Dilemma
Inviato: 27/12/2022, 13:36
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio:
quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga
la pena di essere vissuta.” (Albert Camus, Il mito di Sisifo)
Stavo seduto al bancone del solito bar a fare colazione: il caffè, un cornetto, le stesse chiacchiere tutte le mattine. C’era chi parlava di calcio, chi chiedeva una bustina di zucchero. Fissavo un uomo seduto all’altro capo del locale, che parlava al telefono. Non lo udivo, ma percepivo la sua mimica senza senso. E, d’un tratto, mi chiesi perché mai egli vivesse.
I pesci rossi nell’acquario dietro le spalle della cassiera – avanti e indietro tutto il giorno – mettevano un’angoscia spaventosa. Provai ad immaginare cosa sarebbe successo se quei poveri animali – costretti a quel tragitto migliaia di volte – si fossero fermati qualche volta a guardare noi al di là di quel vetro. Forse in questo modo avrebbero potuto accorgersi della nostra esistenza e scacciare almeno per un po’ la monotonia. Avrebbero visto passare la stessa gente tutte le mattine; ne avrebbero studiato i volti, i gesti religiosamente ripetuti come fossero il rituale dell’accoppiamento. Magari ci avrebbero dato dei nomi: non i nostri nomi, ma dei nomi. Invece erano del tutto indifferenti alla nostra presenza. Neanche disturbati. Continuavano ad andare, su e giù, lungo quel ridicolo finto fondale – le rocce, le alghe, il relitto – e non si degnavano di tenerti compagnia nemmeno per un istante.
Quel giorno ero particolarmente disgustato da loro; da quella vita così simile alla nostra. È ridicolo pretendere che si interessino a te, che capiscano la tristezza invadente che ti assale all’inizio della primavera, quando il sole e la natura sembrano complottare, costringendoti a un risveglio quanto meno indesiderato. È immorale che qualcuno o qualcosa ti spinga alla ribellione o alla fuga, quando sai che solo all’interno della tua piccola cella troverai tranquillità e sicurezza: lì dove tutto è stato deciso e organizzato e, se ti trovi dalla parte giusta, non vivi poi tanto male. La rabbia non la senti nemmeno, se riesci a rassegnarti. Invece questa tetra stagione arriva a svegliarti dal torpore. Intanto i giorni passano – grazie a Dio! – e le ore stabiliscono un ritmo sicuro e deciso. Otto e mezzo / nove meno un quarto entri alla posta e ti siedi al solito sportello a lavorare. Impiegato delle poste, questo è il mio grado all’interno del mondo: trentacinque anni e qualche scarso interesse da coltivare.
Era solo una mattina con le solite vecchie ansiose certezze, fino a quando qualcosa non venne a turbarla. Un urlo forte, improvviso, di donna; un tonfo sordo per la strada fuori dal bar – il locale si svuotò di colpo. La gente accorreva in un punto sul marciapiede. Si borbottava qualcosa, ma non ascoltavo. Cercavo solo di farmi spazio attraverso la folla per vedere ciò che era accaduto. Sentivo già di conoscere tutto. Forse lo avevo sognato o immaginato, ma dovevo vederlo con i miei occhi. Un corpo era disteso per terra in una posizione informe. Non potevo stabilire che età avesse, perché la testa era completamente fracassata, ma avevo l’impressione che fosse giovane: molto giovane. Il sangue colava da per tutto sull’asfalto, in rivoli, fuoriuscendo dal cranio come da una roccia, e trascinava via pezzi di cervello.
Mi venne da ridare di stomaco. La testa mi girava vorticosamente. Il mio sguardo andava dal cadavere al volto delle persone che lo circondavano e che sembravano sorprendentemente incuriosite da quella scena. Lo squadravano; qualcuno indicava con raccapriccio qualche arto che si era posizionato in maniera contorta; una donna piangeva, lanciava singhiozzi e grida appoggiandosi alla spalla di un uomo.
«Ma come cazz... ci è finito qui?»
«Stava lì, affacciato a quel balcone al quarto piano.»
«È stato un incidente?»
«Può essere! Non sembrava intenzionato a buttarsi. Guardava in giù con i gomiti appoggiati alla balaustra.»
«Qualcuno lo conosceva? Quanti anni aveva?»
«Bisogna chiamare l’ambulanza!»
«Ma quale ambulanza! La polizia bisogna chiamare. Non lo vede che è andato? Che cazz... ci viene a fare l’ambulanza!»
«Se lo porta via! Ché lo vuole lasciare qui come ornamento?»
«Ho chiamato, ho chiamato! non vi preoccupate!»
La nausea continuava a crescere dentro di me. Mi allontanai a fatica da quella folla opprimente per respirare. Mi appoggiai con una mano al muro e mi accovacciai. Nella mente quell’immagine continuava ad ossessionarmi, sempre più distorta: il sangue – di un colore acceso – che si avvicinava minacciosamente ai miei piedi. Ebbi un altro conato nervoso. Mi alzai, spalancai la bocca e riempii i polmoni. Mi sentivo già meglio. Tenevo gli occhi spalancati e guardavo il verde delle foglie dei platani allineati lungo la strada. La luce del sole cominciava a farsi più intensa. Il traffico sulla strada era rallentato. La gente si fermava a guardare incuriosita quel nugolo di persone. Qualche clacson suonava fastidioso. Uno stato di insensibilità si era impadronito di me, trascinandomi lontano da lì.
A un tratto sentii la presenza di qualcuno. Mi voltai e vidi un uomo a pochi centimetri dal mio fianco. Era alto almeno un palmo più di me, aveva una barba bianca folta e teneva la fronte alta. Indossava un paltò nero molto lungo – la qual cosa mi sorprese, perché la temperatura era piuttosto elevata – e sulla testa portava un cappello a larghe tese. In una mano teneva un bastone con la testa intarsiata. Apparentemente aveva una settantina d’anni, ma il suo aspetto e lo stato fisico erano ottimi – mi avrebbe benissimo potuto stendere con un pugno. Si voltò verso di me e mi sorrise in modo affabile.
«Brutta cosa il suicidio. Non per chi lo compie, ovviamente, ma per chi è costretto ad assistervi», disse rivolgendosi a me. Mi stupii che fosse così sicuro che il ragazzo si fosse gettato volontariamente.
«Come fa a dire che si è suicidato? Potrebbe essersi solo sporto troppo… un incidente... può capitare», balbettai poco convinto. Avevo il timore di averlo offeso con quell’obiezione. Lui, però, sfoggiò nuovamente un sorriso bonario e comprensivo, e continuò senza prendere in considerazione la mia osservazione.
«Gettarsi così dalla finestra in mezzo alla strada, dando questo spettacolo e turbando la vita di confusi passanti. Se bisogna morire, è meglio farlo con discrezione: col veleno, ad esempio. Già spararsi un colpo di pistola è sbagliato – nel bagno magari, con tutto il sangue che schizza ovunque: sulle pareti, sullo specchio, nel lavandino, nella vasca... Che spettacolo orribile! Poi tocca ai poveri familiari ripulire tutto; ridipingere i muri. Come pensa che avranno il coraggio, alla fine, di entrare in quel bagno. Gli rimarrà in eterno nella mente la fotografia di quell’inaspettato e macabro spettacolo. Questo significa rovinare la vita alla gente!
Anche tutte queste persone – disse, indicando la folla – quando per caso si troveranno a passare di qui... Lei, ad esempio, cosa penserà? Con che forza riuscirà a dimenticare? Vede quel barista? Lui, quando la polizia e l’ambulanza se ne saranno andati, prenderà un secchio e lo rovescerà sulla pozza di sangue, che comincerà a scorrere via giù per il tombino. Forse rimarrà un alone rossiccio sull’asfalto, ma anche quello scomparirà per l’usura dovuta al via vai della gente, alla pioggia, al vento, al calore estivo. Voi che avete visto, però, non potrete mai rimuovere dai vostri occhi l’immagine di quella macchia rossa, ed eviterete di passarvi sopra, anche quando sarà scomparsa. Può darsi che cambierete marciapiede o vi scosterete all’ultimo momento, ma non camminerete più in quel punto. Chi vi potrebbe biasimare per questo? Sembra che non esista niente di più innaturale, più lugubre, più impietoso di un suicidio».
Cominciai a sentirmi fuori di testa di fronte a quel discorso. Per un attimo pensai di sognare. Era spaventoso pensare a un tale cinismo. Questo strano personaggio – comparso non si sa bene come, non si sa bene quando – veniva da me, sconosciuto, e parlava di morte con lucido distacco, quasi con nera ironia. Sospettai che potesse essere egli stesso la morte, ché con quell’aspetto poteva apparire credibilissimo.
«Capisco la sua indifferenza, caro signore, – dissi furioso – ma rimanga almeno in silenzio, se non vuole dimostrare pietà».
Quell’uomo non si scompose affatto. Tutt’altro che impressionato dalla mia rabbia, assunse un’espressione divertita.
«Mio caro amico, le ho già detto che il suicidio non merita pietà. Chi si dà la morte volontariamente ha già perduto irreparabilmente la propria innocenza», rispose senza esitazione. «Lei è mai stato al funerale di un morto suicida? Sui volti delle persone non leggerà mai la pietà. La rabbia, l’odio forse, la colpa certamente, saranno i sentimenti che troverà in abbondanza. Lei pensa che non sia giusto? Ma le cose non devono essere giuste per essere vere. È impressionante il numero delle persone convinte che in un suicidio vi sia un supremo atto di rimprovero nei confronti del mondo, della società, di fantomatici ordini universali, o, addirittura, viltà e vigliaccheria. Ma non è così! Suicidarsi è confessare: confessare che si è superati dalla vita o che la si è compresa troppo a fondo. Un uomo senza speranza – e cosciente di esserlo – non appartiene più all'avvenire. Ci si uccide perché la vita non vale la pena di essere vissuta: ecco indubbiamente una verità – infeconda, ma pur sempre una verità.
Piuttosto non ci si meraviglia mai abbastanza che tutti vivano come se nessuno “sapesse”. Nell'attaccamento di un uomo alla vita, vi è qualcosa di più forte che tutte le miserie del mondo. Il desiderio di esistere è un peccato che non dovremmo mai commettere. Per colpa di questo attaccamento la maggior parte di noi si interroga sempre, senza concludere mai. “Chi accetterebbe di accollarsi quelle some, e grugnire e sudare sotto il peso della vita, se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte a paralizzarci la volontà, e farci preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente? Così la coscienza ci rende codardi tutti e imprese di gran rilievo e momento per questo si sviano dal loro corso e perdono anche il nome di azione”. Ha mai letto l’Amleto? Si vede dallo sguardo che l’ha riconosciuto. Questo non la sorprende? Eppure c’è qualcuno che sostiene vi sia più vigliaccheria, in questa estenuante e paralizzante attesa che qualcosa accada al di là della nostra volontà. Gente che si adopera pigramente affinché la propria vita segua il suo corso naturale, come il fiume segue la corrente fino al mare. Volere qualcosa, invece, significa far sorgere i paradossi dell’esistenza. E cercare di dipanarli è cominciare a minare la nostra fiducia nella provvidenza. Non ci si uccide per viltà: ci si uccide per riflessione».
Lo strano personaggio si mise a fissarmi intensamente. «Lei che lavoro fa?», mi chiese a bruciapelo. Trasalii, ma ormai mi sentivo in balia di quell’uomo; e anche se non aveva alcun senso – oltre ad essere incosciente – gli risposi, come avrei risposto a qualsiasi altra più intima domanda.
«Sono un impiegato delle poste».
«Ecco, vede! La sua vita che aspetto avrà?», fece un gesto come cercasse di spronarmi a guardare la mia vita da qualche parte oltre la strada. «Mediocre, meschina... Non si offenda! La può consolare il fatto che lo è in generale per tutti. La sveglia, la colazione, il tram, le otto ore di ufficio o di officina, di nuovo il tram, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì sabato e domenica sullo stesso ritmo... Si è mai accorto di quanto sia angosciante compiere ogni giorno la stessa strada, ininterrottamente per anni? In città, poi, non si distinguono le stagioni, per cui non si nota alcuna differenza attorno a sé… un cambiamento nel paesaggio. Quello che batte il tempo nella nostra vita sono curiosi particolari insignificanti, che ci permettono a mala pena di ricordare un giorno tra i tanti: una cinquecento fucsia, carabinieri a cavallo o… un uomo che si butta dal quarto piano di un palazzo. La mancanza di varietà di esperienze ci uccide giorno dopo giorno come una goccia.
Nonostante tutto questo, il più delle volte andiamo ostinatamente alla ricerca della felicità… dell’amore. Crediamo fortemente che quello che in alcuni istanti proviamo sia il sentimento disinteressato che una qualche divinità creò per adescarci e spingerci verso il paradiso in terra. Così ci sposiamo, facciamo figli, li cresciamo e impariamo ad averne paura – almeno del male che potrebbero farci. Lei ha mai avuto paura che sua moglie morisse per un tumore? Io sì! Molte volte! Prima di sposarmi ero ossessionato dall’inferno che avrei patito tra l’attesa della morte imminente e quella sensazione di solitudine, di abbandono, che segue al decesso. Non immaginavo nemmeno che tutto questo potesse farmi amare di più la vita. D’altra parte sembra più facile lasciare che essere lasciati.
In questo modo gli anni passano per tutti, finché un giorno in qualcuno sorge il “perché” e per lui tutto assume una stanchezza tinta di stupore. Un uomo si imbatte faccia a faccia con l’assurdità dell'esistenza alla svolta di una qualunque via e comprende, d’improvviso, di non poter imporre alcuna svolta alla propria vita. Per tutti i giorni della sua esistenza senza splendore è stato portato dal tempo. E così, alla fine, il ticchettio dell’orologio lo spinge a desiderare ardentemente di fermare quelle lancette: per non dover sapere che domani, la prossima settimana, il prossimo mese arriveranno, in un modo o nell’altro; e altra vita sarà stata sprecata a fare un lavoro che si odia, a praticare la ripetitività del sesso e dei suoi rituali, a rendere la propria esistenza una patetica idea delle speranze che si nutrivano, a superare esami e sfide inutili e a cui si rinuncerebbe volentieri. Uccidersi presuppone che si sia riconosciuto – anche istintivamente – il carattere inconsistente di questa routine, la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l'indole insensata di questa quotidiana agitazione, l'inutilità della sofferenza. Bisogna in qualche modo stare a questo giuoco mortale che conduce dalla lucidità di fronte all'esistenza all'evasione fuori dalla luce.
Vedo dal suo sguardo che la sto turbando con questo discorso. Lo riconosco, è assai indigesto, ma è necessario purgare il suicidio dal suo contenuto di commozione, per conoscere la sua logica e la sua onestà: bisogna essere logici, ed esserlo fino in fondo. Perché nascondere dietro una falsa pietà quello che già sappiamo e che inutilmente ci si svela tutti i giorni, lasciandoci indifferenti o leggermente confusi: il suicidio è il miglior rimedio al male della vita. Ovviamente è più difficile convincersene quando si è giovani, mentre in noi si insinua una dispettosa febbre che ci rende vitali, speranzosi, euforici. Ci diciamo: “Cambieremo il mondo e faremo giustizia”. Che musica queste parole! Cambiamento, Giustizia... D’altra parte ci sono tanti che paradossalmente si uccidono per le idee o le illusioni che costituiscono per loro una ragione di vivere. Evidentemente ciò che chiamano ragione di vivere è anche un eccellente ragione per morire».
Il mio assurdo interlocutore interruppe il suo monologo per guardarsi intorno. La folla si era ormai dispersa. L’ambulanza era arrivata e stava portando via il corpo. La polizia cercava testimonianze, si informava sui parenti. Qualche curioso ancora faceva domande. Un tizio con le braccia conserte e l’aria saputa dispensava risposte. Io ormai non avevo occhi che per quest’uomo bizzarro e tremendo. Doveva essere passato un mucchio di tempo.
«Guardi tutta questa gente che si domanda le ragioni di un simile gesto», riprese senza un minimo di emozione. «Non le sanno e non le intuiscono. Probabilmente è vero che un uomo ci rimane sempre sconosciuto e che in lui vi è sempre qualcosa di irriducibile, che ci sfugge. Però – non si preoccupi – con un po’ di pratica e di fantasia, spiegheremo anche questo mistero. Un gesto come questo si prepara nel silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera, ma alla fine si svela nelle parole e nelle azioni che uno compie.
Come pensa si chiamasse? Può darsi Gabriele, Giovanni o Emanuele. Ecco: Emanuele! Noi gli daremo questo nome – tanto il vero non è che pura formalità; come tutto il resto solo un capriccio del caso. Emanuele era un ragazzo di buona famiglia, nato in un giorno di novembre di ventidue anni fa. Il primogenito – principio di una nuova generazione – va festeggiato con tutti gli onori. Nonni e parenti si deliziavano di questo bambino biondo, sano; lo coccolavano, lo viziavano. La sua infanzia trascorse felice. Era magro, molto magro. Questo, però, non era un problema, perché la vivacità non gli mancava. Una stranezza, tuttavia, l’aveva: impiegò molto a capire di essere vivo. Ingenuamente si trastullava, ritenendo non vi fosse nulla di serio, nulla di preoccupante. Non si rendeva conto che la realtà, o meglio l’esistenza, richiedeva il suo sacrificio, la sua attenzione costante, il suo impegno. Pensava di rimanere un balocco per gli adulti, a cui non è richiesto dare spiegazioni, lavorare, faticare.
I genitori lo convinsero del contrario. Non fu certo facile; fu certamente traumatico, ma si rese conto che a lui era richiesto molto. L’intelligenza non gli difettava e, quindi, non impiegò molto a coprire il divario che lo separava dai suoi coetanei. Raggiunse ottimi risultati scolastici. Del resto sapeva che questo era il suo dovere, ed era questo che la sua famiglia si aspettava da lui. Trascurando le frivolezze, si gettò a capofitto nello studio. Lo aspettava una buona laurea; poi un lavoro sicuro: uno di quei cento impieghi normali, ovvi e meccanici. Durante l’adolescenza gli sembrava perfettamente chiaro che questo dovesse essere il suo futuro. In quanto immaginava uno scopo nella vita e credeva di poter scegliere di essere questo piuttosto che quello, si conformava alle esigenze di una meta da raggiungere, e diveniva schiavo della propria libertà: così come lei non può più agire in modo diverso da un impiegato delle poste.
Purtroppo, però, non era così facile. Emanuele non aveva un carattere forte. Sentiva le cose con un’intensità eccessiva. Ingigantiva i problemi a dismisura. Quando le cose andavano male, per lui era come un cataclisma, una minaccia divina. Aveva anche un altro tarlo che lo rodeva: percepiva la propria condizione sociale come incomprensibile. Il senso d’ingiustizia lo perseguitava e lo faceva sentire complice. Lui era nato ricco, si poteva permettere gli sprechi, tutti i comfort che la vita moderna esige; e non aveva fatto nulla per meritare tutto questo. In ciò consiste l’ingiustizia: non dico il lusso, ma essere anche solo benestanti è inammissibile; è un crimine indecifrabile, perché senza alcuna spiegazione. Tutto può essere confutato, in questa società che ci circonda, ci urta o ci trasporta, salvo questo caos, questo caso imperante e divina equivalenza, che nasce dall'anarchia genetica.
Emanuele si sentiva un privilegiato e non poteva soffrirlo, ma non riusciva a inventarsi nulla di diverso. Desiderava assurdamente di essere povero, nascere in miseria. Come mettergli in testa che è il caso a decidere tutto, e non ci si può rinunciare? Per farlo si dovrebbero preferire le umiliazioni, scegliere di sobbarcarsi fatiche enormi da solo… patire. Lui, però, era un debole, era abituato alle comodità – e le assicuro che se non nasci San Francesco, è difficile imparare ad esserlo. In fondo quell’infanzia felice, l’illusione di poter vivere senza problemi, senza bisogno alcuno di arrangiarsi, gli aveva tagliato le gambe. Quindi il nostro giovane continuava a divertirsi, a spendere con gli amici, a permettersi vizi e, incautamente, credeva che questo potesse guarirlo dalla sua malattia.
Ebbe una ragazza? Sì, certamente! Una lunga storia! Li vedevi passeggiare qui nel quartiere abbracciati. Si diceva che stavano bene insieme. Non era vero, ovviamente! Litigavano spesso a causa dei suoi timori e delle sue ansie, così come egli si accapigliava con i genitori, che ostinatamente si rifiutavano di riconoscere i suoi problemi. Questo, però, non è un male. Finché si litiga, si urla, significa che si è convinti di poter fare qualcosa; che si crede nel cambiamento. È quando si smette che bisogna aver paura. In alcune situazioni rispondere "Niente!" a una domanda circa la natura dei propri pensieri significa aver rotto definitivamente ogni relazione col mondo, con gli altri, con la vita. Alla lunga Emanuele smise di litigare.
Intanto finì il liceo e si iscrisse all’università: a una di quelle facoltà che sembrano garantire un futuro sereno. Con l’andare del tempo, però, cominciò a non sentirsi affatto sereno riguardo al futuro. Le scelte gli apparivano sempre meno certe e sensate. Temeva che una serie di fallimenti, di decisioni sbagliate, potesse compromettere tutto. Soprattutto si sentiva sempre più solo e disarmato nell’affrontarle. Le nuove paure si accavallano alle vecchie, e così via: come una torre senza fondamenta appare minacciosamente vacillante. Il fatto che la vita non abbia senso e sia incerta non è un in sé un problema. La questione nasce quando questo si scontra con il nostro desiderio violento di chiarezza e di certezza. Desiderava il domani: infondo egli non chiedeva che questo, quando tutto il suo essere avrebbe dovuto accettare l’insensato caos.
Un’incessante sensazione di inutilità lo perseguitava. La convinzione di essere predestinato a una esistenza routinaria si impadronì di lui. Il contrasto tra ciò che era e ciò che avrebbe voluto essere era diventato inammissibile. Non è possibile mantenere inconciliata la contraddizione, quando questa ti bussa ogni mattina. Non si può convivere con il senso dell’assurdo, con questo bruciante deserto. Non puoi più pensare che tutto si aggiusterà, quando a ventidue anni ti accorgi che la tua vita è salda su un binario. Il quadro si andava così componendo in maniera fallimentare: non era altro che una copia distorta e informe della sua fantasia, di un’ideale più alto. Time is out of joint: il tempo è fuori squadra ed è inutile provare a raddrizzarlo. Di fronte all’incapacità di cambiare, di agire, Emanuele decise che esistere non era sufficiente; e, quindi, stabilì di non esistere. Ecco risolto il dubbio amletico.
In un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l'uomo non può che sentirsi un estraneo, e tale esilio è senza rimedio. Così nel sentirsi ormai estraneo alla propria vita Emanuele ha trovato il principio di una liberazione. La credenza nell'assurdità dell'esistenza ha prescritto la sua condotta. Lei penserà che è da pazzi suicidarsi perché non si è stati capaci di ribellarsi all’assurdo e di far deragliare il treno del fato, ma le assicuro che questo gesto è molto più coraggioso dell’impotenza a cui normalmente siamo costretti. Questo infelice, che la coscienza dell’assurdità del proprio destino ha costretto alla rivolta lì dove la gente nasce arresa, ha accettato la disfatta con la dignità che la quieta disperazione non merita».
Interruppe per qualche istante il suo discorso per asciugarsi il viso grondante di sudore. Per tutto questo tempo non aveva mai perso la calma; mai lo aveva sopraffatto la pietà nel suo ragionamento; perciò in questa pausa lessi una qualche commozione, che mi sorprese come al risveglio da un incubo.
«Allora, adesso, lei si sentirebbe in grado di giudicare questo ragazzo, se non per quello che è: un eroe del nostro tempo; un novello Icaro, che non potendo raggiungere il sole con le sue ali, si abbandonò agli abissi marini? Non si preoccupi, non voglio risposte o repliche. Ognuno di noi nella sua coscienza rimuginerà e trarrà le proprie conseguenze. Non pretendevo nulla e continuerò a farlo. Spero solo di non averla offesa o angosciata. Se l’ho fatto, le chiedo umilmente scusa».
Sembravo finalmente giunto alla fine di questa orrenda esperienza. Un uomo – un uomo vestito di nero – mi aveva tenuto per non so quanto tempo (ma sembrava un’eternità) fermo ad un angolo di strada a riversare su di me il pessimismo naturale degli uomini. Niente ci aveva disturbato. La polizia andava in giro intorno a noi, interrogava, ma sembrava non vederci. Forse mi sbagliavo, forse qualche domanda ce l’avevano fatta, c’avevano rivolto la parola, ma io non ricordo più. Ho rimosso tutto ciò che accadde intorno a noi.
Mi venne voglia di fargli delle domande, ma riuscii soltanto a dire: «Ma lei chi è? Come faceva a conoscere tutti questi particolari sulla vita di quel ragazzo? Ha inventato tutto, non è vero?».
«Lei crede? È un suo diritto non fidarsi di me!».
«Ma in che rapporti era con lui?».
Per un attimo assunse un’espressione seria. «Ha importanza chi sono? Forse solo uno dei tanti passanti. Forse un Dio crudele, indifferente al destino delle sue creature. Ecco forse un Padre, che ha usato il proprio Figlio come cavia per un esperimento: come capro espiatorio per illuminare il senso dell’esistenza. Che le sembra come idea?». Poi sorrise e ribadì: «Non ha importanza».
Si tolse il cappello come cenno di saluto, si voltò e si allontanò.