La truffa
Inviato: 11/03/2019, 11:26
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«Lei mi ha truffato!» sentenziò Agenore.
«Ma va là, sempre la stessa storia, io non lo le ho tolto un quattrino» ribatté Melchiorre, suo unico socio e collega di lavoro, nonché vecchio come lui.
E sostenne con fierezza quello sguardo acceso d’ira.
«Lei mente… è un bugiardo matricolato» fece ancora
E gli puntò contro l’indice, tremolante per la rabbia.
«Lei che non mette nessun impegno e nessuna dedizione nel lavoro di ogni giorno... pigro, menefreghista, pressapochista e... ladro. Manca sempre la stessa cifra all’appello» proseguì.
«Quanto?» lo stuzzicò Melchiorre.
«Lo sa bene quanto. Cinquecento lire!»
«E lei per cinquecento lire, ogni giorno, imbastisce questa commedia?»
«Nel lavoro occorre disciplina e onestà. È una questione di principio» replicò implacabile, e a fronte alta.
Era questa la norma nel rapporto tra Agenore Ristolfi e Melchiorre Ippolito, due uomini ormai sulla settantina che, insieme, gestivano una piccola orologeria in corso Buenos Aires a Milano.
«Sono stufo di dovermi guardare le spalle non appena volto le spalle» gli rinfacciò, con involontario gioco di parole, Agenore, il quale, come ogni giorno, non aveva voglia o intenzione di cambiare argomento o di mollare la presa. «Lei mi froda!»
«Se frodassi lei froderei me stesso, signor Ristolfi» obiettò Melchiorre con su sorriso beffardo.
«Lei mi froderebbe comunque, per il gusto di farlo» ribatté aspro l’altro.
I due, nonostante gli oltre quarant’anni trascorsi insieme, dal 1946, dieci ore al giorno per sei giorni la settimana, si davano del lei e mantenevano una litigiosa distanza. Nessuno dei due si interessava della vita dell’altro e nessuno dei due sapeva cosa facesse l’altro nella vita privata, a parte quel che sfuggiva a ciascuno dei due nei confusi brontolii quotidiani o nei frequenti battibecchi in cui erano capaci di rinfacciarsi episodi lontani nel tempo anche decenni.
«Io non so per quanto la potrò sopportare» si lamentò allora Melchiorre Ippolito.
«Lei arriva sempre con quindici minuti di ritardo all’apertura. E lo fa apposta, per poi potermi accusare con comodo di aver sottratto denaro alla cassa» lo stuzzicò con voce stridula.
E infatti Agenore, ogni mattina, appena arrivato controllava il contante rimasto dal giorno precedente e, puntualmente, trovava un ammanco sempre uguale. E così ogni mattina iniziava a lanciare le medesime accuse al socio e collega:«Disonesto, mattina dopo mattina. Lei ha prelevato quella somma dalla cassa… alle mie spalle. Il mio guadagno! Lei mi deruba ogni giorno, caro signor Ippolito» brontolò Agenore.In cambio, riceveva sempre la medesima risposta accompagnata da un sorriso: «Siamo soci. Se io frodassi lei, caro Ristolfi, froderei me stesso…»
La mattina dopo Melchiorre Ippolito non si presentò al lavoro. Lo fece senza avvisare, cosa mai accaduta in quarant’anni di onorata attività e immancabili dispetti. Passarono i giorni e Agenore Ristolfi, a chi gli chiedeva notizie del socio, inventava storie con il sorriso sulle labbra e con un sollievo che a vicini e clienti sembrò sospetto. Come Agenore Ristolfi Melchiorre Ippolito non aveva una famiglia e viveva da solo. Il suo corpo venne trovato molti giorni dopo la sua scomparsa, quando il portiere dell’appartamento dove Melchiorre Ippolito viveva, in via Fulvio Testi, sentì del cattivo odore provenire dall’interno. I vigili del fuoco lo trovarono nel soggiorno. Giaceva senza vita, riverso sulle spalle e con chiari segni di violenza in corpo. Dei frequenti litigi col socio la polizia venne presto a conoscenza. E uno dei primi a essere interrogati fu proprio Agenore Ristolfi, il quale, ciarliero e avventato qual era, cadde immediatamente in contraddizione. Non gli ci volle molto per ammettere di essere andato a trovare il socio in casa, per la prima volta in quarant’anni, la sera dell’omicidio, per discutere con lui dei continui ammanchi di cassa la cui causa era -a suo dire- lo schifoso vizio del suo socio.
«Ma insomma, quanto le mancava ogni giorno da quella benedetta cassa?» domandò il commissario, indispettito dall’atteggiamento freddo e insolente dell’anziano signore.
«Cinquecento lire ogni mattina… Ippolito, da perfetto meridionale, aveva il vizietto di bere una tazzina di caffè ogni mattina prima d’iniziare a lavorare. Commissario, c’ho le prove: gli ho scattato le fotografie, a quel ladro, mattina dopo mattina» confessò candidamente Agenore Ristolfi, convinto con questo di avere l’asso nella manica, e di essere nel giusto per avere troppo a lungo sopportato la ribalderia del socio. «Ho sopportato quel ladro fin troppo a lungo. Alla fine mi sono difeso.»
«E lei... che parla dei vizi altrui, per cinquecento lire mi ha ammazzato un cristiano?» lo rimproverò il commissario sempre più sbalordito.
«Ma cosa ne vuol capire lei, che è pure un terùn come Melchiorre» lo compatì Agenore Ristolfi. «Non l’ho ucciso mica per una questione di denaro, vacca boia; ma per una questione di principio…»