Picco 1079

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Goliarda Rondone
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Picco 1079

Messaggio da leggere da Goliarda Rondone »

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(Liberamente ispirato alla vera vicenda dell’incidente del passo Dyatlov).

Ekaterinburg (Urali, Siberia), 10 maggio 1959.

«Signor Yudin, possiamo iniziare?»
Il ragazzo annuì. Aveva un lieve diastema tra gli incisivi e una piccola frangetta bionda che si tuffava sulla fronte. Si chiamava Yuri Efrimovic Yudin. Circa tre mesi prima era invecchiato di colpo, quando aveva saputo che i suoi amici erano tutti morti. Al posto degli occhi – di solito vispi — adesso aveva due cavità vuote. Le pupille erano ciottoli in fondo a un pozzo di sconforto.
«Per prima cosa», iniziò la dottoressa Zaytsev, «vorrei chiarire che non sono qui su incarico del Partito, ma soltanto per aiutarla. Lei soffre di una cosa che in Europa e in America chiamano "senso di colpa del sopravvissuto". Si potrebbe curare.»
Il ragazzo sollevò lo sguardo e abbozzò un flebile sorriso: «lei crede in Dio, dottoressa?»
Prima che la donna potesse rispondere Yuri Yudin abbassò di nuovo gli occhi al pavimento: «se potessi rivolgere a Dio una sola domanda, gli domanderei che cosa è successo ai miei amici quella notte.» Poi umettò le labbra e cominciò a raccontare ancora una volta quella dannata storia. Era la prima volta che lo faceva a scopo terapeutico, ma si sentiva lo stesso lacerare il cuore. Incominciò dall’inizio, dal quel venerdì 23 gennaio. A Ekaterinburg nevicava, la temperatura segnava diversi gradi sotto lo zero. Insieme ai suoi otto amici e al compagno Sasha, erano saltati sul treno numero 43 delle ore 9, diretto a Serov.
«Sasha era l’uomo del Partito?»
«Si chiamava Semyon Zolotarov, ma per noi era Sasha. Il Partito non voleva ci fossero problemi, così ci aveva mandato la miglior guida di montagna degli Urali settentrionali. Divenne subito una specie di fratello maggiore per tutti noi.»
«Però era anche un veterano della Seconda Guerra Mondiale e un esperto in combattimenti…»
«Neanche lo sapevamo, fu lui a raccontarcelo. Comunque era una brava persona.»
«Andava d’accordo con tutti voi?»
Yuri si scompigliò la frangetta con uno sbuffo d’aria emesso dalla bocca.
«Queste domande hanno a che fare con la mia cura?»
«Non ho una pillola per lei, signor Yudin. Se vogliamo che questa cosa funzioni è importante che io sappia il più possibile sulla spedizione.»
Yuri sollevò le spalle. Un po’ perplesso riprese il racconto. Ricordò che il secondo giorno fecero sosta nel paesino di Serov, dove Georgiy (era il soprannome di Yuri Krivonischenko) si era messo a cantare per la stazione col cappello in mano, elemosinando monete ai passanti.
«Ci fece morire dal ridere, ma sfortunatamente la polizia non aveva il suo stesso senso dell’umorismo…»
«Immagino», ridacchiò la dottoressa Zaytsev. Quando sorrideva le si formavano delle vistose fossette sulle guance.
«Comunque alla fine capirono che era solo un ragazzo esuberante e lo lasciarono andare, così prendemmo il treno numero 81 fino a Ivdel. Ci stavamo togliendo gli ultimi sfizi sa», confessò con un risolino, «perché dopo non avremmo più trovato anima viva nel raggio di decine chilometri.»
«Un po’ di baldoria? Per fare gruppo…»
«Ci siamo rimpinzati con qualche bottiglia di alcool per passare la notte. Poi siamo saliti su un bus verso Vizhay. Durante quel viaggio avevo iniziato a sentire mal di schiena, ma non lo avevo detto ai miei compagni. Ero convinto che sarebbe passato.»
«Quella sera, a Vizhay, successe qualcosa di particolare, vero?»
«Andammo al cinema. Vedemmo un film austriaco che si intitolava “Synphonie in Gold”. Fu piacevole, ma una volta rientrati ci fu un diverbio.»
La dottoressa aprì un taccuino, come se volesse prendere nota.
«Mi dica di questo diverbio.»
«Credo che l’ansia e la preoccupazione avanzassero perché eravamo prossimi al vero inizio dell’avventura.»
«Qual era l’oggetto del contendere?»
«I tempi della spedizione, il punto in cui collocare il deposito delle provviste che ci sarebbero servite al ritorno, perché non potevamo portare tutto con noi. Si trattava anche di razionare e dividere pane, cracker, avena, pasta secca, latte…»
«E litigaste?»
«Fu un diverbio tra amici, poi risolto.»
La donna sfilò il camice, accese una sigaretta e accavallò le gambe, cercando di trasformare quella seduta in una chiacchierata confidenziale.
«Quello che mi piacerebbe capire, signor Yudin, è se nel gruppo ci fossero delle personalità forti, dei capi, una gerarchia…»
«Igor era a capo della missione.»
«Igor Dyatlov?»
«Sì.»
«Mi risulta che fu lui a non volere portare una radio. Sarebbe servita, lassù, non crede?»
«Sa quanto pesa un’R-106?»
Di nuovo quelle fossette. Era evidente che la dottoressa non sapesse granché sull’argomento.
«Glielo dico io: circa quaranta chili. E avevamo già la stufa, la tenda, le giacche, le attrezzature e gli abiti termici…»
«Si dice che Dyatlov prese decisioni errate durante la salita…»
«Cosa vuole che le dica? Io non ci credo. Igor era molto esperto e si consultava sempre con tutti prima di decidere.»
«Comunque vorrei sapere se nel gruppo c’erano delle frizioni, delle antipatie. Avanti, non mi dica che tutti andavate d’amore e d’accordo…»
«Perché no? Dopotutto eravamo dei ragazzi che partivano per un’avventura.»
«È curioso che lei definisca “avventura” un trekking di livello tre…»
«Secondo lei di questi tempi come si diverte un ragazzo nell’inverno della Siberia sovietica? E poi a dispetto della giovane età eravamo tutti molto ben preparati.»
«D’accordo. Rimaniamo ai rapporti di gruppo. Mi risulta che lei fosse in ottimi rapporti con le due ragazze, signor Yudin», insinuò la dottoressa con un malcelato sorriso, «soprattutto con Lyuda?»
Lyuda era Lyudmila Dubinina, la tesoriera e la più giovane del gruppo, escursionista di secondo livello. Lei aveva deciso di prender parte alla spedizione proprio per ottenere il diploma di terzo livello.
«Lyuda era una cara ragazza. C’era affetto tra noi, ma non come potrebbe pensare. Eravamo buoni amici».
La donna sollevò le braccia ironizzando. «Va bene! Non intendevo mica… lasciamo perdere. Insomma non c’erano antipatie, gelosie, risentimenti di alcun genere, tra nessuno di voi?»
Il ragazzo tirò su col naso. Tergiversò, come se fosse in imbarazzo.
«Anche questo è attinente?»
La dottoressa sistemò i lunghi capelli corvini e annuì.
«Ecco… a volte tra Igor Dyatlov e Georgiy Krivonishenko c’era qualche scintilla, per via di Zina».
Entrambi i ragazzi erano infatti attratti da Zinaida Kolmogorova, che stava uscendo da una relazione amorosa con Georgiy, mentre intratteneva un legame romantico con Igor.
Yudin esitò.
«Siamo sicuri che lei è qui per me? Che non è del Partito? Ho già parlato con loro…»
«Stia tranquillo, signor Yudin».
Da quel momento l’ex escursionista assunse un atteggiamento diffidente, cercò di dribblare le domande troppo dirette. Né la dottoressa poté più fargliene, senza suscitare ulteriori sospetti. Seppe soltanto che il quarto giorno alle 13:10 presero un camion da Vizhay e alle 16:30 giunsero presso la comunità di disboscamento nota come “District-41”. Da quel punto si doveva proseguire con sci e slitte. Il quinto giorno raggiunsero l’insediamento minerario chiamato “NORD-2” o “Secondo campo Nord”. Fu allora che Yuri Yudin si arrese alla sciatica. Il mattino seguente, il 28 gennaio 1959, il ragazzo dovette salutare i suoi amici che partivano verso la morte lungo il fiume Lovza, mentre lui sarebbe rientrato a casa.
«Erano loro a rincuorare me. Nessuno poteva immaginare quello che stava per succedere.»
La dottoressa pensò che per il momento non avrebbe cavato altro dal ragazzo. Prima che si dessero appuntamento per l’indomani, Yuri raccolse dentro un cassetto un piccolo pelouche d’orsacchiotto. Mentre lo mostrava alla dottoressa due lucciconi s’apprestavano a precipitare sulle guance del ragazzo.
«Questo me lo regalò Lyuda il giorno che ci separammo, l’ultima volta che la vidi. Sarei dovuto andare con loro.»

[u]Uralmash, Ekaterinburg (Urali, Siberia), 20 maggio 1959.
[/u]
Avrebbero dovuto incontrarsi all’ingresso ovest della Fabbrica. Fino a pochi anni prima l’Uralmash – anche nota come “La Madre delle Fabbriche” - aveva sfornato carrarmati e cannoni in quantità sufficiente per vincere la Seconda Guerra Mondiale. Poi era stata modernizzata e in parte riconvertita, tanto che in Siberia non trovavi una perforatrice o un escavatore che non provenisse da lì. Con l’avvento della guerra fredda, la Fabbrica era divenuta uno snodo cruciale per la produzione di presse idrauliche, da impiegare nei programmi aero-spaziali dell'Unione Sovietica. Ufficiosamente quel posto era divenuto anche un riferimento per abboccamenti un po’ particolari, come quello tra il signor K. e il signor T. Il primo era un emissario di Mosca, un uomo di fiducia nello staff di un importante membro del Politburo, inviato dal Praesidium del Comitato Centrale del PCUS. Il secondo, mister T., era un funzionario del Secondo Direttorato Centrale (controspionaggio e sicurezza interna) del KGB. Le due eminenze grigie non si conoscevano di persona, ma avevano preso informazioni l’uno sull’altro. Erano uomini di potere, pragmatici e cinici, così non persero tempo dietro ipotesi stravaganti e bislacche come quella dello Yeti, o altre di matrice complottistica o di natura ufologica, come per esempio le luci arancioni avvistate in cielo quella notte, visibili anche nell’ultima fotografia scattata da un membro della spedizione. I due sapevano bene che si trattava di un lancio di missili balistici R7.
«Quindi nulla da Yuri Yudin, signor T.?»
L’uomo dei servizi estrasse un fascicolo dalla sua ventiquattr’ore: «Nulla di decisivo. Ecco la trascrizione dei suoi incontri con la dottoressa Zaytsev. Queste altre invece», aggiunse trafelato mentre estraeva nuove carte dalla valigetta, «sono le autopsie dei membri della spedizione».
I due si sedettero su una panchina, in un’area verde alle spalle della Festival'naya. Il signor K. accese un grosso sigaro cubano e cominciò a sfogliare quei documenti. Sarebbero stati resi pubblici dopo la revisione del Partito, ma in quel momento erano ancora classificati.
«Sono nell’ordine in cui sono morti, dal primo all’ultimo», precisò T.
I primi due a morire erano stati Georgiy e Yuri, cioè Krivonischenko e Doroshenko, ritrovati ai piedi di un grande pino siberiano, i cui rami più bassi erano stati spezzati e asportati nel tentativo di accendere un fuoco. L’esperimento era riuscito solo in parte, perché la legna era troppo verde.
«Come spiegate questo?» chiese K., indicando il viso deturpato di Krivonischenko, cioè di Georgiy, che sembrava avesse il naso asportato.
«Animali. Invece i morsi sulle mani se li è procurati da solo, poco prima di morire di ipotermia. Gli hanno trovato nella bocca piccoli brandelli della sua stessa pelle.»
Il signor K. assentì e aprì anche la sua, di valigetta. Estrasse un fascicolo altrettanto riservato, contenente fotografie, rapporti delle squadre di ricerca e di salvataggio, nonché altre informazioni classificate. Aprì e corse con le dita al dossier dell’ingegner Krivonischenko (Georgiy).
«Ci risulta che era stato assegnato all’area “Ozero”, dalla “Mayak Enterprise”. Sospettiamo che dietro quest’assegnazione possiate esserci voi, cioè il KGB. Che mi dice?»
«Noi non c’entriamo nulla» ribatté l’uomo dei servizi segreti. «Il padre di Krivonishenko aveva rapporti con il KGB, alla Lubyanka, ma suo figlio Georgiy era soltanto un ingegnere qualificato, aveva già lavorato nella struttura nucleare segreta di Chelyabinsk–40 durante il disastro di Kyshtym. Era pratico di plutonio e di radiazioni. Per questo lo avranno mandato nell’area Ozero.»
«Qui dice anche che era scalzo, con addosso soltanto una polo. Strano abbigliamento considerando che facevano circa 25 gradi sottozero, no?»
Il signor T. si cacciò le mani in tasca: «Questo conferma che è morto per primo. Gli altri membri della spedizione avranno pensato di prendere i suoi vestiti, per coprirsi.»
Il terzo a essere ritrovato - a circa 300 metri di distanza dall’albero del falò, verso la tenda - era stato il capo della missione, Igor Dyatlov. L’ultimo gesto che fece in vita fu quello di sbottonarsi la giacca: secondo gli esperti era un tipico caso di spogliamento paradossale, dovuto all’alternarsi di vasocostrizione e vasodilatazione.
Il signor K. sistemò i grandi occhiali sul piccolo naso, diede una boccata al sigaro e disse: «su Dyatlov però vorrei tornare dopo.»
I successivi cadaveri erano quelli di Zinaida Kolmogorova, detta Zina, e Rustem Slobodin, detto Rustik. Oltre alle solite escoriazioni e tagli su braccia e gambe, Rustik presentava anche una evidente epistassi, labbra gonfie, ematomi su entrambe le nocche delle mani, addirittura una frattura cranica.
«Parliamo di una frattura dell'osso frontale di 6x0,1 cm, situata a 1,5 cm dalla sutura sagittale...»
«Già. Come se fosse ripetutamente caduto faccia a terra. Il nostro esperto ritiene che quella frattura sia compatibile con un oggetto contundente», aggiunse K.
Gli ultimi quattro corpi furono rinvenuti nella vallata sottostante, un dirupo con un dislivello di oltre settanta metri rispetto al punto del falò. Dopo essersi lasciati cadere nella scarpata erano riusciti a creare una specie di tana lungo un ruscello, scavando una sorta di rifugio sulla neve e riempendolo di foglie, frasche e rami secchi. Tra loro c’era Lyuda, priva di occhi e di lingua, con il naso e dieci costole rotte, di cui una aveva perforato il cuore causando un’emorragia interna non letale. Poi c’era Nicolai Thibeaux Brignolles, detto Tibo, che aveva un ematoma al labbro e un’emorragia all’avanbraccio destro. Secondo il referto autoptico aveva una gravissima frattura cranica causata da impatto ad alta velocità con una roccia.
«Queste ferite sono imputabili alla caduta dal dirupo», concordarono i due Richelieu.
Infine i cadaveri di Aleksander Kolevatov (Alek) e Semyon Zolotarov (Sasha), i cui corpi furono trovati abbracciati, forse nell’estremo tentativo di darsi calore l’un l’altro.
«Anche sui vestiti di Alek furono registrate radiazioni altissime, ma anche lui lavorava in una centrale nucleare», notò il signor K.
«Esatto. Mentre la mancanza di occhi e palpebre – come nel caso della lingua per Lyuda - si spiega col fatto che il suo corpo venne trovato dopo circa quattro mesi dall’incidente. In tutto quel tempo l’acqua del ruscello potrebbe aver asportato i tessuti molli, che forse sono stati anche mangiati da batteri e piccoli animali d’acqua».
«Quanto a Sasha ha cinque costole rotte e come per gli altri mancano gli occhi e i tessuti molli, però abbiamo anche un’enorme ferita all’osso del cranio.»
«Gli mancava mezza faccia, Cristo santo!»
Il signor K sospirò, sistemando al solito gli occhiali sul naso: «Sono caduti giù nella gola e hanno impattato sulla roccia. Ecco tutto.» Poi estrasse un altro fascicolo e proseguì: «In ogni caso dobbiamo fornire una spiegazione ufficiale. Le famiglie e la stampa cominciano a pressarci.»
«Che spiegazione suggerisce, signor K.?»
L’uomo del Politburo sfogliò l’ennesimo fascicolo classificato, finché le dita e gli occhi non raggiunsero quel che stava cercando.
«Mi dica se quanto le espongo corrisponde anche alle vostre informazioni», asserì, iniziando con lo sguardo a seguire l’indice che si spostava tra le righe del fascicolo. «Il 28 gennaio il gruppo arriva a monte del fiume Lozvy e fino al 31 gennaio è impegnato a raggiungere il fiume Auspiya. L’ultimo giorno del mese raggiungono la fine dell’altopiano e si preparano per la salita. Alcune riserve di cibo e d’equipaggiamento necessario per il rientro vengono appesi sulla cima degli alberi per tenerli al riparo dagli orsi. Il giorno successivo, il primo di febbraio, iniziano la salita verso la cima alle ore 15.»
«Grossomodo corrisponde.»
«Alle 15 però è tardi per iniziare a salire!»
Stavolta gli occhiali se li sfilò, e proseguì a braccio: «inoltre Dyatlov scelse una linea distante cinquecento metri dal passaggio pianificato, cioè il passo situato tra il Picco 1079 e il Picco 880. In questo modo deviò verso occidente e anziché rimanere lungo la sella puntò dritto alla cima del monte Kholat Syakhl. Il gruppo si venne a trovare sul versante orientale del Picco 1079 mentre la luce e la visibilità calavano e il tempo peggiorava. La temperatura era bassissima, il vento sempre più forte. Furono costretti a fermarsi e allestire un rifugio per la notte. Per farlo, però, avrebbero dovuto perdere quota, tornare indietro verso la foresta, che avrebbe potuto offrirgli una migliore protezione.»
«Un momento signor K., sta dicendo che…»
«Che Dyatlov ha commesso troppi errori, in un giorno solo.»
«Igor Dyatlov era un esperto alpinista e…»
«E ha commesso degli errori, signor T.»
«Va bene. Ammettiamo che sia così. Questo spiegherebbe l’accaduto? Spiegherebbe chi gli ha procurato quelle ferite? Un nostro perito afferma che i tre tagli sulla tenda sono generati da coltelli o armi affilate, utilizzate dall’interno. Gli errori di Dyatlov spiegano forse perché tagliarono la tenda e uscirono al gelo?»
Il signor K. sospirò, fissando in terra, poi scoccò un’occhiata in tralice al collega e si rinfilò gli occhiali: «Senta sto cercando di dare un senso logico a tutto questo. Forse Dyatlov era nervoso per via di Zina e Yuri. Forse c’è stato un litigio. Ha letto l’autopsia di Dyatlov?»
«Certo, ma…»
«Aveva del sangue secco in bocca. Aveva ematomi nelle nocche della mano destra. E se fosse iniziata una scazzottata nella tenda?»
«Mi ascolti, le impronte ci dicono che si sono diretti in fila indiana verso la foresta. Lasciavano perfino dei segnali nel caso avessero dovuto tornare indietro. Non mi sembra una situazione da rissa. E poi, senta, davvero vuole raccontare ai familiari delle vittime che nove esperti alpinisti si sono presi a pugni senza rendersi conto che uscendo dalla tenda sarebbero morti di ipotermia?»
«Ma allora cosa diavolo li fece uscire dalla tenda? Sappiamo che non ci fu nessuna valanga. Uno smottamento del terreno, forse? Un avvelenamento da metanolo a causa della stufa?»
«Quel terreno era stabile e la stufa era spenta. Certo se tiriamo a indovinare è possibile tutto. Dalle nostre parti gira una teoria secondo cui quella zona avrebbe una conformazione tale per cui i venti produrrebbero degli ultrasuoni che farebbero impazzire gli uomini. Le pare che potremmo raccontare cose del genere ai parenti e alla stampa?»
K. sospirò. «Direi di no.»
«Senta, non c’è sempre una spiegazione a tutto.»
«Non sia ingenuo, la prego.»
«Parleremo di calamità, di forza schiacciante. Dovremo usare parole ambigue, ma nulla di soprannaturale. Diremo loro che una forza naturale, insormontabile ma naturale, ne ha causato la morte. Dovranno accettarlo.»
Il signor K. spense il sigaro, pigiò con l’indice al centro della montatura per riposizionare i suoi grandi occhiali, infine assentì.

[u]Monte Kholat Syakhl (Urali, Siberia), 1 febbraio 1959.[/u]

La mattinata fu ostile. Un vento forte e contrario fischiava fin dentro la cavità in cui s’erano rifugiati, ai margini della foresta. La visibilità era ridotta a meno di cento metri. Le asce di Yuri e Rustik si accanivano contro le betulle che crescevano stentate sulla collina alla destra del campo base, mentre Igor e Alek erano saliti in perlustrazione.
Durante il pranzo Georgiy chiese quali fossero i piani.
«La visibilità sopra è abbastanza buona», affermò Dyatlov, voltandosi verso Kolevatov, che confermò.
«Cosa pensi di fare?» domandò Zina, fiduciosa.
Igor lanciò un’occhiata all’orologio da polso, che segnava le ore 14:14.
«Questo posto va bene per un rifugio, ma per accamparci non è uno spazio adatto…»
«Come no! Qui mettiamo il salotto. Lì dove c’è zio Sasha il bagno, così non deve neanche spostarsi se gli scappa!» sghignazzò Georgiy, a cui proprio non riusciva di perdere il buon umore.
«Quindi che si fa?» insisté Zina.
Dyatlov guardò ancora una volta l’ora, portò più volte le mani al volto. Poi si alzò come per parlare al gruppo, da capo: «Credo che potremmo lasciare qui la legna e qualche altra provvista. Ci saranno utili al ritorno. In questo modo saremo più leggeri e più veloci, perciò potremo tagliare sul versante orientale del Kholat Syakhl», indicò la direzione stendendo il braccio, «e guadagnare un giorno. Se saliamo verso la cresta e riusciamo a fare una notte fredda, senza legna, domattina ci troviamo con un bel vantaggio. Sopra avremo neve ferma, potremmo proseguire verso Otorten, sciare e raggiungere il lago Lunthusaptur», sorrise, per infondere fiducia negli altri. In realtà quelle parole sorpresero tutti, ma nessuno osò contestarle. Il gruppo rimase in silenzio. Tranne Sasha, che abbozzò un’obiezione: «non c’è grande visibilità, né tanto tempo prima che faccia buio.»
«Sentite», concluse Igor, «è un piccolo cambio di programma, tutto qui. Se preferite è un rischio calcolato, ma io credo che ne valga la pena. Se però qualcuno non è d’accordo non lo facciamo.»
Di nuovo nessuno fiatò e fu ancora Sasha a prendere la parola: «Bene. Se è così che deve andare, allora sbrighiamoci, non abbiamo molte ore di luce.»
La salita non fu semplice. Il vento li sferzò senza tregua e le temperature scesero ancora. Dopo circa due o tre chilometri la luce iniziò a tramontare, così decisero di accamparsi per la notte. Mentre montavano la tenda furono salutati da bizzarre scie luminose arancioni che solcavano il cielo. Yuri riuscì a scattare una foto mentre ancora brillavano.
«Sono gli alieni che vengono a prenderti», scherzò come al solito Georgiy.
Una volta all’interno, in pochi minuti Lyuda e Tibo strinsero gli spaghi con dei nodi attorno agli anelli, per sigillare l’ingresso e l’uscita. Gli altri si stavano già togliendo calzini e vestiti gelidi di dosso, per indossarne altri più caldi e asciutti per affrontare la notte. Si stavano chiedendo cosa mangiare per cena, pregustando qualche ora di riposo mentre scherzavano sugli alcolici nascosti negli zaini.
L’atmosfera cameratesca venne strozzata di colpo da improvvise raffiche di vento. Zina, che era poggiata sul lato più esposto della tenda, fu scaraventata a terra. Sembrava che un uomo invisibile le avesse dato uno spintone.
«Che cazzo!» gridò Tibo, accorrendole in aiuto.
Dopo altre due bordate, Rustik e Tibo gridarono: «Ci scoperchia! Voliamo via!»
Igor aveva fiutato la gravità della situazione, e gridò ancora più forte: «Mettetevi lungo le pareti della tenda, quattro con me, gli altri ai lati e dietro, tenetela e spingetela in basso!»
Zina nel frattempo s’era risollevata illesa, ma terrorizzata: «Igor, ma che succede?»
Sasha aveva ricominciato a vestirsi molto rapidamente. Fu lui a risponderle: «Sono venti catabatici!»
«Oddio…» sussurrò Zina.
«Scherzi vero?» sbraitò Rustik.
«Tenetela per dio!» urlò Igor, mentre un’altra raffica spingeva dall’esterno nel tentativo di trasformare la tenda in una vela.
Tibo allora perse il controllo. Si inginocchiò ripetendo come una cantilena: «venti catabatici!» Poi corse a indossare tutto ciò che poteva, ignorando Yuri che lo scongiurava di aiutarlo con la tenda. S’infilò tre paia di pantaloni, due cappelli, scarponi, guanti, un maglione di lana e una giacca di pelliccia di montone, prima di lanciarsi verso l’ingresso della tenda per sciogliere i nodi. «Dobbiamo uscire subito!»
«Tibo! Fermatelo!» intimò Igor.
«Fermati Tibo!» gridarono come un ossesso anche Lyuda e Zina.
«Sono raffiche, non dureranno molto, aiutaci a tenere ferma la tenda» rincarò Yuri, pregando che avesse ragione.
Tibo non ne voleva sapere: «Ci seppellirà qui sotto, dobbiamo uscire!»
Allora Igor mollò la tenda e si avventò su Tibo. Iniziarono a spintonarsi, a urlarsi addosso. Sasha era l’unico insieme a Tibo a essersi rivestito del tutto. Fuori era buio e la temperatura – a causa dei venti - era scesa a meno trenta, forse meno quaranta gradi. Uscire equivaleva andare incontro alla morte. Una nuova raffica fece gonfiare e scrocchiare la tenda. La sensazione che tutto cedesse da un momento all’altro spinse all’esasperazione Tibo e Rustik, che volevano uscire subito e correre verso la foresta. Lì avrebbero scavato un riparo, usato qualche ramo per accendere un fuoco, poi sarebbero tornati alla tenda se questa avesse resistito alla furia del vento.
«Figlio di puttana, ci farai morire tutti qui sotto!»
«Siete impazziti! Se usciamo siamo spacciati!»
Le urla si trasformarono in colluttazione. Dopo gli spintoni volarono i cazzotti. Igor e Rustik assestarono diversi pugni l’uno sulla faccia dell’altro. Igor ebbe la meglio quando decise di fracassare una torcia di metallo sul cranio del rivale, facendogli perdere conoscenza per qualche istante. Tibo invece s’era beccato una sassata in bocca da Yuri. Neanche lui sarebbe riuscito ad aprire la porta della tenda. Fu forse lui, o forse Rustik, o chissà chi altro: in mezzo a quel delirio di urla, calci e pugni, la punta di un coltello squartò la tenda dall’interno. Una, due, tre volte.
Tibo e Rustik uscirono per primi, seguiti dagli altri. La tenda era una nave che affondava. Ognuno di loro gridava all’impazzata, ma le loro parole non riuscivano a superare la trincea dei denti, oltre i quali venivano cancellate dalla bufera.
Igor e Sasha tentarono di scavare un po’ di neve e di gettarla sul lato della tenda colpita dal vento, nella speranza di preservarla.
Poi, come gli altri, si avviarono verso la foresta.


[size=85][i]* Questo racconto è ispirato a eventi realmente accaduti. La ricostruzione che qui viene suggerita è verosimile, ma frutto di interpretazioni che non necessariamente costituiscono una verità fattuale, non avendo quindi la pretesa di essere una puntuale ricostruzione storica. Anche i personaggi sono reali (eccetto il signor K. e il signor T. che sono immaginari), ma i loro caratteri e i loro comportamenti sono piegati alle esigenze narrative e non intendono rispecchiare in modo fedele la realtà.
[/i][/size]
Ultima modifica di Goliarda Rondone il 07/07/2020, 3:04, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

nonostante la lunghezza, la storia si lascia leggere facilmente.
è ben esposta e le descrizioni sono più che buone, anche se a tratti pare diventare noiosa, soprattutto all'inizio.
vero che si riferisce a un fatto realmente accaduto, ma il taglio è forse troppo giornalistico per riuscire a coinvolgere completamente il lettore.
mi lascia perplesso il finale, assolutamente inatteso.
nel complesso è una buona prova
l'unico modo per non rimpiangere il passato e non pensare al futuro è vivere il presente
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ce n'è abbastanza per un romanzo, o comunque per un'opera di respiro più ampio che questo.
Ti segnalo solo:
"gridarono come un ossesso anche Lyuda e Zina." al femminile e al plurale naturalmente.
Per il resto è ben scritto, ti suggerisco solo di mandare punto e a capo la voce narrante e i pensieri dei protagonisti.
Poi avrei evitato termini in inglese, Mister o District, trovare l'equivalente russo non è difficile.
Il racconto funziona, ma l'intervista al sopravvissuto mai partito occupa forse troppo spazio, anche se il suo racconto ti è servito a spiegare il finale. Si sono ammazzati tra loro presi dal panico. Beh, forse un po' troppo. E il resto si è suicidato.
Un'ascensione negli Urali settentrionali in pieno inverno mi pare un po' troppo azzardata per un'allegra comitiva, seppure la montagna più alta da quelle parti non arrivi a 1500 metri sul livello del mare. Quindi poco più che un'escursione. Ma in pieno inverno, oltre i 60 gradi di latitudine Nord in Siberia, tra il gelo e la luce brevissima del giorno mi pare una strada senza via d'uscita. Sui venti catabatici li sperimentiamo nella variante calda, favonio, ma so che quelli freddi sono distruttivi.
Bel lavoro.
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Messaggio da leggere da Andrepoz »

Vicenda molto interessante, che non conoscevo e che sono andato ad approfondire, avendo così modo di apprezzare ancora di più la bravura dell'autrice nel mantenersi aderente ai fatti reali. Il racconto è condotto con mano sicura e con uno stile convincente, non era facile riuscire a rendere conto in uno spazio così ridotto di una storia tanto intricata. Davvero un bel lavoro, complimenti.
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Messaggio da leggere da Edmondo »

Grande capacità di scrittura. In genere non leggo questo genere e l'ultimo che riuscì ad avvincermi tanto fu Martin Cruz Smith con "Gorky Park", quando facevo il militare (parlo di 40 anni fa). Sembra la parte di un intero romanzo o di una sceneggiatura, e se non lo è, lo dovrebbe essere. Ora torno alla lettura perché non ho resistito a scrivere la mia impressione a caldo. Comunque sei un professionista del genere, garantito. Un intero romanzo di questa tenuta a me sembra possa premiare anche con un sacco di vendite.
Edmondo
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Re: Picco 1079

Messaggio da leggere da Edmondo »

Goliarda, vedo che sei fuori gara e il tuo è uno dei migliori racconti. Basta fare un commento per entrare, seguendo le istruzioni (devi scrivere commento davanti). Se poi non ti interessa, ok, scusa il disturbo.
Lucia De Falco
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Messaggio da leggere da Lucia De Falco »

Il testo è ben scritto ed è vero che potrebbe essere ulteriormente sviluppato come romanzo o come sceneggiatura per un film. Mi piace soprattutto l'inizio, con l'intervista, che cerca di scavare nella vicenda e nella psicologia dei personaggi. Mi ha lasciata insoddisfatta il finale, che andrebbe un po' approfondito.
Simone_Non_é
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Messaggio da leggere da Simone_Non_é »

Ciao Goliarda! Si nota un certo lavoro dietro a questo racconto che risulta essere ben scritto e curato in ogni suo aspetto, interessante anche la scelta del tema. Unica pecca per me importante è la lunghezza, da un racconto breve mi aspetto un maggiore senso di immediatezza, detto questo, complimenti
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