Il destino commiserevole di un uomo fastidioso

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FedericoBisto
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Il destino commiserevole di un uomo fastidioso

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«Cosa dovrebbe preferire un essere umano?» si disse. «Restare legato ad un corpo e ad un altro che non ama più o fingere... o continuare a mentire per il semplice motivo di avere qualcuno accanto; la comoda sensazione e la possibilità di non restare soli; la placida e tiepida sensazione di sicurezza che viene dal non vedere le proprie parole restare inascoltate e i propri sguardi rimanere fissi sul niente. Cosa dovrebbe preferire un essere umano? Cosa sarebbe più difficile? Chi può resistere più a lungo: chi capisce di non essere più amato, o colui che finge di amare? Esiste un momento in cui la menzogna è solo una menzogna o deve necessariamente assumere l’apparenza di una verità per rivelarsi ciò che è. O forse è proprio in quell’esatto momento che diventa la pura verità… la verità che diventa cioè che è dopo essere passata dalla menzogna per così dire… ma no, si sta ingarbugliando!» si disse ancora, scuotendo la testa a destra e sinistra.
«Come al solito, Professor Nico» disse fissandosi allo specchio (aveva questa abitudine, nata quasi per sbaglio e continuata nel tempo di parlare con sè stesso in terza persona) «come al solito si lascia trasportare dalle parole e le lascia andare per conto loro; le prende e poi le perde per la strada. Le perde e ci si perde a sua volta. Lei ha sempre dato troppa fiducia alle parole. Che non si ricorda? Ma che ci può fare:» disse alzando le sopracciglia «lei ha sempre parlato solo con se stesso. Che uno non si fida di quello che dice adesso? Che non si fida delle sue stesse parole, di quello che esce dalla sua testa e dalla sua bocca? Ci mancherebbe; lei poi, figuriamoci. Forza, Professore, non si abbatta: lo metta nero su bianco non può perderci ancora delle ore, su. La smetta di girarci intorno come un animale. Provi a dirla così; in breve soprattutto. Forse che nella brevità non c’è sempre la più grande verità? l’aforisma professor Nico, ricordi, l’aforisma: beh ecco, allora, la brevità: “La verità ha bisogno della bugia. Sempre”.»
Fu relativamente contento di ciò che si disse quel giorno; dopotutto erano le piccole e semplici soddisfazioni che ancora si concedeva. Darsi ragione, complimentarsi per le sue stesse profondità di analisi del mondo; elogiare il suo pensiero che riteneva così elevato rispetto alla massa. Poco importava se le cose che diceva a sé stesso sembrassero il più delle volte senza capo né coda anche a lui. L’importante era pensare, e dirsi qualcosa di sensato; ogni tanto. Mantenere l’allenamento insomma, non perdere lo smalto. Si desse mai il caso che dovesse capitargli l’occasione di parlare con qualcuno: su ciò era categorico. Doveva farsi trovare pronto. Possedere l’argomento. Quale sensazione di più dolce piacere lo pervadeva, se non quella di far sentire un uomo di fronte alle proprie parole e conoscenze, un ignorante. Sprofondarlo ed ubriacarlo con un’esibizione circense ed acrobatica di cultura superiore. Ma quale contentezza lo alzava da terra poi; quale calore e gioia si impossessavano di lui quando ascoltandosi poteva vedere negli occhi del suo ascoltatore l’ammirazione; la curiosità. La presa di coscienza da parte dell’altro che ci di fronte a lui ci fosse quella che si definisce una mente non comune; un genio magari. Il genio: quale ambizione, quale godimento estetico e narcisistico veniva da queste poche sillabe. Che forse non ne aveva fatto il suo scopo? Che forse la libreria in mogano e salice con più di 1500 volumi non rappresentavano per lui il semplice riflesso o densità concettuale dei suoi pensieri, del suo sapere? La pesantezza per così dire nozionistica, della sua mente? Dopo la cena ed il whiskey, prima di coricarsi, avvolto nel suo pigiama di seta si concedeva sempre cinque minuti del suo tempo per ammirarla. Spesso prendeva un libro, ne accarezzava il dorso, percepiva la filigrana e la ruvidità della carta, ammirava le miniature. Per ultimo ne leggeva il titolo: ricordava o fingeva di ricordare ciò che vi era scritto e andava a letto, un po' turbato, ma tutto sommato felice.
«Mi dica, insomma professor, Nico» si disse continuando il discorso cominciato la sera prima «dopo quanto tempo questo dramma verrebbe scoperto? Dopo quanto gli attori in scena dimenticheranno le battute o si stancheranno di recitare il difficile canovaccio dell’innamorato e dell’amore. E una volta scoperta la verità, una volta scoperto nel volto dell’altro la menzogna fino ad allora nascosta nella linea sottile e marcata di un sorriso… cosa sarebbe più difficile da accettare: capire immediatamente che essere e aver significato qualcosa per qualcuno è arrivato alla sua fine e non ha più senso; o magari sarebbe più doloroso continuare ad essere imbrogliati per molto tempo? È una questione d’orgoglio; o con i sentimenti, con certi sentimenti soprattutto, l’orgoglio non c’entra? E poi le confesso - perché è una questione che mi tocca da vicino- : con quale coraggio un essere umano che smette di amarne un altro può ancora parlare d’amore? Con quale coraggio un individuo può ancora ascoltare le parole che gli rivelano tutto ciò che quelle parole dicono dell’amore e dell’amare. Ma poi, se ci pensa, ad un uomo qualsiasi che ha amato davvero non servono nemmeno le parole: gli basterebbero un paio di occhi che lo guardano e non desidererebbe altro. Che cos’altro è mai servito ad un uomo davvero innamorato? A lui questi due occhi sembreranno e saranno un mondo; mentre per l’altro, questi due occhi, non significheranno più niente. In quella lattiginosa e umida lucentezza ci vedrà solamente il riflesso di sé stesso e nient’altro. Si è detto spesso tra sé, Professore, che l’amore è simile ad uno specchio: se un uomo o una donna che ama, vi guarda dentro, in esso vedrà il suo amore e anche l’amore dell’altro. Lo vedrà nonostante il caso che questo amore, nell’altro, abbia smesso di essere presente. Di fronte allo specchio dell’amore come di fronte a quello della vita di tutti i giorni non vediamo altro che noi stessi. Nella ricerca di chi e che cosa siamo di fronte agli altri siamo costretti alla più inutile e miserabile delle risorse: uno specchio, per guardarci. In fondo lei, come spesso si è ripetuto dopo averlo provato molte volte, crede che amare un altro sia solo un altro modo per amare sè stessi, o più che sé stessi, l’idea; l’idea che si ha di sé stessi e che ci si è fatti dell’amore. Col tempo chi arriva a comprendere la falsità di tutto ciò, chi incomincia a vedere realmente sé stesso in quello specchio e ad odiarsi (perché questo succede davanti ad uno specchio. Ci si stanca di guardarsi, si percepisce la propria faccia così come è; fino al ribrezzo) smetterà di provare amore e dimenticherà persino cosa esso voglia dire; sempre se a qualcuno nel mondo sia mai stato concesso tale privilegio o condanna, per come la si voglia chiamare ed intendere. E poi, lei nemmeno immagina… ma no; non dovrei forse dire che lei lo sa meglio di chiunque altro? Ma sì, diciamolo: lei immagina, lei SA cosa tale sentimento possa fare all’animo e alla mente di un uomo. Come lo sconvolga, come lo rivolti; fino a che bassezze e viltà lo possa spingere per cause a volte così futili e ridicole. Di cosa non diventi capace di fare e di non fare un uomo innamorato o che creda di esserlo. Di cosa sia capace di nascondere, di perdonare, di lasciar perdere… lasciar perdere. Disse qualcosa del genere anche Céline sa? Sì, Céline, lo scrittore francese: “Si lascia perdere. Si diventa comprensivi, e si cola a picco”. Quale migliore descrizione per un uomo che si metta ad amare o sopportare qualcosa. Lei non crede?
Significare mi diceva poc’anzi... significare qualcosa per qualcuno. Questa continua ricerca di significati… le cose, come lei sa meglio di me, devono sempre ed in qualche modo rimbalzarci addosso, ritornare a chi le ha lanciate. Tutto deve avere un senso, per dirla “nel vecchio stile”, o si finisce per diventare degli esistenzialisti, dei pazzi, o se si è fortunati dei nostalgici. Si deve sempre significare qualcosa per essere importanti per qualcuno, eccola la verità. Senza un significato, noi, così come siamo, fatti di carne e ossa e merda non varremmo niente. Nemmeno per noi stessi. Eh sì, mio caro Professore, che grande bugia continuiamo a raccontarci, con quali frottole torturiamo la nostra coscienza… Ma ciò che mi stupisce più di ogni altra cosa e di tutti è lei, proprio lei Professore… con le sue qualifiche accademiche, i suoi dottorati, la sua immensa conoscenza nei più disparati ambiti umanistici e scientifici passati e contemporanei. Il suo acume, il suo sarcasmo, il suo pensiero… cadere così in basso. Con quale menzogna continua a prendersi in giro Professor Nico, con quale menzogna continua ad ingannarsi da tutta la vita…»
Ma Nico, più del sé interlocutore con cui parlava, lo sapeva bene. Sapeva della sua menzogna, sapeva cosa faceva più male e cosa era più doloroso tra la verità o una menzogna. Nico si è tolto la vita il mese scorso. Rimase solo. Sua moglie, con cui condivise 22 anni di matrimonio, tre anni più giovane, bionda, con una mente brillante e unica donna della sua vita conosciuta durante il suo dottorato alla Sorbona, aveva smesso di amarlo. Ma questo lei non glielo disse. Nico non seppe nemmeno questo. Questo è quello che pensò; questa fu la spiegazione che si diede a quella faccenda, la risposta alla sua domanda. Il senso e il significato che attribuì alle parole che aveva letto su un breve messaggio sul telefono alle 4:00 di un lunedì mattina che suonò vibrando sul comodino e lo svegliò: “è finita” diceva il messaggio, “è finita” poi più niente. Nemmeno un punto. Scritto di fretta e poi inviato, come togliersi delle briciole dalle maniche; come gettare nel bidone un pezzo di carta. Lì, quella notte, steso sul letto e nei giorni successivi per quanto ci provò non riuscì nemmeno a piangere, non riuscì a dire nulla. Sentiva sempre di più che sul suo corpo cadeva l’invincibile peso di un silenzio infinito. Un peso che lo schiacciava e lo comprimeva; che lo facevano sentire minuscolo ed impotente anche di fronte alle mura della sua stanza. Rimase in questo stato per molti giorni, all’università in cui lavorava chiese alcuni giorni di riposo. L’unica cosa che gli riusciva di fare era pensare. E quando un uomo pensa e rimane in silenzio solo nella sua stanza non fa altro che pensare e dunque ricordare. Anzi era proprio la sola cosa che gli riuscisse di fare in qui lunghissimi giorni senza albe e tramonti – pensava solo che gli sarebbe piaciuto almeno sentirselo dire di persona; poter avere avuto almeno l’occasione di vedere un’ultima volta quegli occhi marroni che non avrebbe mai rivisto. Provò molte volte a ricordare quegli occhi. Ci provava a casa disteso sul letto; ci provava sulla tazza del water la mattina preso, o mentre guidava la sua auto nei lunghi giri sulla strada con cui lasciava passare la notte e le ore. Provava ma non riusciva: «perché è così difficile ricordare un volto» si diceva, «anche un solo dettaglio… mi basterebbe ricordare anche un solo dettaglio di quel volto. Anche io se mi penso, se provo a vedermi non ci sono, non sono niente». Quel giorno si rese conto che ricordare un volto poteva essere più difficile di ricordare un intero volume o un libro di semiotica. Che strana la memoria: ricorda a volte le cose insignificanti e ciò che vorremmo ricordare davvero, finisce nel buio, in un vuoto senza inizio e fine. A pensare certe cose gli passò per la testa l’idea, un po' strana, che ogni essere umano, preso da solo, non fosse nulla ed avesse bisogno di un altro per esistere. Di un altro che lo guardasse per dire poi a sè stesso di esserci. «Niente», blaterava davanti allo specchietto retrovisore dell’auto, «di noi e di chi ricordiamo non resta niente. Per quanto uno si creda legato ad un essere umano, di lui non resta niente». L’immagine del volto di sua moglie era sparita. Ricordava solo momenti felici (molti) e tristi (ancora di più) e tornava spesso a ricordare come era iniziata e come era bruscamente finita. Solo ricordi, nient’altro: brevi immagini sfocate di esperienze vissute che si confondono nella testa. Analizzò ogni cosa e concluse che sua moglie se ne andò dalla sua vita con la stessa rapidità e velocità con cui era entrata. Era stato una sorta di ballo sfrenato; il profumo, la musica il sudore e i baci senza fine con le lingue che si fondevano l’una sull’altra, due corpi, due mondi che si esploravano toccandosi e baciandosi. Un ballo durato degli anni in cui si erano ritrovati avvinghiati, legati dal caso e dalle circostanze della vita. E poi silenzio. La musica aveva smesso di suonare e finita la musica uno aveva preso una strada e l'altro era rimasto sulla pista da ballo. Ovviamente fu Nico a restare sulla pista, credeva persino che quella canzone non fosse finita. Non aveva nemmeno mai pensato che potesse finire, nemmeno che qualcosa finisse sembrava avere per Nico un senso. «Una cosa, un pensiero ed un uomo finiscono solo quando muoiono. Che forse io sia già morto ora che per me non può iniziare più nulla. Ora che per me è finito tutto?». Si domandò questo prima di rispondersi di sì e di tagliarsi le vene dei polsi nella vasca da bagno. La morte fisica completò solamente quella dello spirito e del suo io. La morte fu sola la risposta esatta, la verità di fronte alla sua incertezza. Anche lui, come ogni cosa della vita, era “finito”. Aveva finito di esistere, finito si essere, finito di stare nel mondo e di guardare le cose. Mentre moriva uno dei pensieri che si affacciò alla sua mente fu l’idea, che agì su di lui come un brivido, che una volta morto anche il mondo intero come lo aveva conosciuto sarebbe scomparso. Quale senso che il mondo continuasse ad esistere quando anche una sola mente finiva di pensarlo, di viverlo. pensò questo e poi, lentamente, morì.
Prima di quel giorno, prima di ver deciso di mettere fine a tutto e così anche alla sua vita, trascorse qualche anno nell’apatia grigia del suo lavoro all’Università come professore e ricercatore ordinario. Tornato a casa trascorreva la maggior parte del suo tempo nella solitudine della sua villetta in città mangiando cibo d’asporto e a bere whiskey fino a perdere i sensi. O davanti alla sua libreria in mogano e salice ad osservare ciò che aveva letto e ciò che, attraverso le letture, era diventato. Un giorno, mentre si radeva ed osservava il suo volto ed il suo corpo, ricordando ciò che di quel suo volto e di quel copro piaceva a sua moglie, iniziò a credere che per lui valesse quel detto antico per cui si ama una sola volta nella vita. Doveva pensarla così anche sua madre (si stava radendo proprio perché il giovedì sua madre andava a trovarlo). Ma nemmeno sua madre glielo disse apertamente; ma non poteva certo nascondere davanti a suo figlio lo sguardo dei suoi occhi e il tono della sua voce che rivelavano di per sé ogni cosa. Dopotutto restava sua madre: come non soffrire, come non sentirsi vuota. Abbattuta tanto quanto lui, ne più ne meno. Nemmeno il suo cuore sessantacinquenne che aveva dato alla luce due figli e aveva perso un marito e in genitori si dava pace. Una donna che per lui aveva dato tutto; che avrebbe dato senza pensarci due volte la vita, per quella di suo figlio. Cosa può pensare una madre di una donna che abbandona il figlio. Il proprio figlio. Una donna che non è ancora madre può davvero ritenersi in grado di amare un altro essere umano spassionatamente? Senza la chiara, consapevole, subdola idea di avere qualcosa in cambio? Sua madre si chiedeva questo, e a questa domanda sorta quasi spontanea si chiedeva di nuovo se quello che era mancato nella vita di suo figlio fosse stato, appunto, un figlio. Un figlio pensò. Che fosse davvero quello che mancava tra loro? Un legame di sangue, cellule e liquidi. Ci aveva pensato tante di quelle volte anche Nico ad un figlio. E tante furono le volte che sua moglie gliene aveva parlato. Le aveva fatto capire di volerlo, di averne bisogno. Lui stesso, in alcuni giorni, credeva di volerlo. Ma sapeva che mentiva e sapendolo si arrabbiava: «che senso mettere al mondo un figlio», si diceva, «quando si è compreso quanto è difficile vivere. Quando si è arrivati a credere che quello di essere venuti al mondo sia stato uno spiacevole inconveniente. Uno scherzo del destino verso di noi, una colpa. Una colpa… mettere al mondo un figlio sarebbe stata la prova evidente di non aver capito nulla della vita. Peccare due volte. Una menzogna: anche questa. Verso sé stessi e verso tutti. Credere che qualcosa possa durare; un gioco perso in partenza con la morte, un finale di partita annunciato e portato avanti senza speranze, una scelta da idioti. Che forse sfugge qualcosa alla morte? No. Noi mettiamo al mondo qualcosa che è destinata irrimediabilmente a morire, da quando un orologio comincia a battere il tempo quel corpo sta morendo. Un passo per entrare nella vita, e un passo verso la morte. Nascere morendo.»

«Avevo amato davvero mio marito prima che venisse al mondo Nico» si chiedeva sua madre quando tornava a casa dalle sue visite al figlio. Si chiedeva spesso questo, Simona; soprattutto da quando il marito era morto cinque anni prima. Mi amava lui? Può davvero farlo un uomo? Che un padre possa davvero provare per il proprio figlio o figlia che sia, ciò che prova una madre; può amare il sangue del suo sangue? Cosa può mai rivedere in un figlio un genitore che lo mette al mondo? I suoi errori, i suoi vecchi sogni, le ambizioni che non ha mai raggiunto? È un riscatto verso la vita, una rivincita nei confronti di ciò che il destino ha riservato per noi, forse una sfida all’eternità della morte? Cosa vedono una madre o un padre davanti ad un figlio, ed un figlio cosa vede? Sono forse uno specchio gli uni per gli altri? Delle cellule e degli atomi in atto, si. Atomi che si agitano, che vanno di qua è di là, che cadono, che piangono e che muoiono. Atomi in potenza dentro i loro organi riproduttivi e nella loro storia, arrivati sulla terra per caso. Per una serie di concatenazione di causa infinite che si susseguono da millenni. Una casualità cominciata con Adamo forse: il primo uomo senza una madre… O magari un figlio è solo uno sviluppo di quegli stessi padri e madri; delle versioni evolute, deviazioni, sì, ma in fondo la stessa identica cosa. Una storia che si ripete in cui ci ostiniamo a riconoscere e vedere delle differenze.
Una volta che sua madre se ne fu andata, Nico prese il rasoio e dopo essere entrato nella vasca da bagno ed averla riempita con l'acqua calda si taglio le vene. Prima che l’ultimo istante di vita abbandonasse il corpo, nudo nella vasca e ormai immerso in un miscuglio di acqua e sangue, Nico provò a ricordare il volto di sua madre. Non ci riuscì. Ma questa volta, prima di morire la seconda volta nella sua vita, pianse. E ne fu contento.
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Liliana Tuozzo
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Messaggio da leggere da Liliana Tuozzo »

Il racconto in generale è ben scritto. in realtà più che un racconto sembra un trattato filosofico, sia per la lunghezza del teso, sia per il contenuto. Le domande esistenziali che il protagonista si pone sulla vita, sull'amore, sul rapporto tra genitori e figli non trovano risposta. La mente contorta del professore le elabora, ma dà sempre a tutte un risvolto negativo che lo porta ad auto sopprimersi. L'inutilità di mettere a mondo un figlio secondo il suo pensiero è agghiacciante. Troppo cerebrale e poco propenso ai sentimenti, credo che il tuo protagonista si sia nutrito solo di pensiero.
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

beh, intanto hai scritto un muro di parole micidiale che fa passare la voglia di leggerlo, e poi è pieno di refusi.
per prima cosa, quindi, consiglierei una bella revisione generale, aggiungendo qualche a capo, togliendo un po' di due punti e verificando la punteggiatura.
la storia in sé non mi è piaciuta, pare davvero un trattato filosofico, anche se non ne capisco lo scopo.
probabilmente non riesco io a entrare in sintonia col racconto, mi spiace
l'unico modo per non rimpiangere il passato e non pensare al futuro è vivere il presente
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Messaggio da leggere da Lucia De Falco »

Anch'io ho notato vari refusi e snellirei la prima parte, quella con le riflessioni sull'amore, che ho letto molto rapidamente, perché è troppo lunga e tende ad annoiare il lettore. Migliore la seconda parte, perché almeno c'è un minimo di storia, anche se prevalgono le riflessioni sulla vita, tutte sviluppate in senso pessimistico.
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Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Il testo mi è risultato faticoso per le diverse imprecisioni e anche per come è strutturato; inoltre anche se vengono poste molte domande e molte riflessioni non ha suscitato in me una grande risposta emotiva. Per questo quello che, mi pare, fosse lo scopo del racconto non mi sembra molto riuscito. Per questo mi è piaciuto poco.
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Messaggio da leggere da Ida Dainese »

Un testo un po' difficile da leggere perché, a differenza di un racconto, è un continuo susseguirsi di riflessioni del protagonista, di domande a se stesso, di ragionamenti che non hanno agganci con la realtà. Un'eventuale revisione riguarderebbe il modo di riassumere e di trasformare in azioni concrete quello che per la maggior parte è pensiero astratto. Quello che, per esempio, definisce il personaggio sono il titolo, il guardarsi allo specchio, carezzare il dorso dei libri e il finale.
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Roberto Bonfanti
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Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

Concordo con i commenti precedenti: il testo dà pochi agganci al lettore, lascia un senso opprimente di pessimismo a causa dei flussi di pensiero che portano al finale tragico, quasi ineluttabile e che poco concede fin dal titolo. Le riflessioni del professore sono quelle di un uomo sprofondato in un “male di vivere” ormai incurabile; di fronte alle molte domande sul senso della vita sceglie l’oblio e il suicidio.
A fronte di una buona padronanza lessicale ci sono diversi refusi, consiglierei una revisione accurata del racconto.
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
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Esiste tuttavia una fetta di Umanità che rifiuta questa utopia, in quanto la ritiene una distopia grave e pericolosa.
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