Indice:
La gara
Gara 16
CINQUE PERSONAGGI IN CERCA DI STORIE
settembre 2010
antologia per BraviAutori.it
a cura di Manuela Costantini
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Prefazione
CINQUE PERSONAGGI IN CERCA DI STORIE
Gioco spesso con mia figlia a inventare storie: scegliamo un mestiere o un nome e poi un luogo o un oggetto o un'immagine e vengono fuori racconti fantastici. Da qui è partita l'idea per questa gara.
Perché inventare storie e “giocare” con le parole è una delle cose più belle che ci siano al mondo.
Quando si diventa grandi il mondo pieno di immagini e colori tende a scomparire, a trasformarsi in responsabilità e noiosa serietà.
Ma si può essere responsabili e seri anche continuando a “giocare”, anzi, ho imparato che i bambini sono serissimi quando giocano.
E sono davvero contenta che i BraviAutori siano riusciti a giocare così “seriamente” da riuscire a farci vivere le loro storie.
Un gruppo di uomini dispersi che “costruisce” una via di fuga; un ghiacciaio che conserva per millenni una donna che riuscirà a realizzare un sogno; qualcuno che non ha avuto una vita fortunata e gioca col destino del mondo; un uomo che si diverte a nascondino con alieni inesistenti; una coppia che gioca con le parole tutti i giorni e alla stessa ora; una bimba che assaggia la vita, anche se non tutti i sapori sono proprio buoni; un uomo che cerca la sua donna finché non riesce a trovarla, in una specie di caccia al tesoro con un premio terribile; una donna che si ribella alle regole del gioco e vince; uno spavaldo minuscolo meccanico che pure si ribella alle regole e perde però, perché le regole a volte sono necessarie; un uomo che sogna di poter continuare a giocare; una donna che continua ad aspettare perché non riesce a credere che non tornerà chi era il suo compagno di giochi; una famiglia intrappolata in una gara troppo crudele; una donna stanca di giocare che si dondola tra le onde del mare; un'altra che resta un po' sorpresa all'inizio ma che poi capisce che è sempre una gran cosa stare al gioco; e un'altra ancora che ha così tanta paura di mettersi in gioco da volerci quasi rinunciare...
Quindici BraviAutori che non solo hanno giocato con le parole, ma si sono "messi in gioco". Perché non si gioca da soli, come non si scrive soltanto per se stessi. Si scrive anche per offrire agli altri il proprio pensiero. E in tutti i giochi, così come nella vita, per vincere bisogna rischiare di perdere. Ed esattamente come i bambini che, anche quando perdono, dopo due secondi hanno già iniziato a giocare a qualcos'altro, noi continuiamo a scrivere...
Buona lettura!
M.C.
Arianna
IL MIO ADDIO AL NUBILATO
Finalmente è tutto finito.
Gli appuntamenti dal sarto, le prove dal parrucchiere…
La cerimonia, il pranzo con i parenti.
Un'altra cuoca mi sostituirà per quindici giorni, nel ristorante dove lavoro.
Ora sono sull'aereo, in viaggio con mio marito, che mi guarda assorto. Gli sorrido; gli tengo la mano stretta nella mia. Chiude gli occhi. È felice.
Non so cosa mi aspetterà, da questo momento in poi. Certamente, gioie e dolori.
Ma qualcosa rimarrà sempre vivo nei miei ricordi preziosi, nel tesoro imperituro a cui attingerò quando avrò bisogno di dimenticare di essere sul pianeta Terra. Ripenserò alla sera del mio addio al nubilato. E qualsiasi cosa mi stia capitando, ricorderò quelle ore indimenticabili e riderò ancora, e ancora.
Credevo fosse uno scherzo, ma ho voluto rischiare di crederci. Del resto, nella mia vita sono stata spesso molto ingenua, per cui valeva la pena di aver fiducia in qualcuno per l'ennesima volta, e non ho sbagliato.
Pochi giorni prima del mio matrimonio ho ricevuto una mail dal responsabile del forum che frequento, con la quale m'invitava ad andare a festeggiare il mio addio al nubilato insieme agli altri iscritti, a casa della tal signora di cui non scrivo il nome, come neanche identificherò nessun altro di loro, per amor di privacy, e per la promessa che ci siamo scambiati, nell'auspicio che un giorno saremo tutti scrittori famosi.
Copiai l'indirizzo sul Tom Tom. Guidando la mia auto con prudenza, in qualche ora giunsi a destinazione.
Era quasi sera.
Loro erano già lì.
Che emozione vederli… Non era uno scherzo!
Le foto e gli avatar corrispondevano davvero alla loro immagine reale. Li baciai e abbracciai, a uno a uno, ed entrai nel giardino.
C'erano tavoli e sedie, luci soffuse. Il mio cuore palpitava per l'emozione. Sui suoi battiti accelerati si sovrappose una voce:
— Abbiamo scritto una poesia per te, ma questo è anche un gioco. Ognuno di noi ha scritto una frase. Se tu indovinerai i rispettivi autori, riceverai un regalo.
Seduta, ascoltai attentamente recitare:
"Qui comando io, anche se non è casa mia.
Voglio vincere la gara stavolta.
Grammatica, dove sei?
Controlla bene.
Non mi convince.
Devo crescere, sono molto giovane.
Ho scoperto i tarallucci col vino.
Non sarò mai una Miss.
Ti annoierò per sempre, e sempre di più.
Io guardo dall'altra parte.
Ciccia mia, m'hai ammazzato.
Che io sia dannato."
Alzai gli occhi; in realtà non vedevo nulla. Lo sbalzo fra l'emozione e la sorpresa era stato fortissimo. Iniziai a ridere. Non riuscivo a controllarmi. Soprattutto, perché una delle frasi mi fece rivivere in un istante tutta l'allegria del libro che aveva scritto uno dei presenti, che avevo letto con molto piacere e divertimento. Appena riuscii a fermare le convulsioni della pancia e le lacrime, elencai i nomi degli autori in perfetto ordine. Allora mi fu consegnata una scatolina incartata con una carta rossa brillante. Sorridendo, tolsi l'involucro. Mi ritrovai fra le mani la confezione di uno stupendo cellulare.
Iniziammo a parlare dei tanti discorsi trascinati sul forum, ma stavolta con la sola intenzione di trascorrere una serena e allegra serata. Finalmente persone, non più sole parole. La tavola era già apparecchiata con cura; tovaglia di raso azzurra, alcuni vasi con iris, bicchieri rosa, bottiglie con acqua, altre con un corposo vino rosso, offerto da un amico pugliese. Cartoncini poggiati su ogni posto, con il menù e il programma della serata.
Pasto: Specialità (No refus)
Seguirà: Spettacolo
Una dolce amica mi portò a visitare il giardino, per permettere alla padrona di casa di disporre i piatti e farmi tornare a tavola quando tutto fosse stato sistemato. Così potei ammirare le rose, le begonie, i gelsomini e le buganvillee. Era uno spettacolo incantevole, sotto la luce della luna e il canto delle cicale.
Tornammo indietro, ci sedemmo a tavola e guardai il mio piatto. Che cosa vedevo? Aveva un nome, sul menù. No refus. Qualcosa di paragonabile alla paella spagnola, ma non c'era riso: fusilli verdure pezzi di carne, tutte piccole forme condite con un sugo profumato, piccoli pezzi di ogni ingrediente, poggiati perfettamente in un piatto dove c'era un esatto spazio per ognuno di essi. Rimasi incredula a guardare… poi iniziammo tutti a ridere, e all'unisono spargemmo nel silenzio che si era creato un fragoroso applauso alla cuoca. Coerente in ogni suo comportamento. La cena fu un elogio al piatto e alla precisione con cui sempre si contraddistingueva.
Il vino era davvero buono, andò giù facilmente e con piacere. Non sembravamo più noi, quella sera. Fra chiacchiere e risate, a un certo punto mi resi conto che le luci si erano spente. Gli unici punti di luce erano gli occhi dei numerosi gatti accoccolati nel giardino. Non ebbi neanche il tempo di chiedermi cosa stava accadendo, che alcune luci iniziarono ad accendersi. Guardai intorno a me: eravamo solo donne. Ebbi la risposta prima di poter formulare la domanda: davanti a noi c'era un palco, dove tutti gli uomini del nostro gruppo erano in piedi, con una mascherina sugli occhi. Oddio, ma perché? La testa già mi girava, quel vino era forte davvero e andava giù bene. Che volevano fare quegli spiritosi? Seguendo con lo sguardo la scia luminosa su cui sembrava adagiarsi la luna, vidi amplificatori sparsi sugli alberi. Iniziò a diffondersi una musica molto sensuale. Ma dai… ballavano… E noi donne a guardare. Avevo pensato che lo spettacolo sarebbe stato la lettura di qualche racconto. La solita ingenua. Ballavano con lo stesso stile con cui scrivevano: movimenti da narcisista, un altro dolce e sensuale da farti sciogliere l'anima e…, poi quello dolce e ingenuo, l'altro pacato e lento, ma seguiva quello più irruento e quello che mostrava tutti i suoi difetti con orgoglio. Aspettavo che finisse il ballo per applaudire. Ma iniziarono a volteggiare su sé stessi, e i vestiti volarono nel giardino… Porca miseria, facevano sul serio! Ormai erano coperti solo dai loro slip e boxer. Sicuramente stavano per riaccendersi le luci… No. Gli ultimi indumenti volarono via, e fra applausi e risate, cambiarono le espressioni delle autrici. Qualcuno, finalmente, urlò: — Perfetto!
— Questo sì che mi convince!
Cmt
DISPERSI
La spiaggia che si estendeva infinita dinnanzi a lui avrebbe anche potuto essere un deserto.
Il mare, più che un elemento concreto, era un suggerimento di rumore di risacca e odore di salsedine trasportato dal vento.
Lontano, oltre la foresta alle sue spalle, il fumo saliva nero e denso nel cielo altrimenti terso. Era l'unica testimonianza visibile dell'esistenza dell'aereo, fatta eccezione per lui, gli altri e le valigie.
Altri quattro uomini erano lì vicino, nelle sue stesse condizioni. Il sole impietoso aveva già asciugato i loro abiti incrostati di sale e sabbia, dando loro, nel complesso, l'aspetto di antichi relitti rigettati da onde che non desideravano avere nulla a che fare con loro. Forse, come lui, sapevano di essere sopravvissuti al tuffo, alla frenetica nuotata verso la riva e alla camminata sulla sabbia rovente in cerca di altri sopravvissuti solo perché erano troppo doloranti per poter essere morti. Il caldo, quello no, non era un grande indizio.
«Hai trovato qualcosa di utile?», gli domandò uno degli altri, un uomo sulla sessantina ma atletico e asciutto.
Lui tornò ad abbassare lo sguardo sulla valigia che aveva aperto. Non aveva molta importanza di chi fosse, data la situazione.
C'erano dentro dei vestiti, un libro, un orologio e un uovo di pasqua, ancora avvolto nella sua carta laminata bianca e arancio, che il sole aveva ridotto a una massa deforme. Se lo gettò alle spalle. «No. Voi?»
Il ragazzo, un biondino scheletrico dallo sguardo spento che lavorava, a suo dire, in un'officina, sollevò sopra la sua testa qualcosa che a prima vista poteva essere una griglia, ma guardando meglio si rivelò uno stenditoio di quelli che si appendono alle ringhiere dei balconi. Ma chi se ne andava in viaggio con un oggetto del genere?
«Io ho questi», commentò un altro. Aveva un fisico massiccio da palestrato, capelli quasi inesistenti per scelta e mani grandi come pale. Aveva detto di essere un parrucchiere. E aveva in mano un computer, o per meglio dire uno di quei netbook che si usavano di recente, grossi come agende, attaccato con un cavetto a un cellulare quasi altrettanto grande.
«Funzionano?», gli domandò.
«Il pc no. Il cellulare si accende ma non c'è campo.»
Lui levò gli occhi al cielo. Chissà perché la cosa non lo sorprendeva.
«C'era anche questo», aggiunse il coiffeur, sollevando una palla nera irta di punte che gli riempiva la mano.
«E cos'è?», chiese lui, immaginando che l'altro avrebbe estratto un bastone da avvitare nella cosa a mo' di manico per ottenere una perfetta mazza ferrata. Invece estrasse un cordone di alimentazione e ne infilò la spina in una qualche apertura.
«Un adattatore universale», spiegò.
«Bene. Così non dovremo preoccuparci di trovare le prese del tipo giusto.»
Era incredibile che fosse passata solo una settimana. Era incredibile che fossero sopravvissuti nonostante nessuno li avesse soccorsi, a pensarci bene. Eppure erano tutti lì, su una zattera, pronti a prendere il largo nella speranza di raggiungere la terra ferma. Se la sfortuna aveva voluto metterli alla prova, la sua più benevola controparte doveva aver deciso di dare loro una speranza mettendoli assieme.
Il ragazzo smilzo si era rivelato un asso nel costruire attrezzi di fortuna con tutto quanto gli capitava sottomano. Con quelli avevano potuto costruirsi un riparo, ma cosa ancora migliore avevano potuto abbattere alcune tra le tante palme locali che l'uomo anziano, un falegname nientemeno, aveva abilmente tramutato in un'imbarcazione grande abbastanza. Il tutto mentre l'ultimo della compagnia, armato di ago e filo che a quanto pareva si portava sempre dietro in un kit tascabile, aveva cucito assieme gli abiti più disparati per dar loro una vela in piena regola. E lui, da bravo chef, aveva pensato al cibo, industriandosi a cucinare pesce, granchi, perfino piante se sembravano abbastanza commestibili, con l'aiuto del parrucchiere, che come pescatore e raccoglitore di frutta non aveva rivali, almeno non tra loro. L'unica cosa che nessuno aveva voluto toccare era l'uovo di pasqua, che giaceva ancora lì dove era stato gettato, e ormai doveva essere del tutto sciolto dentro la carta. Se lo lasciarono indietro mentre la zattera prendeva il largo.
La vela era un puntino all'orizzonte quando l'uomo uscì, più strisciando che camminando, dalla foresta.
Non sapeva quanto tempo fosse passato dall'incidente. Ricordava a malapena di essere stato risucchiato dall'aereo prima che si schiantasse e di essersi trascinato a stento fuori da una laguna prima di annegarvi. Poi non aveva fatto altro che prendere e riperdere i sensi, cercando di esplorare quanto poteva e mangiando quello che gli capitava, vermi e insetti compresi, pur di sopravvivere.
Quando vide l'origine del luccichio che l'aveva attratto in quella direzione, non seppe se ridere o piangere.
Dopo un po', si decise a raggiungere l'involto di carta metallizzata bianca e arancio, spezzare il nastro che lo teneva stretto e aprirlo. All'interno c'era una poltiglia marroncina con venature biancastre, di certo migliore di tutto ciò che aveva ingurgitato in quegli ultimi giorni. Vi affondò due dita e, con un'espressione di immenso piacere, se la portò alla bocca.
Fu solo dopo averla finita che, per curiosità, aprì l'uovo di plastica da cui aveva leccato via ogni traccia di cioccolato. Guardò dentro, estrasse incredulo l'oggetto che conteneva e scoppiò in una risata folle.
Un bigliettino abbandonato sul fondo del contenitore recitava: "Congratulazioni, hai vinto la nostra promozione speciale, un telefono satellitare a energia solare con un mese di chiamate gratuite già attivo".
Ardito
GHIACCIAIO PIA
Pompei, 79 d.C.
Savius Calvus era stufo di sua moglie Pia. Come tutte le donne campane, ella era infatti assai esuberante e non s'acquietava mai. Parlava ininterrottamente da mattina a sera. Ultimamente poi s'era messa in testa — è proprio il caso di dirlo — di diventare una tonsor. Esercitare tale professione era cosa da uomini e Savius aveva cercato di far ragionare la consorte. Pia non aveva voluto sentire ragioni.
Al massimo, in quanto femmina, avrebbe potuto aspirare a divenire un'ornatrix il cui compito sarebbe stato quello di creare artificiose cocche per le signore patrizie. Ma lei, donna emancipata e femminista, voleva radere e acconciare gli uomini, specialmente i politici e i potenti.
Nottetempo, Savius stanco delle pretese astruse della concubina decise di buttarla nel cratere del Vesuvio. Da qualche giorno le scosse telluriche facevano presagire che sotto la gran montagna qualcosa si stesse muovendo. Savius aveva adocchiato una giovane schiava della Namibia, tale Biononc'è, molto dotata fisicamente e sperava in cuor suo, finalmente scevro dagli stretti legami del matrimonio, di potersi congiungere carnalmente con essa. Decise, quindi, di prendere due piccioni con una fava. Liberarsi della tediosa consorte e omaggiare il Dio Vulcano rifilandogli un sacrificio umano nella persona di Pia, l'insopportabile aspirante parrucchiera dei vip.
Savius guadagnò a fatica la sommità dell'enorme monte, proprio dove si apriva un cratere nero. Rabbrividì. Quel buco profondissimo doveva essere collegato direttamente con il regno di Ade. Pia giaceva immobile e muta sul carro trainato dal ciuccio. Per ottenere questo rilassamento, il poco paziente marito aveva fatto bere una tisana di erba sonnifera all'ignara consorte. E in fondo quello che seguì il folle gesto uxoricida di Savius confermò che "consorte" era proprio il termine giusto in ogni accezione. Infatti, dopo che Savius, gettò la donna nel cratere al grido de "Piatela tu, Pia" la terra ebbe un sussulto violento e l'uomo rovinò al suolo. Dopo un attimo, come se il vulcano schifato vomitasse un pasto indigesto, una colata lavica enorme ricoprì Savius. La sua vedovanza ebbe vita breve.
Canale di Beagle, giorni nostri.
— May day! May day! Qui Italia One, ho un motore in fiamme! Tento atterraggio di fortuna sul ghiacciaio. — Il pilota è atterrito. Seguono momenti convulsi. Fragorosi frastuoni. Un terribile urto. Fiamme, lamiere, fumo. Poi silenzio. I rottami dell'Italia One, visti dall'alto sembrano inghiottiti dalle enormi pareti ghiacciate.
— Yu uh? C'è qualche sopravvissuto? — L'uomo azzimato è ancora seduto alla sua poltrona con tanto di cintura di sicurezza. Sembra in perfette condizioni fisiche a eccezione dell'acconciatura. Il vello capelluto risulta scomposto e informe. L'uomo se ne avvede specchiandosi sul retro di un cucchiaio che tiene stretto in mano.
— Corbezzoli, mi servirebbe il mio coiffeur di fiducia.
Finalmente sgancia la cintura e affonda i tacchi nell'acqua allo stato solido. Si guarda intorno ma vede solo lamiere e resti umani lacerati.
— Beh, se non altro non morirò di fame. — Osserva cinicamente il corpulento cadavere del suo personale portavoce e già assapora un bel pranzetto. Poi a catalizzargli l'attenzione è un enorme blocco di ghiaccio. Gli ricorda quello di Sora Maria la Zozzona che fa le grattachecche di fronte alla sede presidenziale. Si sporge per guardare meglio.
— Oddio! Ma c'è una donna nel cubo ghiacciato. Sembra una concorrente di Tardone!
Tuttavia l'azzimato fa buon viso a cattivo gioco. Anche in quel remoto angolo di pianeta, può soddisfare gli istinti primari: mangiare e copulare.
Si butta a pesce sul lastrone ghiacciato che, miracolosamente, comincia a sciogliersi.
— Uè, e dove mi trovo? E chi mi ci ha portato? — L'antica logorrea, tacitata per duemila anni, fluisce intensa come una mitragliata di Uzi.
— Salve antenata, italiana anche lei? Sa chi sono io? Mi riconosce? Sono uno importante, sa? Mi permette di scaldarla un pochino? In cambio le offro uno scranno dorato o il podio alla trasmissione tv "Tardone". — Poi apre una valigetta 24 ore legata al polso da una catenella, e nell'ordine estrae: una boccetta di smalto, uno stenditoio, un libro, un bottone, una lampadina, un compasso, un orologio, un adattatore per le prese, uno spazzolino da denti, un mazzo di carte da poker, un lucchetto, e un cellulare. Al fine non mancano una pizza, degli spaghetti e un mandolino.
— Tutto ciò sarà suo, bella signora, se mi concede le sue grazie.
Pia l'ibernata guarda senza capire gli oggetti, poi guarda i capelli dell'uomo.
— Ohè, e che cazz 'e capigliatura che tieni? Vien'a'cca che ti rifaccio òluk (non dice proprio così ma se riportassi il latino campano non lo capireste).
— Alleluia, una parrucchiera! Lassù qualcuno mi ama.
Passano giorni bellissimi.
Poi purtroppo arrivano i soccorsi e l'idillio finisce.
Ma l'uomo azzimato ha conoscenze importanti, ad esempio il presidente argentino e ora quel freddo eden ha preso il nome di Ghiacciaio Pia.
Ser Stefano
IL MEMORIALE DI CONRAD
Le luci del laboratorio sono spente così come lo sono i computer. Tutti tranne uno.
Lo schermo LCD illumina di un bianco oleoso la scrivania sottostante.
Il documento Word aperto sul video, mostra un'unica pagina scritta:
<< Mi chiamo Conrad... e sono Dio.
No, non fraintendetemi. Non sono “Quel Dio”, sono solamente “Un Dio” perché... beh, capirete.
Non ho intenzione di annoiarvi con la storia della mia vita ma una premessa su chi sono e come sono arrivato qui, è d'obbligo.
Sono nato in Romania e chi mi ha dato la vita ha pensato bene di lasciarmi su un canale di scolo, tra topi e immondizia. Sono cresciuto in orfanotrofi talmente schifosi che spesso invidiavo i quadrupedi nei canili. Ho scoperto solo in tarda adolescenza di avere un intelletto superiore alla media, un Q.I. così alto che se fossi nato in America o in Giappone sarei sicuramente stato ricordato come l'Einstein del terzo millennio.
Ma con una provenienza e un passato come il mio, cosa potevo fare?
Sono emigrato in Italia e ho cominciato a mettere a frutto il mio ingegno: truffe, raggiri, traffici illeciti, e quanto altro riuscivo a combinare. Denunciato alla polizia da colui che consideravo il mio miglior amico, ho dovuto cambiare zona, lavoro e identità. Nell'attesa che si calmassero le acque, mi sono fatto assumere come tecnico meccanico da una multinazionale. Le mie capacità intellettive mi hanno permesso in breve tempo di saper riparare qualsiasi macchinario, di qualsiasi uso o dimensione, facendomi una discreta reputazione.
Ora mi trovo qui, nel bel mezzo del deserto del Namib, tre chilometri sotto terra, in quella che credo sia la più grande base scientifica mai costruita dall'uomo. Una base segreta in cui il personale deve viverci stabilmente fino alla fine del contratto. Sedici piani che si snodano attraverso la sabbia e la pietra del deserto. Praticamente, una città sotterranea in cui ogni livello è completamente autosufficiente, e isolato dagli altri.
Qui si sta creando qualcosa di enorme e incredibilmente complesso, ma nessuno sa cosa. Top Secret. Ignoto è anche il nome di chi finanzia e organizza tutto questo. È stato utilizzato l'astuto metodo dello smembramento del corpo: ogni parte fa qualcosa ma nessuno ha il quadro complessivo. Nessuno sa niente. Nessuno conosce lo scopo né la funzione dell'enorme macchina che stiamo costruendo.
Finora...
Sì, perché io ora so cosa abbiamo creato.
Dovendo riparare di volta in volta, attrezzature disposte su diversi livelli, ho potuto muovermi abbastanza liberamente. Non hanno previsto che un comune meccanico come me, potesse capire il significato dei complessi schemi scritti nervosamente sulle lavagne o sapesse far funzionare i sofisticati apparecchi elettronici sparsi in modo apparentemente casuale nei vari livelli come statue in un museo ellenico. Ma si sono sbagliati.
Io ho osservato, capito, annotato tutto.
E ora ho il quadro generale e so che la macchina, è in realtà un'arma.
Non una normale. No. L'arma per eccellenza, l'arma finale.
Immagino cosa sia passato nella bacata testa di colui che ha ideato tutto questo: “La bomba atomica è obsoleta ora che ce l'hanno tutti. Ci vuole uno spauracchio più grande. Ci vuole un arma in grado di dissuadere anche il più pazzo dei dittatori, in grado di far impallidire chiunque”
Nata dall'idea e dagli esperimenti del Cern a Ginevra, ora in questa base è possibile ricreare un Big Bang. Un'esplosione di tale intensità da cancellare non solo uno stato o un intero pianeta, ma addirittura tutto l'universo. Un'apocalisse totale e istantanea.
Dalle mie annotazioni ho scoperto che c'è un punto, uno snodo nel Settore 8, considerato da tutti solo di collegamento. In realtà, da quel pannello, posso accedere e bypassare tutte le sicurezze del sistema e con un semplice contatto, entrare in tutti i settori. IO avrò il potere di dar vita al Big Bang.
Nel tempo che impiega una mosca a battere le ali, posso fare scomparire tutto il lerciume che conosciamo, anche quello a noi sconosciuto, e ricreare tutto da zero, una nuova Genesi cosmica.
E ditemi voi se questa non è un'azione che solo un Dio può fare.
Appena smetterò di scrivere questo memoriale, mi avvierò verso il Settore 8, vano tecnico 5B. Mi basterà togliere i quattro sigilli a pressione e staccare il pannello protettivo. Ho memorizzato il caotico schema di cavi elettrici e li modificherò a mio piacimento in modo tale da avere il controllo di tutte le parti. Sarà poi sufficiente fare un contatto tra due cavetti cablati per avviare tutto, per far iniziare Apocalisse e Genesi in un solo istante. Non ho ancora deciso se lo farò veramente, vedrò al momento se farlo o meno. Ho il libero arbitrio, mi spetta di diritto. Voglio prima sentire l'intero universo fra le dita delle mani, stringere in pugno il Tutto. Voglio assaporare ogni istante della mia trasmutazione in divinità. Far parte del creato o decretarne la fine.
E solo allora, da un più livello di coscienza e dal massimo potere mai posseduto da un essere umano, deciderò se essere benevolo o iracondo.
Sono Conrad... e oggi diventerò Dio. >>
Vit
A VOLTE SUCCEDONO DELLE COSE STRANE
A volte quando bevi succedono delle cose. Cose un po' strane, intendo.
Per dire, metti che un giorno accetti l'invito di un amico che ha una casa al mare, vicino alle Cinque Terre, a Levanto, e che t'invita sempre ma non ci vai mai. Ti dici che ora è arrivato il momento, così decidi di andare in giornata. Il programma? Un bagno, due, una passeggiata, poi ceni col tuo amico e coi suoi amici e torni a casa.
Ecco, allora succede che arrivi dal tuo amico, fai un bagno, due, una passeggiata, poi si cena.
La prima cosa strana che capita a cena (quando non hai ancora bevuto niente, che quindi capita perché evidentemente doveva capitare) è che tra gli amici del tuo amico c'è un tipo che ti sembra di conoscere. Lo associ al periodo in cui sei andato a vivere sui monti, quattro anni fa, e a quando Laa Laa, la gatta, era incinta e la sentivi gracidare.
Sono lì a mettere i vestiti ad asciugare sullo stenditoio e sento gracidare. Mi volto ma non vedo rospi. Vedo solo Laa-Laa che mi guarda implorante. Poi fa una specie di gracidìo. Allora mi fermo. La guardo e le chiedo: ma stai male? Come prevedibile Laa-Laa non dice niente. Però emette un altro gracidìo, sommesso e rassegnato. Poi se ne va sconsolata. Come sempre in caso di sospetti malanni della gatta mando un sms alla mia vicina di casa Monica, alla quale sto facendo il filo: oh guarda che forse Laa-Laa sta male. Monica chiama il veterinario, che in realtà non è un veterinario, ma un tuttofare di paese che oltre a fare il parrucchiere per cani e gatti fa il veterinario a tempo perso, che è in zona e arriva dopo venti minuti su un rottame rombante pieno di polvere. Il tizio è alto e secco, con una testa piatta e sottile. Sembra un palo delle vongole di Lido di Volano. Visita rapidamente il gatto e declama la diagnosi: è incinta. Sorride. Ho l’impressione che il veterinario ci stia provando con Monica, perché accarezza il gatto, lo guarda dolce, lo coccola e ci gioca con trucchetti che io non conosco. È evidente che lo fa per intenerire Monica e far colpo su di lei e io m’ingelosisco perché so che Monica s’intenerisce se qualcuno fa il tenero con gli animali e spesso si innamora pure di chi fa il tenero con gli animali (io il tenero con gli animali non lo faccio quasi mai). Più tardi Monica mi dice che il tizio è gay e mi tranquillizzo, ma per qualche minuto lo odio con tutto il cuore.
Ora te lo ritrovi qui dal tuo amico, a Levanto, il palo delle vongole, che pare non averti riconosciuto. In compenso è già ubriaco e ti esibisce un sorriso un po’ ebete. Apre bocca e ti dice una cosa che dovrebbe essere un “ciao”, suppongo, ma che sembra più un “ghiao” o un “miao”. Dal colore bluastro dei denti provi a quantificare i litri di vino rosso che ha ingollato. A occhio e croce ti pare una discreta quantità.
Inizi a mangiare e a bere, persino a ridere e scherzare con il palo delle vongole che ormai non odi più, ti stai divertendo, ma dopo un po' arriva il momento di tornare a casa anche perché hai un viaggio di un'ora e mezzo che ti aspetta.
Ringrazi il tuo amico, saluti tutti (anche il palo delle vongole, che ti fa l'occhiolino sulla porta) e imbocchi le scale per guadagnare l'uscita, solo che sei un pò ubriaco e mentre scendi incroci qualcuno, una coppia di mezza età, son vicini di casa del tuo amico, li saluti sbiascicando un po' e il fatto è che, siccome il tuo amico abita al terzo piano e devi fare qualche rampa, dopo un paio di rampe non tieni più il conto di quante ne hai fatte e ti disorienti, allora anziché andare verso il portone d'uscita prendi la rampa che scende alle cantine, mentre la coppia di mezza età segue severa con lo sguardo questo sconosciuto che scende in cantina alle due di notte. Poi si guardano e scuotono la testa, però questo tu non lo vedi, perché intanto sei già davanti alle porte delle cantine del condominio e senti gli sguardi di rimprovero della coppia di mezza età che intanto si è fermata e ti aspetta pensando: 'sti giovani, sempre ubriachi. Che tra l'altro ti fa anche piacere che abbiano pensato di incasellarti nella categoria dei “giovani”, comunque tu aspetti un po' lì, per far credere che sei sceso in cantina nella piena consapevolezza dei tuoi atti, che sei lì per qualche motivo preciso, non so, per ammirare le volte (che non ci sono) o la pregevole e razionale fattezza delle porte o la tinta beige delle pareti.
Poi insomma, sei sempre in cantina e percepisci la presenza della coppia di mezza età in attesa che tu risalga e all'inizio ridi di questo. Resti immobile. Ma subito dopo inizi ad agitarti perché ti sembra strano che la coppia di mezza età sia sempre lì ad aspettarti e resti immobile quasi senza respirare, ti viene da nasconderti, temi che scendano per venirti a prendere.
Magari sono degli alieni che vogliono rapirti e portarti nel loro appartamento-astronave di Levanto per fare terribili esperimenti chirurgici su di te.
Quindi prendi il cellulare e chiami il tuo amico non sapendo bene cosa dirgli, perché in realtà sei un po' nel panico, inconsciamente speri forse che sentendo una voce umana gli alieni si rintanino nel loro appartamento-astronave. Fai il numero del tuo amico, ma la linea non prende in cantina. Allora senti la coppia di mezza età fare dei passi e tremi.
Vedi l'immagine di te legato a un lettino, in partenza sull'astronave aliena con una specie di sonda infilata su per il culo, quando un rumore di serratura ti dice che la coppia di mezza età è rientrata in casa.
Allora risali di corsa facendo i gradini a due a due trattenendo il fiato, ricompari sul pianerottolo, ti accerti che sia vuoto, ignori la serratura che di nuovo scatta e la porta che sta per aprirsi e ti fiondi in strada diretto verso la macchina senza guardarti alle spalle, promettendoti, per l'ennesima volta, di bere meno alla prossima gita.
Hellies15
NELL'ATTESA
— Buonasera signora. Posso sedermi?
— Certo che può. La vista del mare è di tutti!
Lui sorrise e si accomodò al suo fianco, sistemandosi i calzoni.
— Sta aspettando qualcuno?
— Sì, mio marito!
— Non vorrei sembrarle troppo inopportuno ma… avete un appuntamento?
Lei ci pensò su.
— Sì, diciamo di sì.
— Sono felice per lei, io amo gli appuntamenti. A che ore lo avete, se posso permettermi?
Lei guardò il suo orologio.
— Proprio ora, alle 17!
Il signore alzò il polso.
— Uh, curioso!
— Cosa è curioso?
— Il mio orologio… le lancette si sono fermate!
— Si sono fermate… adesso?
— Sì. Alle 17 in punto!
— Non è incredibile?
— Cosa è incredibile?
— Voglio dire… secondo lei è una coincidenza questa?
— Signora, mi perdoni: se non è una coincidenza cosa potrebbe essere?
Lei per la prima volta abbassò gli occhi, come se si vergognasse a dire ciò che stava pensando.
— Non mi dirà che crede al destino?!
— Lei non ci crede?
— Oh, io non lo so, signora. Sono solo un povero sarto, non mi pongo certi interrogativi.
Lei lo squadrò bene.
— Lo sa che non ha proprio l'aria di un sarto?
— Perché, che aria dovrebbe avere un sarto?
— Beh, non so… un'aria diversa.
— Va bene, facciamo finta che io non le abbia detto nulla. Secondo lei ho l'aria di svolgere quale mestiere?
— Oh, non saprei. Insomma, non è facile dirlo così su due piedi. E poi ormai so che fa il sarto: questa notizia mi ha irrimediabilmente condizionato.
— Ha ragione, ha ragione. Allora facciamo così: io mi alzo e me ne vado. Poi tra trenta secondi torno e lei dovrà fare finta di non conoscermi. È d'accordo?
— Ma a cosa servirà tutto questo?
— A ricreare la giusta atmosfera! Così potrà dirmi quale mestiere meglio si addice alla mia aria.
Lei ci pensò per qualche secondo.
— Va bene, ma non le garantisco che funzionerà.
Il signore si alzò e cominciò ad allontanarsi. Lei si voltò per seguirlo con lo sguardo.
— Eh no, signora! Sei lei continua a guardarmi non funzionerà mai! Bisogna ricreare una certa atmosfera… dobbiamo interrompere momentaneamente ogni rapporto, compreso quello visivo.
— Mi scusi, mi scusi, ha ragione. Mi sono fatta prendere dalla curiosità. Ora me ne sto buona qui e aspetto.
Lei, per non essere indotta in tentazione, cercò una distrazione. Frugò fra le tasche del vestito e trovò una matita con la quale cominciò a giocherellare, canticchiando beatamente un motivetto infantile.
— Buonasera signora. Posso sedermi?
— Certo che può. La vista del mare è di tutti!
Lui sorrise e si accomodò al suo fianco, sistemandosi i calzoni.
— È molto che aspetta?
— Mmm, vediamo… circa trenta secondi!
— Caspita, quant'è precisa. È svizzera, per caso?
— No, sono di Perugia, ma credo faccia lo stesso.
— Vedo che ha una matita in mano: è per caso una disegnatrice?
— Per la verità non sono mai stata brava a disegnare. O meglio, questo è quello che io ho sempre pensato. La mia insegnante di disegno non era dello stesso avviso, e rifilava voti eccelsi anche ai peggiori aborti grafici. Sa, credo che fosse un'estimatrice di Picasso. Tra l'altro non so nemmeno come ci sia finita questa matita nelle mie tasche!
— E allora che mestiere fa?
— Prendere la pensione è un mestiere?
— Se lo è per lei lo è anche per me.
— Bene! Allora io sono una prenditrice di pensioni! E lei invece?
— "Invece" cosa?
— Dico: lei che mestiere fa?
— Mmm… perché non prova a indovinare?
— Caspita… non sono mai stata molto brava con gli indovinelli…
— Andiamo… tentar non nuoce!
— Mmm… secondo me lei ha l'aria di uno che fa il sarto.
Il signore batté le mani, soddisfatto.
— Visto? Era necessaria soltanto l'atmosfera giusta!
— Ha ragione… e ho anche indovinato! Lei fa veramente il sarto! Non è incredibile?
— Cosa? Che lei abbia indovinato o che io faccia il sarto?
— Beh, entrambe le cose! Doppiamente incredibile!
Silenzio.
— Sa che lei è simpatico?
— Chi, io?
— Non io! Lei!
— Lei chi?
— Lei lei! Un momento… non conosco ancora il suo nome! Che sbadata che sono!
Il signore si alzò e tese la mano alla donna.
— Molto piacere. Il mio nome è Evaristo.
— Estasiata! —, Rispose lei stringendogli la mano.
— Complimenti, un bellissimo nome. Originale, per giunta!
— Lei sa il mio nome?
— Me lo ha appena detto!
— Oh, davvero?
— Eh sì, lo ha appena fatto.
— Pensi, non me n'era nemmeno accorta. Ultimamente sono così sbadata!
— A chi lo dice! Proprio la scorsa settimana ho perso la mia matita preferita… credo che l'abbia lasciata dentro al vestito di qualche cliente.
— È possibile, capita anche a me.
— Di lasciare le matite nei vestiti dei clienti?
— No: di lasciare le matite un po' ovunque.
La donna guardò l'orologio.
— Caspita, già le 17 e mezzo!
— Eh sì… sa, credo proprio che suo marito non si presenterà all'appuntamento.
— Neanche oggi?
— Credo di no. Ma potremo sempre tornare ad aspettarlo domani, se lei è d'accordo?
— Mi farebbe molto piacere, Evaristo.
— Su, venga, la accompagno a casa. —, Si offrì lui, aiutandola ad alzarsi.
— Gentilissimo!
I due cominciarono a incamminarsi quando la donna si bloccò di colpo.
— Un attimo!
— Cosa c'è, Estasiata?
— La mia matita! È rimasta sulla panchina! Glie l'ho detto che le dimentico proprio ovunque!
Giulia Floridi
SALE, PEPE E CAFFÈ
Martina non ama il sapore della menta. Punge la lingua e sembra che ti ruba ogni buonissimo sapore che hai in bocca. La prima volta l'aveva assaggiata l'estate scorsa, incuriosita dal bicchiere gigante opaco che aveva in mano la mamma, era verde e sembrava così invitante… un trauma. La prima sorsata dalla plastica fredda, un senso di disgusto unico. Da quel momento Martina ha posizionato la Menta nella lista delle 3 cose che proprio non riesce a sopportare, le altre due sono il rumore della sveglia del mattino e la voce di Paperino.
Da quel giorno il peggiore nemico di Martina si trova in bagno, sul lavandino, appoggiato nel bicchiere rosa che abbiamo vinto con le merendine al cioccolato: lo Spazzolino da Denti. Mamma non lo sa ancora, ma Martina rimane sempre qualche minuto sulla soglia della porta del bagno a guardarla, lì dentro, apparentemente calma mentre lei si pettina. Ogni mattina si sveglia con un progetto nuovo per eliminare lo spazzolino. Ieri, per esempio, ho ritrovato la base dello spazzolino dentro la ciotola del nostro gatto, Orione, che guardava l'oggetto in modo schizzinoso e superiore, indeciso tra l'attacco fulmineo o la pura indifferenza felina. Ha vinto la pigrizia per fortuna, e sono riuscita a ritrovare l'altra parte dello spazzolino nella ciotola dell'acqua, tutta bella inzuppata.
Non ho detto niente a Martina, mi è bastato sentirla urlare dal bagno, l'ultima volta quando ha rivisto il suo spazzolino, pulito, ben posizionato nel bicchiere sul lavandino. Papà si è spaventato, di corsa ha soccorso Martina che era in un mare di lacrime e sconcertato le ha detto: — Marti, ma cosa è successo? Perché stai piangendo? Bambina mia lo sai che ogni lacrima è un sogno che scivola via… — e lei, tirando su con il naso — No… Papà! Aiutami tu! Butta via Quel "coso" lassù! — Papà stava già sorridendo, — Cosa? Lo Spazzolino? Martina mia, no, lo spazzolino ti serve e servirà per avere il sorriso più bello che una bambina ha…
Premetto, mio padre non è un poeta, è semplicemente un cuoco che si diletta in quelle gare culinarie accompagnate da musiche su cui possono comporre rime e canzoni improvvisate per vincere "il piatto in rima" dell'anno. Così, a due settimane dalla gara, papà ogni volta che apre bocca ci propone ogni sorta di rima, "l'improvvisazione è tutto", ci ripete questa frase ogni mattina. Martina comunque non mi è sembrata un briciolo convinta. E infatti ha subito difeso il suo punto di vista: — Allora non sorriderò più, Papà. Ha un saporaccio lo spazzolino, non ce la faccio più. Io odio la Menta, lo sai… e lo Spazzolino sa sempre di Menta. — smettendo di piangere e assumendo un'espressione seria e convinta. E Papà: — Ora vieni con me bambina mia, andiamo a fare la spesa insieme, e ogni paura andrà via… — Martina rimane in silenzio, mentre io sbuco dalla porta e scatto una fotografia, emblematica, dello spazzolino che pende a metà dal bicchiere. Papà prende la giacca e apre la porta, velocemente, strizzandoci l'occhio e canticchiando rivolto a noi — "Sale Pepe e un chicco di Caffè, dammi un bacio e io te ne darò tre…". Casa nostra si allontana dal finestrino, Martina è felice, è sempre più lontana dal suo incubo nel bagno e ora guarda le foglie fuori, che costeggiano la strada in mezzo alla foresta grande che abbiamo dietro casa. Un giorno ho visto due scoiattoli che si litigavano il vecchio spazzolino di Martina, quello azzurro con le bolle di sapone disegnate sul lato. Chissà che fine avrà fatto, Martina ha sempre pensato che con quello gli scoiattoli facessero il bagno. Che fantasia mia sorella, a volte rimango minuti interi a guardarla, mi sembra immersa in un universo di colori brillanti e lei una piccola, ma bellissima stella. Arrivati al supermercato del centro città, quello dove Papà è una star indiscussa per le continue improvvisazioni canore con la cassiera e il panettiere, cominciamo a riempire il cestello della spesa… quattro buste di Sale, un vasetto di Pepe, una busta di Caffè, in chicchi "mi raccomando"… Martina non se ne accorge, ma dietro di lei c'è un intero scaffale di spazzolini, di tutti i colori e di tutte le forme. Papà fa finta di niente e la porta poco più avanti, nella zona Dentifricio; smorfie di dolore e disgusto cominciano a intravedersi sul viso di mia sorella, Papà invece sorride, e senza esitazione le dice: — Abbiamo l'Arancia, il Limone e la Fragola settembrina… qual è il gusto preferito della mia bambina? — Martina, sembra disorientata, in effetti posso capirla, anzi tutto il reparto "Bagno e Profumi" è stranamente incuriosito dalle parole di mio padre. La cassiera sbuca dall'angolino fra la cassa e il dispensatore di bibite calde, fa un sorriso e ritorna a battere lo scontrino.
— Papà, ma cosa di… — lui mi fa cenno di stare in silenzio, e mentre guarda Martina le indica uno scompartimento, in basso, quasi nascosto, coloratissimo. È vero, accidenti, come non averci pensato prima, il dentifricio alla Fragola, che fa capolino come unico superstite di una guerra alla Menta "condita al Fluoro" che invade tutte le file di dentifrici e collutori nel reparto. Martina salta dalla gioia e prende tre dentifrici rosa, rigorosamente alla Fragola da riportare a casa.
Paghiamo, papà saluta cordialmente in rima la giovane cassiera — Arrivederci e buon Appetito, ricordi di condire con un pizzico di peperoncino per un piatto più ardito! " Ritorniamo nel nostro piccolo "rifugio" tra la foresta che di notte sembra incantata, dove mamma ci aspetta oramai per la cena, Martina torna trionfante in casa, felice come una pasqua, non l'ho mai vista così contenta, nemmeno quando nonna ci compra il gelato o quando apre le sorprese dell'ovato Kinder del sabato mattina. Nemmeno il tempo di portare il suo trofeo in bagno che spunta da dietro la mamma zia Paola, con due regali impacchettati con tante stelline e il simbolo della Disney sul fiocco. Per me una T-shirt carina con il faccione di Shrek, per Martina, un nuovo nemico: la sveglia di Paperino.
CarloCelenza
PAESE CHE VAI VERDURE CHE TROVI
Le luci del porto, ingiallite da uno spesso velo di nebbia, segnavano vagamente i limiti delle banchine immerse nel silenzio. La nave scivolava lenta verso l'ormeggio, guidata dai brevi cenni del personale a terra.
Tirai fuori dalla tasca la foto gualcita di una donna sorridente, avevo sempre il timore di perderla, era l'unica cosa che mi rimanesse di lei assieme al suo nome e il ricordo di una notte.
Scesi quasi in fretta dalla nave, per non ostacolare l'equipaggio che già iniziava i preparativi per sbarcare il carico, non avevo nessuno da salutare. Sapevo dove andare, ma la nebbia che si stava infittendo mi riportò al ricordo di una luce molto simile e rallentai i passi guardandomi attorno. No, i colori erano giusti ma gli odori no, il sentore tipico di ogni porto di mare, mi riportò alla realtà lasciandomi disorientato con la sensazione di aver preso la direzione sbagliata. Ho girato più di cento pianeti, non mi scoraggio facilmente, mi fermai un attimo e cercai di mandare indietro i ricordi per fare mente locale.
Meno di dieci minuti dopo varcavo la soglia del ristorante che mi aveva assunto.
È così che vivo, faccio il cuoco, giro l'universo e cerco la mia donna, semplice e senza senso, come in ogni sogno che si rispetti.
Non ho difficoltà a trovare lavoro di pianeta in pianeta, il mio curriculum me lo permette e la nostra lunga vita anche.
Un anno a pianeta, cento anni di viaggi e nessun risultato se non una permanente solitudine che mi ostinavo a difendere; qualche storia si ma a patto che fosse senza futuro in maniera consensuale.
Come d'abitudine mi ero documentato su molti prodotti locali, non sempre si trovano le stesse spezie, anche se la merce d'importazione solitamente non manca, ma basta saper fare le provviste e non si è mai in crisi.
Ho sempre scelto locali abbastanza piccoli da diventare famosi e costosi in breve tempo, ora ne ho una catena in franchising sparsa su parecchi pianeti, espongo i miei risultati propongo un anno di avviamento, stipulo il contratto e parto.
Non sempre l'operazione riesce, un ristorante non basa il suo successo sulla sola cucina ma anche sull'organizzazione e i locali in cui andavo, spesso non brillavano per questo. Certe volte riuscivi a raddrizzare la situazione, altre no, ma in ogni locale inserivo nella bacheca dei prezzi la mia foto, non si sa mai, ho sempre sperato, qualcuno potrebbe conoscerla.
Il locale questa volta era pulito e ben diretto, anche se aveva una clientela limitata e locale, ma il nome della catena e la pubblicità a martello sortivano gli effetti sperati in breve tempo.
Di solito prima di far partire gli spot, mi davo un mese di tempo per adeguarmi ai gusti locali sfruttando la clientela abituale misurandone la soddisfazione.
La sera il proprietario sorrideva, quando alla fine rimanevamo da soli nel locale. Eravamo entrati abbastanza in sintonia, ci facevamo assieme un goccio di liquore ripercorrendo la giornata di lavoro e poi andavamo a dormire nelle nostre stanze. Il locale cominciava a prosperare e a richiamare gente, grazie anche a una mia inconsueta fantasia su come cuocere il pesce al cartoccio.
Si sa che su Terion i pesci sono tutti corazzati come dinosauri e per mangiarli bisogna prima togliergli la corazza, ma io avevo trovato la maniera di cuocerli nel loro stesso guscio. Dalla bocca svuotavo il pesce e lo riempivo di aromi locali (il prezzemolo non c'è ma si usa il refer che è molto simile) e una bella quantità di aglio e rosmarino, poi, sempre dalla bocca, lo infilavo in verticale sopra un tubo in cui avevo inserito una resistenza di una vecchia stufa elettrica. Il pesce cuoceva nel suo stesso vapore dentro al guscio corazzato, che per effetto del calore diventava di un rosso acceso, lucente come porcellana.
L'effetto era spettacolare, li cucinavo all'aperto sotto una tettoia e la gente si fermava a guardare i pesci che emettevano pennacchi di vapore bianco dalla coda, che poi a cottura ultimata diventava dorato e profumatissimo.
Una di quelle sere, di fronte a un bicchiere di amaro, il proprietario mi chiese chi fosse per me, quella donna nella foto e io gli confessai la mia pena.
Incredibile, la conosceva! Non ci speravo più, mi portavo addosso quella mania come una componente essenziale del mio carattere, come se ci fossi nato, ma da quel momento tutto cambiò. La mia pazienza aveva dato i suoi frutti. Due telefonate e la sera dopo l'avrei rivista. Non stavo nella pelle, sarebbe venuta a cena e lo avremmo fatto noi due da soli. Avrei cucinato solo per noi quella sera, come la prima volta.
La mattina prestissimo andai al mercato a comprare quel che mi serviva per preparare la mia cena con lei, ricordavo bene i suoi gusti, ne avevamo parlato a lungo a tavola e anche dopo prima che distrutti il sonno ci vincesse.
Era partita mentre io ancora dormivo, lasciandomi solo la sua foto.
Bando alle nostalgie, mi dissi, questa sera sarà con te, fai mente locale.
Di colpo un lampo nero attirò la mia attenzione, delle bellissime melanzane stavano in una cassetta quasi buttate per terra, non ne avevo mai viste in vendita, forse i locali non le apprezzavano ma lei adorava la parmigiana di melanzane e quella sera gliel'avrei preparata.
Mi lasciarono tranquillo tutto il giorno, era lunedì, il locale rimaneva chiuso e il proprietario venne solo verso le sette di sera ad annusare i profumi e a farmi uno sguardo d'intesa prima di andarsene.
Lei arrivò puntuale, la aspettai seduto dietro la vetrina solo un'oretta ma alla fine ci trovammo l'uno nelle braccia dell'altra. Chiacchierammo e ci baciammo ma prima, come in un rituale, volli che si sedesse a tavola e scoprii sorridendo il carrello, iniziando a disporre le portate sul tavolo. Quando vide la parmigiana di melanzane sorrise deliziata e volle assaggiarla prima di ogni altra cosa, sottolineando quanto fosse contenta che me ne ricordassi ancora.
Stavo per dire che non avrei dimenticato mai nulla di lei quando la vidi impallidire e portarsi le mani alla gola. Mi morì davanti con un rantolo, tanto rapidamente che non fui capace di far altro che guardarla.
Sembravano soltanto melanzane, la gente del luogo infatti non le mangia, ne ricava un veleno per topi; non lo sapevo, me lo disse il giorno dopo il medico legale.
Mastronxo
SULLA SUA SPALLA, UN CORVO
"Talvolta ci vuole coraggio anche a vivere"
(Seneca)
La gente dice che, quando stai per morire, ti passano davanti agli occhi i momenti cruciali della tua vita. La prossima volta che sentirai una frase del genere e potrai replicare, e ti consiglio vivamente di farlo, dì al tuo interlocutore, chiunque sia, che sono tutte cazzate. Se sei di buonumore puoi anche fargli sapere che dovrebbe imparare a morire, prima di sparare simili oscenità dalla bocca. Con un po' di pratica, diventa anche abbastanza semplice. Conoscere la morte, intendo.
Pensava questo tra sé, Arianna, mentre i suoi occhi cominciavano a ballare il tango con il mondo e la sete le rosicchiava la gola con i suoi acuminati denti da serpente. La verità è che, quando stai per tirare le cuoia, pensi a quello che avresti potuto fare e non hai fatto, a quello che saresti potuto essere e non sei. A chi avresti potuto amare, e hai odiato. Soprattutto te stessa.
Cominciava ad avere freddo. Chiuse piano le palpebre, ma le riaprì un momento dopo.
Era sdraiata supina su una distesa di sabbia, ghiacciata e silenziosa come la bocca dei morti. Non un alito di vento, non un suono. Solo lei. Nuda.
Sollevò un poco la testa per guardarsi intorno. Un deserto bianco come latte che faceva a pugni con il rosso vermiglio del cielo si stendeva in ogni direzione, piatto e continuo come la vita che aveva vissuto e che la stava finalmente abbandonando, per concederle i piaceri di un Nulla abbracciato al Tutto in un amplesso ormai inutile e senza senso. Quando si voltò, di fronte a sé notò una donna seduta a gambe incrociate; indossava una lunga tunica di un'indefinibile tonalità di blu che le lasciava scoperti solo gli occhi. La guardava con compassione e stava zitta. Sulla sua spalla, un corvo.
«Non c'eri… da dove… Chi sei?» chiese Arianna, la voce debole come il respiro dei fiori.
«La risposta a questa domanda è poco importante. Ne hai un'altra?» Non era stata la donna a rispondere. La voce del Corvo era dolce e femminea, allegra. Le era familiare, molto.
Arianna poggiò la guancia sulla sabbia, rovente di freddo. «Non saprei,» sospirò. «… sto morendo?»
Il Corvo sollevò un'ala e cominciò a lisciarsi le piume col becco, prima di rispondere. «Questa è già meglio. Ma perché non mi domandi quel che davvero vuoi sapere?»
Lei ci pensò qualche secondo. «Ce l'hai un po' d'acqua?» chiese infine.
L'animale sembrò quasi sorridere e le piccole sfere di ematite che aveva per occhi brillarono di gioia. «Visto, non era difficile!» esclamò. Poi si fece serio.«Purtroppo, qui non ce n'è. Però, se solo lo volessi, potresti averne in quantità.»
La donna su cui stava appollaiato abbassò un poco il capo. L'azzurro dei suoi occhi contrastava col dolce calore che emanavano. Impossibile confonderli: erano gli occhi di una madre.
«Sai cucire?» fece il Corvo.
Arianna si sentiva sempre più debole. «Credo tu lo sappia. Anzi, credo tu sappia molte cose, Corvo…»
L'uccello sembrò quasi stupito da quell'affermazione. «Lo sai che sono una femmina?»
Arianna sorrise. «Certo che lo so. Siamo tutte femmine, qua. Comunque so cucire, e bene anche. Perché?»
La donna con la tunica blu, a un cenno del Corvo, le porse un grosso pezzo di tessuto rosso, più rosso del cielo sopra di lei; sembrava un lenzuolo, solo più pesante, e aveva uno sgradevole odore di rame bagnato.
«Cosa devo farci?» domandò Arianna, senza allungare la mano per prenderlo.
Il Corvo rimase in silenzio qualche istante. Poi, pronunciò le parole che lei già conosceva. «Cuci il tuo sudario.» Non suonò come un ordine; era più un dolce invito, piacevole come una tiepida brezza primaverile.
Fu in quel momento che, senza un motivo preciso, Arianna fu ricoperta dal nero della paura. Non del Corvo, no; il Corvo le faceva pena, non paura. Fu sopraffatta dal terrore di non poter più sentire il suo bambino che rideva, di non vederlo crescere, di non assisterlo quando avrebbe deciso di avere una famiglia. Quasi senza forze, riuscì a replicare: «E se non lo faccio?»
Il Corvo rimase interdetto. Per la prima volta sembrò non avere una risposta pronta e si limitò ad aprire le ali e a scuoterle, irritato. Invece, la donna dagli occhi azzurri strinse le palpebre in un sorriso più luminoso del sole e cominciò a ridere, una risata graziosa e cristallina, pura come l'acqua di un ruscello. Si sollevò in piedi e scrollò le spalle.
«Vattene, Corvo!» disse con una voce che Arianna conosceva molto bene. «Questa volta hai perso.»
L'uccello si alzò in volo gracchiando e la donna si avvicinò ad Arianna, inginocchiandosi di fronte a lei e poggiandole una mano sulla fronte.
«Svegliati, piccola mia. Hai scelto, hai scelto, hai… scelto.» La voce di Arianna rimbombò sulle pareti del bagno. Era tornata dov'era sempre rimasta.
Il flusso di sangue che all'inizio fuoriusciva a fiotti dal profondo taglio che si era procurata al polso sinistro si stava lentamente esaurendo; non era riuscita a incidersi anche quello destro. L'acqua della vasca in cui giaceva era di un colore rosso acceso e la ricopriva come un freddo sudario sanguigno, carezzandole il corpo e assorbendo il dolore all'avambraccio, insensibile. Intorno a lei, solo silenzio e il suo respiro.
Il cellulare era di fianco al lavandino.
Non sapeva se sarebbe riuscita a raggiungerlo in tempo, come non sapeva se sarebbe riuscita anche solo ad alzarsi. Sapeva solo che voleva vivere, che aveva bisogno di vivere. Voleva sentire ancora il bacio del vento sulla pelle, fare un sacco di giochi con il suo bambino e sgridarlo e litigarci e accarezzarlo mentre dormiva, sentire male al cuore quando lo lasciava a scuola e un'onda calda su tutto il corpo quando lui tornava correndole incontro. In fondo, era molto brava a cucire: sarebbe riuscita a ricomporre quelle parti della sua vita che non avevano retto al mondo, tessendo il più bell'abito che avesse mai potuto indossare. E non sarebbe stata sola.
Mentre si alzava facendo forza col braccio sano, lo sguardo le cadde sullo specchio e si scontrò con i propri occhi, azzurri come le acque di un laghetto alpino. Erano occhi sofferenti ma dolci, pieni di compassione, di rinunce e di speranza.
Erano gli occhi di una madre.
Gigliola
TZÈ-TZÈ
In tempi lontani, una pianta migrò col suo padrone nel pianeta gemello della Terra. Lì, la vita fioriva giuliva e perciò gli umani lo consideravano un posto di relax e vacanza.
Ma, ahimè, geloso, Giove lanciò sulla superficie fulmini di lava. Nessun uomo sopravvisse, soltanto quella pianta e vari insetti che, per mutazione genetica, si adattarono all'ecosistema carico di acido solforico.
Passarono secoli. L'Umanità dimenticò, ma la pianta, crescendo a dismisura, iniziò a emanare da lontano una bellezza, un amore e una tale luminosità, da dare al pianeta il nome "Venere".
Nostalgica, la pianta istruiva gli insetti. Tutti lavorarono felici, ognuno nel proprio mestiere.
Venere guardò commossa quel suo creativo mondo e si disse:
— Ho governato saggiamente! È bene che al settimo secolo mi riposi.
Quando il gatto dorme però, i topi ballano: il caposquadra delle mosche tzè-tzè approfittò per sbirciare dal cannocchiale i terrestri.
— Certo è — disse rivolgendosi al gruppo — che la Terra è divertente. Potremmo raggiungerla, invece stiamo qua a servire e riverire Venere. Guardate! Visto che mondo variopinto?
Il loro desiderio diventava sempre più impellente, così svegliando Venere, si presentarono al suo cospetto: — Mie care tzè-tzè, cosa vi porta con tanto ardore da me?
— Pensando al Vostro nostalgico amore per la Terra, volevamo chiedervi il permesso di raggiungerla per perfezionarci nei nostri mestieri e raccontarvi, al nostro ritorno, notizie fresche sugli uomini — disse astutamente Meccanico.
— Vi sono tanti pericoli sulla Terra! Non è proprio come pensate! — rispose Venere. Ma vedendoli entusiasti, acconsentì:
— Andate sempre unite, avendo cura l'un dell'altra. Ma rammentate: per nessun motivo pungerete l'uomo, intesi?
Le mosche chiesero al capitano meccanico cosa intendeva dire la Regina con la storia di non pungere, e lui rispose:
— Che diamine! Difendersi è lecito! Cosa sarà mai il nostro pungiglione per l'uomo? Venere è una vecchia rammollita, tutto qui…
E con tanto di banda zanzarica e formichiera le tzè-tzè partirono.
Era passata un'eternità. Venere stava pensando al peggio quando debolmente sentì bussare a una foglia: — Meccanico! — esclamò con emozione — Gli altri dove sono? Raccontaci!
La comunità di insetti si radunò, ma la mosca stentava ad aprir bocca:
— Parla, per Giove! — urlò Venere.
— No, mia Regina, non torneranno — rispose tristemente.
E proseguì: — Cuoca, propose di fare riserva di surgelati dirigendoci verso nord. Ma il ghiaccio era tanto. Vedendo una grotta entrammo per scaldarci. Un uomo era lì e cercò di acchiapparci per metterci in pentola. Uniti in squadra però, riuscimmo a farlo desistere dal suo intento e scappammo. Stavolta, verso terre calde, dove la scarsa vegetazione si mescolava con sabbie roventi:
cinque uomini giocavano a poker, uno leggeva un libro e una donna cuciva un bottone alla gonna ritirata dallo stenditoio. Sarto si avvicinò a lei, impicciandosi prepotente sul modo di tenere l'ago. La donna urlando sbatté lo straccio con frenesia e Sarto, si rannicchiò tra i petali di un fiore. All'improvviso la pianta si chiuse con lui dentro, a mo' di trappola, e non ne uscì più.
Falegname volle costruire una barca. Così viaggiammo verso una foresta vicina al mare. Qualcuno immergeva un peschereccio in acqua mentre un altro gli scattava delle fotografie. Falegname ispezionò la costruzione, ma curioso volò tra gli oggetti dell'uomo, appoggiandosi a qualcosa di metallico. La scatoletta si mise a luccicare e suonare. L'uomo la portò all'orecchio, senza badare a Falegname. E dopo un "Ahia!" dell'uomo, ci sembrò che si tuffasse in mare scomparendo.
Con Cuoca e Parrucchiera visitai la città. Entrammo in un ristorante: Cuoca voleva imparare le ricette delle torte: si posò sulla mano dell'uomo che afferrava il cucchiaio e quello cercò di cacciarla via, facendo perdere l'equilibrio a Cuoca che cadde nell'impasto, quello che poi infilarono nel forno. Aspettammo, la torta era magnifica, ma di Cuoca neppure le ali spuntarono.
Parrucchiera, attratta da un unguento floreale per unghie che vide in un salone di bellezza, si avvicinò restandoci incollata. Con un tira e molla riuscì a volare di corsa nascondendosi in un tubicino che un'altra donna aveva ancorato ai capelli. Ma una rete e un casco rovente coprirono quella testa.
Non potevo aspettare, dovevo assolutamente visitare qualche meccanico. Così mi ripromisi di andare a cercare dopo i compagni, chiedendo agli uomini fin dal percorso di partenza.
L'uomo del ghiaccio dormiva.
Il fiore del deserto era aperto, ma la donna dormiva.
L'imbarcazione era in mare, alla deriva, con l'uomo disidratato dal sole perché dormiva.
Il ristorante era chiuso per malattia del cuoco. Ma recandomi a casa sua vidi che dormiva.
Il salone di bellezza era vuoto. Ascoltai i passanti: due donne, assidue frequentatrici, erano state colpite da un'insolita malattia. Dormivano.
Venere adorata, La Terra non fa per noi. Gli uomini sono malvagi!
— Ma dimmi — intervenne Venere — e il tuo meccanico?
— Entrai nell'officina dopo che lui, accompagnato dal cane, aprì il lucchetto. Bella, ogni attrezzo al suo posto: adattatori, prese, lampadine, matite, un computer, i compassi, un orologio che scandiva le ore…
Una donna con un bambino che mangiava un uovo di cioccolata si sedette. L'uovo nascondeva dei pezzi per costruire una figurina. Volevo aiutarlo e mi avvicinai, ma spaventato il bimbo si mise a piangere.
Mi nascosi nel motore della macchina che l'uomo stava aggiuntando, mentre la donna portava il bambino in bagno con lo spazzolino da denti. Il meccanico toccò un pulsante e mi scaraventò nel suo collo. Si grattò con frenesia, ma io continuai indifferente a studiare l'officina.
Il giorno dopo il lucchetto era chiuso e decisi di andarmene: il meccanico non sentiva più la sveglia.
— Bene! — disse Venere — Vieni, meriti che ti racconto un segreto.
— Ne sono lusingato — E fiducioso, le si avvicinò.
— È proprio vero che tanti non sanno apprezzare quel che possiedono, pensando che l'erba del vicino sia sempre più verde della loro, che spesso non sanno neppure stare al proprio posto e, accusando gli altri dei propri mali, seguono l'istinto selvaggio senza badare a danni irreparabili. Così come avete fatto voi pungendo l'uomo e così come ora io eseguirò la meritata condanna con te per aver disobbedito!
— È questo il Vostro segreto? Non dica baggianate, cosa potrebbe farmi una patetica pianta quale siete Voi? — chiese spavaldamente il meccanico.
— Stupida mosca insolente, la vita è piena di sorprese: l'uomo mi portò su questo pianeta quale arma mortale di difesa contro la Malattia del sonno, chiamandomi con fierezza "Venere l'Acchiappamosche"!
E così dicendo chiuse due petali in una morsa stretta stretta e in solo boccone la divorò.
ABDeleo
DISTESO A PRENDERE IL SOLE SU PLUTONE
Eccomi…
Ho appena aperto gli occhi al mondo… Eppure il mondo ha cambiato prospettiva…
Non riesco a focalizzare nulla…
Muovevo la mano nel nulla che mi circondava, fino a poco fa, e questa riuscì a stringere soltanto un foglio, una matita e qualcosa dalla superficie liscia… Sembra una fotografia…
Sul fronte è completamente nera… Eppure la sento molto vicina…
Sarà che racconta il mio passato…
Sarà che ricorda solo ciò che è impresso nel mio passato…
È tutto così confuso…
I miei occhi non vedono oltre queste righe…
La mia mente non ragiona oltre queste parole…
Rinchiuso in una cella composta da tratti sparsi senza senso logico…
Ironico…
Sono perso su un pianeta che non conosco disperso tra i nonsensi… Nascosto tra giochi di parole…
Di mestiere potrei fare lo psicologo…
O forse il meccanico…
Sì…
Sarà questo il mio lavoro d'ora in avanti…
Per l'uomo è troppo facile distruggere, solo le eccezioni sono capaci di costruire…
Potrei essere l'inventore di qualsiasi cosa qui… Potrei esportare la tecnologia dell'uomo… Potrei diventare famoso…
Potrei distruggere questo pianeta come stanno facendo ora sulla mia vecchia Terra…
No…
Io sarò diverso… Sarò prima meccanico, costruirò gli arnesi per la costruzione… M'improvviserò poi architetto…
Questo mondo sorriderà finalmente…
D'altronde non ho nulla da perdere… Forse solo da guadagnarci…
Finalmente trovo il coraggio di alzarmi… Muovo i primi passi sulla nuda terra fredda…
Solo ora mi accorgo di essere scalzo, nudo e solo… Coperto da un velo di ghiaccio…
Alzo gli occhi al cielo… Una luce m'inonda, ferendo il buio che mi circonda…
Sento il suo calore… È lui…
È il mio sole…
Torno nel mio nido, disteso… Lo sento addosso… Mi rigenera…
Chiudo gli occhi…
Lo sento penetrare nelle narici, nella bocca, nella pelle…
Riapro gli occhi…
Il cellulare sta suonando… Era tutto un sogno…
Guardo sul display… È pieno di annotazioni di cose da fare…
Mi tocca lavorare come un pazzo oggi se voglio che tutti i proprietari riabbiano i loro mezzi di trasporto…
VecchiaZiaPatty
VIA DA LAS VEGAS
La sera che conobbi Bruno ero uno schianto: maglioncino rosso scollato dietro, capelli in ordine (ero appena passata da Jill) e truccata divinamente.
Una sera adatta a conoscere qualcuno con cui mettersi per un po'.
Ma occorre fare attenzione a ciò che si chiede: a volte gli dei esaudiscono le nostre richieste.
Andai da Jack, al Quattro Assi, un pub sulla Strip. Ha un'insegna al neon che si illumina in progressione: un mazzo da poker in cui prima brillano i cuori, poi quadri, fiori e picche. Una volta accese tutte, le luci nel profilo dell'insegna si mettono a sfarfallare impazzite per qualche istante. Quella sera bagnavano di bagliori multicolore la faccia del buttafuori.
Era uno nuovo.
Un armadio. Taglio da marine, facciona da bambino, sguardo cupo.
Svettava sul mare di teste altrui almeno trenta centimetri. E mi stava osservando.
Fissava la mia schiena nuda. Lo vedevo riflesso nello specchio sopra il bancone.
Mi girai. Abbassò gli occhi, voltandosi dall'altra parte. Un timido, qui, è come una perla in un banchetto di cianfrusaglie al mercato. L'ingenuità è merce assai rara, a Las Vegas.
Nonostante tutto, amo questa città.
La amo quando sfavilla di luci già al crepuscolo e la amo addormentata nel sole accecante che arroventa la Strip alle due del pomeriggio.
Non chiedetemi di abitarci, però. Sto bene qui, dove comincia il deserto.
Il Mojave. Tutta la libertà immaginabile… Non saprei più farne a meno. Le mie fantasticherie spaziano, indisturbate, sullo sfondo di uno scenario immutabile agli occhi umani.
Nel deserto non abbiamo stagioni. Per me lo scorrere del tempo è scandito dai costumi in preparazione. Non l'ho detto? Faccio la sarta.
Ho studiato da costumista a Hollywood, e son finita a cucire paillette per le ballerine che si esibiscono nei night di Las Vegas.
Da gennaio a marzo lavoro alle divise del Caesars, quelle delle ragazze vestite da ancelle romane. Tulle bianco e fermagli dorati in giro per ogni stanza. Da aprile a giugno ho l'invasione delle ali di farfalla del Mirage. Strass di qualunque sfumatura dal lavanda al glicine al viola, dappertutto: anche nella scatola dei cereali. Da luglio a settembre piovono le paillette nere e oro della parodia sexy di Cats. Da ottobre a Capodanno lavoro per il corpo di ballo di Cher, una magnificenza. Piume di struzzo, lamé luccicante, borchie e fibbie incrostano tutti i costumi di scena, ricchissimi… Li appoggio sullo stenditoio per evitare che Prince, il mio soriano, ci si faccia le unghie. Certe volte mi incanto ammirandoli delle mezzore.
Ago e filo non sono solo un cucchiaio, per me. Ci mangio, certo, ma il punto è che…
È così bello avere tutti questi costumi per casa.
Mi dà l'impressione di fare qualcosa di artistico, non so se mi spiego.
Con gli uomini non sono mai stata fortunata.
Con Bruno, credevo che la sorte cominciasse a sorridermi.
All'inizio ci studiavamo a ogni passo.
Del resto, non avevo mai convissuto. Lui non era tipo da raccontarsi molto.
Sembrava che ogni cosa lo mettesse in impaccio, sembrava perennemente a disagio per tutto.
Questo faceva stare sulle spine anche me.
Sempre col dubbio di dirgli (di fare) qualcosa di sbagliato.
Continuava a lavorare come buttafuori al Quattro Assi. Prendeva la macchina, andava in città. Tornava a notte fonda. Si sdraiava accanto a me, cercando di non svegliarmi. Facevo finta di dormire, però. Non riuscivo a chiudere occhio, finché non rincasava.
La mattina si svegliava comunque per primo, facendomi trovare la colazione pronta.
La prima volta che prese la paga dopo che era venuto a stare da me, gettò tutto il rotolo di banconote sul tavolo. Disse, con un certo imbarazzato fastidio:
— Puoi tenerli tu? Non ci ho mai capito niente, con questi.
E io, stupita: va bene. Li misi in una scatola con un piccolo lucchetto, la chiusi.
— Son soldi tuoi, tieni — dissi, porgendogli la chiave.
— La perderei subito. Occupatene tu per favore, vuoi? Se mi serve qualcosa te li chiederò.
Mai incontrato uno così. Si fidava. Non aveva mai alzato le mani, anzi, mi rispettava. Di più: mi proteggeva, si prendeva cura di me. Mi stava addirittura mantenendo. Sempre gentile.
In cambio chiedeva solo di essere amato. In un certo senso, un essere proveniente da un altro pianeta.
Scherzi a parte, Bruno era strano. Quel rapporto così bizzarro con le cose materiali, per esempio. Come se non desse loro alcuna importanza.
Nell'armadio del suo miniappartamento, in quel residence sulla Strip, c'erano parecchi vestiti di buon taglio, e belle scarpe. Ci teneva a presentarsi bene, sul lavoro.
Beh, prima di andarsene di lì, era entrato in bagno. Aveva preso solo lo spazzolino da denti.
— Ma Bruno, e tutte le tue cose?
— Voglio ricominciare da capo. — aveva detto lui, con una specie di ostinata tenerezza — Lascio tutto qui.
E l'aveva fatto davvero.
Una sera, mentre guardavamo la televisione, Bruno disse: perché non ci sposiamo?
Risposi: già, perché no?
Buffo, Las Vegas a due passi e nessuno dei due c'aveva ancora pensato.
Così ci sposammo. Cucii un vestito corto, di un rosa chiarissimo, molto raffinato. Avevo uno splendido bouquet, scelto da lui. Jill mi aveva pettinato i capelli raccolti. Sembravo un angelo. Bruno era andato a cercare uno smoking in un bel negozio del centro.
Disse che non voleva affittarlo, lo avrebbe comprato e conservato come ricordo.
La cerimonia fu semplice, ma toccante. Lasciò decidere tutto a me. Io volli quella canzone intitolata "The man with the child in his eyes": mi faceva pensare a lui.
Jill però brontolò, perché avevamo rotto la tradizione. Sarei dovuta andare a dormire da lei, diceva, per non vedere lo sposo la mattina delle nozze. Quante baggianate, pensai.
Un mese dopo il nostro matrimonio, una volante si fermò davanti casa.
Uscii in veranda. Non era necessario tirare a indovinare: bastava guardare le facce dei due agenti.
Facce di circostanza.
Sparatorie ce ne sono ogni tanto, giù in centro.
Nonostante tutto, amo ancora la città. Amo Las Vegas quando sfavilla di luci, e la amo addormentata nel sole accecante della Strip, alle due del pomeriggio.
Non voglio più metterci piede, però.
L'occorrente per i costumi me lo portano a casa i ragazzi della sicurezza dei Casinò.
Lo fanno come un favore personale. Alcuni erano amici di Bruno.
Mentre cucio, ogni tanto sollevo lo sguardo, lasciandolo vagare fuori dalla finestra aperta.
Dalla mia camera con vista sul deserto, ogni miraggio, nel tremolante calore di un'incolmabile distanza, mi sembra sia Bruno. Socchiudo gli occhi, trattengo l'illusione di vederlo, ancora una volta, che risale a passi lenti verso casa.
E torna da me.
Skyla74
LA RICETTA PERFETTA
Donald inclinò la testa e una lama di luce gli tagliò lo zigomo. Il sole tramontava sulla Schwarzwald, la foresta nera, sprigionando l'acidulo della vegetazione collinare. Il camper era strisciato sotto gli abeti per tutto il sentiero, una vigorosa rastrellata che aveva scarnificato il tettuccio. La piazzola di sosta si affacciava su un lago deserto per chilometri. Il radiatore del camper ticchettava come il cuore di un centometrista; sul portapacchi, tre biciclette.
— Allora che ne dite? — chiese.
Rebecca, la figlia sedicenne, aveva deciso che quella sarebbe stata la sua ultima gita coi genitori: sembrava intenzionata a serbarne il peggior ricordo possibile. Era dalla partenza che ridacchiava sull'iPhone, una sonata di soli pollici per un totale di sei ore di trilli. L'assenza di campo l'aveva interrotta bruscamente. Non paga, aveva armeggiato con la boccetta di smalto per unghie intossicando l'abitacolo.
— Che posto incivile — disse sua moglie Carla. Essere a bagno negli umori di una foresta paleozoica non scalfiva d'una virgola la conchiglia coriacea dentro cui stava barricata da anni, dal giorno in cui Donald l'aveva lasciata sola a crescere Rebecca per raggiungere l'apice della carriera di cuoco. Essere proprietari di una catena di ristoranti era del tutto indifferente a quelle due: peccato che di quegli incassi campassero.
La disapprovazione delle donne gli strigliò la pelle come una spazzola. Aveva peccato di romanticismo: l'esercito di abeti era legato da un'empatia ben più marcata di loro.
— Perché non torniamo in camper? — suggerì Rebecca. Sbarrava gli occhi sulla falange d'ombre che il crepuscolo spingeva fino ai loro piedi. Era la prima frase che pronunciava da ore e suonò come un oracolo. Quando la nuvoletta di fumo aromatico avvolse la piazzola come le spire di un serpente albino, la notte avanzò tetra.
***
— Non voglio passarci un minuto di più! — Carla si issò sul sellino, rauca e spettinata.
— Ha ragione la mamma. Insomma… è spaventoso! — Ritta sulla bicicletta al centro della piazzola, Rebecca trasaliva a ogni rumore. Il suo pallore risaltava su una felpa color oro di cui aveva tirato su il cappuccio.
Il cielo era un coperchio fosco di nubi, pioveva da ore. Gli abeti diffondevano il borbottio di un tuono ininterrotto: sembrava il ruggito di un drago.
Donald osservò le ruote del camper: forate, dalla prima all'ultima. Nell'estro creativo di rovinargli la vacanza, i balordi avevano risparmiato solo le bici. Tastò la pistola che teneva sotto la giacca, regolare porto d'armi per difendere gli incassi dei ristoranti. Se qualcuno aveva voglia di giocare ad "Arancia Meccanica" con la sua famiglia, aveva trovato pane per i suoi denti. Si passò la mano sulla barba ispida e la ritrovata selvatichezza lo rinfrancò. Era il capofamiglia. Avrebbe portato in salvo le donne.
— Sei sicuro che sia la strada per il paese? — gracchiò Carla.
Donald sventolò la mappa prima di riporla nello zaino assieme ai viveri. Un paio di pedalate e cominciò a sferragliare giù per il sentiero. Il gusto crudo del sottobosco gli impastò la lingua.
Proseguirono fino alle sponde del lago, così torbido da inghiottire le ombre. I rovi si protendevano sul sentiero come unghie aguzze, ma Donald ne fu galvanizzato. Ogni goccia che gli cadeva in testa era il battesimo del suo nuovo ruolo di guerriero, ogni unghiata uno sprone ancestrale che lo eccitava. Quando sul far della sera la grotta apparve tra le fronde, l'esplosione di giubilo delle donne fu un nettare che gli scivolò giù per la gola.
— Domattina faremo colazione in paese — annunciò inforcando l'ingresso.
La grotta era un ventre caldo dal fondo soffice. Per la prima volta da anni, Carla e Rebecca si strinsero a lui in cerca di protezione.
— Starò di guardia fino a domani — disse, poi allestì una cena frugale. Le donne mangiarono di gran gusto, poi crollarono esauste.
***
Quando si svegliò, Donald era solo. Sfoderò la pistola e saltò in sella. L'alba diffondeva il chiarore acido della foresta fradicia. Le tracce erano fresche. Le seguì digrignando i denti, il pelo ritto sulla schiena come quello di un lupo.
Il lago luccicava come una lastra di metallo. Sullo sfondo, Carla e Rebecca braccate come animali.
— Herr Battisti! — Due uomini con altrettanti fucili. Donald li prese di mira. Una pietra intercettò la sua avanzata proprio mentre esplodeva il primo colpo. Inarcò il dorso della bici come un cavallo bizzoso, sparandolo verso il cielo.
— Feuer!
Il crepitio di due spari. Una fiammata al petto gli levò il fiato. Portò le mani al ventre mentre cadeva su un letto d'aghi. Quando il viso di Carla oscurò il sole, Donald si contorse dal freddo.
— Perché? — chiese Carla singhiozzando. Gli agitò in faccia la mappa. La meta che lui aveva scelto per la sua famiglia, un cerchio rosso sangue, stava nel bel mezzo della Schwarzwald. Nessun paese, nessuna colazione.
Gli uomini della forestale scalciarono via la pistola e armeggiarono coi satellitari, i fucili incombenti come bocche mefitiche. Rebecca rantolava come un asmatico, nelle mani il coltellaccio che Donald aveva usato per sventrare le ruote del camper. La lama portava ancora i segni neri dei battistrada.
Il ricordo emerse dalle paludi della memoria come il cadavere di un affogato: lui che vagava nella notte, la foresta che sussurrava tenere lusinghe. Deporre la corazza d'uomo d'affari che gli aveva alienato l'affetto della famiglia, pulsare in sincronia con l'anima primitiva della terra. Dove se non nel profondo della foresta? La sua lingua gustava ancora l'ebbrezza della notte nella grotta, il calore umano a cui si era servito come a un banchetto prelibato. Seppur per poco c'era riuscito.
— La ricetta perfetta… — disse.
Gli abeti mormorarono comprensivi. Quando aprirono le braccia, Donald ci si tuffò come un bimbo in seno alla madre.
Exlex
FRAGORE DI VITA E DI MORTE
Una lama seghettata e contorta di luce percorre il cielo ricoperto da una coltre di nuvoloni densi e scuri.
Caterina respira l'aria umida e penetrante. Volge gli occhi alla volta celeste. Poi li sposta a osservare il profilo nero e irregolare delle scogliere. Le onde s'infrangono con violenza contro le rocce. Il mare, che normalmente è una distesa quieta e blu questa notte sta svelando il suo lato oscuro, rombando come se volesse sfidare il temporale. La pioggia scrosciante non ferma la donna, che muove qualche passo uscendo allo scoperto. Le gocce pesanti sembrano trafiggerle le braccia candide, ma lei ignora il fastidio. Questa notte, non importa niente. Non importa bagnarsi, non importa stare al caldo in casa.
In casa, dove ha lasciato a cuocere nel forno la sua ultima creazione. Non importa neppure se avrebbe bruciato il tutto. Questa notte, Caterina vuole delle risposte. Vuole capire il perché. Vuole capire se è vero che a ognuno sono dati solo pesi che è in grado di sostenere. Il motivo per cui la sua famiglia è stata disgregata così crudelmente dal destino.
Vuole che la mente si svuoti, riempiendosi del fragore delle onde, dell'oscurità, dei tuoni sopra di lei.
Vorrebbe prendersi una pausa dalla vita.
Nella cappa pesante delle nubi sul mare, vede il volto di suo marito. No, niente lacrime questa volta, nessuno se le merita, perché le ha già date tutte.
Odia molte cose, in questo momento. Conta le onde, mentre si avvicina ai ripidi scogli. Ogni onda è un motivo per odiare e un motivo per far finire tutto questo disastro.
Splash.
Beatrice.
Rivede il momento in cui le mette messo la mano sulla fronte appena dopo spirata. I tubicini infilati nel naso, le garze impregnate di sangue. Quello squarcio aperto nel fianco della giovane figlia. Due mesi fa.
Splash.
Martina.
Non la vede da sei anni.
Se la sono portata via gli assistenti sociali, dopo che la ragazzina aveva tentato di dar fuoco alla casa durante un litigio con la sorella.
Anni e anni di psicoterapia, anni di sedute costosissime per le sue povere tasche piene solo dell'amore per i suoi tre figli. Poi la resa della sua fragile mente.
Splash.
Gianluca.
Il suo unico figlio maschio, il fratello gemello di Beatrice.
Lo ama, ovviamente.
Ma anche lo odia.
Perché lui ha scelto la sua strada, ha scelto personalmente il modo di distruggere la propria famiglia.
È l'unico figlio che le è rimasto, e vuole tenerselo stretto. Mentre le altre due figlie se ne sono andate contro la loro volontà, il ragazzo aveva voluto dare il proprio contributo rovinando la già precaria situazione economica della madre.
La donna maledice il gioco d'azzardo.
È stato quello, a prendere suo figlio con le dita adunche per non mollarlo più. Ha consumato tutti, tutti quanti i soldi guadagnati pazientemente negli anni dal modesto lavoro di cuoca della donna.
Caterina poggia la mano sulla roccia umida e vi si arrampica.
Scivola, battendo il ginocchio e sbucciandoselo.
Ma non sente niente, è come anestetizzata. Ignora il bruciore. Prosegue.
Ora si trova in equilibrio precario sulla punta dello scoglio. Guarda la potenza del mare. Prova il desiderio di farne parte. Non ci vuole niente, a fare un passo e finire per sempre tra le braccia dell'oscurità, lasciarsi alle spalle i problemi, lasciare il figlio a uscire da solo dal vortice del gioco. Essere libera da qualsiasi responsabilità.
Fare di quella distesa infinita di furia la sua tomba, una tomba mutevole come è stata la sua vita travagliata.
È proprio così. Sente il rumore del mare che la chiama, vede le onde che, come mani, la invitano a fare un solo passo per essere finalmente tranquilla per l'eternità.
Caterina alza gli occhi al cielo, e chiede: perché?
Non sa se ha pronunciato la parola o se l'ha pensata. Il temporale copre anche i suoi pensieri, proprio quello che voleva.
Allarga le braccia, come se fosse stata crocifissa.
Sì, forse è così: le situazioni l'hanno inchiodata fino alla morte.
Chiude gli occhi. Lo sguardo vuoto di Beatrice, lo sguardo allucinato di Martina, e lo sguardo spento di Gianluca. Li vede tutti, uno dopo l'altro, nel buio delle sue palpebre. Le fanno visita.
La invitano.
Anche loro, insieme alle onde.
Caterina sospira, lentamente. Uno spruzzo la raggiunge, e sulle labbra assapora il pizzicore dell'acqua salata.
Mette una mano in tasca.
È un gesto inutile, e lo sa benissimo.
Ne estrae un mazzo di carte. Lo guarda impietosamente bagnarsi. Sembra impossibile che una cosa creata per puro divertimento possa essere l'epilogo della disgregazione di una famiglia intera.
Volta il mazzo. La prima carta è una donna di cuori.
Le viene in mente lei stessa. Così amante della vita, così amante delle cose belle.
La lascia scivolare nell'acqua scura.
Vuole fare anche lei la stessa fine?
Lascia cadere anche la successiva. Jack di fiori. Svolazzando nel vento affonda nel fragore anch'essa.
Una dopo l'altra. Sette di picche. Jack di quadri. Asso di quadri. Quattro di cuori. Re di picche.
Le carte sembrano prenderla in giro, mentre spariscono nelle onde appena infrante sugli scogli.
Non sa, non conosce il perché di quel gesto. È forse un gesto di speranza? Una speranza per cui l'unico figlio che le rimane lasci la sua strada inutile e torni indietro a riabbracciare la voglia di vivere per qualcos'altro?
Una speranza, comunque.
Un solo filo sottile di speranza. Caterina si augura che quel filo sottilissimo sia in realtà un filo di nylon.
Sottile, ma provi chiunque a spezzarlo con le mani.
Lucia Manna
L'AEREO, QUESTO SCONOSCIUTO
Elena, cuoca napoletana, Chef in un noto ristorante di Napoli, non aveva mai volato: l'aereo non esisteva, almeno per lei, era un'invenzione che riguardava solo gli altri.
Un giorno ricevette una telefonata, le chiedevano di andare a Londra, perché era stata scelta per preparare una cena per il noto ristorante "Italia, amore mio" in cui i più noti personaggi del bel mondo londinese avrebbero avuto modo di gustare, tra le altre anche gustose specialità napoletane. L'onore della città era in discussione, non poteva rinunciare.
Tutto era stato programmato fin nei minimi particolari: materie prime, ospitalità… e… trasferimento in aereo con assistenza accurata per ogni sua esigenza.
Elena, pur rendendosi conto del grande onore che le veniva offerto, pensava di rifiutare, perché a prendere l'aereo non ci pensava proprio.
Per fortuna, però, si prese un po' di tempo per decidere e gli amici riuscirono a convincerla a intraprendere il viaggio.
La faccenda diventò quasi comica: il giorno prima della partenza, andò a salutare amici e parenti, nel caso si fosse avverata la sua ipotesi peggiore della caduta dell'aereo con morte assicurata.
Giunta l'ora della partenza, Elena mise nella borsa alcune cose che credeva potessero portarle fortuna e scongiurare il pericolo.
Prima di tutto il cellulare: se si fosse verificato un guasto all'aereo, avrebbe magari fatto in tempo a chiedere aiuto o almeno a dare ancora una volta l'ultimo saluto ai suoi genitori, come se dare notizia di sé fosse possibile tra i rottami e perfino in mezzo al mare.
Non si dimenticò la sorpresina dell'ovetto Kinder, che le aveva regalato come portafortuna la nipotina, la sera prima di partire, quella del Puffo Brontolone che nella sua mente ripeteva: " Io oooodioooo gli aerei!!!".
E per finire, da buona napoletana si infilò in tasca un bel cornetto rosso da toccare e strofinare in ogni momento che il coraggio calava e la paura saliva.
Arrivata in aeroporto, le tremavano le gambe.
Si avvicinò alla scaletta di quell' "oggetto" che non avrebbe mai voluto vedere così da vicino, ma nel momento di salire si bloccò, non riusciva più a camminare.
L'aiutò Giorgia, una delle amiche che l'aveva convinta a partire e che si era offerta di accompagnarla e che tra parole di incoraggiamento e spintarelle educate, riuscì a farle superare tutti i gradini.
Quando, sistemate le cinture di sicurezza, l'hostess prima del decollo le ricordò di spegnere il telefonino, Elena ricevette il primo colpo al cuore: "Come? Dobbiamo spegnere il telefonino? Ma sono tutti pazzi? E come faccio a far sapere dove sono? E se accade qualcosa e volessi provare a chiamare i miei?"
L'amica, che era più pratica nel volare in aereo e sicuramente più lucida, pazientemente cercò di spiegarle perché il telefonino andasse spento.
Si accesero i motori.
Per Elena i battiti del suo cuore superavano il rombo dell'aereo.
Iniziò il volo: Elena fissava l'orologio e ogni secondo le sembrava un'eternità.
Giorgia, invece, guardava dal finestrino quella splendida luna, che sembrava essere a pochi passi da loro e si godeva la visione delle città illuminate, spettacolo meraviglioso che il nostro pianeta offre a chi vola nelle serate serene.
Tentò di convincere anche Elena a guardare fuori, ma inutilmente.
La povera donna, abbarbicata al suo cornetto, chiuse gli occhi, contando mentalmente i secondi che mancavano all'atterraggio.
All'improvviso sentì una voce: era il pilota: "Calmi tutti! Non agitatevi! Abbiamo un'avaria ai motori, non è nulla di grave".
Elena nel panico non riusciva più a capire niente.
Iniziò a piangere. Invocò il suo Angelo Custode. Sentì un boato mentre tutti i passeggeri urlavano: "Stiamo finendo in mare!"
Anche lei voleva provare a strillare per chiedere aiuto, ma le mancava la voce.
Poi tutto diventò buio mentre un'altra voce le diceva: "Elena, svegliati, svegliati, siamo arrivate".
Aprì gli occhi lentamente e chiese: "Dove siamo? In paradiso?".
Era l'amica: "Cosa stai dicendo? Siamo atterrate Elena! Siamo ben vive e sulla Terra! Hai dormito per tutto il viaggio come un ghiro!"
Fu solo scendendo dall'aereo, che Elena capì che quando dopo due settimane avrebbe dovuto nuovamente rimettersi in volo per Napoli, sarebbe stato meglio lasciar stare i sonniferi e godersi il viaggio da sveglia.
Infatti, il ritorno, anche se il cuore le batteva talmente forte da sembrarle che balzasse fuori dal petto, fu davvero bello ed emozionante, perché essendosi tranquillizzata, poté ammirare quel bellissimo panorama che prima a causa della sua gran paura non si era potuta godere.
Da quel giorno Elena ha superato la sua paura e viaggia sempre in aereo senza chiudere occhio neanche per un istante.
Desiderate sapere che fine ha fatto il cornetto portafortuna?
Lo tocca e lo sfrega sempre quando gioca al superenalotto.
E la sorpresina dell'ovetto Kinder?
Il Puffo Brontolone continua a lamentarsi: "Io ooodiooo non vincere al superenalotto!"
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