cavalieri è affidata la sicurezza planetaria. Il vecchio è l’organizzatore, corrispondente a un re o un presidente, del pianeta Yourself. Gli yourselfiani mi hanno chiesto aiuto per ritrovare le loro voci rubate e rivendute da delinquenti terrestri.»
A quelle parole si alzò un gran clamore nella piazza.
«Non possiamo restituirle, rimarremmo senza noi.» dichiarava qualcuno
«Pensate... vivere senza voce, senza poter comunicare...» sottilineava un altro
«Sarà bruttissimo, ma dobbiamo restituirle. Dobbiamo comportarci in modo civile senza ledere i diritti degli altri.» urlò infine un fruttivendolo.
Tutti dissero la loro schierandosi a favore di una o dell’altra tesi ma ogni volta che qualcuno alzava la voce per far passare la risposta negatica “Non restituiamo niente” Ty lo sgridava
“Non potete rifiutarvi. Sarei costretto a chiamare gli altri cavalieri Skateboard e a usare le nostre armi.”
Dopo un’ora di discussioni feroci, le voci arrochite e con il fiatone, tacquero.
Allora una bambina, alzandosi sulle punte dei piedi, chiese timidamente:
«Se ritrovate le vostre voci, che farete... ce le toglierete?»
Questa volta Ty rispose con la sua voce sintetica:
«Mentre voi perdevate tempo a litigare, con sofisticate apparecchiature le hanno ritrovate, ne hanno copiato lo spettro vocale; ricostruite sono già reinstallate nei proprietari originari»
«Voi terrestri parlate e urlate troppo in dibattiti inutili e dannosi tanto che le vostre corde vocali sono corrose e rauche.» avvertì Ty
«Tenetevi le voci ma imparate a parlare meno e pensare di più.» concluse il vecchio che rientrò nell’astronave seguito dai lillipuziani armati.
Il portello e gli oblò si richiusero velocemente e l’astronave volò via alla velocità della luce mentre nell’aria riecheggiava l’eco del saluto di Ty...
“Terrestri, rigate dritto altrimenti saremmo costretti a intervenire di nuovo e non sempre possiamo sedare i diverbi in modo incruento!”
Una luce chiarissima illuminò tutta la città per poi spegnersi lentamente.

.
Ultima modifica di Patrizia Chini il 11/12/2017, 18:31, modificato 2 volte in totale.
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Conrad »

REPULGNANZA

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I piedi sono pesanti, affondano nel pantano di sangue, membra e ossa. A ogni passo sprofonda fino al ginocchio, talvolta fino alla coscia. Fa meno fatica quando riesce a fare perno su un teschio o una gabbia toracica.
Da quanto vago in questo posto? Un minuto, un mese, una vita?
L’oscurità è totale, il benzolo nello Zippo è finito.
Prosegue nel buio. Di tanto in tanto fa scattare la pietra focaia che illumina in un flash lo scempio intorno. Sa che anche quella non durerà per sempre.
Il tunnel è sempre uguale, un metro di larghezza, qualcosa di più in altezza. Il pavimento costituito da ossa e sangue, dalle pareti si protendono membra e organi, il basso soffitto non permette di stare eretti, gocciola continuamente, non è acqua, cade pesante e fredda sulla schiena, sulle mani, sul viso. Ignora quanto sia lo spessore di resti umani che lo circonda. Per quello che ne sa, i muri potrebbero essere a decine di metri, ricoperti da strati e strati di esseri in decomposizione. Per quello che ne sa, potrebbe anche non esserci alcuna struttura solida.
Il tunnel va verso il basso. Non c’è dubbio sulla direzione da prendere.
Procede carponi perché la schiena duole a forza di camminare curvo. Sdegna ciò che tocca e calpesta, inciampa più volte di quelle in cui riesce ad avanzare.
Questo orrore ha una fine? Coinciderà con la mia?
Qualcosa lo afferra a una coscia, dita sottili e forti stringono.
- Respirante... non è posto... per te.
La voce è strana, scomposta, sembra provenire da una gola squarciata.
Urla, strattona la gamba e si libera. Si alza in piedi e batte la testa contro qualcosa di soffice sul soffitto. Qualche metro di corsa, piegato in due, mentre la mente vacilla sconvolta da scariche isteriche. Il piede impatta su un arto, vola a terra, sbatte il naso contro qualcosa, non vuole sapere cosa.
Ritorna in ginocchio. Piange.
Si prende a schiaffi così forte che è sicuro che le guance sono viola. Avanza, piano, tastando intorno prima di caricare il peso.

Qualcos’altro ha cercato di afferrarlo. Un colpo della pietra focaia, diverse braccia protese verso di lui.
Reprime un conato.
Si rimette a quattro zampe e prosegue, a istanti di luce, respirando con profonde inalazioni quel fetore.
Il tunnel si è inclinato piano, senza quasi che se ne rendesse conto.
Morirò qui dentro.

Vede un bagliore, in fondo. Spera solo che non sia la mente che lo abbandona definitivamente.
Avanza più veloce, non può impedire al proprio corpo di farlo. Sprofondando spesso, graffiandosi tra unghie e ossa rotte.
Una voce di donna lo fa sobbalzare. È suadente, calda.
– Vieni – sussurra.
Un flash di luce scaturisce dallo Zippo.
La donna è nuda, incastrata tra decine di altri corpi, nella parete. Ha le gambe aperte, spalancate verso di lui. Lo invita muovendo il bacino avanti e indietro. Ghigna e dalla bocca cola liquido nero.
Lui si appoggia alla parete opposta e la supera. La sente ansimare forte alle sue spalle.

La luce è aumentata. L’orrore assume una forma che non avrebbe voluto vedere.
La sagoma di un neonato striscia davanti a lui. È poco più di un feto, un umano appena accennato. Distoglie lo sguardo fissando la luce.
Il tunnel si sta rimpicciolendo. Dapprima sembrava solo un’impressione, ma è reale, deve ammetterlo.
Dalla luce proviene un urlo. Il dolore in quel verso strozzato paralizza le gambe.
A risposta dell’urlo, una voce, vicina: - TU!
Una testa scheletrica lo fissa. La bocca si spalanca, la mandibola si stacca portandosi dietro pelle lacerata e nervi strappati. Tutta la testa si gonfia, si squarcia. Qualcosa di nero fuoriesce. Sembra un’anguilla fumosa, pece evanescente.
Senza accorgersene è schiacciato contro la parete opposta. Trattiene il fiato. La cosa lo ignora e scompare in un’intercapedine tra quelle che sembrano delle costole scomposte.
Si porta le mani alla bocca a trattenere un grido. Prosegue.
Delle lacrime affiorano tra le ciglia e scendono sulle guance, portando via ciò che resta della sua sanità mentale.
Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?

Un’immensa caverna, interamente formata da resti umani, opera indegna del più pazzo tra i pittori. Alcuni corpi sembrano integri, altri a pezzi. Altri ancora non riesce a capire cosa siano, a chi o a cosa possano essere appartenuti.
Al centro dell’insana cripta, un braciere con alte fiamme rosse. Ombre e bagliori e silenzio.
Si fa guidare da ciò che lo ha condotto fino a qui: istinto, magia, pazzia.
Costeggia la parete, cercando di calpestare meno cose possibile.
Di tanto in tanto qualcosa lo tocca, cerca di fermarlo. Scende cauto verso il braciere scivolando su parti mollicce.
Non c’è vita in questo posto. Non c’è niente che possa essere salvato. È tutto inutile.
Capisce che la sua ricerca è stata vana, stupida. C’è solo disperazione, nera angoscia. Si sente stanco, così stanco che ormai non gli importa più niente.
È la fine. Ora mi stenderò su questo giaciglio di cadaveri e finirà tutto. Dormirò e non aprirò mai più gli occhi. Non voglio vedere mai più.
Sussulta, si scuote.
No. Non può finire così.
Stringe i pugni e lo zippo, ultimo barlume di una vita che fu.
Non mi fermerò!
Va avanti, verso il braciere. La vede.
Corre verso di lei.
Il corpo è incastrato fino al petto in uno strato di sangue coagulato. Non osa immaginare cosa possa essere rimasto della parte inferiore. Il viso è piegato in avanti. Si inginocchia davanti a lei, con una mano sposta i capelli unti e le alza il mento affinché lo possa vedere. La pelle è tirata, grigiastra, gli occhi neri, spalancati, vuoti. I due restano immobili a fissarsi, nel comune dolore. Le pupille di lei hanno una contrazione, sembra vederlo, riconoscerlo. Un accenno di amaro sorriso, confuso, sofferente.
Lui ricambia tra lacrime copiose e singhiozzi.
- Ti avevo detto che ti avrei seguita anche all’inferno.
Il mio Big Bang sarà anche il vostro!
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carlocelenza
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da carlocelenza »

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Il Cavaliere Oscuro

- Padre che faresti se un drago mi rapisse?
- Ma che tristi pensieri diletta figliola! Quali altre storie disdicevoli ti ha raccontato quella cagnetta che ti ostini a tenere come serva?
- Perché non mi rispondi padre? Forse perché non c’è risposta?
- No, la risposta c’è, so di un cavaliere che ha già ucciso altri sette draghi, anche il nostro confinante il duca di Moorlak lo ha dovuto chiamare anni fa, quando eri ancora una bambina.
- Raccontami padre, ti prego.
- Non si è mai visto un drago qui da noi, fa troppo freddo e loro amano il sole, lo sai.
- Ma a Moorlak c’è arrivato.
- Va bene non voglio aggiungere la rabbia verso di me alla tua apprensione. Tanti anni fa la primogenita del duca fu rapita mentre passeggiava nei giardini con le sue ancelle, il drago venne giù dal cielo silenzioso come un fantasma e la ghermì strappandola all’affetto di tutti. Ma il duca chiamò sir Fredrik Manson della fiamma sacra e dopo qualche giorno quel santo cavaliere riportò a corte le corna del drago.
- E la fanciulla?
- Pensi che rapiscano fanciulle giovani per guardarle o tenerle come fantesche?
- Le mangiano?
- Nessuna di loro è tornata purtroppo e il cavaliere non ha trovato resti loro da restituire alla famiglia. Ma perché intristirsi con tali pensieri diletta mia, va nelle scuderie, ti ho fatto una sorpresa.
- Lo stallone! - esclamò lei mentre un’ espressione di meraviglia illuminava il suo volto.
- Va figliola mia ti sta aspettando e sembra impaziente di conoscere la sua nuova padrona.
Alzando le ampie gonne del vestito la ragazza dimentica di ogni sua paura corse alle stalle attraversando di corsa corridoi e scale mentre la servitù si scostava al suo passaggio.
Quando finalmente vide il nero stallone dalle narici fumanti che nitriva e si impennava scuotendo gli stallieri che cercavano di tenerlo fermo, rimase estasiata a guardarlo.
Nero come la pece, coi muscoli che fremevano sotto il pelo lucido di sudore, un simbolo di indomita forza. Lo adorò al primo sguardo rimanendo immobile a ammirarlo rapita dalla sua bellezza e proprio allora il drago la rapì.
Un urlo straziante le uscì dalla gola, in un attimo la sua vita era finita e a un ennesima stretta dei suoi artigli svenne e il suo corpo si abbandonò alla crudele presa.
Si risvegliò in un antro poco illuminato pieno di pinnacoli di roccia. I rossi occhi del drago la fissavano.
Si guardò attorno per cercare una via di fuga ma il drago spinse le ali attorno a lei bloccandola.
- Tu morirai perfido drago! - gli urlò contro – Mio padre Chiamerà sir Fredrik e le tue corna verranno appese nella sala del trono! - concluse con la voce strozzata dalla paura.
- Sono già qua! - tuonò una voce facendo voltare di scatto il drago che acquattò il muso a terra pronto a scattare contro l’intruso che osava disturbarlo.
Anche lei lo vide alto e forte nella sua corazza scintillante e gettò un grido di gioia. Il drago non l’aveva ancora mangiata, forse si sarebbe salvata.
Il possente animale ruggì al cavaliere e scattò come una molla compressa lanciandosi contro di lui con la bocca spalancata.
Stesa sulla nuda roccia la fanciulla si ritirò in un anfratto terrorizzata ma anche esultante, il cavaliere era venuto a salvarla.
Il cavaliere scattò di lato mandando a vuoto le fauci del drago e la sua spada si abbatté sul collo del perfido rettile in una pioggia di scintille.
L’animale urlò di dolore quasi come un uomo ma si erse in tutta la sua statura e si avventò di nuovo con tutta la sua furia, ma ancora le sue fauci mancarono la presa.
- Vieni vecchio – urlò il cavaliere – vieni, ti scalderò con la mia fiamma ardente. - e la sua spada si ricoprì di fiamme risplendenti.
Il drago si fermò come paralizzato e arretrò di fronte alla spada fiammeggiante fino a che le pareti della grotta non lo bloccarono.
- Troppo hai vissuto indegno animale è ora di morire. - disse il cavaliere gettandosi contro di lui come una lancia umana fino a trafiggerli il petto.
Con un orribile lamento il drago portò le ali al petto cercando di estrarre la spada dalla sua carne ma le fiamme lo coprirono bruciando ogni centimetro della sua carne.
Dopo un’ultima contorsione il drago cadde a terra continuando a bruciare tra i lamenti fino a che rimase immobile a terra continuando a fumare come un tizzone spento male.
Il cavaliere recuperò la spada estraendola ancora fumante dal suo petto e con pochi colpi decisi staccò le corna dalla sua testa mentre la fanciulla con un sorriso smagliante si avvicinava a lui felice di essere stata la prima donzella rapita a essere salvata dal cavaliere.
- Grazie mio prode – disse guardandolo come se fosse un angelo – Mio padre ti coprirà d’oro per questa impresa.
- Si, lo so come hanno già fatto in tanti quando gli porterò le sue corna.
- Lascia pure le sue corna mio eroe, il dono più grande che farai a mio padre sarà riportare la sua diletta a casa.
- Dovranno bastargli le corna, tesoro mio che del suo oro nulla mi importa.
La fanciulla si bloccò come fosse una statua, qualcosa non tornava nelle sue parole e lo fissò muta e terrorizzata.
- Sei tu il mio premio dolcezza – disse il cavaliere affondando la spada nel suo petto mentre lei lo guardava con gli occhi sbarrati – il mio cibo preferito.
Tanto la colpa se la prendono sempre i draghi, pensò tra se mentre il suo corpo gli si afflosciava tra le braccia.
Bene bene, pensò, ora però devo trovarne un altro di questi bestioni, sono diventati rari. Mi sa che dovrò aspettare parecchio prima di mangiare un’altra delizia come questa e iniziò a dividere il corpo in quarti molto più comodi da arrostire.
Autore presente nei seguenti ebook di BraviAutori.it:
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Daniele Missiroli
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Daniele Missiroli »

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I cavalieri non esistono

Accenditi maledetto! Questo computer fa i capricci tutte le volte che mi serve. Dovrò decidermi a comprarne uno nuovo, prima o poi. Ma che sto dicendo? Questo l'ho pagato più di tre milioni, chissà quanto costano, adesso che c'è l'euro.
Oh, finalmente è partito.
Per prima cosa devo scrivere l'articolo per Chiara sui cavalieri, perché mi ha detto che c'è una scadenza. Leggiamo la sua mail: “…va spedito alla redazione entro le otto di domenica 29 ottobre 2017”. Ma è domani, porca puttana! E me lo dici adesso, Chiara?
Ora butto giù due cartelle e poi le spedisco a nome suo, così facciamo in tempo.
L’argomento però è assurdo: non esistono più i cavalieri. Vediamo la mia amica Wiki.
"Chi sta a cavallo, chi va a cavallo". Grazie Wiki, non ci sarei mai arrivato da solo!
“Cavalier errante... Cavalier servente... Cavaliere senza macchia e senza paura”. Niente di utile, porca miseria! Ci sono altre mail urgenti?

Mia sorella Franca mi ha mandato il curriculum da aggiustare, perché vuole cambiare lavoro. Fa bene, lei merita di più. Però ha scritto solo mezza pagina, porca vacca. Lei è bravissima in amministrazione e conosce tre lingue. Sono tre o quattro? Beh, lo spagnolo un po’ lo parla perché è stata tre mesi a Ibiza come animatrice, mentre inglese e francese li ha proprio studiati a scuola. Quattro lingue: fanculo!
Ecco qua: curriculum europeo standard, consenso privacy, foto di qualche anno fa e già spedito a tutti i responsabili del personale che conosco. Così lo trova di sicuro un lavoro migliore. Torniamo al problema di Chiara.
Mmm... potrei partire da Lancillotto. Chi è stato più cavaliere di lui? Vediamo... no, qui dice che si è fatto Ginevra. Non credo sia una cosa nobile scoparsi la moglie del re.
Ora che ci penso, anche a Gloria, la mia vicina di casa, è capitata una cosa simile.
Me l'ha rivelato la scorsa settimana, quando l'ho portata fuori a cena. Non ha resistito alla corte di un collega e il marito l'ha lasciata. A me è dispiaciuto molto, perché è una brava donna, anche se mi considera un po' svitato. Quando le ho aperto la portiera per farla salire, mi ha guardato sbalordita come davanti a un maniaco che apre l'impermeabile. Per fortuna c'era una fogliolina sul teppetino. Io l'ho tolta e lei ha creduto che l'avessi fatto solo per quello. Ops, sta per scadere il mese e stavo dimenticando i bonifici.

Ecco qua: uno per Julia, in Ecuador e uno per Amina, in Etiopia. Benedette le adozioni a distanza. Temo però di aver esaurito la pensione: guardiamo il conto. Infatti, mi restano solo due euro. Meno male che siamo alla fine del mese. Puoi reggere tre giorni razionando quello che c'è in frigo, vero Mario? I cavalieri, dicevamo...
"Titolo nobiliare, ereditario e anche relativo al lavoro”. Ci sono: posso parlare dei Cavalieri del Lavoro. "Devono aver avuto una specchiata condotta civile e sociale e aver lavorato con responsabilità, correttezza, onestà, eccetera”. C'è anche la lista di chi ha meritato il titolo. Cosa, sarebbero questi? Dev'essere uno scherzo. Correttezza e onestà, certo!

Accidenti, è arrivata anche una mail da parte della mia oncologa. Vuole fissare un nuovo appuntamento? Le rispondo subito: "Anna, non possiamo continuare a vederci con questa scusa: alla fine il Servizio Sanitario lo capirà che mi hai guarito!"
Certo che se lassù qualcuno mi avesse amato davvero, come recita il titolo di quel famoso film, mi sarei risparmiato la sclerosi multipla a trent’anni e il linfoma a quaranta. Beh, almeno mille euro di pensione me li hanno dati senza rompere le palle: consoliamoci così.
La dottoressa termina dicendo che sua figlia, a quindici anni, ha già scritto un libro. "Come cucinare quello che vi hanno proibito di mangiare". Che simpatica: vediamo un po'. Eccolo su Amazon a 1,99. Lo compro e gli faccio subito una recensione stupenda: i giovani vanno incoraggiati. Torniamo ai cavalieri...

Purtroppo sono una razza estinta, come si può scrivere di qualcosa che non esiste?
Potrei parlare di Tex. Era un cavaliere pure lui e io ho tutta la collezione.
No, se mi metto a leggere una storia di Tex, faccio mattina. Che ore saranno?
L'orologio del PC dice che sono le ore zero del primo gennaio 1980. Sarà finita la pila. Non durano niente: l'ho cambiata meno di dieci anni fa! Dovrei andare fino in bagno a guardare l'orologio, ma non ho voglia di cavalcare di nuovo la sedia a rotelle. Ci sto tutto il giorno, porca troia. Quando sto al computer, almeno posso stendere le mie inutili gambe sul divano. Torniamo a bomba: devo scrivere un articolo sui cavalieri e lo scriverò, porca puttana. Sono uno scrittore o no? Mmm... no, in effetti non lo sono. Mi piacerebbe esserlo, ma scrivere è un’altra cosa. Però lo ammetto solo con me stesso, fanculo!

È arrivata un'altra mail: chi rompe a quest'ora di notte?
Suor Maria, dovevo immaginarlo.
Mi chiede se oggi posso andare ad aiutarla a distribuire il pranzo alla mensa dei poveri. “Certo, non mancherò”. Che ridere, quando mi spiegò che il rubinetto del lavello aveva smesso di perdere per merito delle sue preghiere.
"Tu non ci crederai" mi disse il mese scorso "ma il rubinetto non perde più perché Dio mi ama". Non sapeva che l'avevo riparato io di nascosto, e non glielo dirò mai. Comunque, potrebbe aver ragione. Forse sono stato uno strumento inconsapevole nelle mani di Dio, chi può dirlo? Ora però tocca al forno. La gomma del gas è logora: meglio che le porti la mia, tanto non lo uso più.

I cavalieri... il cavallo nella storia... ecco fatto: articolo completato e spedito.
Andiamo in bagno, non la tengo più, maledetta prostata.
Mentre sto provando una delle migliori sensazioni che mi restano, guardo l'orologio.
Le otto e mezzo, porca miseria, ho fatto tardi.
No, aspetta... sia benedetta l'ora solare. Devo far dire una preghiera in più a suor Maria.
Enrico Gallerati
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Enrico Gallerati »

L'ULTIMO SPETTACOLO


Avevo appena compiuto tredici anni. Ricordo quella giornata, certo come farei a dimenticarla. La carovana del circo stava procedendo per fare tappa a Piacenza. Avevo nell'anima mille fiori che stavano per germogliare; ogni volta che facevamo tappa nella mia città natale ero colta da turbamenti. La mia vita era come una luce spenta, una luce che si era smorzata all'improvviso lasciandomi in un immenso buio, e solo quando tornavo a Piacenza rivedevo quella luce, e anche se pareva al centro di un oceano sconfinato c'era!
La carovana si muoveva lungo la strada. Io ero sul camion con Coco. Ero ancora innamorata di lui, e lui mi regalava la sua bella mascolinità, i suoi occhi neri intensi erano per me prati dove correre e sognare. Mi piaceva il suo sorriso largo libero da imbarazzi. Come il suo modo di guidare un po' dinoccolato, però sempre con quella sicurezza che gli fluttuava su da ogni vena del suo corpo un po' selvaggio.
I suoi però erano tutti regali che mi ossigenavano il cuore, ma alla fine da lui non ottenevo nulla, a pensarci ora mi sento una stupida, cosa avrei voluto fare a quattordici anni?
Mentre viaggiavamo sul tir bello molleggiato discorrevamo dei vari luoghi che avevamo visitato.
Avevamo sentito l'identità di ogni territorio, ne avevamo conosciuto piccoli ritagli, perché noi circensi appartenevamo alla polvere, alle bandierine appese ai tiranti del tendone, appartenevamo agli animali, al cielo che seguiva i nostri continui spostamenti, appartenevamo agli occhi innocenti dei bambini. Appartenevamo al circo, era lui la nostra città residenza.
Nonostante ciò ho molti ricordi dei luoghi visitati. Sono tutti frammenti, piccoli, minuscoli, come granelli di sabbia. Oggi quei vissuti sono tra i pensieri più sereni che ho, sono leggeri e amo rievocarli prima d'addormentarmi, m'infondono sempre una dolce serenità.

Ogni volta che piegavamo i nostro tendone e i lunghi tralicci e li caricavamo sui tir era una nuova storia di vita, il nostro era un vagabondare senza pace.
Ricordo quando facemmo tappa per la prima volta a Piacenza. Avevamo montato il circo in un anonimo piazzale, il cielo era incolore, era autunno e si sentiva l'odore di figlie morte.
Mentre montavano con gesti esperti e un po' annoiati l'arena io avevo preso la bicicletta ad ero partita per fare un giretto, ma non sapevo che in realtà poco dopo avrei fatto un viaggio attraverso il mio passato.
Ero giunta davanti al palazzo della casa famiglia dove avevo vissuto per più di un anno.
Ora era completamente disabitato.
Ero entrata, la porta era aperta. Le gradi finestre mi ricordavano le malinconie, i pianti. I miei passi rimbombavano in quel silenzio pieno di piccole storie. Mi sembrava di risentire le voci delle suore, ricordavo le tante sculacciate, quelle dita come bastoni lasciavano lividi bluastri sulle natiche.
Ad un certo punto sentivo un forte fastidio alla luce, era come se la luce che penetrava dalle finestre fosse quasi divina, una luce che non si poteva guardare.
Solo dopo qualche giorno capii che le divinità con quella luce abbagliante non centravano nulla, per ironia di sorte la tappa a Piacenza chiuse per sempre la mia avventura con il circo, e a pensarci ancora oggi mi si stringe il cuore.
Pedalavo cercando di respirare la mia città natale.
All’improvviso d’istinto mi fermai; avevo sentito un’emozione farsi strada nel mio corpo. Ero davanti ad un edifico solitario, era abitata solo al piano inferiore ed era poco distate dai binari ferroviari. Sentivo l'odore della massicciata. Brividi mi percorrevano la pelle come piccole zampe di ragno.
Immagini sbocciavano lì davanti a quell'edificio dalle finestre spalancate. Rievocavo dei gatti, e io che giocavo con loro; uno era completamente nero e aveva uno sguardo lunare.
Vedevo il volto di mia madre, bionda con il suo viso da valchiria. Ero in una stanza che dava sulle rotaie della ferrovia, uguali in tutto e per tutto a quelle che avevo davanti.
Mia madre mi raccontava delle filastrocche, ma non erano in italiano, erano in rumeno e poi me le traduceva in italiano. Lo faceva con pazienza, e quell'amore che poi non ho più trovato. Ora piangevo, il ricordo di mai madre era un viaggio verso ciò che dovevo essere e poi non sono stata.
Sentivo le parole di mia madre: il tempo viene, il tempo va, diceva piegando la testa ora qua ora là, intanto mi guardava con un fare forzatamente puerile che mi faceva ridere.
Ero certa, mia madre mi aveva voluto tanto bene, e mi era rimasta la sua meravigliosa energia dentro, era un sentimento incondizionato che sarebbe resistito fino all'ultimo mio respiro.
Ora vedevo la luce della televisione, si rifletteva sul muro della cameretta, io ero con gli occhi aperti a guardare quegli strani colori sul muro.
Udivo mio padre parlare, la sua voce m’infondeva serenità, e poi mi coricavo nel letto, alzavo le coperte fino al mento, e poi mia madre era apparsa, con la su luce, mi aveva dato un bacio sul naso, e mi aveva chiesto se avevo freddo.
Ricordavo l'odore delle candele, e i gatti che si lasciavano cadere morbidamente accanto a me; nella penombra i loro occhi che riflettevano come gemme.
Vedevo la lavatrice che vibrava con l'adesivo dell'elefantino. La ferrovia immersa nella nebbia, e i treni che s’infilavano dentro quella densa nube, lasciando il loro saluto, un fischio che entrava dentro il cuore e spariva malinconico portando altre vite che non avrei mai incontrato.
Tornai a pedalare, non sapevo se tutta quell’eruzione di ricordi avevano una logica o se erano solo suggestione. Certo era che ero sconvolta; la mia famiglia naturale mi era apparsa reale come non mai.
Era tardi, mi cambiai ed entrai in pista. Iniziai a fare la prima verticale, poi il lancio dei coltelli, sempre a pochi centimetri dal mio corpo, dal viso, per me era ormai come bere un tè, sentivo quei colpi sordi e gli applausi punto e basta.
Fare e rifare un esercizio centinaia e centinaia di volte, seppur difficile, seppur pericoloso, porta a una sorte di coperta che ti avvolge e tu vivi dentro quella ovatta che non ti fa provare più nessuna emozione.
Così mi stavo stufando di fare la sagoma equilibrista, ero alla ricerca di qualcosa di nuovo, di ritrovare quei brividi feroci.
Il numero era ormai un’icona del nostro circo, per cui la mia famiglia aveva deciso che non andava toccato, io dovevo fare quello forse per il resto della mia vita?
Oggi, che sono sorda e mezza malandata tornerei volentieri a fare quegli equilibrismi, ma allora non avrei mai immaginato che quell'esercizio sarebbe stato l'ultimo della mia vita.
Coco fece manovra e posizionò il camion tra gli altri tutti colorati con la livrea argento del circo.
Non riuscivo a non scrutare il suo fuoco, il suo pulsare sensuale.
Dopo il mio esercizio mi sentivo stranamente stanchissima, così andai alla roulotte a stendermi un po'. Poco dopo mi sentivo la nausea, e poi avevo anche i brividi. Il giorno dopo avevo la febbre alta, così rimasi nella roulotte tutto il giorno e anche quello successivo, ero convinta che fosse una semplice influenza.
Ma poi il giorno seguente, almeno questo fu ciò che disse la mia matrigna, non riconoscevo più le persone e facevo dei discorsi senza senso. Mi portarono al pronto soccorso, io non ricordo assolutamente nulla di quegli eventi.
Rimasi all'ospedale per accertamenti per diversi giorni. Proprio quando sembrava andasse meglio mi fu diagnosticata una brutta meningite. Prendevo i sulfamidici a base di antibiotici, ma nonostante le cure presto iniziai a peggiorare fino a entrare in coma. Sono stata due mesi in quel buio, Coco era l'unico che è rimasto a Piacenza a sentire il battere del mio piccolo cuore. Metteva la mano sopra il mio petto e ascoltava il cuore che batteva, e poi diceva: - piccola non morire, non morire -.
Stava ore e ore con la sua calda mano sul mio petto, ascoltando il suono della vita, mi disse che assomigliava allo scorrere di un debole ruscello.
Coco aveva guardato tutti i tralicci carichi sui camion, e poi gli autisti avevano messo in moto, poi come un giorno qualunque il convoglio si era mosso, ma Coco era con gli occhi pieni di lacrime che guardava il parabrezza, il camion fermo lì.
Mio padre era sceso la jeep e gli aveva domandato se aveva dei problemi al camion, lui aveva risposto con la voce rotta: - Cloe? Stiamo lasciando da sola Cloe -
- Ma cosa dici, la stanno curando, non è sola. E poi noi cosa dovremmo fare? Non abbiamo nemmeno il permesso di fermarci, e poi io ho sulle spalle tante famiglie, e non guardarmi così diamine! Cosa dovrei fare? -
- Dovresti stare qua, tu e tua moglie, ecco cosa dovreste fare, c'è vostra figlia in coma, come potete pensare di andarvene come se niente fosse? -
Mio padre si era voltato, poi con un cenno di mano aveva fatto cenno di partire.
- Coco tu non sai cosa vuol dire avere un circo, la mia famiglia siete tutti voi, sarei un egoista se rimanessi qua -
Così la fila di camion si era messa in viaggio, ma Coco era rimasto fermo, aveva deciso che io in quel momento avevo davvero bisogno di qualcuno accanto, questo fu quello che fece, rimase pazientemente accanto ad un corpo spento.


Veniva a trovarmi tutti i giorni. Mi metteva la sua mano calda sul petto, poi parlava mentre dal suo viso piano di coraggio era inondato dalle lacrime.
Ricordo che aprii gli occhi, sentivo un fischio dentro il cervello, la prima cosa che vidi fu il viso di Coco che muoveva la bocca ma non sentivo nulla, ero come sott'acqua.
Poco dopo vidi tante persone intorno, altre bocche che si muovevano ma da lì usciva solo silenzio.
Ero tornata alla vita, scianca e senza udito ma ero viva.
Mio padre e mia madre erano riapparsi, mi guardavano con un senso di pietà, impauriti all'idea di sobbarcarsi un essere ormai inutile.
Parlavano con mezze parole, facendomi capire che il circo non era più adatto alla mia nuova situazione. Mi dicevano che potevo tornare alla casa famiglia, anche se io sapevo che manco esisteva più.
Mi era montata un forte senso di ribrezzo verso di loro, così avevo deciso che mai e poi mai sarei tornata a vivere con i miei genitori adottivi, cosa avrei fatto però allora non lo sapevo.

Così passai un anno nella roulotte di Coco, mi accudiva come fossi stata una figlia. Ero rimasta sorda e avevo pure avuto due ictus, per cui mezza parte del mio corpo era rimasta paralizzata.
Coco mi scrutava con i suoi grandi occhi audaci, mi toccava le parti rimaste paraplegiche come per volerle riattivare, si vedeva che soffriva, forse anche più di me.
Lo vedevo piangere spesso, con le mani sul viso.
Le sue premure non sono mai forzate, gli viene tutto naturale. Lui riesce sempre a ridimensionare la parola dolore, il suo sorriso, il suo modo di fare mi vestono con un abito leggero che il vento solleva facilmente.
Io amo Coco e forse lui ama me, anche se la cosa non ha alcun senso.
I volti dei miei genitori, la casa ai piedi della ferrovia, i gatti, tutto scomparso nel mistero. Quell'energia che mi fa aprire le braccia alla vita che mi ha lasciato in eredità mia madre e avvolto dentro una nebbia impenetrabile, solo nei sogni si dirada regalandomi l'emozione della sua voce, dei suoi occhi, del suo sorriso.
Ora piove. Il vetro della roulotte e pieno di gocce trasparenti che scivolano luccicanti.
Coco sta dormendo. Ho il desiderio di toccare il suo torso nudo, di agganciarmi a lui in un’eterna giostra del sesso e della vita.
Tutte le foto della mia vita mi appaiono nel cielo rigato dalla pioggia, nel paesaggio triste privo di colori scorre il mio passato.
È lì appeso nel mezzo del cielo minaccioso. Sono tante storie, scorrono piano piano per poi essere trasportate via del vento.
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Alberto Tivoli
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Alberto Tivoli »

CON MACCHIA E CON PAURA
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Mi serve un pezzo di deserto per riuscire a tornare. Un pezzo che possa racchiudere la carezza dell’alba che sopraggiunge alla mia sinistra, che non si infranga quando i riflessi scoppieranno prepotenti, come i nostri corpi, quando ci amavamo le prime volte, assaltandoci con un infinito rispetto e con una generosità che ormai dovrà bastarci per tutta la vita.
Mi serve un pezzo di deserto in cui racchiudere gli anni che non avremo più insieme, senza una forma definita, affinché tutte le possibilità possano coesistere ergendosi in guglie o sprofondando in depressioni o avviluppandosi in spirali alcaline.
Mi serve un pezzo di deserto che non si trova tra la sabbia grossolana e grigia, che ora il sole australe lecca come se fosse caramello rappreso. L’informe che cerco è nelle valli all’ombra delle Ande che lacrimano il loro sale nel Salar, fra la Valle della Luna, tanto aliena quanto io e lei siamo diventati, e La laguna Chaxa, secca, fredda, ostile, ma viva del rosa e dei canti dei fenicotteri in corsa di decollo, con le zampe che emergono dalla bassa acqua stagnante facendo ricascare gocce pesanti e trasparenti come lacrime. Il nucleo deve essere nato dal Licancabur, espulso al calor rosso dalla violenza che rompe il granito più duro, baluginante tra le nevi che ammantano il vulcano a cavallo di due mondi.
Mi serve un pezzo di deserto perfetto. Perché, con macchia e con paura, dovrà accadere come l’ho immaginato, come so che lei vorrebbe che sia.
– Perciò, adesso scendiamo.
– Per di qua? Dritto per dritto? Mi sembra davvero ripido e insicuro.
Dina ha ragione. Il pianoro dove abbiamo passato la notte, dove l’ho guardata muoversi su di me con i suoi capelli che sferzavano l’aria unendosi alle nubi di Magellano, si unisce al Salar precipitando con un declivio ripido, non intaccato da sentieri battuti. Continua a parlare, descrivendo in decine di modi come un pendio possa essere friabile e infido. Dina studia italiano a San Paolo e vorrebbe tornare con me nel paese da cui è partito il bisnonno. È la ragazza più diligente che abbia mai conosciuto, smette di parlare in italiano solo quando facciamo l’amore, in quel caso si limita a sussurrarmi qualcosa in portoghese, rari ordini per me incomprensibili ma a cui, incosapevolmente, obbedisco, riuscendo a soddisfarla. Il pezzo di deserto che mi serve non è per lei, non cercherò mai un pezzo di deserto per lei.
– Se hai paura, puoi aspettarmi qui, o tornare a San Pedro. Potresti comprare qualche gioiello in rame e crisocolla da quella ragazza amica dei rasta, quella tatuata con la piccina che le sbava sulla spalla.
– Voglio venire con te. – Dina sgrana gli occhi, grandi, castani, curiosamente orientali all’insù. – Desidero accompagnarti. Ho il dovere di scortarti. – Sorride con canini vampireschi e adorabili, le lentiggini d’ottone si concentrano sulla cima delle gote spremute sugli zigomi. Com’è brava a parlare italiano. Com’è solerte a esercitarsi. E riempie il vuoto dei miei silenzi, senza sospettare che nella mia mente il rumore esplode in uno spettro di frequenze caotiche.
E allora gli scarponi triturano il terreno, le braccia mulinano per farci riguadagnare l’equilibrio. E ridiamo anche, perché sbatto il culo a terra, perché Dina mi salta sulla schiena e io la faccio correre come un’amazzone lungo il Salar. Poi silenzio. Scruto, tocco, ritorno sui miei passi, mi lancio in avanti, esamino, scarto e Dina accantona per me.
Questo è il pezzo di deserto che mi serve. Dina ci passa sopra le dita, si ferma e mi guarda, e poi continua a carezzare le asperità di questa minuscola scaglia di derma cileno.
– Piano – raccomanda a bassa voce – non bisogna consumarlo. – Osserva preoccupata la polvere di sale che le macchia i polpastrelli.
– Ti piace?
– È bellissimo. È adorabile. È meraviglioso!
È terribile che non sia per te, Dina, mia dolce amica. Come posso deluderla così?
– Per chi è? – Chiede e mi salva. Perché mi conosce da poco, perché non ho avuto abbastanza tempo per farle del male. Perché la nostra è solo un’intimità di carne. Un pezzo di deserto sarebbe inopportuno, incongruo.
– L’ho abbandonata nella malattia.
Dina si trasforma. Mi osserva con un’espressione vecchia, che aleggia di fronte al suo viso da ragazza, sfumandolo mentre fuoriesce dagli occhi, dal naso e dalle orecchie. Le labbra serrate si schiudono, si muovono senza emettere un suono e poi lasciano suonare parole roche: – Lei piangerà sopra questa pietra.
– Le lacrime scioglieranno il sale. – La guardo. In qualche modo sta capendo.
– E la rimodelleranno. Per te e per lei, per voi riuniti.
Il vento soffia freddo sul deserto di Acatama ma la tenerezza di Dina mi infuoca dentro, come il magma che scorre nelle profondità di questa terra e che preme, preme per uscire in superficie, così salto in piedi lanciando un urlo disperato, uno sbuffo di bollente vapore.
– Perciò, adesso dobbiamo tornare – constata Dina, gli occhi rivolti a terra e un lieve imbarazzo disegnato sulla bocca. – Tu dovrai affrontare il tuo viaggio per... come si dice?... per redimerti e salvarla! E io, semplicemente, me ne tornerò a casa, sperando di non incontrare mai nessuno a cui servirà di trovare un pezzo di deserto per me.
L’ultimo saluto a Dina, la mano schiacciata contro il lunotto posteriore del taxi. La polvere alzata dall’auto, che accelera lungo la strada in terra battuta di San Pedro, offusca la figura di Dina. Ne intuisco i fianchi snelli, i capelli lisci e lunghi, le orecchie un po’ a punta, la mano, dalle dita incredibilmente lunghe e sottili, mi saluta accompagnando un addio, e forse una benedizione recitata in un portoghese stranamente musicale. La mia giovane e saggia amica, che crede in una favola in cui il cavaliere con macchia e con paura vincerà grazie alla fede nell’impossibile.
E forse ha ragione lei. Purché abbia reso magico il mio pezzo di deserto.
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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Bacchisio »

Ciao a tutti,
è una ottima idea scrivere dei brevi racconti e confrontarsi tra i vari membri del forum.
Spero non finiscano qua!
Saluti a tutti.


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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Ida Dainese »

Bacchisio ha scritto: 27/08/2018, 15:37 Ciao a tutti,
è una ottima idea scrivere dei brevi racconti e confrontarsi tra i vari membri del forum.
Spero non finiscano qua!
Ciao a te! :smt039
Certo che non l'abbiamo finita qua. Le Gare sono continuate fino alla n° 70.
E ora si sono trasformate nelle Gare Stagionali: https://www.braviautori.it/gare

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Re: Gara 67 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Massimo Baglione »

Oh yeah! :-)
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I sogni di Titano

Il "cubo sognatore" su Titano aveva rivelato una verità sconvolgente sull'Umanità, sulla Galassia e, in definitiva, sull'intero Universo, una verità capace di suscitare interrogativi sufficienti per una vita intera. Come poteva essere bonariamente digerito il concetto che la nostra civiltà, la nostra tecnologia e tutto ciò che riguardava l'Umanità… non esisteva?
"Siamo solo… i sogni di Titano", aveva riportato il comandante Sylvia Harrison dopo il primo contatto col cubo, ma in che modo avrebbe potuto l'orgoglio dell'Uomo accettarlo? Ovviamente, l'insaziabile sete di conoscenza dell'Essere umano anelava delle risposte, e la sua naturale curiosità non poteva che spingerlo alla ricerca dell'origine del cubo e delle ragioni della sua peculiare funzione.
Gli autori GLAUCO De BONA (vincitore del Premio Urania 2013) e MASSIMO BAGLIONE (amministratore di BraviAutori.it) vi presentano una versione alternativa del "Tutto" che vi lascerà senza parole. Di Glauco De Bona e Massimo Baglione.

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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.



Cuori di fiele

Cuori di fiele

antologia di opere ispirate all'ineluttabile tormento

A cura di Roberto Virdo'.

Contiene opere di: nwMarcello Rizza, nwIda Daneri, nwFrancesca Paolucci, nwEnrico Teodorani, nwMario Flammia, Francesca La Froscia, nwIbbor OB, nwAlessandro Mazzi, Marco Fusi, nwPeter Hubscher, Marco Pugacioff, Giacomo Baù, Essea, Francesco Pino, nwFranco Giori, nwUmberto Pasqui, Giacomo Maccari, nwAnnamaria Ricco, Monica Galli, nwNicolandrea Riccio, nwAndrea Teodorani, nwAndr60.

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