Gara 70 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
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Lodovico
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Gara 70 - Bando e racconti

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TROPPO TARDI

Capita nella vita che arrivi un giorno in cui ci si renda conto di essere arrivati “troppo tardi”. Di avere mancato un appuntamento fondamentale, di essersi fatti scappare l’amore della vita, di avere agito con troppo ritardo ed essersi fatti sfuggire un’opportunità.
E allora ci si pente di non essersi mossi prima e si promette di non partire mai più “troppo tardi”.
Fino alla volta seguente.

Il tema che vi propongo per gara 70 è: “troppo tardi”.

Cosa, voi o i vostri personaggi, avete fatto “troppo tardi”? Avete perso l’aereo e poi vi siete resi conto che la data è l’undici settembre 2001? Avete rivisto quella biondina del banco a fianco che era bellissima a sedici anni e ora, a quaranta, è "ancora più bellissima", ma sposata? Avete preparato il racconto per gara 70 e poi pensato: “lo posto domani” fino al giorno successivo alla scadenza?

Le battaglie perdute si riassumono in due parole: troppo tardi.
(Douglas MacArthur)

Regole:
Valgono tutte le regole ufficiali, che trovate qui:
viewtopic.php?f=80&t=2308

Riassumendo:
- lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%;
- chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio; in caso contrario verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione;
- ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in apertura del brano;
- voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5);
- i racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

I racconti potranno essere postati come risposta a questo messaggio fino alla mezzanotte del 30 aprile 2018.
I commenti e i voti dovranno invece essere postati dal 1 Maggio fino alla mezzanotte del 15 Maggio 2018 a questo link: viewtopic.php?f=80&t=5203

Chi vincerà avrà l’onore e l’onere di organizzare la gara successiva.
I premi saranno:
1. Pubblicazione dei racconti in digitale, con il consueto e-book.
2. Il vincitore otterrà un abbonamento di 10 euro grazie al quale saranno scaricabili gli ebook integrali (pdf o epub) delle nostre pubblicazioni cartacee (vedi post "I premi delle gare" qui: viewtopic.php?f=80&t=2472
3. L'attestato stampabile che attesta la vittoria.
4. Nel caso in cui si abbia una buona partecipazione di concorrenti, con tutti i racconti sarà creato un libro acquistabile (per un periodo di tempo limitato) il cui ricavato andrà devoluto a BraviAutori.
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Roberto Bonfanti
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Re: Gara 70 - Bando e racconti

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FALTOGNANO, TEXAS

“Ma tu quanti anni hai?” mi chiese la ragazzina con il gelato in mano, seduta accanto a me.
Mi voltai in tempo per cogliere quel sorrisetto malizioso sotto i suoi occhi grandi e svegli e i suoi capelli neri, lisci e tutto il resto.
“Troppi.” dissi: ne avevo ventiquattro e lei dodici, ed era cotta di me.
Stavo guardando i vecchi che giocavano a poker e bevevano whiskey distillato di contrabbando, li guardavo e non riuscivo a vederli.
Era la Festa del Ringraziamento a Faltognano, Texas: centosettanta anime, quasi tutte nere come l’inferno.
Capitavo spesso da quelle parti, non so perché. Non mi piaceva la gente, il paesaggio, non ero attratto dalla vita bucolica, non mi piacevano le vacche, anzi, quelle in fondo sì, ma solo qualche volta. Forse la verità è che non c’era nessun altro luogo dove andare. Odiavo quel posto ma non riuscivo a starne lontano.
“Sei fidanzato?” riattaccò la ragazzina, con tono apprensivo, come se temesse la risposta, distogliendomi dai miei pensieri.
La lasciai un attimo sulle spine, poi agitai il dito indice in segno di diniego; lei sorrise e i suoi occhi luccicavano.
La festa stava entrando nel vivo, l’orchestrina aveva attaccato una serie di orrendi standard country, la gente ballava, c’erano un paio di tipi vestiti da autentici cowboy di b-movie, quasi tutti lavoravano nei ranch della zona e viaggiavano con enormi e scassatissimi pick-up di seconda mano.
Vidi Nicolette, se ne stava seduta dietro a un banco con la scritta ‘1 Kiss 1 $’; ripensai al nostro ‘love affair’ di un tempo.
“Mi vuoi sposare?” guardai la ragazzina e per un attimo valutai seriamente l’offerta.
“Certo,” dissi, “più tardi però, adesso ho un po’ da fare.” la salutai, presi una sedia e andai a sistemarmi accanto alla bionda.
“Una volta costavi meno,” esordii, “a questi prezzi mi avresti ridotto sul lastrico.”
“Guarda che se stai qui mi rovini gli affari!” disse Nicolette ridendo; era più bella di quanto ricordassi, forse anche più simpatica.
“Come stai?” stava bene, non avevamo molto da dirci.
“Ecco cinque dollari!” guardai il tipo, un vecchio, con la banconota in mano.
“Lei è fuori servizio,” dissi, facendo la migliore faccia da duro che avevo, mentre Nicolette mi dava di gomito, “la sostituisco io.”
“Ehi, amico, non fare il furbo, ho qui cinque dollari e voglio baciare la ragazza, sono anni che...”
“Senti, nonno, ma perché non te li vai a bere i tuoi soldi? Io ho noleggiato la signorina per tutta la sera, non è vero?” questa volta detti io di gomito.
“Sì, sì!” rispose Nicolette in preda alle risa convulse, il vecchio bofonchiò qualcosa e si allontanò.
Baciai la bionda, gratis, e mi alzai, barcollando un poco. Incolpai l’afa soffocante per quella leggera vertigine, non pioveva mai in quel cazzo di posto.
Tornai a guardare i tizi che giocavano a carte e bevevano whiskey; niente da fare, non riuscivo a metterli a fuoco, ma nell’intento almeno non sentivo più l’orchestrina country.
Accanto a me c’era la ragazzina con gli occhi grandi e i capelli neri che aveva preso un altro gelato.
“È ancora valida la tua proposta?” le chiesi.
Lei scosse la testa: “No, non più.”
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
https://chiacchieredistintivorb.blogspot.com/
Intervista su BraviAutori.it: https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =76&t=5384
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Angela Catalini
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Re: Gara 70 - Bando e racconti

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Rimosso dall'utente.
Ultima modifica di Angela Catalini il 12/04/2018, 15:17, modificato 1 volta in totale.
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Patrizia Chini
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Re: Gara 70 - Le due sorelle

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zanze.jpg (11.19 KiB) Visto 4907 volte
Poc è ferma, a riposo. Ha la pancia piena e attacchi di narcolessia ricorrenti.
Ѐ in ansia per il tardivo avviarsi della digestione. Teme che il tempo necessario per concludere il processo sia troppo lungo per lei che non sa contenere i morsi della fame innescati dalla voglia impellente di un nuovo banchetto.
─ Stasera mi sembra che le zanzare non siano entrate… ─ sibila quasi sottovoce Irma, la padrona di casa, a poca distanza da Poc.
La donna passeggia nervosamente, avanti e indietro per la stanza rivolgendosi a Sandro, suo marito mezzo addormentato su un vecchio divano. Irma impugna con la mano destra la racchetta elettrica “fulminazanzare” , brandita a mo’ di arma micidiale con la palese volontà di usarla per il suo fatale effetto: incenerire quella insopportabile categoria di insetti “succhiasangue”.
Sandro fa finta di seguirla nelle sue prolisse dissertazioni
─ Uhmm! ─ non può esimersi dal mugugnare in segno di assenzo a quel che lei dice.
─ Mi stai a sentire? Ti ho detto che stasera non vedo zanzare in giro… ─ ripete Irma, che non la beve e alza la voce.
Al che Sandro si tira su, gira il busto e passa alla posizione seduta. Raddrizza la schiena e cerca di far capire alla moglie chi è il capo di casa:
─ Allora siediti e posa quella maledetta racchetta. Appendila al chiodo che hai voluto sullo stipete della porta e che mi è costato un’unghia schiacciata perché il martello, invece di battere dove doveva, mi ha quasi spappolato l’indice della mano sinistra!
Risposta perentoria di Sandro infastidito per essere stato svegliato per l’ennesima volta dalla moglie che allora, per quieto vivere, tace e va a appendere la racchetta al suo chiodo.
Le voci alte del diverbio tra i due fanno sussultare Pic, sorella di Poc, mentre sta per addormentarsi anche lei per l’ennesimo attacco di narcolessia.
─Devo muovermi, se mi metto in moto mi sveglio. Le membra intorpidite riprendono vitalità, le ali si distendono e io posso spiccare di nuovo il volo ─ pensò la zanzara anche lei abbarbicata su una goccia di cristallo del grande lampadario che illumina il locale dove si trovano, il più ampio della casa.
Le due sono entrambe gravide e hanno sempre fame: devono nutrire le uova che stanno crescendo nel loro addome.
─Allora sorella mia sei pronta per andare di nuovo a caccia?─ incalza Pic alzando di poco il volume della propria voce per essere sicuro che il suo messaggio giunga al destinatario. Poi continua:
─ Poc, non so se hai notato le “tette” di Irma, rotonde, sode, ben irrorate di sangue. “Sangue” che bella parola…non sei d’accordo Poc?─ sussurra Pic che continua a non ricevere risposta.
─ Ma quando torna Claudio? Sempre in ritardo… Sono due ore che è uscito dal lavoro! Sono passate le ventidue, la cena è fredda e mi è quasi passato l’appetito per il nervoso. Ha forse telefonato per avvertire che non veniva diretto a casa? Non mi piacciono gli amici che frequenta al bar. Sono sempre con una bottiglia di birra in mano.─ a parlare questa volta è Sandro.
─ Ehi Pic, hai ragione è tempo di fare un prelievo a questi due così hanno altro da pensare e non parlano male del figlio… tanto brava persona ─ risponde la sorella finalmente vigile.
─ Hai ragione Poc. Claudio è il migliore della famiglia: lavora tutto il giorno e quando torna a casa, mangia, si addormenta sul divano e, a volte, ci dorme tutta la notte.
─ Possiamo pungerlo cento volte… non si sveglia e non cerca di fulminarci con la racchetta. ─ Ribadisce Poc
─ Aspetta sorella, non senti nell’aria dietro alla porta l’odore dolcissimo di acetone, etanolo e metanolo?
─ Sì le sento, queste fragranze sono inconfondibili! Scommetto che è Claudio che sta rientrando… certo che hai un naso! Ancora non è entrato e già avverti il suo odore modificato dall’alcool! ─ sottolinea, non senza un certo orgoglio, Poc.
─ Guarda che ce l’hai anche tu un naso eccezionale in grado di captare anche a trenta metri di distanza le sostanze che sentiamo ora…
─ Allora? Che fai? Vieni con me verso la porta o fai il prelievo a quei due che non hanno neppure il sangue di gruppo 0, che a noi zanzare femmine fecondate piace tanto?
─ E allora? A me piace molto il gruppo A ma sono un’eccezione perchcè non piace a nessuno della nostra specie. Al contrario non digerisco il sangue degli umani che appartengono al gruppo “Zero”... è un problema?
─ Certo che è un problema. Ti devo insegnare tutto? Riconosci che ne so più io di te. Ricordi quando abbiamo fatto indigestione con i prelievi a quella ragazza incinta che riposava seduta su una panchina nel parco?
─ Lo so, lo so che le donne incinte emettono più anidride carbonica di altri essseri umani…
─ Lo sai… lo sai─ la interrompe Poc che essendo nata dieci minuti prima della soprella risulta più anziana e per qusto rede di saperne di più e vorrebbe parlare sempre lei.
La diatriba va avanti e infervorate dalla discussione si spostano con un volo veloce per andare a posarsi sulla parete bianca vicino alla porta.
Sono così prese dalla discussione che non si accorgono che Claudio è entrato nella stanza e ha subito preso in mano la racchetta “magica”.
Ora le fragranze sono intensissime. Pic e Poc ammutoliscono mentre il loro cuore impazzisce per la paura.
Si girano verso la porta… troppo tardi.
La racchetta in mano a Claudio è vicinissima alle loro teste, carica, pronta a fulminare, a cuocere e stecchire le malcapitate che cercano di salvarsi… ma Claudio è più veloce.
─SCHIOC!
─SCHIOC!
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Daniele Missiroli
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Re: Gara 70 - Diabolica idea

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Diabolica idea

– Tenente Bart, cosa abbiamo? – chiese il capitano Ted Foyler, Capo Artificiere dei Reparti Speciali.
– Un 10.89, signore. Un uomo si è asserragliato dentro quella scuola e minaccia di farla saltare.
– Ostaggi?
– All’appello mancano venti bambini e una maestra.
– Maledizione!
– Abbiamo delle immagini, signore.
Ted si avvicinò a un computer e vide un uomo aprire una grossa valigia.
Armeggiò con alcuni congegni e collegò dei fili a una porta sbarrata.
Poi l'immagine sparì: si era accorto di essere ripreso.
– La Squadra Artificieri sta arrivando – disse Bart.
– Non c'è tempo, andrò io.
Il capitano posò la pistola, si mise un auricolare e andò verso l'ingresso.
Appena entrato, udì uno sparo e si gettò a terra.
Si rialzò e si diresse verso la zona da cui era venuta la detonazione.
Il terrorista era a terra e stringeva un foglio in mano.
Ted appoggiò due dita al collo dell'individuo e accertò il suo decesso.
Sul foglio c'era scritto: – Anche tu sarai un assassino. Ci vediamo presto, Foyler!
Mi conoscevi, dannato, pensò Ted.
Controllò la porta: era una REI 120 zincata con cardini d'acciaio.
Impossibile aprirla senza un argano.
I fili erano collegati alla maniglia, alla serratura e ai cardini.
Qualsiasi mossa avrebbe potuto far esplodere la bomba.
Ted aprì la valigia con cautela.
C’era della dinamite, un circuito e un display su cui lesse 15:20.
L'esplosione avrebbe mandato in frantumi la porta e polverizzato tutti quelli all'interno.
– Bart – urlò nell'auricolare – è arrivata la squadra?
– Stanno scaricando l'attrezzatura.
– Voglio il kit B3.
Il capitano bussò alla porta e chiese: – C'è nessuno lì dentro?
– Siamo qui – disse la maestra. – Ha narcotizzato i bambini, ma io ho trattenuto il respiro. Ci aiuti signore, questo magazzino non ha altre uscite.
– Fra poco sarete fuori.
Ted esaminò ancora il dispositivo.
Capì che bastava isolare gli elementi per impedire l’esplosione.
– Eccoci Capitano – dissero due uomini in tuta da artificiere.
Ted strappò loro di mano una borsa e la rovesciò sul pavimento.
L'orologio segnava 12:12.
Trovò le due bombolette che gli servivano e le impugnò.
Spruzzò una schiuma bianca sopra ai chip, aspettò trenta secondi che si solidificasse, poi con un paio di minuscole cesoie tagliò un filo blu.
Il display passò da 11:20 a 6:00.
Maledetto, pensò Ted, hai inserito un secondo sistema sotto il primo!
Con un cacciavite tolse quattro viti dalla scheda elettronica, la sollevò e vide qualcosa di terribile.
C'era del Semtex pigiato in ogni anfratto e un altro circuito.
– Bart, sposta il perimetro a seicento metri.
– Subito signore.
– Voi due uscite! Vivian, ci sei?
– Affermativo.
La donna era la responsabile del laboratorio di Anatomia Patologica.
Il display segnava 5:20.
– Ti sto mandando una foto dei polpastrelli di un uomo.
– Ho sentito che mancano sei minuti, devi uscire subito.
– Quando siamo in servizio non devi darmi del tu, anche se siamo sposati.
– Gloria?
– Ci sono, signore.
– Cerca questo volto nello schedario e dimmi chi è. Mi conosceva.
Ted mandò alle sue colleghe le foto che aveva fatto con il cellulare, mentre il display segnava 4:50.
– Keno!
– Sono sul furgone, signore.
– Cerca gli schemi degli ordigni X7 e Z9.
– Trovati.
Il display segnava 4:10.
– Sovrapponili ed elimina le parti uguali. Mandami la foto.
Keno eseguì l'ordine, Ted vide la foto e sorrise.
Per neutralizzare quel congegno non doveva tagliare fili, ma creare un corto circuito.
Prese due graffette, le aprì, guardò la foto, localizzò i punti esatti e le collocò simultaneamente sulla scheda elettronica.
Una scarica elettrica e del fumo gli confermarono che aveva messo la bomba fuori uso.
Infatti il display si era fermato alle 3:15.
Ora però segnava 1:00.
Staccò febbrilmente anche la seconda scheda e vide che sotto ce n'era una terza.
Più piccola, alimentata solo da tre fili: uno rosso, uno verde e uno giallo.
00:50 – Gloria!
– L’ho trovato: si chiama John Hilmak. Condannato per aver fatto saltare la casa con la moglie dentro, è fuggito il mese scorso…
00:40 La voce di Gloria fu interrotta da quella di Vivian.
– Ti conosce perché era un poliziotto. Voleva entrare...
00:35 Ted prese l'auricolare e lo scagliò via con rabbia.
Aveva trenta secondi per capire come neutralizzare quel marchingegno.
00:30 Poteva tagliare il filo rosso, oppure quello verde.
00:25 Se l'idiota aveva seguito la logica, doveva tagliare quello rosso.
00:20 Se aveva scambiato i colori, doveva tagliare il verde.
00:15 A Ted venne in mente un'alternativa.
00:14 Nel circuito precedente doveva creare un corto, non tagliare un filo.
00:13 A te piace giocare al contrario, pensò.
00:12 Tagliando un filo si crea un calo di tensione e la bomba esplode.
00:11 Dovrei tagliarne uno e poi subito l'altro.
00:10 Ma nessuno può essere così veloce.
00:09 A meno di non fare un ponte con il filo giallo per avere un sovraccarico.
00:08 Anche questo crea l'esplosione, ma ho un secondo di tempo per tagliare il filo giusto.
00:07 Ted prese uno spelafili automatico.
00:06 Scoprì il filo rosso.
00:05 Scoprì il filo giallo.
00:04 Scoprì il filo verde.
00:03 Prese una graffetta.
00:02 Aveva le cesoie nella destra e la graffetta nella sinistra.
00:01 Posò la graffetta sul verde e sul giallo e tagliò il rosso.
00:00

In un altro luogo.
– Ted, hai capito il tuo errore?
– Sì Belial, dovevo ascoltare quello che stava per dirmi Vivian.
– Come ci sei arrivato?
– Non ho sbagliato niente fino a quel punto, quindi penso stesse per dirmi che quel tipo voleva entrare negli artificieri, ma io l'ho bocciato.
– E quindi?
– Aveva studiato la materia, sapeva come ingannarmi. Avrei dovuto fare il contatto fra il giallo e il rosso, mentre tagliavo il verde.
– Ormai è andata così.
– Ho una proposta.
– Non hai niente da offrirmi.
– Dammi solo un secondo di vita e io ti procurerò delle anime. Non so però quante saranno.
– Tu non puoi concedere anime.
– Venti bambini innocenti sono morti. Sono tutti in paradiso.
– Vero.
– Se io li salvo, forse un giorno qualcuno farà qualcosa di cattivo e finirà qui. Non ti sembra una buona idea?
– Diabolica, direi.
E se la bomba non esplode, non morirò nemmeno io, pensò Ted.

00:01 Ted posò la graffetta sul rosso e sul giallo e tagliò il verde.
00:00

– Ted ce l'ha fatta ancora una volta – disse Bart, mentre la maestra usciva in strada con i bambini.
– Era sano come un pesce – dissero gli uomini della Squadra Artificieri. – Un infarto a quarant'anni è proprio una cosa assurda.
E il tenente: – Diabolica, direi.
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Gabriele Ludovici
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Re: Gara 70 - Bando e racconti

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La laurea di Polleunis

A un certo punto, si smarrì completamente. Fino a quel momento era riuscito a separare lucidamente i due apparati d’interpretazione della realtà che teneva in testa. D’altronde, abbiamo o no due emisferi?… ecco, Polleunis non era un esperto di anatomia. Non era un esperto di nulla, a dire il vero.
«Philippe…».
L’uomo ignorò la voce della donna. Spense il televisore, le sue mani sembrarono calamitare dal nulla le chiavi della macchina e un cappello basco di cotone, assolutamente inadatto alla furia che imperversava lì fuori.
Periferia di Ellesbrux, poi centro. Parcheggiò alla stazione, ignorando il volto inquisitorio del vigile urbano, dal momento che aveva abbandonato la vettura in una zona dove non si poteva lasciare nemmeno un monopattino. Polleunis salì sul primo vagone disponibile, allargando le braccia di fronte al controllore.
«Posso fare il biglietto a bordo?».
«Eh sì, ma c’è il supplemento che ammonta a…».
«Non importa».
Gli parve, beffardamente, che per la prima volta negli ultimi venticinque anni di vita fosse riuscito a compiere un’azione che manifestasse una parvenza di prontezza di riflessi.

Il panorama era perfetto per accompagnare i suoi pensieri. Moto ondoso di alberi ingrigiti dalla stagione e pungolati dal maltempo. Venticinque anni prima anche Polleunis era un “moto ondoso”, ma la spensieratezza della sua gioventù si era interrotta bruscamente al cospetto di alcune imponderabili défaillance universitarie. Nel microcosmo dove era vissuto, nessuno si era mai aspettato troppo da lui; ecco, giusto quel pezzo di carta che giustificasse gli strascinati sforzi economici della sua famiglia per mantenerlo a due ore di treno di distanza. Giurisprudenza, Università di Vainlou, un limbo più complesso del previsto. Naufragio al primo anno perso, le labbra serrate di fronte alle richieste più banali. Il libretto degli esami immacolato, improbabile vaso di Pandora sepolto sotto libri altrettanto virginei.
Nella mappa della sua vita, quello fu il punto di non ritorno. Rimase sette anni lì, ufficialmente a far nulla. Mentendo a tutti, sfuggendo clamorosamente agli sguardi distratti e non troppo indagatori del corpo docente. Polleunis c’era, ma non esisteva. L’affittacamere, ad esempio, cosa avrebbe dovuto sospettare? L’età, l’aspetto e i vizi erano quelli di tutti gli altri studenti del posto. Che poi, un segno l’aveva lasciato, al punto da essere ribattezzato “Le roi de Vainlou”, effimero titolo nobiliare conquistato sul campo dell’animazione della vita notturna di quel parco giochi accademico. Nessuno dei compagni di bevute venne sfiorato da un dubbio, d’altronde ci si specchiava nel fondo dei bicchieri per interrompere i pensieri degli esami, non per angosciarsi di più.

Seduto sul treno che lo stava allontanando dal suo incubo peggiore, Polleunis ebbe l’irriverenza di bearsi della propria sghemba astuzia. Ripensò all’espediente utilizzato per simulare la discussione della sua tesi-fantasma, seguita dalla sua non-proclamazione. Bastò comunicare un orario sbagliato a parenti e amici. Nessuno ebbe troppo da obiettare: era opinione comune che la sua dabbenaggine, quell’incipiente sciatteria di modi e l’assenza di segnali che auspicassero un suo ingresso nella vita adulta, beh… fossero dovuti a un’innocua e innata imbecillità di fondo. Tutti amavano sentirsi migliori di Polleunis, in fondo. Creatura alta – ma di bellezza manco mezza, dinoccolata, precocemente stempiata e dall’aspetto avvinazzato, immersa in un perenne sudore oleoso e nervoso.
«Oh Philippe, ma dove hai la testa?».
La testa era già bella che andata. Polleunis era diventato una distrazione vivente e distrattamente, a un anno dalla non-laurea, finì persino per sposarsi. Henrietta, figlia di un’amica della madre, nome hollywoodiano e ambizioni rasoterra.
«Graziosa, timida e intelligente, come te» osservò la donna prima di combinare l’affaire de coeur.
In realtà la giovane non possedeva nessuna di queste caratteristiche, ma era ingenua al punto giusto da poter rientrare nella ristretta cerchia che viveva nel riflesso di quell’impostore. Polleunis, la canaglia, aveva trovato un modesto impiego nell’ala amministrativa di un’azienda che importava ogni cosa dalla Cina. Pochi soldi in cambio di un lavoro elementare, che lui a casa giustificava sempre alla stessa maniera.
«Ho la vocazione, non sono un avvocato mercenario. Difendo i più deboli e spesso preferisco non accettare alcun compenso».
Naturalmente, Polleunis non aveva mai messo piede nell’aula di un tribunale e nella sua elegante valigetta in pelle di coccodrillo teneva solo carte che, in un carattere minuto, riportavano delle transizioni tra Ellesbrux e Canton. Ma per molti, incredibilmente, era diventato l’avvocato Philippe Polleunis.

Fu la precoce indisposizione mentale del padre a spegnere l’idillio. L’uomo, anziano e umiliato dal dover ancora sostenere quel figlio sì generoso, ma probabilmente fin troppo idealista, pregò una delle poche conoscenze importanti che aveva per rimediare una “segnalazione” del figlio presso il prestigioso Studio Legale Van Meir.
«Un tirocinio, almeno inizialmente. Non baderanno alla tua età. D’altronde, dici che vinci tutte le cause ed è ora che tu la smetta di fare il buon Samaritano!».
Polleunis alzò le spalle, sicuro che il padre stesse un po’ delirando. Ma alla Van Meir presero la vicenda abbastanza sul serio. Lessero quello strano curriculum e fecero una verifica. L’avvocato Polleunis formalmente non era mai esistito: che avesse abusato della professione per così tanto tempo?
Se ne parlò al telegiornale, con tanto di invito a presentarsi in questura qualora qualcuno fosse stato raggirato da quel tizio dalla faccia ebete. Polleunis, adottando la cattiva politica dello struzzo, si ritrovò con gli occhi della moglie puntati addosso, e poi su quel treno che sfrecciava nella tempesta. Con un groppo in gola e un sorriso nervoso, spuntato dalla pattumiera della propria anima, capì che non sarebbe mai più potuto tornare indietro.
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Ida Dainese
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Re: Gara 70 - Bando e racconti

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Immagina un’altra vita


L’uomo uscì dalle porte a vetri del palazzo, attraversò la piazza e si diresse verso la fila di panchine all’ombra. Sedette in disparte, lontano dal chiacchierare degli adulti e dal chiasso dei bambini. Passò la mano tra i capelli biondi e allentò un poco la cravatta. Osservò l’edificio sulla sinistra: sulla scalinata sedevano due innamorati, illuminati dal sole.
Non aveva più pensato a lei, a quei giorni trascorsi tra i libri, l’ansia degli esami e la felicità di stare insieme. Prima di partire per l’università in America, le cose erano sembrate facili da gestire, si erano promessi di scrivere tutti i giorni, di tenersi in contatto, di rivedersi presto. All’inizio le lettere di lui erano piene di entusiasmo, descrivevano un ambiente affascinante e studi impegnativi, quelle di lei erano partecipi per il suo successo, felici per il suo futuro.
Poi la lontananza aveva temperato gli animi, i loro impegni diversi avevano succhiato ogni istante, il tempo aveva richiesto altre scelte. Non si erano più rivisti e nemmeno più sentiti.
Undici anni erano passati in un battito di ciglia.
Gli tornarono in mente frammenti del colloquio che aveva appena sostenuto.
— Lei ha delle ottime referenze, ha studiato all’estero, è perfino troppo qualificato per la nostra azienda. Perché è ritornato in Italia?
Una domanda a cui era preparato. La morte dei genitori, un’eredità da gestire, nostalgia di antiche abitudini. Mentre rispondeva alle domande studiava l’uomo che aveva davanti, come stava facendo anche l’altro del resto. Probabilmente aveva una decina d’anni più di lui, quarantadue o quarantatré, portati molto bene. Un tizio sicuro di sé e molto cordiale.
Suppose che la foto sulla scrivania fosse della moglie mentre ne sfiorava il retro con la coda dell’occhio, cercando di immaginare un volto di donna.
Gli sarebbe piaciuto lavorare per quell’uomo, in quell’azienda in espansione, in progetti stimolanti. Era sicuro di aver fatto buona impressione, forse aveva trovato il lavoro giusto e avrebbe lasciato perdere gli altri colloqui già fatti e quelli ancora da fare. Naturalmente non gliel’avrebbero detto subito, ma erano cose che si intuivano.
Cominciava a sentirsi a suo agio. Parlava con l’uomo e ricambiava il suo sguardo, scivolando di tanto in tanto sui libri a sinistra, sui diplomi incorniciati, di nuovo sulla foto della scrivania, sul grande mazzo di rose rosse.
— Sono per mia moglie – aveva detto l’uomo – oggi è il nostro settimo anniversario.
Si scambiarono un sorriso un po’ complice e ripresero la loro conversazione sull’economia nazionale.
Successe alla fine, quando ormai si erano alzati, prima delle battute di commiato e della stretta di mano. Che strano essere così intuitivo da capire la comunicazione non verbale che lo dichiarava scelto per quella posizione e allo stesso tempo non percepire, con un brivido, il sommesso sghignazzare del destino che stava per rivelare le sue carte.
Forse aveva indugiato con lo sguardo più di quanto avesse pensato. L’uomo allungò la mano e girò il ritratto verso di lui:
— La mia famiglia – spiegò con orgoglio e un pizzico di tenerezza.
Così l’aveva scoperto per caso. Lei gli sorrideva da quella foto, elegante, radiosa, seduta su una poltroncina rossa e quell’uomo, lo stesso che era davanti a lui ora, era in piedi vicino a lei e le teneva una mano sulla spalla, lasciando che i suoi capelli gli sfiorassero le dita.
Si era sposata. Era sua moglie.
Prese la foto incorniciata che l’altro gli porgeva, attento a non lasciar trapelare alcuna esitazione.
L’altra mano dell’uomo era posata sul braccio di una ragazzina bionda che inclinava leggermente la testa verso di lui.
Restituì il ritratto complimentandosi con cortesia.
Era così concentrato a non lasciarsi sfuggire neppure un gemito che non ricordava di essersi congedato, di aver salutato la segretaria, di aver preso l’ascensore, di essere uscito.
In qualche modo aveva raggiunto quella panchina e aveva ripreso a respirare.
Sette anni, era sposata da sette anni, ma la ragazzina ne aveva almeno dieci e aveva i capelli biondi come i suoi.
Non gliel’aveva detto. Ma nel caso l’avesse saputo lui avrebbe lasciato l’America o l’avrebbe invitata a vivere con sé? Non sarebbe stato possibile, doveva essersene resa conto. Era andata avanti con la sua vita, aveva trovato un ottimo marito e un buon padre, si vedeva che lui amava entrambe.
Però, sapere che erano entrambe sue lo feriva più di quanto avesse pensato. Perché, dopo tutto quel tempo? La ragazzina, poi, non la conosceva neppure. Ma continuava a vedere anche dietro gli occhi chiusi il visetto incorniciato dai capelli biondi, il sorriso che regalava dalla foto ma che non era per lui, quel lieve piegarsi della testa verso l’uomo che lei chiamava papà e che non lo era.
Troppo tardi per cambiare le cose, per far fronte a un intero mondo che gli crollava addosso.
Troppo tardi per soffocare quell’improvviso sentimento di invidia verso un uomo che aveva appena conosciuto e intenerirsi per una ragazzina che era sua figlia ma che non avrebbe potuto chiamare così.
Nella piazza i bambini continuavano a ridere e a correre schiamazzando.
Lasciò la panchina e si avviò verso la fermata dell’autobus che l’avrebbe riportato in albergo. Non fece in tempo a raggiungere il mezzo, impegnato a trattenere i suoi pensieri che cercavano di sfuggirgli dalle labbra per trasformarsi in lamenti.
— Troppo tardi – mormorò.
La vecchia signora accanto a lui alzò la testa: — No, signore, non si preoccupi, c’è ancora una corsa tra dieci minuti.
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