Babi Yar
Inviato: 08/10/2021, 12:00
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Ucraina, 29 settembre 1941
Il C.S.I.R. era stato costituito in fretta e furia all'inizio di luglio e messo a disposizione dell'undicesima armata tedesca sul fronte sud, lungo il fiume Dnestr.
Mi ritrovai nel mio vecchio reggimento, il 79° Roma inquadrato nella divisione Pasubio, e all'inizio di luglio fummo inviati, attraverso sterminati campi di grano, solcati da torrenti gonfi d'acqua bruna, che si alternavano a colline colorate dai girasole, nel ventre del gigante eurasiatico.
Sulla strada non incontrammo altro che villaggi abbandonati e dati alle fiamme e colonne di civili in fuga dai combattimenti: tuttavia bastarono quelle poche settimane per farmi perdere le ultime illusioni sulla necessità del regime e ogni residua fiducia sulla lucidità del duce.
Già in agosto il C.S.I.R. aveva affrontato le prime dure battaglie con le retroguardie dell'Armata Rossa, sul fiume Bug, in luoghi dai nomi impronunciabili: Wosnessensk, Pokrovskoje, Yasna Poliana.
Ne uscimmo duramente provati, e io compresi che i tedeschi non avrebbero vinto così facilmente come tutti fino a quel momento avevano creduto e sperato, e come ci avevano raccontato alla partenza dall'Italia.
Capii, dopo averli affrontati, che i russi avrebbero combattuto sino alla fine, senza mai arrendersi, che la Blitzkrieg nazista con loro non avrebbe funzionato.
Non molto tempo dopo il mio arrivo, in un villaggio nei pressi di Kiev, mi trovavo al comando del mio battaglione, in attesa di ordini dal comando di reggimento, ai bordi della strada maestra, quando passarono alcune GAZ M1 requisite con su le insegne da Gruppenführer der SS, scortate da diverse motociclette.
Dopo avermi oltrepassato l'auto al centro si fermò bloccando il corteo, e dall'interno qualcuno trasse fuori una mano facendo segno di avvicinarmi.
Mi accostai al finestrino e riconobbi Manfredi Chiaramonte; da anni non avevo sue notizie, l'amico con cui avevo condiviso gran parte della mia giovinezza, dai tempi della scuola fino all'università, e poi il servizio militare fino alla campagna d'Abissinia.
«Ludovico Velez» esclamò lui, quasi per nulla sorpreso di trovarmi lì, a migliaia di chilometri da casa.
Mi presentò i suoi camerati: «Questo è il Gruppenführer Otto Rasch» disse orgoglioso, stringendo la spalla dell'ufficiale generale.
Il braccio destro di Heydrich a Berlino, seppi poi.
«E questo lo Sturmbannführer della LAH Sigfrid Baumann.»
Scattai sull'attenti e feci il saluto militare.
«Mi sembra proprio impossibile» aggiunse sorridente, nel suo italiano che sapeva ormai di tedesco.
«Ananke ci fa rincontrare a diecimila chilometri dall'ultima battaglia! Quanti anni sono trascorsi?» Mi domandò, come se fosse davvero lieto del nostro incontro.
Indossava la divisa nero e argento delle SS, con le spalline di Standartenführer e le mostrine con i colori di un reggimento che non seppi identificare, ma su cui spiccavano due lettere che avevo imparato a temere: SD.
«Manfredi… » balbettai, stupito non tanto di trovarlo lì, quanto con quella compagnia tanto importante. «Sono passati quasi sei anni. Allora era vero quel che si diceva…»
Mi osservò incuriosito, ma attese che io continuassi.
«Sei passato al nemico… » provai con una battuta aspra.
Senza riuscire a celare tutto il mio livore dietro quel sarcasmo.
Un desolante ghigno spezzò la bocca di Manfredi e ritrovai quel sorriso indecifrabile che avevo imparato a conoscere sin da ragazzo, e che più di una volta mi aveva turbato.
«Attention» mi sussurrò. «Mon ami comprend très bien l'italien» e con un cenno della testa indicò il Gruppenführer seduto al suo fianco.
Uscì dall'auto, mi fece segno d'un largo sorriso, e afferrò poi il mio braccio iniziando una passeggiata, come se fosse la cosa più naturale del mondo e ci trovassimo in via del Corso a Roma invece che in una strada devastata di un villaggio ormai ridotto a un'unica rovina fumante.
In lontananza, a oriente, si intravedevano le cupole dorate della cattedrale di Kiev, mentre stormi di Stukas e di Messerschmitt ruggivano sopra le nostre teste, numerosi come nugoli di mosche sopra una carogna, carichi di bombe da sganciare sulla prossima preda oltre il Dnepr.
«Kiev è caduta e presto toccherà al resto dell'Ucraina… » m'informò, senza mostrare alcuna emozione. «La guerra procede nel migliore dei modi per noi.»
Poi s'illanguidì e cambiò tono.
«Vedi, io non nutro rancore nei tuoi confronti. È trascorsa una vita e migliaia di chilometri da ciò che avvenne in Africa. Tra non molto questa guerra terminerà e il Nuovo Ordine, che da ragazzi avevamo desiderato e sognato, nascerà; e durerà per secoli.»
Mi fermai pieno di fastidio. E sfuggii alla sua stretta. «Il nuovo ordine» ripetei, con una sfumatura di sarcasmo.
«Non ricordi, Ludovico? La nostra speranza era che tutto questo avvenisse il prima possibile. Dovresti gioirne, e invece leggo sgomento nei tuoi occhi» mi rimproverò.
Scrutai Manfredi, gli occhi azzurri e limpidi, il viso asciutto e quasi senza espressione, l'assenza apparente di sentimenti; ed ebbi la certezza che per lui nulla fosse cambiato dai tempi della campagna d'Africa e che, anzi, si fosse rafforzato quel modo di pensare, di vedere il mondo e di sentire la vita. E provai di nuovo quella strana malinconia, quella profonda tristezza, quell'inquietudine priva di contorni che avevo sperimentato al ritorno dal Corno d'Africa.
«Questo è il nuovo ordine per te?»
E allargai le braccia, come un Cristo in croce, a indicare le macerie tutt'intorno a noi, i cadaveri dei mugik abbandonati sulla strada e ridotti a una massa informe dai cingolati dei panzer.
«Non ancora… lo ammetto, ma ci sto lavorando… personalmente» mi rivelò.
E mi parve raggiante.
«Presto tutta la zona sarà Judenfrei. E poi toccherà ai bolscevichi e agli zingari, e poi ancora a tutte le razze inferiori… »
Rabbrividii e provai un senso di nausea. Tentai di irrigidire il ventre per evitare di rimettere l'unico pasto di due giorni.
E ricordai quella sera lontana, nella piana del Gebat, tra Makallé e Addis Abeba.
«E alla fine della giostra toccherà agli italiani? Perché solo alcuni tra voi stabiliscono, di volta in volta, quali siano le razze inferiori e quali le categorie da eliminare.»
«Ti ripeto di stare attento, Ludovico» mi mise in guardia con un tono che non ammetteva repliche.
«Sei rimasto il solito sentimentale, un siciliano incapace di costruire il futuro, come tutti i siciliani, e persino di comprenderlo o interpretarlo. Proprio non riesci a cogliere il bene e le opportunità di questa situazione? Come fai a esser tanto ottuso da non afferrare i lati positivi di una tale, complessa, grandiosa, opera d'ingegneria sociale?»
E mi fece cenno di aspettare. Tornò all'auto, scambiò due battute con Rasch, ed ebbi l'impressione che dei due fosse lui quello a dare ordini; poi si allontanò, non senza l'immancabile saluto al Führer.
«Come sei riuscito a salire tanto in alto, Manfredi? A far allontanare un Gruppenführer con un cenno?»
Gli uscì un sorriso compiaciuto, quasi una smorfia. «I galloni si conquistano sul campo» si limitò a spiegare.
«E tu non cogli l'inutilità di questa immane carneficina, dove a ciascuno è concesso di dar sfogo all'illimitato spettro delle proprie pulsioni? Tutto cambierà, è vero, ma in peggio» affermai, e per farlo feci ricorso a tutta la mia risolutezza.
«Le vite umane non sono che un dettaglio insignificante nell'immensità del progetto» rispose calmo, come se l'orrore intorno fosse un dettaglio insignificante. «Ho fatto fucilare miei ufficiali per aver detto meno» ruggì, d'improvviso feroce: ma subito sorrise e si ammorbidì. «Dopo ogni vittoria, sai bene, è necessaria la pulizia. Vieni con me, dimentichiamo la guerra per oggi: ti voglio portare in un luogo dove ti potrai rilassare e metter da parte la fatica di questi giorni… uno dei vantaggi di essere uno SS Standartenführer.»
Era un bordello quel vantaggio.
Come ce n'erano tanti al seguito degli eserciti, come era sempre stato e come sempre sarà, per rilassare i corpi e rigenerare il morale, per sostituire la stanchezza con un miserevole sfogo di pulsioni sessuali.
Tante ragazze giovani, molte probabilmente neanche maggiorenni.
Ma al contrario delle prostitute dei bordelli che avevo frequentato fino al quel momento, quelle non lo sembravano affatto, piuttosto ragazze di buona famiglia, appena uscite da un collegio o da una casa borghese, con ancora addosso i loro vestiti migliori.
E quegli sguardi tristi tradivano l'umiliazione per ciò che erano costrette a subire e, soprattutto, la paura per ciò che le attendeva alla fine del loro turno di lavoro "volontario" per il Reich.
«Questa è la nostra Frau Honecker, SS Hauptsturmführer» ci presentò Manfredi, in francese, accennando anche alla nostra amicizia di vecchia data.
«Ha qualche novità interessante per me?» Le domandò, questa volta in tedesco. «E qualche dolce ragazza slava per il mio amico capitano… può rimanere tutta la notte, se vuole» aggiunse.
La Frau annuì e sorrise accompagnandomi al piano di sopra.
Entrai in una stanzetta spoglia con un letto disfatto appoggiato al muro, la carta da parati verde ormai sudicia, e una finestra coi vetri rotti affacciata sulla strada.
«Was bist du?» Tu cosa sei, mi chiese la ragazza in tedesco, svestendosi e rimanendo nuda, come se obbedisse a un ordine e non le rimanesse altro da fare.
«Ich bin italianer, je suis un pauvre italien, couvrez-vous, s'il vous plaît» precisai, porgendole una vestaglia.
«Anche voi qui?» si meravigliò lei, con lo stesso francese. «Ma perché siete qui? Perché non rimanete nelle vostre belle città? Perché venite qui, a ucciderci? Cosa sperate di ottenere?» mi rimproverò aspra, facendomi morire dentro.
«Parce que c'est necessaire» mormorai, cercando di confortare me stesso più che lei, cercando di dare una risposta a me più che tentare di spiegare a lei.
«Quel est vôtre nom?» Le domandai.
«Mi chiamo Natasha… fino a tre settimane fa studiavo violino al conservatorio, prima che arrivassero i tedeschi a spazzare via le nostre vite» mi sussurrò, come se se ne vergognasse. «Mi hanno presa in un campo di granturco una settimana fa, mentre tentavo di fuggire, insieme ad altre ragazze ebree come me. Mi hanno convinta a servire in questo bordello militare in cambio della libertà. Mi hanno promesso che alla fine del servizio riabbraccerò la mia famiglia… che loro sono tutti in salvo in un campo di lavoro. Solo tre settimane di servizio mi hanno garantito. È buffo… una settimana fa non conoscevo gli uomini; adesso devo servirne cinque l'ora per diciotto ore, ogni giorno.»
La osservai… sembrava ancora una bambina Natasha, con la pelle diafana di chi non vede il sole da troppo tempo e dita lunghe e sottili usurate dalle corde del violino; occhi tristi e gentili, ardenti per l'intensa stanchezza e la paura, la silenziosa disperazione che nasce dall'incertezza del proprio futuro.
«Il suo amico è un uomo importante, sa» mi rivelò Natasha. «Ha una terribile fama. Anche i generali della Wehrmacht chinano il capo davanti a lui. Ma lei… pare così diverso. Vraiment vous étiez amis?»
«Oui, dans une autre vie» in un altro mondo, risposi.
Mi avvicinai e le offrii una sigaretta.
Natasha fumò voluttuosamente le pessime Milit italiane tagliate con lino e segatura, fumò come se quella fosse la prima sigaretta della sua vita… o forse l'ultima.
«Tous les italiens sont aussi gentils avec les filles?» Mormorò Natasha, con l'improvviso cambio d'umore che hanno i condannati a morte, quando un'improvvisa, incredibile, buona notizia riaccende una sopita speranza.
«Tutti gli italiani sono gentili. Gli italiani non sono cattivi» risposi. «Comme les russes.»
Natasha si mise a piangere, singhiozzando lentamente, tenui accordi di viola in chiave di sol.
E infine lo chiese.
Era la domanda che valeva una vita.
L'unica domanda ad avere importanza.
«Credi che manterranno la parola? Che ci faranno andar via senza farci del male?»
«Perché non dovrebbero?» Risposi sfiorandole il viso, ma sapevo bene che era una menzogna. «I tedeschi mantengono sempre la parola. Riprenderai a suonare il violino e diventerai una grande concertista, non temere» la incoraggiai, con la morte nel cuore.
Si addormentò, esausta com'era, mentre le carezzavo dolcemente i lunghi capelli biondi.
Poi, era quasi l'alba, afferrai la giacca e andai via.
«Herr Prinz Manfred» mi fermò frau Honecker nel suo tedesco dall'inflessione sassone, quindi balbettò in francese. «Le ha lasciato un biglietto e mi ha pregato di dirle che la verrà a prendere domani alle cinque. Si faccia trovare davanti al comando del suo reggimento. I suoi superiori saranno avvisati. La prega di essere puntuale» terminò, sfoderando un magnifico sorriso, come se il luogo in cui si trovava fosse il più normale del mondo e la sua una onorata professione.
Non ci sono monumenti su Babi Yar. Un burrone ripido come rozza pietra tombale…
Babi Yar, E.Evtushenko
Partimmo all'alba, su di una kubelwagen, diretti ad un luogo chiamato dagli ucraini
Babi Yar
Manfredi mi pareva contento, come se stesse andando a un picnic, e rammentava i vecchi tempi, le gite al mare da ragazzi, gli anni dell'università a Torino, il servizio militare, l'addestramento nella Milizia Volontaria a Sora.
«Porti ancora l'ouroboros di Ananke» osservai, per sfuggire a quei ricordi.
«Ogni cosa nasce, muore e poi ritorna» replicò lui, e mi mostrò l'anello, all'anulare della sinistra, come una fede nuziale.
«Il serpente si avvolge al tempo, e tutto ritorna, unità nella diversità» osservò. «Accompagna la mia famiglia fin dal regno di Ruggero… una storia che ritorna sempre uguale: guerre, massacri, pace e poi ancora guerre» aggiunse, con una sorta di compiaciuta malinconia.
«Forse si può spezzare» azzardai. «È possibile spezzare la catena. Si possono non ripetere sempre gli stessi errori.»
«Può darsi» ammise, con mia sorpresa. «Ho sempre seguito Ananke, non mi sono mai opposto a lei, come invece tenti ancora tu. Per questo sei qui con me» e mi sorrise. «Tu vedrai e capirai: poi cambierai il nostro destino».
«Vedere? Cambiare… » balbettai.
«Vedrai ciò che nessun italiano ha mai visto, prima di te. E, alla fine, comprenderai.»
Rabbrividii. «Dove stiamo andando?»
«Il nome non ti dirà nulla. È solo un luogo anonimo, dietro il cimitero di Kiev. Là aspettano gli uomini del mio Sonderkommando.»
«Sonderkommando?» Feci pieno di stupore.
«Girano voci in Europa… da anni. Le menzogne che le coprono nascondono la realtà. Il nazionalsocialismo ha fatto grandi passi in avanti, ma continua ad aver paura delle parole e nasconde le sue stesse azioni, la sua stessa essenza; come se la verità fosse troppo orribile per essere rivelata, troppo cruda per essere raccontata. Ci costringono a nasconderci… bugie, depistaggi, verità dette a metà o dette al contrario.
Oggi avrai l'opportunità di guardare la realtà in faccia, senza veli» aggiunse, e diede ordine allo staffiere di partire.
Babi Yar era come una ferita sul terreno piatto, come un contorto letto di un fiume privo d'acqua che attraversava la periferia occidentale fradicia di pioggia.
Migliaia di civili erano in fila sulla strada, scortati e sorvegliati dai collaborazionisti ucraini, da giorni avevano avuto l'ordine di recarsi in quel luogo con i propri mezzi, tirandosi dietro lo stretto necessario.
«Cosa sta succedendo» domandai, con voce rotta, quasi gemendo. «Dove stanno portando questa gente? Sono civili… donne, vecchi, bambini.»
«Non sono propriamente persone… sono ebrei, zingari. E bolscevichi: funzionari del partito comunista, commissari politici, con le loro famiglie. A questo servono gli Einsatzgruppen. A eliminare i nemici del popolo.»
«Ma quali nemici… vedo solo donne, bambini, neonati» protestai sbigottito.
Non riuscivo a credere a quello spettacolo, a quel che accadeva.
Manfredi si avvicinò a un gruppo di SS, che lo salutarono saltando sull'attenti e alzando il braccio.
Puzzavano di alcool ed erano visibilmente fuori di testa, le mani lorde di sangue e le divise cosparse di resti umani.
Il fetore della morte avvolgeva ogni cosa, come le grida di uomini e donne disperati condotti a una morte orrenda insieme a tutti i membri delle loro famiglie.
«Siedi» mi ordinò Manfredi, e mi porse un trespolo di legno.
Vomitò dei secchi ordini in tedesco che non compresi.
Un centinaio di donne, alcune giovanissime, altre vecchie, molte madri con i figli stretti al seno, si avvicinarono.
I collaborazionisti ucraini urlarono loro qualcosa e le donne poggiarono a terra i pochi bagagli e piangendo iniziarono a togliersi gli abiti di dosso.
Alcune esitavano, ancora per pudore o bloccate dalla paura, e venivano massacrate con i calci dei fucili, i ventri aperti con le baionette, per incitare le altre a sbrigarsi, a correre senza perder tempo verso il luogo prescelto per la loro morte.
E i neonati, li lanciarono in aria facendo il tiro al bersaglio con le loro Schmeisser.
Poi, in un tripudio di follia, in mezzo a urla, spari, voci disumane, tutte vennero fatte scendere nel fosso.
Manfredi scese con alcune di loro, quasi confortandole, come un lupo che lecchi l'agnello prima di saltargli al collo.
E una volta giù estrasse la Lüger semiautomatica, sistemò le donne in file di tre e sparò loro al capo.
Un colpo ogni tre teste.
E poi ancora e ancora e ancora, fin quando la pistola non si scaricò.
«Un vero toccasana per l'economia del Reich» esultò.«Ventuno inumani con nove colpi.»
Non ci vidi più. L'orrore superò ogni argine e mi costrinse ad agire.
Afferrai la pistola d'ordinanza e scesi nel fosso, intenzionato a uccidere Manfredi e a morire con lui. Ma non feci molta strada che due SS mi ghermirono alle spalle e mi disarmarono.
«Sei un inguaribile sentimentale» rise Manfredi. «Tuttavia mi hai dimostrato di non essere un vigliacco, come tutti i siciliani.»
«Dovevo ucciderti quel giorno nella piana del Gebat» gli urlai in faccia, con tutta la rabbia di cui ero capace. «Dovevi morire tu, non gli altri uomini della colonna Diamanti! Io ti dovevo uccidere!»
«Ma non l'hai fatto» mi disse con un tono pacato, e si avvicinò mentre tentavo di divincolarmi dalla stretta dei suoi sgherri.
Il suo viso aveva un'espressione dolce e mi carezzò, come aveva fatto con i suoi ebrei.
Poi aggiunse: «In quei giorni del trentasei ho compreso tante cose. E tante altre sono venute dopo, girovagando per quest'immenso braciere che è l'Europa. In Spagna, in Polonia, in Francia, qui in Russia. Adesso sono io che posso uccidere te, quando voglio, come credo. E potrò farlo sempre, perché io ho capito. Io ho visto Ananke in faccia.»
«E allora uccidimi, che aspetti!» Gli gridai contro, dando fondo a tutto l'odio che avevo dentro.
«Non ti ucciderò» e mi abbracciò.
Mi trascinò lontano da quel massacro, lontano dai suoi uomini trasformati in mostri disumani, e il suo sguardo mi sembrò che si fosse addolcito.
«Se vuoi porre fine a questo macello un modo c'è» mi confidò, cambiando tono, come se mi parlasse per la prima volta.
Ed ebbi l'impressione che i suoi occhi si riempissero dell'antica luce mediterranea pervasa dalla Misura.
Ci avvicinammo alla kubelwagen, mentre non distante continuava a regnare l'orrore.
«Ma dovrai esser pronto a sacrificare ogni cosa» mi rivelò. «In cambio di milioni, decine di milioni di vite: non esiste altra via. Babi Yar non è che l'inizio, Ludovico.»
La sua voce si era fatta sottile, come se stesse pregando.
«Continua» lo esortai, cercando di reprimere la diffidenza e il disgusto nei suoi confronti.
«Ho numerose amicizie all'interno dell'OKH» mi rivelò. «A fine agosto doveva avvenire una visita alle truppe del Duce e del Führer: dovevano visitare le retrovie, non lontano da Uman'. L'incontro invece avverrà domani, qui a Kiev. Insieme faranno visita al Savoia Cavalleria, a reparti della Legione Tagliamento e della LAH; insieme conferiranno delle onorificenze.»
«Non capisco» balbettai, provando a farmi coraggio.
«Diversi esponenti dell'Alto Comando sono sicuri di andare incontro a una rovinosa disfatta; più volte, negli anni passati, hanno provato a eliminare il Führer per dare vita a un putsch. E con un governo militare porre fine al conflitto. Ma ogni volta i tentativi non si sono concretizzati.»
Mi afferrò per le spalle e mi guardò dritto negli occhi.
«Questa è la volta buona» mi rivelò, pieno d'entusiasmo. Pensa quante vite potranno essere risparmiate.»
«Immagino che avrai un posto d'onore nel nuovo governo… » lo rimproverai, aspro.
Cercavo ancora di capire quali fossero le sue reali intenzioni.
«Non chiedo nulla per me» fece, e, questa volta, mi parve sincero.
«E Goëring, il tuo Himmler? Non sono addirittura peggio di Hitler?»
«Possiamo contare sulla fedeltà di molte divisioni dell'esercito. Disarmeremo le SS non appena giungerà notizia della morte del Führer» mi confidò.
Aprì il bagagliaio dell'auto e prese in mano una boccetta cilindrica, di vetro trasparente.
Svitò il coperchio e mi fece annusare il liquido incolore.
«Sembra acqua» mormorai. «Ti stai prendendo gioco di me?»
Avvitò il coperchio. «Basta premere col pollice qui, è il detonatore, con forza, e il gioco è fatto.»
Si avvicinò a una fossa piena di cadaveri e lo lanciò dentro. L'esplosione fu devastante.
La strage si fermò per un attimo, e poi riprese, come se nulla fosse accaduto.
Manfredi si avvicinò di nuovo.
«È un esplosivo sperimentale. Molto compatto e potente, quanto una granata da 81 per farti capire. Sono riuscito a inserire il tuo nome nella lista degli ufficiali che verranno decorati, Ludovico. Ti dovrà esser conferita la croce di ferro di prima classe: e faremo in modo che sia il Führer in persona ad appuntartela al petto.»
«Le sue guardie del corpo mi perquisiranno» obiettai.
«Ti leveranno solo l'arma. Invece terrai la boccetta nella tasca della giubba, insieme alla mano, che fingeremo offesa. Se le troveranno dirai che si tratta di un tonico per l'endocardite contratta al fronte. Non ti faranno storie.»
«Dunque mi chiedi di sacrificare la mia vita… »
«No, Ludovico. Io ti sto supplicando; per cambiare la Storia, il Mondo… Non sospetteranno di te, e quando Hitler si avvicinerà…»
«Per cambiare la Storia» ripetei.
E adagiò, tra le mie mani giunte, un'altra boccetta. Sul coperchio c'era una scritta che mi parve in inglese e una sigla: Astrolite A.
Babi Yar