La passe
Inviato: 15/07/2023, 17:03
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Bora Bora oggi è un paradiso per turisti con le tasche gonfie, ma quand’ero ragazzo ci si arrivava solo perché si era innamorati della vastità degli spazi marini.
Avevo scelto la Polinesia attratto dai colori delle fanciulle di Gauguin, spinto dalle poetiche traversate in solitaria di gente come Moitessier e Tabarly, da quell’amore mai sazio per gli spazi vuoti dove l’Uomo, finalmente, è assente.
La barca del pescatore era sparita insieme alle sue birre calde, ma ciò per me, in quel momento, non aveva alcuna importanza. Mi aveva lasciato con la promessa di ripassare e io l’avevo preso in parola, non avevo fretta, nessuna urgenza.
Mi incamminai lungo la spiaggia sottovento, cullato dalla poesia del mare più spettacolare e del cielo più azzurro mai visto fino ad allora, finché sulla sabbia, leggera come talco, non incrociai un manufatto d’altri climi, e di diverse latitudini dell’altro emisfero, languire placido sul bagnasciuga, tra le piccole onde, lente a infrangersi sulla riva. Quel legno era quasi surreale, il Flying Duchtman si palesò alla mia immaginazione come un relitto di altri mondi, di epoche remote.
Cosa ci faceva lì quella barca di compensato marino e teak? Non ebbi tempo di pensare ad altro, e alle mie spalle udii una voce cavernosa frammezzata da un respiro agitato.
Con un tono denso di acida ironia, in un inglese approssimato, tradito da un curioso accento francese di cui non sapevo decifrare la provenienza, mi domandò se per caso non nutrissi interesse per il suo piccolo giocattolo. Mi voltai, e fui di fronte a un uomo magro come un Cristo in croce, con una maglietta lurida e stracciata, una lunga lanugine bianca sul viso, gli occhi chiari come quel mare, i capelli radi e arruffati dalla salsedine. D’età non inferiore ai settanta, o forse ai cinquanta se dovevo dar retta all’intuito, il quale mi sussurrava come i suoi anni quell’uomo se li portasse davvero male.
Mi traguardava severo, con occhi cisposi e fissi, nella mano una bottiglia mezza vuota d’un rum ambrato e nell’altra un sigaro quasi del tutto consumato.
Seduto sulla sabbia, la schiena contro una palma, il suo sorriso aveva un che di ineffabile.
«Cosa ci fa una barca europea in Polinesia?» Era la mia domanda, in francese.
E mi avvicinai a lui. L’uomo scosse la testa e, dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia e tirato una boccata dal sigaro, disse: «Hai voglia di fare un giro?»
Risposi con un cenno del capo.
L’uomo si levò in piedi. «Cinquecento franchi e affare fatto.»
Mi aveva preso per un turista e mi trattava come tale, con un accenno di superiorità e una splendida noncuranza.
«Mi piacerebbe vedere un atollo disabitato» gli lanciai il mio guanto.
Ma subito rammentai quanto fosse pericoloso sfidare gli dei.
«Ok, mille franchi e ti porto a vedere l’isola più disabitata del mondo» provò a rilanciare. «Sei mai salito sopra una barca a vela?»
«Qualche volta» mi limitai ad ammettere.
«E allora si paga in anticipo. Non è per sfiducia, sai, ma magari inizi a vomitare non appena usciamo in mare aperto e mi supplichi di ritornare a terra. Il mio giocattolo va veloce e dopo… chissà se hai più voglia di darmeli i miei soldi.»
Annuii, l’affare era concluso. «A proposito, io mi chiamo Gaetano» mi presentai.
«Italiano, lo immaginavo: solo voi amate il francese più dell’inglese. E poi andate sempre in giro come se vi trovaste a una maledetta sfilata. Bah… vallo a capire. Io mi chiamo Eloic» disse, e mi fece cenno di aiutarlo a spingere la deriva in acqua.
Il vento soffiava più forte nel primo pomeriggio e la barca scivolava spedita al traverso, con lo scafo di sottovento appena inclinato sulla superficie del mare, mentre Eloic faceva da contrappeso sopravvento e regolava l’ampiezza della randa con la sinistra e il timone con la destra.
Si accorse subito che sapevo dove mettere le mani e così, senza dirmi niente, mi lasciò il timone. Navigammo lungo il reef sottovento, dove l’acqua è sempre quasi piatta, quindi imboccammo la grande passe per trovarci in mare aperto, accompagnati da un branco di piccoli delfini i quali presero a nuotare vicino lo scafo e a immergersi sotto, per passare da una parte all’altra. Potevi guardarli negli occhi e quasi sembravano sorridere e concederti la loro attenzione, i messaggeri degli dei; il tempo volava nella luce accecante sul turchese e lo smeraldo del mare, mentre gli sbuffi dei delfini ci bagnavano più degli schizzi della chiglia sul mare, coi loro sfiati ritmici a imitare una benedizione, a renderci consapevoli dell’immortalità del momento.
Perché sarebbe stato soltanto quella volta, solo quell’istante, null’altro e mai più.
«Mi hai preso in giro» disse Eloic, dopo un po’. «Tu sei un marinaio. E io dovevo chiederti diecimila franchi, perché ti stai divertendo come un matto, e mi costringerai ad arrivarci sul serio alla tua dannata isola deserta.»
Sfoggiai il sorriso del vincitore e virai a dritta. «Certo che ci arriviamo. È quella?»
Eloic annuì. «Quella è Tupai» disse, e lo sentii brontolare contro quegli imbroglioni degli italiani, sempre pronti a farsi beffe del prossimo. Furbi, lo sentii dire in italiano.
La passe di Tupai non era più larga di un torrente di montagna e svelava una laguna ancora incontaminata. Era un giorno ventoso e caldo, ma laggiù tutti i giorni sono ventosi e caldi. L’atollo era un anello di palme e sabbia lungo un paio di chilometri: luce e mare trasparente, fitta vegetazione e nessuna presenza umana; non significava altro, forse, se non che quella era l’impronta della fantasia di Dio nella Creazione. Eloic riprese il timone, perché solo lui sapeva come affrontare la passe.
«Ecco la tua isola» disse, quando fummo dentro.
«Non c’è niente, ed è bellissima per questo» commentai, senza trovare altre parole.
«Esatto, l’Uomo non l’ha ancora invasa con la sua merda.»
Quando fummo sazi di solitudine tornammo a Bora Bora, mentre il cielo si era già colorato di un rosso fiammeggiante.
Eravamo stati per tutto il tempo della navigazione in silenzio.
Le prime parole di Eloic furono: «Ti sei divertito, non è vero?»
«E hai bisogno di domandarmelo?»
«Allora per punizione mi offri anche una birra: ti ho chiesto troppo poco per un’esperienza del genere.»
Il bar sulla riva dei pescatori dove approdammo era semplicemente un chiosco con cinque tavolini di legno e delle sedie impagliate diversamente solide.
Eloic ordinò due boccali di birra alla spina, che un indigeno con addosso soltanto dei pantaloncini luridi ci servì subito.
«Il paradiso è una birra gelata dopo una giornata di mare» mi disse, e la tracannò d’un sorso, la sua birra, per poi ordinare un altro giro al tipo in pantaloncini. «Questa volta è il mio turno.»
«Avevamo detto che le birre sono a mio carico, ci penso io» risposi, e provai a indagare. «Sei francese, ovviamente». Lui alzò gli occhi dal secondo boccale:« Ovvio un cazzo, io sono bretone» esclamò soddisfatto.
Mi misi a ridere ed Eloic mi fissò incuriosito.
«Hai risposto come avrei risposto io: non sono italiano, ma siciliano.»
«Ah, un pied noir» disse, e stavolta fui io a ridere.
«Ma sì, gli altri italiani ci considerano tali solo per un accidente storico. Di cognome faccio...»
Ma mi interruppe subito, infastidito.
«Qui i cognomi non esistono… un attrezzo inutile, e ciò che non serve alla fine col tempo diventa pericoloso come un cancro, e ti porta lentamente alla morte se non te ne liberi. Ma non è facile» aggiunse, e d’improvviso cambiò umore, si fece scuro in viso.
E mi propose di seguirlo. «Sei stato gentile, vieni a cena da me, tanto sei solo, l’ho capito, i cani randagi si annusano tra loro e tu non hai neppure la rabbia, come me.»
Decisi di non approfondire la faccenda del cane, meglio il silenzio a parole inutili, ma gli andai dietro: l’alternativa sarebbe stata la tristezza di una cena solitaria nell’unico albergo dell’isola, alla caccia dell’ultimo sfortunato ed eccessivo bicchiere di cognac o di una turista americana annoiata con cui condividere la notte stellata.
La casa di Eloic era poco più in là, una capanna polinesiana sulla spiaggia, senza imposte, col tetto di palme, leggermente sollevata dalla sabbia. Tre donne giovani erano intente a cucinare del pesce su una griglia improvvisata sopra un mezzo barile d’olio vuoto, ma per l’occasione riempito di legna. Eloic entrò in casa, senza dire una parola, e ne uscì con un secchio di latta pieno di ghiaccio e bottiglie di birra. Il lato della casa che confinava con la spiaggia sembrava sorretto da una palma storta almeno quanto i miei pensieri, ma ancora in grado di sostenere un tavolo di legno arpionato al suo fusto da tempi troppo lontani per poterli ricordare.
Non vidi sedie diverse da altri recipienti d’olio arrugginiti; Eloic urlò qualcosa nella loro lingua alle ragazze indigene; loro si mossero scomposte mentre io, per la prima volta, le potei osservare con attenzione: erano davvero molto giovani, scalze e per niente vestite, di una bellezza ambrata difficile da immaginare se non si ha la fortuna di poterla ammirare da vicino proprio dove si manifesta. Eloic sembrava il loro cupo sovrano dalla pelle bianca, senza reggia né corona, e come un re le trattava: ruvido impartiva loro ordini ai quali, in modo maldestro, provavano a ubbidire. Così a me all’improvviso mancarono le parole. Lui aprì un paio di bottiglie e me ne porse una. Non dissi nulla, per non cadere nella finzione di una conversazione avviata per evitare l'imbarazzo del silenzio.
Finimmo un paio di birre, le ragazze ci servirono del pesce e cenammo insieme a loro, sorridenti e sempre di buon umore nonostante i rimbrotti continui del loro arcigno sovrano. Tutti sotto la palma, seduti sui vecchi fusti, con le tre ragazze a divorare il pesce, come noi, con le mani, a ridere e parlare fra loro, nella loro lingua, senza badare a noi, come se la nostra esistenza non le riguardasse. Alla fine andava bene così, il tutto non aveva un gran senso agli occhi di un europeo, ma il tramonto era tanto struggente da far apparire la mancanza di conversazione come una benedizione.
Finito il pesce Eloic si alzò, entrò in casa e ritornò con due sigari, una bottiglia di rum dall’etichetta illeggibile e due bicchieri luridi di incrostazioni che riempì all’istante.
«Tu sei un marinaio» non era una domanda, ma un’affermazione. E aggiunse: «Hai una moglie?»
Io risposi d’istinto. «Se anche l’avessi, quaggiù chi se ne ricorderebbe…»
Eloic si mise a ridere, già bevuto come me. « Le donne sono le peggiori trappole nella vita di un uomo» disse. «Tu sei un marinaio» ripeté con più insistenza.
«Da sempre» risposi.
Eloic si riempì di nuovo il bicchiere di rum e se lo bevve d’un fiato. Mi porse un sigaro e dei fiammiferi per accenderlo.
«Rum e sigaro, cosa c’è di meglio, fratello?»
Io volsi lo sguardo verso le ragazze, e sollevai le sopracciglia per sottolineare l’invidia della scimmia.
Eloic sorrise, poi il suo sguardo si perse oltre il tramonto, sulle nuvole poderose e il rosso infuocato. Ebbi l’impressione che rincorresse un demone invisibile e trasparente, perturbava l’aria e fermava il vento, poi all’improvviso chinò la testa, come piegato dalla scure di un rimorso, e sussurrò. «In Bretagna il mare non è così bello, eppure era casa mia.»
Era una domanda piuttosto banale, ma non riuscii a trattenermi dal chiedergli se gli mancasse.
Eloic scosse la testa, la Bretagna apparteneva a un’altra vita, una vita che non esisteva più.
Restammo per un po’ in silenzio, dando modo al rum di fare il suo lavoro antico: distendere e ammansire i sentimenti degli uomini, prima di perderli.
E mi domandò cosa ci facessi lì.
«Voglio vedere la Creazione, prima che scompaia,» gli dissi, «prima che l’uomo la invada per sempre con la sua merda.»
Eloic mi regalò un sorriso amaro.«E non ti manca la tua Sicilia? Il mare lì è più caldo di quello della mia Bretagna.»
Scossi la testa: «E a te non manca la Francia, non manca Parigi?»
Eloic tirò una profonda boccata dal suo sigaro e si riempì ancora una volta il bicchiere di rum.
«A Parigi c’è tutto, ma manca tutto il resto…»
Gli uccelli marini da preda volavano alti nel cielo, e per un lungo minuto Eloic li inseguì con lo sguardo, cercava forse di guidare i loro volteggi, ma era contrariato perché sembrava non riuscirci.
«In Bretagna sono tutti marinai… Io sono un medico, ero un medico, come tutti nella mia famiglia, ma dopo la laurea ho assecondato il demone del mare. Regate, traversate a vela, due giri del mondo con gente che ci sapeva andare. Uno in particolare: Eric, il capitano, il migliore tra tutti; la gente parla, parla e poi parla ancora perché non sa cosa dire. E, se non lo fa, non sa come giustificare a se stessa la propria esistenza. Lui, invece, stava sempre in silenzio. Per lui parlava quanto faceva. E la folla, la gente, quando poteva, la evitava…»
All’improvviso mi parve a disagio, non so se con me o con se stesso, ma storse la bocca in un ghigno feroce.
«Hai navigato col capitano Tabarly» dissi ammirato.
Per quelli come me il suo nome profumava di leggenda.
«Ti piace il rum?»
«Certo che sì» risposi.
«E allora bevi e non rompermi le palle.»
Rimanemmo ancora una volta senza parole, finché il dolce succo ambrato non gli sciolse quella piega del cuore, quella che prima gli aveva storto il viso, e riprese a parlare come per assalire i propri demoni.
«Poi, trascinato dal rimorso per la mia famiglia, tornai in Francia e trovai lavoro a Parigi. Gli anni trascorrevano lenti e inesorabili, i figli crescevano in fretta e tutto era magnificamente perfetto, quanto sterile. Io, dal mio studio, guardavo la pioggia scendere sui vetri e le strade affollate ,e mi domandavo dove andasse tutta quella gente così di fretta a ogni ora del giorno, ogni giorno della settimana, anno dopo anno. Creano la frenesia apposta, lo sai? Per non permetterci di pensare. Le persone con cui mi capitava di conversare: se avessero avuto l’ardire di ingoiare la propria saliva, sarebbero morte avvelenate, ecco cosa pensavo. Ma facevo finta di niente, mi rincuoravo al pensiero che non era quello il mio veleno.
A un certo punto, il tarlo della convivenza aveva lacerato ogni emozione fra me e mia moglie, i miei figli percorrevano le loro vite altrove, mentre il mare ritornava prepotente a tormentare la mia anima.»
Ritornò muto, con gli occhi vacui a cercare una luna che non voleva sorgere dalle croste del suo bicchiere fissato di continuo, nella vana ricerca della strada maestra della sua dannazione.
«Non ci badare, sto diventando vecchio. Con Bernard facevamo spesso discorsi come questo quando andavamo a Rangiroa colla sua Tamata. Lui è rimasto in Indocina, a quella guerra persa, ai fratelli morti, e alla piantagione dei genitori: adesso vuole stare solo, lontano da tutti, lontano anche da me, forse a causa di quegli stupidi fan che hanno letto ogni suo libro e lo cercano come un Messia. Aspettano che dica qualcosa, che dia un senso alle loro inutili vite. Tu hai l’aria di essere proprio uno di quelli, non è vero?»
Ero uno di quelli, ma mi guardai bene dall’ammetterlo.
Mi trovavo faccia a faccia con Dio e quel Dio, mi accorgevo, non solo non si curava di me, ma mi detestava, non solo era ostile, ma odiava sin nel profondo ciò che io ero, non stimava me né il genere umano.
Sentivo la nausea farsi strada, e mi venne voglia di scappare, andare via, senza mai fermarmi.
Ciò che il mio Dio ebbro aggiunse non vale la pena riferirlo, qualcosa sul senso della vita, sull’inutile ricerca di un Salvatore qualunque, sulla necessità di prendersi cura di volta in volta di chi si ama in quel preciso momento, senza scrupoli né rimorsi, senza puntare l'occhio sullo ieri o sul domani.
«Vieni con me» disse, in modo inatteso, sollevandosi dal fusto con un ruggito da bestia ferita, il bicchiere di rum in una mano e il sigaro nell’altra. Il tono era stato così perentorio e solenne che il tramonto rimase sconvolto. In un impulso di paura o, forse, di pudore, simulò di fermarsi; e magari lo fece davvero. Le tenebre smisero di fare capolino, e noi ci alzammo fra le palme per camminare sulla spiaggia. Il vento era girato intorno circospetto, nell’ansia di capire chi fosse stato in grado di sconvolgere l’ordine universale, e, nel dubbio, sospirò inquieto, infastidito da quell’ardire. Si sa, sembrava dire, gli uomini non hanno nessun pudore.
Cercai di non far caso ai segni, ma i segni erano là a testimoniare; l’inquietudine mi avvolgeva, e mi sosteneva solo l’attesa del prossimo sorso di rum, la bocca arsa dal verme di un nuovo abisso.
Il resto non aveva più alcuna importanza, cercavo solo di ricordarmi dov’ero, e se quel respiro fetido da cane randagio a invadermi le narici fosse proprio il mio. L’improvviso fragore dell’assenza del vento suscitò dal mare un tanfo di granchi morti che mi fece lacrimare gli occhi e suonare la rumba allo stomaco già sconvolto.
Là dove mi condusse, nel chiarore del crepuscolo, vidi una croce azzurra, fatta con le coste di una cassetta di legno, dipinta alla meno peggio e di fretta; troneggiava sull’oro della sabbia come sull’orlo di un abisso, quasi al confine con la terra battuta della strada, come un’insegna festosa al limite estremo della notte.
Eloic si avvicinò e ci si inginocchiò davanti. I suoi occhi erano rossi e gonfi, lo vidi solo e sperduto, terrorizzato davanti a quella croce.
Non ci accorgemmo neanche della gente che camminava avvilita nella polvere eterna della via, mentre un carretto colmo di pesci lasciava una scia di sangue e di umori maligni, seguito da un nugolo di mosche impazzite, trascinato da un uomo rassegnato all’infamia della propria esistenza. Le nuvole inquiete si scontravano, e combattevano, per riprendersi il dominio del cielo. Una luna impaurita sorgeva dal mare in un tremolio d’improvvisa e inaspettata solitudine. Non vedemmo neppure gli uccelli marini scannarsi sulle acque, nella lava dei nostri desideri frustrati e inespressi, o i cetacei giganti allontanarsi dal reef, con il guizzo dei loro cuori pesanti, mentre scuotevano le acque e agitavano le danze del plancton, confuso nella luce fosforescente della marea recalcitrante. Soffocati dalla certezza che un leviatano antico e nuovo, ma più potente di chiunque prima, era sorto dal nulla, da qualche parte, per dar loro la caccia.
Adesso la vedevo: la scimmia era nuda, maligna la sua esistenza; i suoi passi di samba erano il terremoto estremo che sconvolgeva la terra, divorava le foreste, inacidiva il mare.
Non vedemmo i coralli infrangersi nel tumulto delle onde create dalla fuga repentina e scomposta delle balene. Non vedemmo esplodere sui fondali di sabbia le eterne conchiglie dei vulcani consumati. Non vedemmo, né sentimmo, il tremito della sabbia, sotto i nostri piedi, aggrovigliarsi nella contorta preghiera antica, nell’estremo gesto di pietà del chiedere perdono per i nostri peccati, meravigliosi artifici costruiti nel sudore di rum delle nostre caldane incontenibili. Non vedemmo proprio niente; ma Eloic si fermò e si inginocchiò, si segnò il petto e si rovesciò il rum addosso, come in battesimo blasfemo.
Nulla aveva ragione di esistere, e io adesso ne avevo la certezza: da quel Dio riuscivo solo a distinguere un sibilo, da ubriaco bestemmiatore a consumare i denti nell’acido, di una tristezza irrefrenabile. Riapparve sul suo volto la piega distorta di quel labbro infelice, ora autentico e vulnerabile, che invano aveva provato a mantener tutto nascosto senza riuscirci.
Volse allora lo sguardo in alto, verso di me. «Io sono sepolto qui, di tanto in tanto vengo a trovarmi e a recitare una preghiera per la mia anima.»
Era arrivata la notte, all’improvviso, senza alcuna certezza, e ci precipitò addosso tutta la solitudine del mondo, come fosse un presagio, il latente sudario di quella morte che alberga in noi sin dal primo vagito inconsapevole.