La scheggia nel cuore
Inviato: 11/04/2023, 17:39
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Fa freddo, lo sento dentro ogni fibra del mio corpo. Riesco solo a tremare, il fisico non risponde alla mia volontà. Provo a distendere le gambe, ma non ci riesco. Le mani sono serrate e gli avambracci sembrano fatti di marmo. Il sole irradia tutto, la sabbia e gli aghi di pino secchi come fiammiferi.
Il mio cappotto scotta, ma la pelle sotto di questo è congelata. Mi alzo, il freddo mi attraversa come una scarica elettrica. Come un’onda d’urto, partendo dal petto tutto viene raggiunto. Mi alzo in piedi ma barcollo, le caviglie suonano come rami stroncati a ogni passo. Il mare è di fronte a me, blu, profondo, piatto, fastidioso.
“Si può odiare il cielo, è possibile odiare il mare?”
Forse non sono solo pazzo, forse non sono nemmeno più vivo. Il mio cuore pulsa, ma la mia vita è stroncata. Cammino verso la pineta, mi ero addormentato al sole per scaldarmi, ma il sole oggi scalda tutto meno il mio sangue, tanto vale muoversi. La pineta mi accoglie col suo tappeto di aghi dorati ma, nel suo interno, in profondità è diverso. Tutto è cupo e gli aghi all’ombra sembrano fatti di cenere. Ho gli occhi appannati, velati al punto che l’ombra sembra notte.
I miei passi suonano verso la parte più buia della pineta, a un tratto però una pigna si stacca da un ramo e il suo colpo sordo accende il tremore nel mio corpo. Non sono più nella pineta, alle mie spalle non rumoreggia più il mare, sono circondato dalla neve.
Le caviglie cedono, finisco a terra e alcuni aghi arpionano la pelle delle mie braccia e della faccia, ma è nulla, e nulla sento infatti. La faccia di Luca diventa enorme, vedo solo quella. I suoi occhi sono aperti come mai avrebbero potuto essere. Il suo sguardo, cosa posso dire… il suo sguardo non posso sostenerlo. Come ogni volta, che sia nei miei incubi o nelle realtà, la scena si ripete.
Lui è lì, aggrappato a dei sassi, e io sono sempre al solito posto, davanti a lui. Era una bella giornata, perfetta per una ferrata in montagna. Tutto andava bene, neanche nevicava, poi Luca vuole una foto mentre sta in posa su uno strapiombo. La foto la devo scattare io, mi pare una cazzata gli dico, ma va bene farò questo sforzo. Lui si mette in posa, ma scivola.
È talmente esperto che credevo scherzasse, ma poi il suo sguardo mi trafigge, le sue mani perdono la presa, la sua morte viene annunciata da un botto sordo. Il tremore mi rimescola le ossa, i miei denti sono quasi del tutto andati, sbriciolati da questo spasmo che li fa sbattere fra di loro. E’ un anno che tremo così, giorno e notte. Non ci sono farmaci che possano aiutarmi, né conforto che mi possa accogliere.
Provo a scaldarmi, ma non ci riesco, provo a stare fermo ma il controllo di me ormai è perso.
Mi ripeto che quella che è caduta a terra è solo una pigna, ma il tremore non passa. Luca non è morto per colpa mia, lo so ma il tremore non passa. Parte tutto dal mio petto, inizia da lì e poi raggiunge tutto. Inizio a trattenere il respiro fino a che non sento la morsa del tremito allentare la sua stretta. Il mio corpo ha pace, la testa mi gira, sudo freddo. Disteso a terra riacquisto sensibilità, sento gli aghi di pino bucare.
Che bello il sudore freddo mentre esce dalla mia pelle, ogni volta spero che sia l’ultima, ogni volta spero lavi via il mio male.
Mi sfioro il petto, il punto da quale parte tutto fa ancora male. È come avere una scheggia. Come sempre, dopo ogni crisi, rivedo il funerale di Luca, gli abbracci con i suoi cari, le interminabili sedute dallo psicologo e infine lo psichiatra che mi prescrive farmaci su farmaci.
Tutto inutile, la scheggia c'è mentre Luca non c'è più, che tremi o no lui non tornerà mai.
La luce infiamma le mie palpebre chiuse, il sudore freddo sta ghiacciando la mia faccia. Mi alzo e apro gli occhi, qualcosa di strano si sta muovendo nella pineta. A un centinaio di metri di distanza un ombra fa scricchiolare gli aghi di pino sotto il suo peso. Non prova ansia né paura, sono preparato alla morte, ho già tentato, ma senza successo. Un’ombra simile a quella di un orso sta vagando per la pineta senza una meta precisa. Saltella qua e là come se fosse un enorme coniglio ripiegandosi su sé stesso per poi schizzare verso i rami più alti, quelli che in posizione eretta non potrebbe raggiungere.
Mi ha visto, anzi sicuramente mi aveva visto durante la mia crisi di nervi dalla quale mi sono appena ripreso, lo so perché interrompe i sui balzi solo per rimanere qualche istante a fissarmi. Ad ogni modo non ha l’aria di pericoloso, anche se il suo aspetto è talmente inquietante da non sembrare neppure umano.
Decido di avvicinarmi, ma appena ho dimezzato la distanza un odore forte mi aggredisce. Un tanfo tremendo, indefinibile.
L’uomo dall’età indefinibile adesso passeggia per la pineta scalzo, si è stancato di saltare.
Questo personaggio si volta a guardarmi, mi fissa e ride come se avesse visto la cosa più buffa di questo mondo. Mi faccio avanti, il suo aspetto visto da vicino è peggio di quanto sembrasse rispetto a prima. È alto, capelli arruffati e sporchi di terra e tutto il suo corpo è coperto di escoriazioni che lacrimano pus. Le unghie delle sue mani e dei piedi sono nere come il carbone.
Al minimo movimento i suoi abiti laceri perdono povere come i cipressi perdono il polline se scossi dal vento. Eppure quest'uomo è strano, i suoi occhi sono vividi e brillano di intelligenza. Quando il suo sguardo incrocia con il mio sono obbligato a distoglierlo per fissare gli aghi che tappezzano la pineta, la sua risata è intrisa di scherno, sa che è riuscito a umiliarmi. Quegli occhi sono profondi al punto da ricordarmi due tetri pozzi, benché il loro colore dovrebbe riportarmi alla mente il cielo o il mare. Non sono gli occhi di un balordo quelli che mi puntano, mi domando chi possa essere.
Faccio un passo verso di lui, ma sputo gli esce dalla bocca, come un chicco di grandine schizza verso i miei piedi, senza arrivare a colpirmi.
I suoi modi sono in linea col suo aspetto, mi fa l’occhiolino e riparte tenendo in mano un’enorme torcia elettrica che teneva nascosta sotto i suoi stracci, forse rubata da un cantiere dato che è sporca di vernice.
Decido di seguirlo, non solo mi incuriosisce, sembra addirittura messo peggio di me. Dentro di me ho bisogno di sapere che qualcuno stia peggio di me, non per godere del suo malessere, ma per persuadermi che possa continuare a vivere, dato che altri ci riescono.
Si volta di tanto in tanto a guardarmi, ma non diciamo nulla. Usciamo dalla pineta, il sole ci piove addosso.
A un certo punto lui si ferma mi indica il paese poco distante, mi fa cenno di stare zitto, portando l’indice alla bocca, per poi mettersi a ridere senza fare rumore.
Dopo tanto tempo sento una punta di sollievo partire dallo stomaco, mi sento stupido invece che disperato, quindi per un attimo mi sembra di essere più umano, più vivo.
La strada per il paese è breve, arriviamo dopo qualche minuto.
Lui mi sta davanti di una trentina di metri, io lo seguo mesto. Il paese è piccolo e bianco, la piazza fa il suo lavoro zeppa di gente occupata al cellulare o a chiacchierare. L’uomo si ferma di nuovo, accende la torcia elettrica e sghignazza guardandomi. Lo osservo, impalato come se mi avessero murato, mentre fa il giro della piazza puntando la sua torcia contro ogni persona che incontra. Il sole è così forte che la luce della torcia è invisibile, malgrado questa sia enorme. Ogni persona sembra assorta al punto da sembrare un paese di sonnambuli, solo lui e la sua torcia riescono a rompere l’incantesimo, a riportare tutti nella realtà.
La moltitudine di persone che popolano la piazza sembrano essere una persona sola, di fronte a quel fenomeno umano. Tutti uguali, tutti attoniti, tutti con la solita espressione di disgusto e disagio stampata sulla faccia. Nessuno ride, qualcuno si tappa il naso per il puzzo, ma soprattutto nessuno interagisce con quell’uomo e la sua torcia. Lui dal canto suo illumina ogni persona, poi o sputa o scuote la testa prima di andarsene. Dei bambini che giocano gli passano vicino, uno di questi si ferma a guardare l’uomo, lui per la prima volta parla dicendo:
«Levati di mezzo, con te non vale.»
La voce di quest’uomo è così brutta, così stranamente sgradevole che il bambino scappa a gambe levate.
Alcune donne propongono di chiamare la polizia, ma poi un ragazzo si avvicina all’uomo. Questo ragazzo, ripreso col cellulare da una ragazza bella ragazza, porta in braccio un vassoio con affettati e formaggi. Una volta in prossimità dell’uomo si volta verso chi lo sta riprendendo, sorride e dopo aver messo alcune banconote sul vassoio lo porge all'uomo. Questo non guarda nemmeno per un momento il vassoio, ma punta la sua torcia contro la faccia del ragazzo.
«Te meno di tutti.»
Il ragazzo non bada alla sua affermazione, si volta verso il cellulare che lo sta riprendendo e appoggia il vassoio ai piedi dell'uomo con un gesto plateale.
La ragazza riprende tutto e sorride contenta, ma il suo sorriso è destinato a rinchiudersi presto. Il silenzio diventa assordante, nessuno fiata, l’uomo si è abbassato la lampo di pantaloni, o almeno quello che rimane di questi, e urina sul cibo e i soldi distesi nel vassoio. Lo sdegno è così forte che si potrebbe toccare con mano, l’uomo spegne la torcia e torna verso la pineta, tutti guardano il vassoio zuppo di piscio.
«Niente un cazzo nemmeno oggi, come ieri e come prima di ieri.»
Le sue parole rimbombano nel silenzio totale, nessuno controbatte.
Mi passa davanti, se non fosse così sporco lo bloccherei.
Perché un uomo che non è pazzo si dovrebbe comportare così? Cosa voleva dimostrare con quella torcia?
Lo vedo rientrare nella pineta, lo seguo, gli urlo di aspettare, ma lui mi ignora. Mi avvicino e una volta dentro la pineta vinco la repulsione, lo afferro per un braccio e lo costringo a fermarsi. Mi rendo conto di aver commesso un errore, dal tono dei suoi bicipiti mi rendo conto che è un uomo prestante, sicuramente molto più forte di me. Lui mi fissa con disgusto e spunta per terra, poi dice:
«Lasciami io con i pazzi non ci parlo. »
Queste parole sono un pugno nello stomaco.
«Lei non mi conosce, come fa dire che sono pazzo? »
Lui sputa di nuovo e risponde:
«Prima cosa qua non c'è nessuna lei, seconda cosa lo hai scritto negli occhi, la pazzia ti ha scavato il viso, il dolore sta distruggendo il tuo corpo. I tuoi abiti da signorino possono ingannare le bestie che c’erano prima in piazza, ma non me.»
«Perché chiami quelle persone bestie?»
«Perché dove non ci sono uomini ci sono animali, io cerco l’uomo, ma non lo trovo. L’uomo non c'è.»
«Non hai illuminato me.»
Lui scoppia a ridere, dopo aver sputato ed essersi pulito la bocca e dice:
«Con i pazzi è come con i bambini, non vale. Ma se ci tieni.»
Dopo aver acceso la torcia la luce della lampada inizia a scansionarmi mentre i denti grigi dell’uomo restituiscono qualche piccolo bagliore dovuto al riverbero.
Dal canto mio cerco di non muovermi, mi sforzo di non respirare.
Una domanda rimbalza nella mia testa:
“Perché mi sto sottoponendo a questa buffonata? Sono così disperato?”
«Nel complesso fai schifo come tutti gli altri...»
Sento l'impulso di alzare le mani, ma riesco a trattenermi.
«Ma qua c'è qualcosa che m’interessa...»
La luce è ferma sul mio petto, nel punto esatto dal quale il tremore dilaga quando vado in crisi.
«Immagino non ti dispiaccia se me la prendo...»
Il suo sorriso è perso in una smorfia così ripugnante che sento il bisogno di scappare via, ma lui me lo impedisce bloccandomi e buttandomi a terra. Ha una forza tremenda, ferale. Io sono disteso a terra con lui che preme le sue ginocchia sul mio torace. A un certo punto le unghie nere di questo pazzo lacerano la mia pelle. Il dolore è così intenso che non riesco neppure a urlare, per fortuna dura poco. La sua mano zozza è intrisa di sangue quando si alza, sangue che mi gocciola addosso fa rumore sordo sulla mia camicia.
«Finalmente qualcosa di interessante.»
Io rimango a terra, il sudore mi bagna mentre provo a muovere le braccia. Dopo molto mi alzo, il sangue gocciola macchiando i vestiti che lo assorbono. Poi un botto, mi volto ed una pigna per poco non mi cade in testa. La rabbia mi assale, afferro la pigna e la scaravento lontano. Bestemmio, mi agito, urlo. Poi aspetto qualcosa che non arriva, qualcosa che manca. Guardo le mie mani, sono ferme, come tutto il resto del corpo.