Bobo

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2020.

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Roberto
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Bobo

Messaggio da leggere da Roberto »

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Bobo era il quarto di una cucciolata di sei. Naturalmente il suo nome non era Bobo, anzi non ne aveva nessuno; ma poiché fra gli umani è consuetudine che le cose abbiano un nome perchè esistano, lo chiameremo Bobo.
Era un bastardino, ovviamente, come erano sempre stati i cani della cascina.
Lui e i fratelli lottavano con tutte le forze, spingendosi e allontanandosi l’un l’altro con quelle minuscole zampette, per arrivare a quella tettarella che non vedevano ancora, ma di cui sentivano parossisticamente l’odore, con quel loro minuscolo ‘tartufino’, già pronto a svolgere il suo compito.
Sembrava bello ed era un po’ più vivace dei fratellini, così il fattore lo scelse come sostituto della madre, che stava ormai invecchiando irrimediabilmente e che, forse per l’età, era diventata troppo socievole: non ringhiava più contro chiunque entrasse nel cortile, qualche volta si faceva accarezzare e leccava la mano dell’intruso, vecchia cagna ‘venduta’!
“Hai scelto?” gli disse la moglie, dopo qualche settimana.
“Sì, quello nero”
“Bene, e gli altri?”
“Come sempre, no?”
L’uomo uscì nel cortile e si avvicinò alla cesta dove stavano i cuccioli. In un sacco di juta ne infilò cinque e si avviò verso il grande portone dall’altro lato del cortile.
Che succede? pensava Bobo, dove sono i miei fratellini? Che ne ha fatto il padrone? Aveva tentato miseramente di mordicchiare quella manona callosa che era entrata, perfetta estranea, nella cesta. Era stato spinto un po’ più in là, ruzzolando sulla schiena, con la bocca aperta e i dentini minacciosi e inutili.
Certo, non avrà pensato proprio queste parole, sicuramente non avrà conosciuto il significato di ‘fratello’ e neppure quello di ‘padrone’. Nel suo piccolo cervellino confuso ci sarà stato forse un rimescolamento, un subbuglio di istinti, qualcosa di indefinibile, ma qualcosa certo di sgradevole, forse di malvagio.
L’essere umano era ormai fuori, girò a sinistra costeggiando il muro di cinta, dirigendosi verso i campi. Il sacco era gettato oltre la spalla destra, penzoloni sulla schiena e tenuto saldamente sul davanti da una mano, forte come una morsa. Sulla schiena, cinque esserini si muovevano al buio nel sacco, quasi pigolando anziché guaire, deboli gridii che nessuno poteva sentire.
Dopo meno di mezz’ora era di ritorno, il sacco vuoto.
“E…allora?”
“Tutto fatto, sistemati!”
“Dove?”
“Al bordo del campo di granoturco. Ho scavato una fossa e li ho gettati dentro, poi li ho coperti con la terra. Fine”
“Ma…erano ancora vivi? Non li hai ammazzati prima?”
“E che dovevo fare? Ho altro lavoro che mi aspetta! Comunque non hanno sofferto, stai tranquilla. C’è del caffè?”
Passarono i mesi, l’inverno lasciò il posto alla primavera e questa a un inizio estate di caldo torrido e con un’afa appiccicosa.
Un giorno entrò nel cortile il furgone delle uova. Veniva per la raccolta, cascina dopo cascina. Poi, una puntata veloce al consorzio per la distribuzione in tutto il territorio.
L’autista scese e, subito velocissimo, arrivò Bobo. Quell’uomo gli era simpatico, lo accarezzava sempre. Gli saltò sul petto, lingua penzoloni, un uggiolio di contentezza, mentre il ragazzo lo accarezzava dietro l’orecchio e poi gli grattava la pancia. Bobo gli leccava le mani, poi si sdraiò sulla schiena, grattami ancora, mi piace tanto, pensava.
L’uomo uscì quasi di corsa dalla cucina, sopracciglia aggrottate, labbra sottili e strette, quasi esangui, passi lunghi e nervosi. Il calcio partì improvviso e veloce. Bobo era ancora a terra estasiato, pancia in su, felice come solo un cane può esserlo. Il pesante scarpone lo colpì al fianco, proprio sotto le costole e lo sollevò da terra, facendolo atterrare sotto la tettoia, fra il fieno delle mucche.
Perché, pensò Bobo, cos’è successo? Cosa ho fatto?
Un cane lo pensa sempre: devo aver fatto qualcosa di terribile, perché, altrimenti, il mio padrone non sarebbe così arrabbiato.
Il garzone guardò a bocca aperta, lo sguardo vuoto in cui aleggiava la medesima domanda inespressa: perche?
“Quella bestiaccia non imparerà mai, non vale niente, mangiapane a tradimento! Che lo tengo a fare? Non sa abbaiare, non fa la guardia, fa le feste agli estranei…è solo una perdita di tempo. E mangia, ah come mangia!”
Bobo s’era nascosto sotto il trattore, sdraiato come fosse un tappeto di pelle d’orso, muso a terra, mentre guardava in su incerto, con i sui occhi acquosi. Che faccio? Esco? Aspetto ancora un po’. Che male, che male!
Passò ancora qualche settimana, senza che le cose cambiassero, se non in peggio. Ora Bobo si nascondeva veloce, ogni volta che vedeva l’uomo attraversare nervoso il cortile.
Un mattino, dopo colazione: “basta, non ne posso più di quella bestiaccia”
“Cosa vuoi fare?” chiedeva la moglie.
“Lo porto via, non voglio più vederlo, maledetto il giorno che ho scelto questo mucchio di pulci. E poi…vedi com’è diventato, è brutto e grasso…”
Lo chiamò con una vocina melliflua, un sorriso falso e tirato sulla faccia bruciata dal sole. Aveva in mano, dietro la schiena, una corda e, nell’altra mano, un tozzo di pane. Bobo si fece avanti, la coda fra le zampe, incerto e col muso quasi a terra.
In un attimo la corda gli passò oltre la testa e si strinse al collo. Tirò spaventato, puntando le zampe, ma non c’era verso; anzi, più tirava e più la corda si stringeva e lo soffocava. Non restava altro che seguire l’uomo, con la coda che ormai era sempre più incurvata, fin quasi a toccare la pancia.
L’uomo lo strascinò fino a un’auto impolverata, aprì il bagagliaio e, tirandolo con la corda mentre gli rifilava un calcio, lo fece entrare e richiuse il portellone.
Bobo tremava dalla paura, dov’era? Cosa stava succedendo?
L’auto si mise in moto, lui guardava fuori, dal lunotto pieno di polvere e un po’ guaiva.
“Taci scemo, ancora un po’ e ti mollo. Dovresti ringraziare di essere ancora tutto intero, stupido cane”
Bobo si rendeva conto che ce l’avevano con lui: il tono di voce diceva tutto, avrebbe voluto rimpicciolire, sparire; ma, soprattutto, non stare rinchiuso lì dentro.
Il viaggio, per fortuna, fu abbastanza breve. L’auto si fermò in una strada asfaltata, l’uomo scese, aprì il portellone, prese la corda a due mani e, con uno strattone, lo fece scendere.
Bobo quasi non sentì il dolore al collo, tant’era contento di essere con le zampe a terra. Non prestò molta attenzione a quello che faceva l’umano. Quando questi si allontanò fece per seguirlo, ma la corda lo trattenne, legata a un palo della luce.
L’automobile ripartì veloce, lui emise un guaito e abbaiò forte – ehi…sono quii! - ma l’auto era già solo un punto, lì avanti sulla strada.
Ehi, insisteva stupito, sono qui, dove vai? Si guardò intorno, campi di pannocchie dappertutto, nessun umano in vista. Dopo un po’ si sdraiò vicino al palo e chiuse gli occhi.
Tutto taceva, intorno solo il verde del granoturco sui due lati della strada, come un fosso infinito da entrambe le direzioni. Cominciava ad avere fame e, più ancora, sete. Le ore passavano, stava lentamente imbrunendo. Quand’ecco laggiù, lontano, un’auto, anche se lui non sapeva che si chiamava così. Sul davanti c’erano due luci, si avvicinava sempre di più, veloce. Ehi, ehii…sono qui, pensò Bobo. Ehi…non mi vedi? No, non l’aveva visto, o forse sì, ma chi ha voglia di prendersi fastidi. Per un cane, poi…
Ormai era buio e faceva anche freddo. Bobo si raggomitolò, il muso quasi incuneato sotto la pancia e si addormentò. Nel suo sogno – già, anche i cani sognano…- correva felice nel prato dietro casa, fiori gialli di tarassaco dappertutto, non una nuvola in cielo… rideva.
All’orizzonte si fece un po’ di chiaro, il sole stava per sorgere; si mise in piedi con un lieve mugolio, si stirò inarcando la schiena, zampe davanti tese e sedere in su. Niente era cambiato, la corda lo teneva ancora legato a quel palo. Che fare?
Dopo molte ore, il sole iniziava a calare verso ponente, la fame era ancor più feroce, la pancia borbottava. Ma ecco un’auto passare, come la sera prima. Ormai Bobo non sperava più, non fece nemmeno lo sforzo di alzarsi, sospirò rumorosamente. L’auto rallentò, lo sorpassò e poi riprese a correre. I suoi occhi non si erano staccati un momento da questo mostro di ferro, chissà…forse…ma no, se n’era andata.
Cento metri più avanti, l’auto si fermò, invertì la marcia e, lenta lenta, accostò al ciglio della strada, fino a fermarsi.
La portiera posteriore venne aperta di scatto e una bimba di sette-otto anni si fulminò fuori.
“Cristina, no, no, non lo toccare, attenta” gridava la madre, mentre anche lei cercava di correre veloce verso la bambina prima che arrivasse al cane.
“Può essere pericoloso, o incattivito…o potrebbe avere la rabbia o chissà cosa. Non lo toccare!”
Ma ormai Cristina stava già accarezzando Bobo, che le slinguacciava la faccia.
All’inzio Bobo era perplesso: che faccio, ringhio un po’? Però…mi sta accarezzando…allora mi vuol bene! L’accarezzo un po’ anch’io. E avanti e indietro con la lingua, felice.
“No mamma, non vedi com’è bravo? Guarda come mi fa le feste! Allora…lo prendiamo? Daì, portiamolo a casa!” Lo sguardo si stava già corrucciando, come quando faceva i capricci, arrabbiata con i genitori; finchè questi non cedevano e allora era tutta una moina e una smanceria imbarazzante.
“Lo sai che papà non vuole animali per casa! E poi…questo…ma guardalo, è orribile! No, non possiamo, mi spiace”
Ma ormai la bimba aveva già slacciato la corda e stava andando verso l’auto. Bobo seguiva mansueto e grato: quella sarebbe stata la sua nuova padroncina, l’avrebbe difesa, protetta. Sentiva che le voleva bene.
“E’ il regalo per il mio compleanno, mamma. Voglio questo bel cane!”
“D’accordo, ma vediamo cosa ne dice tuo padre, prima. Ok?”
“Sì, ma sono sicuro che sarà contento”
Il portellone dell’auto fu aperto e Bobo, che ormai aveva imparato come fare, con un balzo un po’ goffo salì ed entrò nel bagagliaio. Lo sportello sbattè e madre e figlia entrarono anche loro. Di nuovo un’inversione di marcia, e via…verso casa.
“Cos’hai raccattato?! Via, via questo sgorbio! Senti come puzza! Ma che ti è saltato in mente, eh? Non lo voglio in casa, fallo sparire, intesi?”
“Papà, papà, ti prego…è il mio regalo di compleanno! Teniamolo, guarda com’è dolce…”
“Macchè dolce, è orribile! Non me ne voglio occupare, chiaro? Non fatemelo neanche vedere, sono fatti vostri, non ne voglio sapere!”
Il povero Bobo stava seduto in entrata, cercando di assumere un atteggiamento dignitoso. Il pelo nero e riccio era tutto imbrattato con ciuffi di pelo appiccicato, sporco com’era e senza essere mai stato lavato. Avrebbe voluto darsi una bella grattata alla pancia, il prurito era tremendo; ma doveva resistere e far finta di niente, come se fosse pulitissimo. Il suo odore era quello di sempre, andava tutto bene, dunque! Perché è così arrabbiato? Sembra quasi il mio vecchio padrone, che ho fatto?
“D’accordo, domani mattina lo porto a lavare, vedrai che cambierà d’aspetto, contento?”
“No, ma per stanotte chiudilo nello sgabuzzino, non voglio neanche pensarci!”
“Lo chiamerò Rochy, che ne dite?” chiedeva Cristina, il sorriso da un orecchio all’altro.
Il marito si alzò molto presto il mattino dopo, preparò il caffè e fece per uscire. Un leggero mugolio veniva dallo sgabuzzino, aprì e…”Maria, vieni a vedere, corri, dio buono!” Rochy era uscito nell’entrata muovendo felice la coda. Ciao, io sto bene e tu? Sono contento che mi hai fatto uscire, cosa facciamo?
Il calcio fu immediato e lui tornò a rintanarsi nello sgabuzzino, fra gli escrementi e l’urina, mentre un puzzo penetrante si diffondeva per tutta la casa.
“Che c’è, che è successo?”
“Guarda… che schifo! ma che cos’è, è un alloggio questo? Ora me ne esco, arrangiati, non voglio trovare questo casino stasera quando torno!”
La donna pulì trattenendo conati di vomito, poi preparò la colazione per Cristina. La bambina stava seduta davanti alla ciotola del latte. Rochy la raggiunse felice, con la lingua penzoloni e la coda svolazzante. Ciao, padroncina, andiamo da qualche parte?
“Che puzza, via, va via! Mamma il cane puzza, che schifo! Mammaa...!”
Rochy se ne tornò, ancora una volta, nello sgabuzzino. Padroncina che c’è? Lo sai che ti voglio bene…e allora?
Lo portarono a un negozio di toilettatura per cani, legato alla stessa corda del giorno prima. Tirava, non le seguiva…c’erano troppi odori interessantissimi da indagare. Per esempio quel filo d’erba…Ah…che profumo inebriante!
“E vieni qua, Rochy, non farmi perdere tempo, andiamo!”
“Ma mamma, non obbedisce, gli dici vieni e non viene! Non è un bravo cane!”
Al negozio quasi non volevano prenderlo; la donna dovette supplicare “fatemi il favore, vi prego!”
Il commesso storse parecchio il naso. Teneva il cane il più lontano possibile, ma dovette avvicinarsi per forza per potergli legare il muso con una fettuccia, a scanso di morsi probabili.
Che fai, perché mi leghi? Ehi, dico a te!
Un ringhio usciva da quella gola spaventata. L’animale fu preso di peso e quasi gettato nella vasca. Poi una doccia, mentre lui si scrollava e l’inserviente si scostava, cercando di ripararsi da quell’acqua putrida che schizzava dappertutto.
Due ore dopo tornarono a ritirarlo, ora profumava di rosa. Che puzza, pensava Rochy, cosa mi hanno messo addosso?
Si avviarono a piedi verso casa, attraversando un giardino.
“Mamma, lanciamogli un bastoncino, così ce lo riporta!”
Cristina lo sciolse e scagliò il bastone, ma Rochy non si mosse dal suo fianco.
“Vai Rochy, vai a prenderlo, corri!”
Cosa vorrà mai? Perché butta il bastone? E’ meglio che le stia vicino, vedo laggiù altri cani che non mi piacciono proprio. Non ti preoccupare, padroncina, ci sono qua io. Anzi, meglio un bel ringhio, per far capire a quelli di tenersi alla larga.
“Mamma, ma mamma…Non corre, non capisce niente! Non lo voglio, non voglio un cane che non mi ubbidisce! Tieni la corda, portalo tu!”
“Bisogna avere un po’ di pazienza, tesoro. Ha bisogno del suo tempo anche lui…”
“No, non è così intelligente come quegli altri cani, non vedi? Gli dici le cose, ma non capisce…Andiamocene a casa!”
Quella sera, dopo che Cristina fu messa a letto, marito e moglie discussero a lungo e infine: “Domattina presto lo carico in macchina, va bene?”
“Va bene!”
Rochy passò un’altra notte nello sgabuzzino. Al mattino la porta si aprì e lui era lì, il padrone. Non muoveva la coda felice, Roky, e non sorrideva più, in quel modo tutto loro che hanno i cani quando sorridono.
Si fece legare e seguì, raso terra, l’uomo fin sulla strada e poi in auto.
Partirono, dopo un po’ erano fuori città. Ancora avanti, sempre più lontani. Poi ci fu silenzio e l’automobile stava ferma sul ciglio della strada.
“Forza scendi, disastro ambulante, e sbrigati prima che arrivi qualcuno!”
Rochy scese tremante, ancora con la corda al collo. L’uomo girò intorno alla macchina, sedette al posto di guida, una portiera sbattuta, il motore che ruggisce, ruote che slittano un po’, e…via in un attimo.
Ma…che fai, dove vai? Sono qui, ehi sono…
Il ‘qui’ rimase strozzato, anche come retropensiero. Ci fu uno stridio di ruote, poi un colpo tremendo. Rochy fu sbalzato in aria, volò, volò lontano, senza gravità, e poi colpì il fossato a lato della strada.
Non posso muovermi, come mai? Che male, che male. Cos’è quella roba rossa che esce dalla pancia? Che noia questi animaletti volanti, verdi, lucidi! Che succede?
Per un momento sognò. Di nuovo. Ancora quel prato verde dietro casa. Ancora i fiori gialli. E, ancora una volta, rideva.
I suoi ultimi padroni parlavano di andare fra qualche giorno al mare, ed erano felici nel pensarlo, doveva essere un posto bellissimo! Ma allora, forse, anche lui era al mare…tutto quel verde e quei fiori e quei profumi…forse era proprio il mare. Com’era felice! Poi, piano piano, si fece buio, come quando il sole scende lentamente e ogni pensiero finisce.
Rochy era lì, dentro un fosso. Ma non si chiamava più Rochy, ora si chiamava Bobo…o, forse, non aveva più nessun nome!
L’uomo tornò a casa, Cristina era seduta sul divano con il suo tablet.
“Ciao, piccola, cosa fai?”
“Sto giocando a un gioco bellissimo, si chiama ‘salva un amico’ e ho già guadagnato più di ottanta punti!”
“Che meraviglia, sono contento che ti piaccia”
“E Rochy?”
L’ho lasciato in campagna, penso che sarà molto più felice così”
“Ah!”
Il tablet faceva strani suoni, mentre la bimba, con la lingua mezza fuori, si sforzava di salvare il suo amico.
Stefyp
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Messaggio da leggere da Stefyp »

Questo racconto ha, penso, l'obiettivo di farci intendere quanto noi umani siamo a volte crudeli e superficiali con gli animali. E in qualche modo c'è riuscito.
La struttura del racconto ha qualche pecca: i tempi verbali non sono sempre rispettati, vengono usati troppi avverbi in ... mente che a mio parere appesantiscono (parrossisticamente lo toglierei proprio). Cercherei un sinonimo al termine "slinguacciava"
"Era uscito nell'entrata" mi lascia perplessa.
Quando scriviamo un racconto con animali come protagonisti possiamo decidere se farli parlare, pensare, provare sentimenti oppure no. Se decidiamo di farlo, lasciamoglielo fare liberamente, senza ripetere continuamente che non potrebbero o non saprebbero o non sarebbe consuetudine. A Rileggerti
Selene Barblan
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Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Faccio fatica a capire gli umani che, senza amore, rispetto, bistrattano gli animali (ma anche gli altri umani e la natura). In questo racconto è facile empatizzate col povero cagnolino, coi suoi fratelli e la sua mamma. Il lato emotivo è infatti secondo me ben centrato. Credo vada rivisto nella forma e il finale secondo me è di troppo, mi sembra un po’ forzato, lascerei il focus sulla brutta fine del peloso protagonista piuttosto che sulla famiglia... voto 3
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Fausto Scatoli
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

beh, anche qui l'argomento colpisce.
soprattutto colpisce il comportamento degli umani nei confronti di esseri che cercano solo affetto e sanno dare tanto.
forse la storia è un po' lunga, ma è un parere personale.
ci sono dei refusi e alcune frasi da rivedere, ma nel complesso si fa leggere senza problemi.
abbastnza buone le descrizioni.
l'unico modo per non rimpiangere il passato e non pensare al futuro è vivere il presente
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Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Sono così tanto al corrente della malvagità umana nei confronti degli animali che anche leggerla qui per me è stato troppo. Sono sincera, non ho letto sino alla fine il tuo racconto perché quanto descritto, sino a dove sono arrivata, mi ha fatto stare male. So bene che sono fatti che accadono quotidianamente e ogni volta che ci penso lo schifo per una buona fetta di umanità mi assale disgustandomi. Non posso dire pertanto che il tuo racconto mi sia piaciuto. Inoltre, come è già stato fatto notare, ci sono un po' di termini da rivedere. Oltre a quelli segnalati; anche "piccolo cervellino" non va bene, si dice cervellino o piccolo cervello. Alla prossima, ciao
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Messaggio da leggere da Ida Daneri »

Quale avverbio in -mente di troppo (parossisticamente è davvero brutto e non sono proprio sicura che sia corretto!) e, soprattutto, è un vero peccato l'inserimento del narratore esterno che toglie immediatezza al racconto: va bene, Bobo è un cane, ma il lettore è in grado di accettare la finzione per cui comunque parla e pensa! Una maggiore personificazione del cane avrebbe reso molto più coinvolgente la storia.
I dialoghi tra moglie e marito, all'inizio soprattutto, sono poco credibili, utili solo a spiegare l'accaduto ai lettori, che possono comunque immaginarlo senza fatica. Allungano inutilmente la storia, così come i dialoghi nella famigliola "felice", senza aggiungere nulla di interessante.
In ogni caso… povero, piccolo e innocente Bobo! Il finale è davvero tremendo, con la bimba che salva un amico virtuale dopo aver rifiutato quello reale.
Dopo i puntini di sospensione occorre mettere uno spazio.
Anche il verbo strascinare è bruttino a mio parere.
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Roberto Bonfanti
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Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

Apprezzo il tema del racconto, l’esposizione con toni piuttosto forti e la morale che ci ricorda quante (troppe) volte siamo crudeli e indifferenti verso gli animali.
La stesura va un po’ rivista, sia per quanto riguarda alcuni aspetti formali che per l’attenzione a qualche refuso (per esempio, a un certo punto Rochy diventa Roky).
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
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