Indice:
La gara
Gara 17
NON È VERO MA CI CREDO
NOVEMBRE 2010
antologia per BraviAutori.it
a cura di Patrizia Birtolo
Supervisione e aggiustamenti: BraviAutori.it
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Prefazione
Quando ho saputo di dover organizzare Gara 17 mi sono accorta subito di dover fare i conti con un numero assolutamente non neutrale, anzi dalla portata piuttosto ingombrante.
Non potevo (e nemmeno volevo) sottrarmi all'implicazione della cifra, forse perché ho sempre pensato che gli artisti fossero una categoria piuttosto superstiziosa.
Gli attori, specialmente.
Ma ho scoperto che anche gli scrittori non sono da meno!
Superstizioni, rituali e piccole manie dei Grandi fanno sorridere, eppure… Émile Zola preferiva scrivere con la luce artificiale e oscurava la stanza con le tende anche quando scriveva di giorno, Thomas Hardy levava scarpe o pantofole, Truman Capote si rifiutava di cominciare o finire qualunque cosa di venerdì, e la mia amata Sidonie-Gabrielle Colette prima di mettersi a scrivere cercava almeno una pulce da levare a uno dei suoi gatti. John Keats si lavava simbolicamente le mani. Mark Twain si vestiva di tutto punto, in genere metteva una camicia bianca prima di sedere al tavolo di lavoro. Carson McCullers scriveva indossando il suo maglione fortunato. Woody Allen invece lavora su fogli rigorosamente gialli, mentre Isabel Allende fa crescere le storie dentro e intanto rimugina, ma senza mai sedersi a cominciare un nuovo lavoro in un giorno diverso dall'8 gennaio.
E i Braviautori? Stavolta son stati bravi davvero, considerato anche il fatto che, per non cadere in qualche cliché trito e ritrito, avevo imposto loro la regola di parlare di superstizione ma tenendosi lontani da quasi tutte le parole sinonimo di fortuna e sfortuna, così come dal nominare alcuni giorni della settimana, alcuni numeri, colori, animali… Se la sono cavata benissimo.
C'è chi ha ripercorso gli innocenti, ripetitivi rituali dei giochi infantili fino a insinuarci il dubbio su un presagio di follia, chi ha descritto la portata scaramantica del cambio delle parole di una canzone da parte di un gruppo di soldati, chi invece ci ha illustrato le drammatiche implicazioni di una preghiera recitata con qualche incertezza di troppo.
Qualcuno, a ritmo di rap, ha flirtato coi luoghi comuni della superstizione e qualcun altro ha indagato la misteriosa relazione tra un gesto vietato dalla scaramanzia e grame vicende personali. Perché a volte, si sa, la differenza tra un colpo di sfortuna o il bacio della Dea Bendata è sottile quanto un capello. C'è stato chi ha raccontato di superstizioni in salsa western e chi si è rifatto al più canonico binomio tra il pestare "qualcosa" per strada e la sorte favorevole al lotto. Qualcuno ha voluto prenderci per mano e cercare risposte alle credenze sulle fate, qualcun altro ha voluto confermarci che la dimenticanza di un talismano porta esiti nefasti. Abbiamo letto favole dove simpatici animaletti si devono scrollare di dosso pesanti maledizioni e ricordi d'infanzia in cui una maledizione si crede veicolata da piccoli contrattempi domestici. Poteva forse mancare una cartomante? Certo che no, e neppure una predizione inattesa. Come inatteso è lo sviluppo tragico generato da una manciata di sale caduto per terra. Siamo stati poi introdotti negli inquietanti misteri della magia rossa e dei suoi contraccolpi, ma ci siamo anche convinti che la sfortuna non colpisce sempre tutti allo stesso modo: qualche volta non è solo il tredici a portare jella… Ognuno ha le sue debolezze, insomma, che a volte possono tradursi nel seguire pedissequamente (ma anche no!), per pura scaramanzia, indicazioni lasciate per scherzo da amici burloni.
Non si poteva che chiudere in bellezza, strizzando l'occhio a un grande protagonista della superstizione: il gatto nero. Siam stati deliziati da una simpatica carrellata attraverso epoche e personaggi sul ruolo interpretato dai felini neri e, da ultimo, abbiamo assistito alla vittoria morale di un micetto dal pelo scuro, che si prende su uno stupido superstizioso la meritata, sudata e tanto attesa rivincita!
Grazie Braviautori, ci avete regalato diciannove divertenti, intelligenti, accattivanti racconti…
Meritate un regalo, o quantomeno una dritta… Beh, ecco, occhio al calendario perché in questo dicembre 2010 il terzo venerdì cade proprio di… Ci siamo capiti, vero?
Buona Lettura a Tutti!
P.B.
LE STANZE DELLA FOLLIA
Stefy71
Racconto ispirato alle foto dell'ex manicomio di Volterra.
Fa male la mente quando i pensieri si affollano di paure, manie, ansie, terrore.
Quando il mondo comincia a fare un altro rumore che senti solo tu e le tue grida s'innalzano verso un cielo senza Dio.
Mi sono difesa da me stessa prima di affogare in quel mare di feroce sensibilità che era limite di vita e di morte. Sapevo ancora chi ero quando varcai quella soglia, reclusa e abbandonata in un inferno creato da uomini "sani". Sapevo chi ero ma cercai di dimenticarlo. Ricordavo che da piccola mi arrampicavo sui gradini che conducevano a casa mia, li divoravo due alla volta. Passavo sotto la ringhiera e poi di nuovo dall'altra parte mi aggrappavo a quei gradini che sembravano aspettarmi, la mia corsa senza fine in quel percorso che era sempre lo stesso. Salivo e scendevo, passavo sotto e ricominciavo, un cerchio perfetto, un circolo come misteriosa danza. Mia nonna si affacciava sull'uscio gridandomi che portava male, che da grande mi sarebbero successe cose orribili se avessi continuato con quel passatempo. Rimanevo ad ascoltarla senza capire.
Ora mi chiedo se quel gioco possa essere stato davvero la premonizione di ciò che mi avrebbe aspettato dopo. Chissà.
Un manicomio nel mio futuro non lo avrei mai immaginato, non ne conoscevo il significato allora, solo dopo seppi di cosa si trattava e di quanto male vidi.
Dondolavo ritmicamente a testa bassa, occhi a terra, seduta su una sedia perché quella realtà non mi ferisse oltre. Restavo in attesa di nuove paure e vecchi timori. Fitte al cuore ad accartocciare un'anima già provata e calpestata.
Eppure capivo, provavo, sentivo.
Avrei avuto bisogno di una carezza, di uno sguardo che non temesse di posarsi sul mio volto, di fissare i miei occhi stanchi e senza più lacrime. Avrei avuto bisogno di comprensione e amore.
Ho sempre pensato che con l'amore tutti i miei compagni di viaggio si sarebbero salvati.
Ma c'è penuria d'amore per i diversi, allora come oggi.
C'è paura d'amore allora come oggi.
Avevo la necessità di ricordare gli episodi più piacevoli della mia vita fin quando sono rimasta lì dentro. Perché la gente deve sapere una cosa.
Non si nasce folli.
Si accumulano esperienze, assenze, mancanze, ferite, violenze e poi un bel giorno tutto questo esplode. Prima c'è un'implosione nell'anima, il cuore che batte, la paura di tutto e di tutti, il sudore che imperla la fronte, i fantasmi della notte e di giorni senza più luce.
Poi si perde il controllo su quell'emotività che già ti ha ucciso anche se continui a respirare.
Nessuno è immune dalla follia e chi pensa di esserlo è già folle senza saperlo.
Di quel posto ricordo le urla e la solitudine.
Una solitudine diversa dalle altre. Una solitudine che era vuoto di emozioni.
Ricordo ancora e mai vorrei scordare per lasciare alle generazioni future un'impronta della mia storia che è stata uguale o migliore di tante altre storie.
Oggi so ancora chi sono e ho imparato a vivere.
Quando mi guardo attorno e vedo la gente piena di frustrazioni e insoddisfazioni, persone che corrono per paura di fermarsi a pensare, allora sorrido e mi sento più "sana" di loro che non sanno e mai vorrebbero sapere.
E sorrido se ripenso a mia nonna e a quel timore, forse fondato, del mio gioco che mi avrebbe condotta all'inferno, a quelle brutalità che poi arrivarono puntuali. Lo diceva con il terrore negli occhi come se ci credesse, quel terrore che poi divenne mio. Sarà stato solo un caso, forse il mio destino era già scritto sopra e sotto quei gradini ma adesso fa un po' senso ricordarlo.
So solo che oggi io so chi sono e il domani non potrà mai più farmi paura.
Foto del fotografo Fabrizio Susini
SHOUTING ON THE HILL
Cazzaro
A bordo degli elicotteri che conducevano la compagnia verso l'obiettivo finale, il sergente dava gli ultimi suggerimenti e regole d'ingaggio. C'era da occupare e liberare un piccolo paese vicino al mare, la resistenza stimata era data per modesta.
Il sergente prese la mappa mostrando ancora il percorso; allora gli elicotteri ci avrebbero depositato su una collina, poi la compagnia avrebbe raggiunto il villaggio. Il III plotone sarebbe rimasto di riserva a presidiare la zona d'atterraggio in caso di sconfitta per coprire la ritirata. Il secondo plotone si sarebbe avvicinato dal fianco destro lungo il costone degli alberi; i cecchini nei boschi o sui tetti sarebbero stati una loro eventuale grana. Il I plotone, ossia il nostro, avrebbe dovuto approssimarsi al paese dal fianco sinistro.
Il pilota disse che mancava ancora un quarto d'ora all'obiettivo, uno del plotone estrasse dal taschino una fisarmonica e iniziò a suonare la canzoncina di rito del reggimento. Tutti nell'elicottero gli andarono dietro canticchiandola — Shouting on the Hill — era un ottimo pezzo Bluegrass.
Tuttavia nel canticchiare la canzoncina ebbi l'impressione che alcune parole fossero state cambiate nel testo. Il ritornello non suonava corretto: "Shouting on the hill of glory, Shooting on the hill of glory, Shooting on the hill of God, Shouting on the hill of God".
Chiesi spiegazioni perché la versione originale era stata ibridata. La canzone in origine era un pezzo religioso, parlava dell'estasi di stare sulla collina di Dio guardando l'immensità del creato e cose così. La realtà dei fatti però era diversa, il reggimento non era a casa, stava andando in guerra. Il paese da conquistare era un po' in collina, il nemico non si sarebbe ritirato, ci sarebbe stato lo scontro. Se l'unità non si fosse difesa, cazzo! Di certo sarebbero tutti finiti sulla collina di Dio a cantare. Se invece si fossero difesi… c'era forse la probabilità d'arrivare vivi in collina. A quel punto i sopravvissuti avrebbero urlato felici d'essere giunti vivi in collina, tuttavia ciascuno dei superstiti avrebbe finito per ammazzare qualcuno, violando uno dei comandamenti più importanti di Dio, il comandamento di non uccidere! Come diceva la canzoncina, andare in collina e sparare sulla collina della gloria era come sparare sulla collina di Dio.
Detta così, il dilemma della guerra non faceva una piega, non c'era nessuna soluzione apparente, morire e farsi ammazzare oppure provare a sopravvivere con dei pesanti sensi di colpa.
Quale era la fottuta cosa giusta da fare?! Bella domanda vero…
Comunque quello che era seduto accanto a me, mi disse che il chap aveva parlato con tutti quelli del plotone a quattr'occhi, e la soluzione era facile, sarebbe bastato abolire le guerre. Gli Stati Nazionali, si sa… beh avrebbero per lo meno da ridire quindi nemmeno lui aveva saputo dire quale sarebbe stata la cosa giusta da fare. Comunque il chap aveva anche detto che lui non era nessuno per giudicare, solo Dio giudicava! Di una cosa il chap era certo, Dio che sapeva ogni cosa, avrebbe saputo cosa sarebbe stata la cosa giusta da fare.
A posteriori, tutti quanti avrebbero saputo quale era la fottuta cosa giusta da fare.
Riecheggiò così nell'elicottero la canzoncina - shouting on the hill - che parve quasi un raggio di sole uscito fuori da dietro una giornata cupa e tetra. Ciascuno del plotone la cantava a propria discrezione, per cui era difficile dire coralmente se la canzoncina in certi tratti suonasse:
- shouting on the hill of glory
- shooting on the hill of glory
- shooting on the hill of God
- shouting on the hill of God
IO CREDO
Skyla74
Mamma mi ha raccontato ogni cosa: quando si battezza un neonato, il padrino e la madrina devono stare ben attenti a non sbagliare la recita del Credo. Un errore e la povera creatura sarà tormentata dalle streghe per tutta la vita.
Penso che dovrebbero farci una legge. "Ai parenti che sbagliano, si tagli la lingua!" come nell'Antico Testamento.
Chiesetta di Santa…, un paesino dell'Irpinia, gennaio 1998. L'odore fruttato dell'incenso copre le risatine della mia madrina che s'impappina per tre volte di seguito. La cupola della chiesa si oscura. Uno svolazzo d'ali, poi sul legno della croce si posa un barbagianni. La sua faccia pallida incombe sull'assemblea come uno spettro. Il viso del Cristo stilla una lacrima. Cade lungo il corpo martoriato come se non ne potesse più di sopportare quell'ingiuria. Mi gocciola sulla fronte al posto dell'acqua battesimale. Il prete geme. Scende dall'altare sfilandosi l'anello sacerdotale e me lo infila al dito.
Da allora sono passati dodici anni.
Mia chiamo Ylenia B. E questa è la mia ultima notte da dodicenne. Tra poche ore compirò gli anni: 31 ottobre 2010, Halloween, tanti auguri a te e soffia sulle candeline. Dicono che le streghe rapiscono le bambine nell'esatto istante in cui diventano donne; come quel giorno in chiesa, il fruscio del piumaggio mi solletica i sensi. Il barbagianni è vicino.
«Ylenia!»
Il diario si chiude. Mamma spalanca la porta e una ventata d'aria spazza via la frangetta dal viso adolescente. Se solo non si ostinasse a coprire i brufoli coi capelli, forse quei bozzoli guarirebbero, pensa mamma Paola.
«Non cominciare» dice Ylenia. «Sai che mi fanno schifo.»
Come del resto tutto il suo corpo, pensa Paola. Ma passerà.
«Giorgio è già in macchina» dice cambiando discorso.
«Arrivo» dice Ylenia. Fa stridere le gambe della sedia e si alza.
«È il giorno del tuo compleanno, perché non metti qualcosa di carino?»
Ylenia tentenna. I suoi occhi corrono all'anta aperta dell'armadio. Si valuta, un ragnetto biondo così gracile da confondersi con un maschietto.
«Va bene così» dice.
Escono di corsa mentre papà Giorgio suona il clacson. Paola scocca un sorrisetto complice alla figlia e Ylenia lo ricambia aggiungendoci una strizzatina d'occhio. Si sono fatte le nove di sera.
Un cielo oleoso di foschia riflette le luci della città. Il quartiere residenziale esplode il botto di qualche petardo, per il resto è deserto. Il trillo del cellulare fa sobbalzare entrambe.
"Nonna Alice" segna il display. Ylenia lo passa alla mamma reggendolo con due dita come qualcosa d'insidioso. Apre la portiera e si siede di dietro.
«Alla buonora!» la saluta Giorgio, ma la figlia non replica.
Paola sa a cosa pensa: la sua serata con gli amici saltata per colpa di nonna Alice e la sua stramaledetta torta di zucca!
«Arriviamo» taglia corto e riaggancia. Quando inforcano la collinetta che porta alla casa dei nonni sono quasi le dieci, un'arrampicata di quattro chilometri col venti per cento di pendenza. L'avanzata è lenta, le ruote stridono sulla ghiaia. I fari illuminano i rami che si protendono sul sentiero, braccia scheletriche che graffiano la lamiera. Da una parte la parete verticale della collina, dall'altra lo strapiombo popolato di ombre della macchia mediterranea.
«Dio Santo!» Ylenia tira giù il finestrino e butta fuori la testa. È rauca.
«Sta indietro!» ordina Paola raggelata, non solo per il freddo. L'ha appena visto, appollaiato a un ramo.
La faccia pallida del rapace, tonda come un chiaro di luna, le lascia sfilare sotto gli artigli. Triste come una maschera giunta in ritardo a un carnevale, le insegue col suo lamento.
Una brusca frenata la fa rimbalzare contro lo schienale.
«Che succede?» sibila Paola. Ha gli occhi umidi di paura mentre si sporge in avanti. Di traverso sul sentiero c'è una carrozzina da bambino, uno di quei mostri dalle ruote enormi di moda negli anni Settanta.
«Non fermarti» supplica Ylenia. La condensa del suo alito si dissolve vicino all'orecchio del padre.
«Non posso mica passarci sopra» bofonchia Giorgio aprendo lo sportello. «E se fosse successa una disgrazia?»
«Non lasciarci sole» supplica Ylenia. Paola ha una rivelazione: il freno a mano che si disinnesta, l'auto che ruzzola giù per la scarpata… le streghe sono venute a riscuotere il loro bottino. Ma Giorgio non ha mai creduto a quella storia, lo farebbe solo indiavolare. Su una cosa però ha ragione: la carrozzina.
«Andiamo» dice alla figlia. Di restare sole, non se ne parla.
Lo scrocchio della ghiaia accoglie i loro passi.
«Visto?» Giorgio le precede. «Siete due fifone.»
La carrozzina è vuota. Ylenia è stravolta, eppure si affaccia a controllare.
«Che ne facciamo?» chiede Paola. Giorgio fa spallucce e la prende sottobraccio conducendola all'auto.
«No… non…» balbetta Ylenia da dietro.
Paola si volta. La luce dei fari illumina gli occhi di Ylenia, stranamente torbidi. La ragazza conduce la carrozzina lungo il bordo della strada tra lo stupore dei genitori, increduli per tanto buon senso.
Tornano all'auto, per ultima Ylenia. Nel salire, scalcia le erbacce neanche fossero bestie intente ad azzannarle le caviglie, poi chiude lo sportello con un tonfo sordo. Solo allora Paola si concede di respirare. Sbircia nel retrovisore. Finalmente Ylenia si è tirata indietro la frangia. La casa dei nonni sbuca di fronte a loro.
«Dov'è la mia bambina?» Nonna Alice corre loro incontro.
Paola prende i regali dal sedile posteriore. Nel chiudere lo sportello, qualcosa attira la sua attenzione. Ci passa l'indice, lo annusa: sangue. Una macchia si allarga sulla parte bassa dello sportello come se nella corsa avessero travolto un piccolo animale. Solo allora nota il tappetino.
«Giorgio!» grida, ma il terrore le strozza la voce. La porta di casa si chiude, è sola. Ci sono quattro dita sul tappetino posteriore, quattro dita mozzate di netto da una mano. Su una di loro spicca un anello inconfondibile.
Come abbiamo fatto a sbagliarci! Paola scatta giù per il sentiero. Devo trovare la carrozzina, la mia bambina è là che aspetta… Dovrò portarla all'ospedale, farle riattaccare le dita. Le streghe ci hanno ingannati, ma Ylenia resisterà alle loro lusinghe, deve resistere…
«Amore, sto arrivando!» grida.
Ma la ghiaia è insidiosa. Cento metri al buio, poi Paola scivola nella gola sterminata. Il barbagianni le si affianca in caduta libera schiaffeggiandola con le ali.
«Dimentica tua figlia, ormai ci appartiene. Avresti potuto accontentarti del demonietto… si dissolverà solo domattina.»
Paola cerca di afferrarlo, ma l'uccello spicca il volo. Nessuno la sente recitare l'ultimo Credo mentre precipita nella notte.
SPHI PER VENDETTA
Arditoeufemismo
Ti accorgi che la tua vita non è iniziata sotto i migliori auspici quando realizzi di avere una madre stronza che ti ha chiamato Tristano. Che poi ci poteva anche pensare che di cognome fate Malinconico. Mettici pure che l'adolescenza è un periodo strano specialmente se sei noto tra i compagni di scuola come l'Innominato. E intanto attraversando la strada vedi un felino scuro che si blocca al tuo passaggio e con le zampette si gratta i testicoli. Quel fottuto felino bruno ti distrae e la Prinz verde, con tre suore a bordo e le bombole del gas sul tetto, per poco non ti stira. Ma a queste cose non ci fai caso perché sai che tanto in classe c'è il tuo raggio di luna: Isotta. Isotta, un po' pienotta, è emo e soffre tanto. Ha lo smalto dark e il ciuffo corvino sugli occhi pieni di eye liner. — Isotta, vieni al cine a vedere il Gladiatore con me? — — Ma anche no, Tristano! — replica lei atona. Triste starsene al cine da solo sgranocchiando il popcorn anche perché c'è sempre il rischio che quelle odiose pellicine brune di granturco esploso ti si fermino in gola e ti facciano morire soffocato. Non segui il film perché pensi che a quest'ora potevi startene a paccare Isotta e, previo il suo assenso, con lei a bere assenzio. E invece stai con Decio Massimo Meridio detto l'Ispanico. Panico quando un popcorn, come previsto, si attacca alla gola e tu gli occhi strabuzzi come Aldo Fabrizi. T'infervori pensando che Isotta debba pagarla per averti rifiutato, se lei fosse stata con te non ti saresti strozzato col popcorn. Mentre il gladiatore carezza il grano dei Campi Elisi tu ti alzi in piedi davanti a tutto il cinema ed esclami a chiara voce: "Isotta, avrò la mia vendetta. In questa vita o nell'altra!" E l'altra arriva perché sculo vuole che Isotta va coi porci e contrae la suina. Paziente zero. Non è mai stata, in effetti, dotata di tanta sopportazione nei tuoi confronti. Isotta muore. Suina Umani 1-0 palla al centro. E allora vendetta tremenda vendetta, e, nella macchinetta che mamma t'ha comprato attendi sotto casa di Isotta il suo feretro, il corteo e il carro funebre. Il bello è che ingaggi un duello con quello. Microcar versus Carro funebre. Scifoni 23.23.23 è scorretto e ti stringe sulla destra, tu per fomentarti, accendi l'autoradio e senti a palla Guccini che canta Lunga e diritta correva la strada, l'auto veloce correva. Non lo sapevi che c'era la morte quel giorno che ti aspettava? Non lo sapevi che c'era la morte, quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra BEEP, venga e ci prenda per mano. E arrivi sul rettilineo che porta alla cripta di Nostra Signora Addolorata in un "testa a testa" a trenta all'ora e Scifoni il bastardo vuole farti sentire che ha uno stereo che pompa funebre più del tuo e spara i suoi duecento watt nella voce di buonanima Mimì che canta Gli uomini non cambianooo. Alla fine fai vincere il carro funebre, scendi dalla macchinetta e fingi di prendere a calci le ruote per la sconfitta. È il momento dell'orazione funebre e tu ti offri volontario. Guardi il feretro, ti guardi distrattamente le unghie, ci soffi sopra, riguardi il feretro e poi domandi con nonchalance alla salma: "Sei impegnata stasera?" E mentre i parenti tutti della vittima ti guardano stralunati, tu ti alieni in una strampalata risata dissennata. Voilà, vendetta è servita!
IL PANE E L'ANARCHIA
Manuela
Ho sempre ritenuto che il più grande privilegio, sollievo e conforto
dell'amicizia fosse quello di non dover mai spiegare nulla.
(Katherine Mansfield)
Dovevo andare alla cena aziendale per le festività natalizie. Ero stata assunta da poco ed ero un po' imbarazzata.
Quando entrai lei mi guardò, si zittì un istante, e mi fece un cenno: c'era una sedia vuota lì vicino. Poi, subito, riprese a chiacchierare. Raccontava di un viaggio all'estero, un viaggio che non avrebbe mai voluto fare, il motivo era ignoto.
Mi piaceva la sua faccia, mi piacevano i suoi gesti, avrei voluto chiederle perché doveva partire, ma non mi parve il caso. Lei sembrava fuori posto e fuori luogo, parlava come una bambina e gli altri colleghi erano presi da un mucchio di altre cose più importanti: il budget da raggiungere a fine anno o i regali di Natale o i fantastici biscotti al cocco del negozietto vicino all'ufficio.
— Mi dispiace — le dissi.
E il suo sguardo fu più eloquente di mille parole.
Fu così che conobbi Lilla.
Lilla è una persona strana. Fa e dice cose strane ed è una meraviglia.
È simpatica, spiritosa, ride alle mie battute, mi ascolta quando le parlo, mi ascolta davvero, mica per scherzo.
Sabato di primavera.
Lilla viene a pranzo a casa mia. Ho fatto il pane, c'è un profumo inebriante. Le apro e mi sorride, spostando la testa di lato.
— Come sta la mia collega preferita? — mi dice — Scusa, ma non ho più rispetto per nessuno!
È come se avesse paura di dire cose troppo carine, è come se avesse paura di scoprirsi. Io le do un colpo con lo strofinaccio che ho in mano e le dico di sedersi, il pranzo è quasi pronto.
— Assaggia, l'ho fatto io — e poggio la pagnotta appena sfornata sul tavolo.
— Ma sei pazza? — e quasi urla, mentre rimette a posto il pane, come se fosse di cristallo — Mai, e dico mai, va poggiato alla rovescia.
— Perché? — le chiedo.
— Perché mia nonna diceva che porta male.
— Perché? — le chiedo ancora.
— Non lo so, è una vecchia superstizione, forse la guerra, la povertà, le briciole di Pollicino...
— C'era una volta una piccola bambina di nome Lilla... — la canzono.
Mi guarda seria.
— Forse è per via della forma — dice dopo un po', mordicchiando un pezzo di crosta — o forse perché se lo metti alla rovescia, vuol dire che qualcosa andrà storto.
E si illumina.
— Be', — faccio io — questa è una tua deduzione anarchica.
— E che vuol dire anarchica? — Lilla si arrabbia da morire quando non capisce una cosa.
— Vuol dire troppo libera.
— Troppo libera? Davvero credi che qualcosa possa essere troppo libero? Vuoi che sia poco libero, appena un po' libero?
— Lilla, non ti arrabbiare, — le dico — era una battuta.
— Sì, di caccia. Anzi, di cacca! — e fa una smorfia esauriente.
— Supponiamo che sia vero quello che dici. Cosa potrebbe andare storto per colpa di una pagnotta messa al contrario? Non andrebbe storto comunque?
Lei ci pensa su.
— No, se qualcosa va storto è perché qualcuno l'ha fatto andare storto. Non esiste stortezza in natura... — e sospira rumorosamente.
Le sorrido estasiata. Con Lilla anche le frasi più banali diventano epifanie.
Mentre prendiamo il caffè sul divano, penso a Davide che è fuori per lavoro, così mi ha detto, ma non ne sono del tutto sicura. Anzi, non ne sono sicura proprio per niente. Forse penso a voce alta, forse penso che se qualcosa andrà storto, sarà perché non bado mai a come poggio il pane sul tavolo.
— Davide torna domani da Monza — dico.
— Ha un'amante? A Monza poi! — Lilla strabuzza gli occhi.
— Oddio, spero di no, perché? Sai qualcosa?
— No, tu sai qualcosa. I pensieri ti escono dalla testa e fanno rumore. Scusa, ma che me ne frega a me di dove sta e di quando torna Davide?
Lilla parla tutta di seguito e colpisce nel segno.
— Era per parlare... — dico io.
— Ho fatto un'altra deduzione troppo libera? — fa lei.
— E smettila adesso — e porto le tazzine in cucina.
— Secondo te, perché Anna Karenina si è uccisa? — mi chiede, alzando la voce.
— Perché metteva il pane al contrario? — rispondo dall'altra stanza, un po' acida.
— Scema, com'è che hai detto? Era solo per parlare...
E mette su il broncio.
Davide torna dal suo viaggio di lavoro e dice che deve parlarmi di una cosa, una cosa che già conosco. Mi manca solo il particolare, non indifferente, di sentirmela dire in faccia.
Me la spiattella così, senza fronzoli, senza delicatezza, come gli ho sempre chiesto di fare con me.
Strano che quando si chiede qualcosa, non si pensi mai, veramente, al fatto che poi la persona a cui lo hai chiesto lo faccia sul serio.
Come in un film americano datato, prepara la valigia. Non riesco a crederci. Mi guarda e si stringe nelle spalle. Poi prende il suo bagaglio cinematografico e se ne va, delicatamente stavolta, alzando il colletto del suo impermeabile costoso.
— Vaffanculo! — sbotto, appena sento il rumore del portone nell'atrio.
E chiamo Lilla.
— Vieni, per favore? — le chiedo, tirando su col naso.
— Sì, arrivo subito. Dobbiamo parlare dell'anarchia. Dobbiamo farglielo sapere alla Karenina che la troppa libertà può dare serissimi problemi! — e sorride, la sento sorridere.
— Grazie! — dico, e non sono mai stata tanto grata a qualcuno in vita mia.
CAPELLI
Vit
Io coi miei capelli è da un po' che ho un rapporto complicato.
Prima di tutto ne ho pochi, va be', ormai ci sono abituato, però a volte quando i miei amici vedono il mio phon rosso in bella vista nel bagno, mi chiedono perplessi: ma è tuo quel phon? Sì, perché? Rispondo. Allora iniziano a sorridere e dicono: ah no, perché non pensavo ti phonassi i capelli. E mentre mi guardano i capelli, sghignazzano, e io ci resto male.
Poi una volta, ci conoscevamo da poco, ho litigato con la mia morosa Ilaria per colpa del phon.
Un giorno esce dal bagno e viene in cucina. Dice: che carino che ti sei fatto prestare il phon per me.
La guardo in silenzio, lei allora mi chiede: ma di chi è il phon, scusa, sarà mica tuo?
E io: sì.
E lei: Ah, e a cosa ti serve, così grande poi?
Come, a cosa mi serve? Chiedo io.
Che te ne fai? Incalza lei, guardandomi i capelli, pensavo te lo fossi fatto prestare da qualcuno per me.
E io: no, no è proprio mio.
Niente, non ci credeva. Era convinta che una ragazza se lo fosse dimenticato nel mio bagno perché aveva dormito lì e non avevo avuto l'accortezza di cancellare le tracce. S'è ingelosita, abbiamo litigato.
Quando devo comprare lo shampoo vado nel panico, perché non so mai quale comprare, che poi in fondo potrei fregarmene vista la mia non folta capigliatura.
Potrei dire: uno shampoo vale l'altro, e invece no, anzi, visto che ho i capelli che ho, cioè pochi, sottili e delicati, devo stare attento allo shampoo che prendo, mica posso sceglierlo a caso. Insomma, un dramma tutte le volte. Comunque. Di solito prendo i fortificanti o quelli delicati per bambini, però una volta ne ho preso uno, non ho proprio resistito, dove sopra, sulla confezione, c'era scritto:
sei stufa di doverti fare la coda già al secondo giorno?
Che, a parte non aver capito bene cosa volesse dire, l'ho voluto prendere perché mi piaceva molto quella frase, aveva un fascino lontano, esotico, di insondabili misteri tricologici.
Io i capelli me li taglio da solo sopra il lavandino del bagno, ne lascio un sacco nel lavandino, che poi si intasa e bisogna tirar fuori i capelli dal buco e sturare tutto, un casino ogni volta. Me li taglio da una quindicina d'anni, possibilmente quando piove, così pare si rinfoltiscano, ma non nei mesi con la "r", altrimenti non serve a niente. Sapete, a certe cose ci credo.
Però, a parte me, che ormai sono senza speranza, non lo sapevo che anche Ilaria, la mia morosa, perdesse i capelli, che anche le donne di trent'anni, per dire, li perdono, non ci avevo mai pensato.
Succede che un mattino in bagno, nel lavandino, vedo un capello lungo che mio non può essere, così mi dico: è di Ilaria. Ecco, lì per lì vedere un capello di Ilaria nel mio bagno mi rende felice, mi dico: bello! È il segno d'una presenza intima gradita. Allora inizio a far caso ai capelli che Ilaria lascia in giro per casa. Che adesso, non è che Ilaria stia diventando calva, però, insomma, ogni tanto qualche capello lo perde anche lei, che ne ha tanti.
Allora faccio un giro per la casa e ne scopro sui cuscini in camera, sul divano, annidati e invisibili, qualcuno per terra. Scopro di avere la casa piacevolmente invasa dai suoi capelli.
Poi mi accorgo di avere un lungo capello sulla spalla, lo prendo, lo guardo, è di Ilaria.
Un capello sulla spalla preannuncia l'arrivo di una lettera.
Ecco, a me le lettere mettono ansia. Le lettere e i campanelli che suonano. Di solito quando vedo il postino che sta per mettere il dito sul campanello, mi viene l'ansia che ci sia qualche rottura in arrivo.
Ma tanto, mi dico, sono stupide superstizioni, mica deve arrivare veramente una lettera.
Sotto sotto, però, temo l'arrivo di una multa dal comando della Polizia municipale di Lerici, che son passato davanti alle telecamere tre mesi fa. Bah, lasciamo perdere le superstizioni per una volta.
Il mattino dopo suona il campanello, non apro. Dalla finestra intravedo il postino col dito che incombe sul citofono, alza la testa e per poco non mi vede, riesco a nascondermi dietro la tenda. Scendo, nella cassetta delle lettere non c'è niente. Meno male.
Il giorno dopo ancora, il postino suona, non apro, per poco non mi vede dietro la tenda, poi scendo.
Faccio i passi di corsa e inciampo in un gradino, quasi cado, che non va bene, vuol dire che perderò dei soldi, mia nonna mi ha sempre messo in guardia: attento a non inciampare sui gradini che porta male!
Apro la cassetta, cazzo, una lettera, anzi, un avviso di giacenza di una raccomandata. La estraggo senza guardare cos'è e da chi arriva. Risalgo in casa, lascio la lettera su un tavolo e fingo di disinteressarmene, ma dopo due minuti non resisto più e guardo.
La raccomandata arriva dal Ministero delle Finanze. Ma che cazzo vogliono da me?! Mia nonna aveva ragione! Cosa vogliono che non ho fatto niente io, perché proprio me, eh?! Cosa c’entro? Son solo passato davanti alle telecamere, lì a Lerici, in giugno, entrando nella zona a traffico limitato, non ho mica ammazzato qualcuno.
Vago agitato per casa con l'avviso in mano e continuo a chiedermi perchéperchéperché proprio a me. Poi butto l'avviso sul divano e mi dico: stai calmo. Ma ripenso alla nonna, a quando mi metteva in guardia, che ha sempre avuto ragione, lei. Perderò dei soldi e andrò in rovina!
Poi suona il campanello. D'istinto vado alla finestra, vedo Ilaria. Mi guarda, sorride. Le apro.
Una volta dentro non nota la mia espressione terrorizzata, o la ignora, non so bene, vede l'avviso sul divano.
Cos'è? Chiede.
Resto zitto, non so cosa rispondere.
Mi guarda e sempre sorridendo prende l'avviso, lo legge, poi dice:
ma cosa ci fa qui 'sta lettera, non è mica per te, è per il vicino di casa, del civico qui a fianco, il postino s'è sbagliato!
PROIETTILI D'ORO PER LO STRANIERO
Matteo
«Solo d'oro, ragazzo.»
Montgomery ritrasse la mano. Nel palmo cinque proiettili di piombo rilucevano pronti per esser inseriti nel tamburo di una Colt. Il rumore dei tacchi dello straniero risuonarono nel saloon, mentre tutti guardavano in silenzio. Anche le ballerine avevano smesso di danzare e di cantare. Tutti erano fermi a guardare l' hombre dalla chioma albina e dalla barba leggermente incolta che teneva nascosta sotto un cappello tenuto inclinato sulla fronte. La Colt del forestiero volteggiò tra l'indice e il pollice della mano del suo possessore, infine terminò la corsa in una fondina di cuoio. Il calcio giallo canarino dell'arma colpì l'attenzione dei presenti, ma a lasciare sbigottiti fu la lunga serie di tacche che vi erano scalfite.
«Signore, come vi chiamate?» azzardò una ragazzina con le guance sporcate di rossetto. La giovane fu subito colpita da una gomitata dalla donna che aveva accanto.
«Zitta, Angelita. Non si parla a un gringo solitario.»
I passi si arrestarono e con loro l'evoluzione degli speroni che turbinavo a ogni metro percorso.
«Sono le azioni a rammentare ai cuori gli uomini, non le sequenze più o meno lunghe di lettere. I contabili apprezzano le sequenze e voi non mi sembrate tali» disse lo sconosciuto, insinuando le dita nel taschino sormontato dal poncho. «Chissà se li porteranno dietro» aggiunse poi, superando la montagna di dollari adagiati sui due uomini in frac stesi a terra in una pozza di sangue.
«Sceriffo, lo deve eliminare.»
«Ma mi hai detto che è veloce…»
«Beh, potremmo organizzare un'imboscata. Quello è un rivoluzionario è un…»
«Non è vero» intervenne Montgomery, spalancando la porta dell'ufficio.
Davanti al giovane, un uomo con capelli e baffi bianchi era seduto con i piedi sporgenti da un tavolo. Una stella a cinque punte gli brillava sul gilet scuro calato su una camicia bianca. Di lato un tizio, rosso in volto e con la bava alla bocca, sventolava un mazzo di banconote quasi a voler convincere l'autorità a compiere il suo dovere.
«Che vuoi dire, mezzosangue?» ruggì lo sceriffo.
Montgomery si sentì arrossire, ma la carnagione olivastra della pelle lo protesse dalla vergogna. Sebbene avesse compiuto la maggiore età non era ancora in grado di sostenere lo sguardo delle autorità di Arrojo; Arrojo, una piccola striscia di terreno posta sul confine del Messico, dominata da una banda di signorotti che credevano di poter comprare ogni cosa col denaro.
«Quegli uomini volevano stuprare Angelita e…»
«Stuprare?» lo interruppe il tizio con i dollari in mano. «Dico, moccioso, dimentichi forse che le donne sono di chi ha un conto in banca per poter pagare chi da loro da mangiare?»
Lo sceriffo annuì col capo. «Parole sante. Sei sempre giovane o forse troppo selvatico per capire certe cose, vedi di uscire di qui o ti farò condannare per favoreggiamento. Via, ora. Via!» urlò tirandogli dietro un paio di banconote. «Vatti a comprare una buccia di banana» gracchiò, ridendo come un matto.
«Non cerco aiutanti, il tempo dei pistoleri e dei cavalli non ha futuro» rispose brusco lo straniero.
«Beh, ma se non te ne andrai ti troverai contro tutto il paese e una spalla ti può esser d'aiuto.»
Il gringo voltò il capo in direzione di Montgomery.
«Quanti sono i padroni di questo posto?»
«I padroni?» domandò il ragazzo.
«Sì, c'è sempre un padrone a cui inchinarsi. Qui sono i gestori delle miniere, mi pare di capire.»
«Saranno una decina, con una cinquantina di assassini al servizio.»
«E i cittadini, quanti sono?»
Montgomery si guardò la punta degli stivali bucati. «Beh, almeno cinquecento.»
«Interessante» annuì lo straniero.
Il mezzosangue si sentì impotente e il suo stato d'animo non sarebbe stato diverso se si fosse confrontato con quello degli altri abitanti. Gente onesta che sudava quattordici ore al giorno per un pezzo di pane, mentre altri sperperavano denari al gioco e alle donne.
«Ma i numeri non cambiano mai il risultato; lo fanno solo in matematica, raramente nella vita.»
Montgomery scosse il capo.
«Non vi capisco.»
«Eppure succede così in ogni buco di questo paese. Pochi e corrotti eletti, privi di etica e morale, controllano migliaia di poveracci che subiscono ogni sopruso e non hanno la volontà per ribellarsi, perché sono imbrigliati da sequenze di lettere e di numeri che li catalogano.»
«Parlate così strano voi, ma chi siete?»
«Sono l'ombra di questo paese. Un'ombra che agisce fuori dagli schemi prefissati.»
«Però anche voi usate il sigillo dei potenti» sussurrò il giovane. «Per questo non avete accettato i miei proiettili, ieri.»
Sul volto del gringo le labbra si piegarono in un mezzo sorriso. «Chissà, forse il mio punto debole è la scaramanzia.»
Il vento si alzò sulla città di Arrojo. Particelle di sabbia e di biada volavano tra le case di legno, a suggerire l'avvento della dama pronta a vibrare la falce sulle teste dei viandanti.
Un uomo con una stella sul petto, in mezzo a un viale solcato dalle ruote delle diligenze cariche d'oro grezzo, urlava a gran voce: «Vattene o ti stringeremo una corda al collo, non vogliamo vagabondi senza nome per le strade!»
Un colpo di pistola fu la risposta all'invito dello sceriffo. Da un terrazzino, un uomo cadde giù sulla strada, tenendo tra le mani una Derringer con il cane alzato.
«Avete visto?» gridò il tutore della legge. «Questo è un assassinio, chiamate il giudice. Lo Stato promette mille dollari a chi lo ucciderà.»
Così l'inferno si manifestò ad Arrojo, ma fu come una malattia che esplose dopo anni di incubazione. Il sistema immunitario costituito dalla legge doveva vedersela con un male oscuro, un male che, in una sorta di bizzarro cerchio della vita, uccideva con la stessa fonte madre di sostentamento del sistema: l'oro.
Giacche di velluto pregiato si sfaldavano crivellate dai proiettili d'oro e perdevano i colori a beneficio del rosso sangue. La polvere da sparo inondò l'aria, corrompendo i respiri con l'odore di morte. Caddero tutti i facoltosi, cadde anche lo sceriffo mentre cercava di fuggire con le tasche piene di dollari. Solo quando l'ultimo sfruttatore di Arrojo perì, i due ribelli uscirono dal nascondiglio, ma qualcosa gelò il loro coraggio. Lo straniero fece cadere nella polvere la Colt dal calcio giallo canarino. Mosse due passi traballanti, poi stramazzò giù guardando in alto. Su un tetto, un vecchio straccione che, in vita sua, aveva conosciuto solo lavoro e sudore, teneva stretto un fucile. Forse non sapeva sparare, ma quel giorno aveva trovato il colpo della vita. Lo straniero abbozzò un mezzo sorriso, poi, prima di chiudere gli occhi, sussurrò: «la libertà muore sempre per sua stessa mano.»
LA PESTATA
Gloria
Uscì da casa e girò a sinistra, la parte del cuore, sebbene la ricevitoria si trovasse alla destra del suo portone: avrebbe fatto il giro dell’isolato. Applicò un’attenzione scaramantica, acuitasi con gli anni, nel non calpestare gli interstizi del marciapiede: non voleva compromettere la giornata per una distrazione. La giornata, in effetti, era bella: uno splendido sabato invernale, con un sole decisamente di buon auspicio.
Un’ombra passò veloce sulla sua testa e il bavero del cappotto fu lordato dal guano di un piccione. Alzò gli occhi al cielo maledicendo il volatile e, nel farlo, mise il piede su una riga.
Saltò all’indietro terrorizzato e atterrò su una cacca di cane.
“Merda!”, disse giustamente. Poi soggiunse “ Porta bene, però”.
Strofinò la scarpa a terra, sul bordo del marciapiede, ripulendola alla meglio, cosa non facile dato che era di camoscio.
Trascinando il piede continuò il suo percorso, senza mai attraversare la strada, fino al botteghino del lotto, a un passo da dove era partito.
Era affollatissimo: il montepremi del superenalotto era salito alle stelle.
Ma lui aveva fatto un sogno. La nonna gli era apparsa rimproverandolo di aver dimenticato il suo compleanno: il ventidue settembre 1919. Al risveglio si era annotato la data pensando che forse era ora di andare al cimitero, cosa che detestava e che non aveva mai fatto, benché la vecchia lo avesse allevato e, tirate le cuoia, lasciato la casa.
Ma ce ne aveva messo di tempo!
Riflettendo aveva preso in considerazione la possibilità che la defunta, più che una richiesta, volesse fargli un regalo. Inaspettato, dato che era sempre stata tirchia. Solo tre numeri, sei sarebbero stati meglio. Però erano sicuramente buoni.
Aveva aperto la scatola di latta delle emergenze e prelevato cento euro, tutto quello che c’era, poi era uscito deciso a cogliere la sua occasione. Per il cimitero c’era tempo: un’eternità, sogghignò.
Si mise in fila pazientemente. La gente intorno arricciava il naso cercando il responsabile del tanfo. Lui fece finta di nulla. Finalmente venne il suo turno. Dettò la combinazione con voce stentorea:
”Ventidue, nove, diciannove. Ruota di Bari. Cento euro. Terno secco”. Afferrò la ricevuta.
Dietro di lui una signora munita di bassotto lanciò un grido.
“Attila! Che fai?”
Troppo tardi: Attila, che aveva fiutato la scarpa, aveva alzato la zampa sui pantaloni soprastanti.
La padrona del cane si profuse in scuse, offrendosi di pagare il danno. Cercò volenterosamente di tamponarlo con un kleenex, lui tentò di fermarla: non amava essere toccato. Nella confusione lo scontrino della giocata finì a terra. Lo recuperò umido, lo sventolò per asciugarlo, fulminò cane e padrona e uscì stremato da quel susseguirsi di flagelli.
A casa mise lo scontrino su un termosifone, si cambiò, buttò scarpe e pantaloni: con la vincita ne avrebbe comprati di nuovi.
Si dedicò alle sue solite abitudini, riposino, parole crociate, televisione, sgranocchiamenti golosi di dolcetti. Osservò lo stato fatiscente dell’appartamento e considerò le migliorie che avrebbe potuto apportarvi. Ne fece persino una lista.
Alle venti e trenta si sintonizzò sulle estrazioni in diretta TV.
Ecco: i suoi numeri erano lì, usciti a Bari, luogo di nascita dell’ava. Non poteva essere altrimenti.
Andò a prendere la ricevuta e fu allora che constatò che gli acidi di Attila e il calore avevano cancellato l’unica prova in suo possesso della ricca vincita.
La nonna si era vendicata.
LE SERE DI AUTUNNO
Roberto Guarnieri
"Tu devi essere completamente impazzito."
Claudia fissò Luca, sospirando più per lo sconforto che per la rabbia di trovarsi in quella situazione assurda. Lui, con cupa ostinazione, resistette al suo sguardo, così come a quelli di Federico e Francesca, ribattendo con calma "Non sono matto. Aspettate e vedrete."
Erano seduti ai bordi di una piccola scarpata, coperta di erba ingiallita dall'autunno inoltrato, che cingeva un vasto campo ondulato, brullo e costellato di alberi da frutto bassi circondati da cespugli. Davanti a loro il sole, un pallido disco sfumato dall'umidità della sera, stava tramontando dietro le colline mentre la nebbia scaturiva con sottili volute dal terreno inumidito.
L'aria dei viottoli di campagna era impregnata dall'odore di fumo che aleggiava tra le querce ondulate e gli ammassi di sterpaglie che avvolgevano i recinti di legno abbandonati. Il silenzio era quasi totale e rendeva l'atmosfera ancor più carica di fascino e di singolarità.
"Si può almeno sapere il perché di questa specie di tortura?" sbuffò Claudia per nulla affascinata dal paesaggio.
"Te l'ho già spiegato in viaggio."
"Non vorrai mica insistere con quella assurda storia della… com'era? Ah, sì, la realtà sfibrata…"
Luca sorrise, si girò verso i suoi amici e parlò piano con voce ferma e convinta.
"Ascoltate, ho fatto infinite ricerche sulle superstizioni legate alle sere di Autunno, elaborando una mia teoria."
"La realtà possiede un suo spessore. E tale spessore non è costante. In certe notti autunnali, per cause ignote, la trama del quotidiano si sfibra e si dilata sino a permettere il contatto con altri mondi. Terre enormi contenute in un battito delle nostre ciglia. Luoghi fantastici che si trovano in dimensioni parallele, popolati da creature strane e affascinanti."
"I popoli antichi ne erano a conoscenza e collocarono la Notte del Contatto proprio in questo periodo."
"In sere come questa piccoli occhi gialli si affacciavano alle finestre, misteriosi passi risuonavano nelle acciottolate strade deserte dei borghi medioevali, invisibili mani tiravano le vesti dei contadini Sassoni o dei legionari romani accampati ai bordi del Vallo di Adriano. Tutte le favole parlano di fate della sera, di elfi che passeggiano tra le nebbie del tramonto in Ottobre, di folletti e gnomi che si affacciano tra i cespugli bagnati di umidità mentre scende la sera repentina, tra il cadere dei ricci delle castagne e l'accumularsi del fieno bagnato nei covoni."
"E secondo te" mormorò Francesca scuotendo la testa "tutte queste sciocchezze sono vere? Queste superstizioni da vecchie comari? Noi oggi, che tra l'altro non è nemmeno la notte di Halloween, cosa dovremmo vedere?"
"Non lo so nemmeno io con esattezza" ribatté Luca. "Siate pronti a scrutare con la coda dell'occhio, attenti a cogliere ogni piccolo movimento. Perché le entità dei boschi scelgono questi attimi e questi luoghi per entrare nel nostro mondo. Poi si aggirano curiose vestite del verde intrecciato di muschio e di foglie, con tessuti blu di seta che hanno la consistenza del nulla, o incappucciati nei loro mantelli silvani, cercando cose da vedere, da toccare, da odorare."
"Luca ma ti rendi conto che…"
"Io desidero solo vedere una di queste creature."
"Un elfo, dalle gentili orecchie appuntite e i capelli biondi, che mi porga un cenno di saluto. Una fata silvana, dai grandi occhi marroni screziati d'oro con indosso un manto trasparente e ceruleo appena visibile nella luce lunare. Uno gnomo, dal copricapo a punta, che mi sgusci tra i piedi nella densa nebbia di terra."
"Che assurdità!" Claudia alzò gli occhi al cielo.
"Non appaiono a chiunque, in sere come queste" precisò Luca incurante delle critiche "per un timore prudenziale che li fa essere cauti nei contatti con l'Umanità, non sempre ben disposta verso di loro."
Il sole ormai moriva tra le colline e nel cielo le striature rossastre divenivano grigie impastando il paesaggio di una luce fievole e triste.
"Può accadere, ne sono certo.”
"Tra poco sarà del tutto buio" Francesca era affascinata da quanto aveva ascoltato, ma non poteva fare a meno di essere scettica "e allora, non vedremo più nulla."
"Lo so" ammise Luca "eppure…" socchiuse gli occhi fissando l'erba alta e l'edera avvolta attorno agli alberi "qualcosa deve mostrarsi."
"Perché proprio stasera?" chiese Federico sbuffando "Cosa dovrebbe provocare tali apparizioni?"
"Il desiderio" mormorò Luca concentrato. "La mia voglia di conoscenza. Loro possono percepirla, ne sono convinto."
Eppure i minuti passarono lenti e inesorabili, la nebbia si arrotolò sino in cielo, il sole scomparve e la landa divenne scura. Nulla accadde e nessun rumore, fruscio, o calpestio di piccoli passi ruppe il silenzio imperante.
Luca fissò le sagome dei suoi amici, appena distinguibili sul profilo della scarpata.
Un refolo di vento, simile a un ansare profondo, scivolò sulla campagna, facendolo rabbrividire. Allora si alzò in piedi e fece cenno ai suoi compagni di fare altrettanto.
"Non vi obbligherò a ritentare" disse con amarezza. "Io, certamente, lo rifarò. Cercherò le mie fate sotto forma di sfuggevoli movimenti appena percepiti…"
"Io credo" Federico era preoccupato per lo stato mentale del suo amico " Che dovresti lasciar perdere. O ti ritroverai ossessionato. Stai inseguendo una superstizione."
Luca accese la sua lampada e tutti strizzarono gli occhi disturbati dall'invasione di luce in quel mondo notturno.
"Superstizione" ripeté dubbioso. "Forse hai ragione e la cosa migliore è ritornare al mondo reale e alle sue certezze" si chiuse il cappotto e concluse "ma la mia ricerca continuerà. Voi potete anche pensare che tutto questo non sia vero, mai io ci credo." E così dicendo il gruppetto si mosse, avviandosi verso la stradina sterrata sulla quale attendeva la loro auto.
Fu davvero un peccato che Luca non illuminò uno spiazzo vicino alla sua seduta. Perché, se lo avesse fatto, avrebbe visto che sull'erba bassa e lievemente ammaccata da un piccolo peso, come quello provocato da un corpicino leggero o da una grande creatura, ma dalla massa irrisoria, c'erano dei rametti di legno, spezzati di fresco e disposti con cura in modo da formare due parole.
Dicevano "CIAO LUCA".
E volevano essere sia un saluto sia un tacito, rassicurante invito a una più intima conoscenza.
FINE CORSA
Tania Maffei
Lo chiamavano "El centauro" perché amava correre in moto più di ogni altra cosa.
Miguel, spagnolo di Madrid, dopo aver generato Luigi, era vissuto con la moglie Luisa quindici lunghi anni, un tempo sufficiente per insegnare al figlio ogni cosa sulle moto e i motori.
Quando poteva, saliva in sella e, indossata la tuta, gli stivali e il casco, girata la chiave, date appena due sgasate andava giù senza meta.
— Correre veloci sospesi fra la terra e il cielo quando l'adrenalina ti fa scoppiare il petto e ogni cosa attorno a te scompare. Andare dove si vuole, volare nel vento, attraversare posti mai visti dove gli altri hanno difficoltà ad arrivare. Questa è la vera libertà, quella che nessuno può toglierti. Ricordalo figlio mio.
Dicevano che Luigi fosse uguale al padre. La stessa voglia, un'identica passione, come un timbro impresso nella mente, sulla pelle. Lo seguiva ovunque. Lui grande e grosso, un vero e proprio gigante dagli occhi scuri come la pece sormontati da sopracciglia folte che si congiungevano le une sulle altre a formare un unico solido arco, teneva sempre stretta nella sua, la piccola mano del figlio che, lì dentro, al sicuro, scompariva del tutto. Il frastuono dei motori sempre accesi che gettavano nell'aria quel puzzo di benzina che tanto lo inebriava, i colori di quelle moto tutte diverse, rosse, nere, azzurre, la gente che parlava solo di corse non intimorivano il bambino poi divenuto ragazzo perché, il padre, tornato a casa, passava ore a spiegargli i segreti dei motori. Luigi sapeva bene come andasse pulita una moto, in che modo lubrificarla, sostituirne i vari componenti, per quale motivo fosse necessario che la batteria, i freni e le sospensioni dovessero essere sempre in ordine, quali regolazioni fossero necessarie per renderne migliore la resa. Soprattutto, però, sapeva l'amore che occorreva per fare tutto questo.
Miguel si occupava personalmente della manutenzione della moto, a nessuno era permesso toccarla. Ma non era solo questo. Col passare degli anni l'aveva riempita di tanti piccoli oggetti fra cui ne spiccava uno in particolare: un amuleto in osso e metallo da portare al collo con l'immagine di un occhio incastonato nel palmo di una mano che però, dopo ogni gara, riportava sempre a casa. Si trattava di un oggetto molto raro, di grande valore, appartenuto a un amico torero che non combatteva mai senza prima averlo indossato. Questi, gli aveva assicurato che, se l'avesse portato sempre con sé, sarebbe stato preservato da ogni male.
Per le gare più lunghe seguiva poi un vero e proprio rituale: indossava la stessa biancheria e il casco, la tuta, gli stivali, gli occhiali, i guanti, riposti in bell'ordine dovevano essere sempre gli stessi.
Chi come il figlio lo osservava da vicino ormai da tanti anni, sapeva che tutte queste cose non erano affatto sciocchezze ma, col passare del tempo, erano diventate vere e proprie ossessioni. Luigi aveva individuato con precisione l'origine, il punto di innesco della cosa: la paura della morte, dell'incidente in moto. Il resto, quelle modalità di declinazioni così potenti e irrazionali, appartenevano a una dimensione più oscura che lo stesso Miguel non sapeva spiegarsi.
- Vedi figliolo io sono pienamente consapevole che quello che faccio è privo di ogni logica ma per me è irresistibile, non posso farne a meno.
Purtroppo arrivò il giorno in cui Miguel partì per non tornare più. La mattina era iniziata subito male. Tutti lo conoscevano come una persona precisa, tranquilla, metodica, ma quella gara lo agitava. Vi avrebbero preso parte molti giovani, con moto probabilmente più potenti della sua e la cosa lo rendeva nervoso e al tempo stesso impotente. La moglie, come sempre, aveva allineato tutte le sue cose e aspettava solo che lo chiamasse per aiutarlo a vestirsi.
— Dov'è l'amuleto — cominciò a gridare Miguel.
— Ma al solito posto — replicò la moglie.
— Non c'è. Ho cercato dappertutto e non riesco a trovarlo.
Luisa si mise a frugare freneticamente in tutti i cassetti ma quel maledetto amuleto non veniva fuori.
— Senti è molto tardi devo andare.
— Ma non hai mai fatto una corsa senza indossarlo — disse la moglie implorante — fammi cercare ancora ti prego.
— Basta, dovremo pur cominciare a smettere di credere a queste stupidaggini.
Dopo averla baciata frettolosamente uscì di casa.
La sera la televisione comunicò che Miguel Alvarez era morto andandosi a schiantare contro un albero. Pare che avesse cercato di evitare un animale. Forse una volpe.
Miguel temeva quegli adorabili micetti del colore della notte che, all'improvviso, come fanali della sventura compaiono sulla strada. All'improvviso ne vide uno nell'attimo stesso in cui stava sbucando da un curvone ampio e piatto. Cercò disperatamente di evitarlo ma, perso il controllo della moto, finito fuori strada, sbatté contro un albero e morì sul colpo. Per Miguel, quei pochi istanti, si dilatarono all'infinito. "Si vide proiettato verso l'alto e inavvertitamente portò le mani al collo dove realizzò che il suo amuleto non era lì a proteggerlo. Non sapeva cosa gli sarebbe accaduto ma in quel frangente era consapevole del fatto che solo un miracolo poteva salvarlo. Il sangue cominciò a defluire dall'alto verso il basso finché perse la sensibilità delle mani, poi delle gambe e dopo che le forze lo abbandonarono del tutto, la vista si annebbiò completamente. L'ultimo pensiero fu per suo figlio. Lo rivide piccolo, quando tutto serio, lo ascoltava mentre gli raccontava le storie di quel mondo di corse che ora stava svanendo nel nulla. FINE CORSA… FINE CORSA diceva una voce lontana".
Il funerale era gremito di persone venute a salutare "El Centauro". Tutti conoscevano l'ossessione di quell'uomo e sapevano che quel giorno non indossava il suo amuleto. Si chiedevano quindi se quella fosse una morte in qualche modo predestinata, voluta dal fato o se Miguel fosse morto realmente per puro caso.
Dopo che Miguel era partito per la gara il figlio aveva continuato a cercare il talismano freneticamente finché non lo aveva trovato. Era rimasto nascosto fra due camicie come se si fosse voluto nascondere. Quell'amuleto, riposto fra le sue mani aveva cominciato a pulsare, come se fosse vivo. Peccato che fosse nel posto sbagliato.
Molti, nel corso degli anni, gli hanno chiesto che fine avesse fatto l'amuleto. Luigi ha sempre dichiarato di non averlo mai ritrovato, ma nessuno gli ha mai creduto.
NELLA VALLE DEI RE
Gigliola
"Finché vivi brilla. Non affliggerti troppo per alcuna cosa. La vita dura poco, il tempo reclama il suo termine."
Epitaffio di Sicilo
C'era una volta, anche se dicono che non c'era, una minuta bestiola condannata a vivere in solitudine nella Valle dei Re, presso la tomba di Tutankamon, nell'antico Egitto. L'animaletto svolgeva fedelmente il compito di guardiana dei tesori del faraone. Le credenze sacre asserivano senza ombra di dubbio che il Re avrebbe portato il suo corredo con sé, nell'aldilà, ma per secoli, quei tesori non si mossero neppure di mezzo millimetro, così come la mummia, ben sigillata nel sarcofago, mai aveva tentato di prendere il volo.
Anurakamon, "Rana, immagine vivente del mistero", così si chiamava la guardiana della tomba, anno dopo anno meditava sulla scritta della lapide: "La morte coglierà con ali leggere chiunque disturbi la pace del Re", chiedendosi con tanto rispetto, a chi veramente dei due, se al faraone o a lei, fosse riferita. Ma senza risolvere l'enigma, concludeva sospirando:
— In più di tremila anni, troppa pace San Kamon!
Osava però soltanto pensarlo: lamentarsi nella casa di un dio era bestemmia e quindi punibile con svariate maledizioni.
— Se fossi andata a nozze con Fetidokulom, il rospo dagli occhi e le zampette viscide — rammentava la rana — non sarei stata condannata.
— Che tu possa pentirti di essere nata ogni qualvolta un maschio si avvicinerà a te e seguendo le orme del tuo Re, la tua stirpe si estingua! — E con gesto solenne, Fetidokulom ordinò ai suoi schiavi di chiudere la lapide.
— Ora dico, è proprio per non aver contatti con nessuno, che mi chiedo che senso ha la mia esistenza. Quel rospaccio è tutto scemo… Quella poi del non poter procreare del mio faraone è il colmo: quante volte la Regina mi ha spruzzata un po' di pipì per vedere se la mia pelle cambiava colore?
Ben due volte covò in grembo un piccoletto. Anche a loro faccio la guardia. Purtroppo morirono prima di veder la luce per una malformazione congenita. Ma per quanto riguarda me sono perfetta, che diamine!
Inaspettatamente un giorno, proprio mentre esclamava — Ma che noia! Ma che noia! Ma che noia! — sentì che poco per volta qualcuno stava aprendo la tomba, e si disse:
— Sarà il rospo malefico che si è pentito. Era ora… penserà di trovarmi secca, mummificata e magari, si mette pure a piangere…
Ma, un attimo! E se invece fossero dei ladri? Di corsa, alle armi! — e saltellando come una pivella, raccolse e indossò l'elmetto a coronina, e spolverando lancia, scudo, arco e frecce si posizionò in posa d'attacco sopra il sarcofago.
L'invasore si faceva attendere, ma lei non mollava la guardia neppure per un istante. Ed ecco che sradicando la porta, qualcuno oltrepassò la soglia del regno proibito:
— Cosa hai da guardare con quegli occhi da ebete, rostro pallido? Non fare il furbo se non vuoi che ti infilzi! Ma perché ora vieni verso di me? No, non mi toccare! Lasciami, lasciami! — urlava Anurakamon mentre cercava di svincolarsi dall'uomo. Ma lui continuava ad accarezzarla e baciarla, mentre curiosava tra i tesori, e prendendone uno a caso, varcò la porta d'uscita, per poi, stranamente, scomparire per sempre.
Periodicamente, uno dopo l'altro, gli uomini entravano per ammirare e portare via i tesori acchiappando la simpatica ranocchia quale fosse un amuleto, per poi volatilizzarsi.
Anurakamon non capiva perché quegli uomini si dissolvevano nell'aria. Tutto sommato le loro carezze, baci e moine l'avevano ricompensata di tanti secoli di abbandono, di solitudine. E la maledizione del faraone e di Fetidokulom iniziarono a martellarle la testa prepotentemente, al punto di decidere che, all'arrivo del successivo ospite, si sarebbe mimetizzata:
— Eccone un altro, mettiamoci in agguato! — e si nascose.
L'uomo portava una valigetta a strisce metalliche, tipo una gabbia per leoni nani. Anche se incuriosita, Anurakamon si coprì gli occhi e non ne volle sapere. Sentiva però che quell'uomo, diversamente dagli altri, si muoveva con cautela, parlando sottovoce all'ospite della valigetta:
— Senti Beppinino, qui rana velenosa ci cova, ne sono certo. Altroché scorpioni, muffe o metalli tossici, la responsabile di questa strage è una rana della famiglia Anura. La scopriremo e la mangeremo arrosto, vedrai! Dove sei? Ranocchiettaaaa?
— Cosa? Io velenosa? Velenoso il rospo! — esclamò la rana e in men che non si dica Beppinino la scovò. Ma la vide così piccolina e graziosa nei suoi movimenti, con quegli occhi di incantevole innocenza, che non professò canto.
Stanco di cercare, Lord Pasqualin, il padrone di Beppinino, uscì per prendersi una pausa, lasciando la sua mascotte all'interno della tomba:
— Come mai non mi hai tradita, Beppinino? — spuntò la rana.
— Perché non sai di portarti appresso tutto quel veleno. Tu non volevi uccidere nessuno, ne sono certo. E poi, dal primo momento che ti ho vista… — rispose lui.
— Non essere ridicolo quanto il tuo nome. Su, sputa il rospo! Ormai di Fetidikulom sono vaccinata!
— Ma perché sei così acida? Sento che sotto sotto sei una ranocchia d'oro, che hai sofferto per i veleni altrui che hai fatto tuoi sulla tua pelle. Se esci di qui e vieni nella mia gabbietta, non mangerai più alimenti tossici e chiunque ti toccherà godrà di mille benefici.
Vedi, il Lord, mi porta sempre con sé perché quando ha la schiena rotta io gli appoggio le mie zampette piene zeppe del miglior antidolorifico. Ecco che lui si rilassa in uno stato inebriante. Ma io mangio tante verdurine fresche, come Lumachina, una mia amica.
Riguardo al mio nome, beh, sono di origine italiana.
Per il resto, non so a quale rospo ti riferisci, io sono puro sangue ranocchio.
In quel momento, mentre professava un intenso canto d'amore ad Anurakamon, Beppinino aprendo la gabbia la invitò ad accomodarsi.
Lei, inquieta, si irrigidì pensando alle maledizioni, ai suoi anni e ad altre mille cose contorte e confuse che passavano nella sua testa.
Ma una zampetta d'istinto si mise in flessione, e poi anche l'altra. Diede uno sguardo nostalgico e di disprezzo alla sua tomba, per poi, con un salto irrefrenabile, raggiungere il ranocchio in un abbraccio.
Generazioni e generazioni di rane e ranocchi dell'Inghilterra raccontano che una tale Anurakamon migrò da loro da un regno lontano. Che quella rana fu così tanto amata dal suo ranocchio da non doversene pentire mai di essere nata. E che il giorno che passò a miglior vita confessò gioiosamente che il viaggio che stava per intraprendere non era quello dell'aldilà, ma la certezza della prosecuzione della sua stirpe su questa Terra. E infine, che con un insolito gestaccio durante l'ultimo sospiro, esclamò:
— Alla faccia tua, rospo Fetidokulom!
L’UOVO DEL DIAVOLO
Mastronxo
Sono seduto in terrazza, e mentre un’ape si coccola sotto un sole incredibilmente caldo per essere ai primi di Novembre, penso a quanto sia strana la vita. Così, all’improvviso, mi è venuta voglia di mangiare un paio di uova, ma non di quelle comprate al supermercato, grosse come pomodori, ma che come i pomodori sanno di acqua e sono pallide come lune; il problema è che, quando mi viene voglia di mangiare un paio di uova degne di questo nome, ancora calde di covata, col tuorlo rosso e piccole e dolci come albicocche, mi viene sempre in mente mia nonna. E il suo pollaio.
Una volta che ero piccolo (mi ricordo che eravamo in estate perché si stava raccogliendo il fieno e la sera stessa mi era venuta una febbre allergica mica da ridere), la nonna mi aveva ordinato, o mi aveva chiesto, di andare a prenderle le uova.
«Mé racomàndi: fa’ no cascàr gnànca òna, ve’!» e poi, come sempre, s’era fatta il segno della croce. Io, che ero bambino e molte cose le capivo ma altre no, ero convinto che quella raccomandazione me la facesse perché le vendeva al mercato il sabato pomeriggio e non voleva perdere neanche il duecento lire di un uovo caduto per sbaglio. Il segno della croce era una delle cose che non mi tornavano, ma immaginavo che i vecchi se lo facessero anche quando dovevano accendere il televisore o durante le giornate di pioggia, non so se per farle durare o smettere. Entrambe le cose, pensavo.
Fatto sta che avevo messo giù la forca con cui si raccoglieva il fieno ed ero corso in direzione del bosco, con nonna che urlava: «No per di là, no per di là, che s’è pién di spìn!», riferendosi ai rovi e alle robinie che per me rappresentavano solo avventure e mostri, e principesse legate da lasciar lì a soffrire. Non sono mai stato un gran cavaliere, neanche da bambino. E poi, dal bosco ci mettevo pure meno tempo che a passare per la strada.
Il pollaio era piccolo, non certo uno di quegli allevamenti enormi in cui i polli stanno immobilizzati in una gabbia e vivono solo per mangiare, covare, dormire, mangiare, covare, morire. Ne avevamo una quindicina, di galline, e ancora oggi non so quanto darei per sentire di nuovo quel buon odore di guano e erbe secche e terra fresca che allora mi proteggeva, silenzioso e sicuro come un padre, dal mondo di fuori. Quando la porticina in legno cigolava per farmi entrare, oltre ai meravigliosi profumi che ho già menzionato, mi accoglieva un chiacchiericcio soffuso che sembrava di entrare in una stanza piena di mamme che cullavano i loro bimbi. I volatili prendevano a fissarmi, curiosi e un po’ impauriti: non si ricordavano mai che ero io, né avevano idea di cosa fossi andato a fare da loro. Rispondevano a un solo richiamo: il barattolo pieno di granaglie che agitavo per chiamarle verso di me, e guai se non gliene concedevo una manciata quando erano tutte ai miei piedi a guardare in su. Insomma, una volta che le avevo richiamate dai loro giacigli con il solito giochetto, potevo impossessarmi delle uova di cui ormai si erano scordate. Mentre si accanivano sul terreno coi loro becchi, agguantavo il cestino di vimini e mi davo da fare pure io: c’erano giorni che riuscivo a riempirlo quasi tutto fino all’orlo. E quello era uno di quei giorni: l’ultimo uovo proprio non si decideva a starsene in equilibrio dove lo mettevo.
Ora che ci penso, sarebbe stato più saggio metterselo in una tasca della tuta o, ancor meglio, tenerlo nella mano libera. Ma non ci avevo pensato, semplicemente. O, semplicemente, era una delle solite sfide infantili che intraprendevo con me stesso. Il punto è che, a un certo punto, mi era sfuggita la presa e l’uovo si era schiantato nella polvere, spargendo il proprio contenuto vischioso in ogni direzione come fosse stato un fantasmino pesto. Qualcuno dietro di me aveva gridato.
«Oh Maria Vergine, oh Maria Vergine! Ma cosa hai fato tì, ma cosa!».
Mi ero spaventato tanto che per poco non avevo fatto cadere tutto il cestino. Mia nonna era lì, affacciata all’ingresso del pollaio, a disperarsi con le mani sulla fronte, poi con le mani sugli occhi, poi con le mani nei capelli. «Maria Vergine, oh Maria…» sussurrava senza sosta, e giù segni della croce a ogni sillaba.
Io avevo provato a rassicurarla, spiegandole che l’uovo gliel’avrei pagato, che le duecento lire le trovavo senza problemi, ma lei non si calmava e anzi i suoi lamenti diventavano sempre più confusi. Alle “Vergine Maria” si era presto aggiunto un nome un po’ più cupo che suonava come “il Diavolo, il Diavolo” e ancora segni della croce, e “Diavolo, Diavolo”. Alla fine, in mezzo a tutti quei piagnistei, credo di aver capito che, secondo lei, il Diavolo potesse intrufolarsi nelle uova delle galline per poter entrare in casa alla gente e che, se l’uovo ti cascava in terra per sbaglio, il demonio veniva fuori e ti si attaccava addosso. Io credevo ai mostri, agli spettri, ai morti che parlano, ma al Diavolo no: ci credevano troppi adulti, al Diavolo. Da quel giorno, comunque, nonna non mi ha più permesso anche solo di guardare da lontano i suoi pennuti o di parlarle prima di avermi bagnato con una certa acqua contenuta in una madonnina cava. L’avevo presa per matta.
Poco dopo, siamo stati costretti a comprare un appartamento lontano dalla casa in cui ho passato l’infanzia, per dei motivi che non sto qui a raccontare. So solo che, quando sto sul terrazzo, come ora, e come ora guardo le strade sotto di me serpeggianti di veicoli, e vedo la gente che corre per non pensare alla propria solitudine o sento il puzzo di quella che è diventata la mia vita, basta che un’ape si appoggi su una delle mie piantine perché mi tornino in mente mia nonna, il suo pollaio e quell’odore meraviglioso di cose vive e frementi, incorniciate dal sussurro dei campi che parlano col vento. E il Diavolo, certo, lui non me lo scorderò davvero più. Quello non mi si è mai staccato di dosso. Ho iniziato a credere da molto tempo che esista davvero, il Diavolo.
2009
Ser Stefano
Sabina sedeva immobile. Davanti a lei, sul tavolino, il mazzo di tarocchi. Tutto intorno, nella tenda, un caos di cianfrusaglie esoteriche di dubbia provenienza, poste in modo meticolosamente casuale, il cui unico scopo era di mettere in soggezione i clienti.
La luce di poche candele rendeva lei e l'interno della tenda molto suggestivo, ai limiti dello spettrale. Un effetto voluto e calcolato.
Scrutava il via vai di persone della sagra paesana. Era l'ultima sera di festa e c'era grande affluenza. Facili guadagni alle spalle dei soliti creduloni.
Aveva già individuato il primo "pollo", come li chiamava lei. L'uomo, poco prima, si era fermato a leggere i cartelli posti all'ingresso della tenda, poi era andato a prendere un boccale di birra ma guardava sovente verso la sua postazione di cartomante. Sabina sapeva che avrebbe ceduto presto alla tentazione di "farsi le carte", e lei gli avrebbe raccontato ciò che voleva sentirsi dire. Nulla di più.
Sabina sorrise quando vide l'uomo incamminarsi deciso verso la tenda e si preparò mentalmente ai soliti piccoli inganni per convincere l'uomo delle sue capacità paranormali. Era un giovane sui trent'anni, capelli corti e ben vestito. La salutò cortesemente con un — Buonasera — che aveva una lieve tonalità dell'Est Europa. Sabina aveva già tutte le informazioni per costruire le preveggenze.
L'uomo sedette davanti a lei, si accordarono sul prezzo e venne pagata anticipatamente. Spiegò brevemente come funzionavano i tarocchi: Avrebbe estratto una carta per il passato, una per il presente e una per il futuro. L'uomo annuì.
Gli chiese di toccare il mazzo con la mano sinistra, poi chiuse gli occhi e iniziò a mescolarle con esperienza. Farfugliava piano parole incomprensibili, sillabe a caso, che nemmeno lei sapeva cosa volessero dire.
Rimise il mazzo sul tavolino e si concentrò, o perlomeno questo fu quello che diede a vedere.
Eliminò la prima carta del mazzo, poi ne ordinò tre, coperte, al centro.
Sabina informò l'uomo che la carta che andava a scoprire sarebbe stata quella del suo passato e girò quella alla sua sinistra: L'Asso di spade. Rappresentava dispiaceri e ingiustizie.
— Da piccolo o in gioventù — iniziò cauta Sabina — Lei ha subito dei torti — Sabina sapeva bene che chiunque aveva ricevuto ingiustizie, piccole o grandi. Era un modo sicuro per iniziare una lettura.
L'uomo abbassò lo sguardo e Sabina capì di aver colpito in pieno quindi rincarò la dose per ampliare l'effetto. — L'asso rappresenta la massima espressione. È così? Ha avuto un dolore molto grande quando era bambino? —
L'uomo annuì nervosamente il capo, sempre tenendo gli occhi bassi.
Sabina sorrise internamente. Era suo!
Scoprì la carta centrale: Il Cavaliere di spade.
— Significa che i problemi persistono anche nel presente — scrutò il volto dell'uomo alla ricerca di indizi. Un sorriso amaro gli corrucciò la bocca e Sabina intuì di essere sulla strada giusta. Ora bastava dare all'uomo un po' di speranze cui aggrapparsi — Il Cavaliere simboleggia però un cambiamento, un evolversi della situazione, un lungo viaggio forse — azzardò.
L'uomo alzò di scatto gli occhi dalla carta e la fissò stupito — Domani — disse incredulo — parto per l'Africa, e non so quando tornerò.
'Benissimo' pensò Sabina annuendo come fosse una cosa banale, frutto delle sue grandi capacità medianiche.
— Vediamo cosa le riserva il futuro — scoprì la terza e ultima carta che rivelò uno scheletro armato di una logora falce: La Morte.
Quella carta, nel futuro di una persona, non voleva dire inderogabilmente qualcosa di negativo ma anche spiegandolo al "pollo" di turno, non faceva mai una bella impressione. Mise allora in atto lo stratagemma che aveva già utilizzato nelle rare volte che era uscita la tetra figura.
— Non sempre la Morte è un cattivo presagio, simboleggia anche un radicale cambiamento, spesso positivo — l'uomo era perplesso, per niente convinto.
Sabina lo capì subito e proseguì con il raggiro — Ma noi siamo i fautori del nostro destino e nulla è scritto. La carta mi porta a un cambiamento, evidenziato anche dal Cavaliere di spade. E se lei vuole, è possibile cambiarla, con un'altra carta.
L'uomo annuì subito, ovvio. Il gioco del cambio di carta funzionava sempre. E Sabina pensava già che, appena finita la lettura, avrebbe consigliato l'acquisto di qualche inutile profumo miracoloso, per rafforzare il fantomatico cambiamento.
Sabina prese la carta della Morte e la coprì scenicamente ponendola a lato. Estrasse un'altra carta dal mazzo e la mise sul tavolo.
Due cose la fecero prima stupire, poi impallidire. La carta non era una sola. Erano rimaste appiccicate insieme due carte, non le era mai successo.
Simboleggiavano rispettivamente il Mondo e… la Morte. E questo era l'aspetto più inquietante poiché, all'interno di un mazzo di tarocchi, esiste solo una carta per tipo.
Fissò l'uomo, incapace di proferire parola e di trarsi d'impaccio. Lui la guardava interrogativo e un po' allarmato.
Gli occhi dell'uomo si espansero nella testa di Sabina, rendendo tutto confuso. Una vampata di calore l'attraversò come una febbre che arrivi in un istante. Sabina vacillò e per un attimo si sentì lontana chilometri dal corpo.
Una voce le arrivò da dentro la testa. Ricordò che non era la prima volta che la sentiva. Era già successo, quand'era bambina. Le aveva tormentato molte notti. Le diceva cose. Cose che non voleva ascoltare. Poi crescendo, era sparita. E con lei, il ricordo.
Ma ora, urlava nella sua testa, tanto forte che capiva poco o niente di quello che diceva.
Si portò le mani alle tempie, colta impreparata al fitto dolore. Immagini confuse e flash deliranti le passarono nella mente come un treno lanciato a folle velocità. Sabina fu scossa da un forte tremito. Gli occhi si spalancarono e la bocca si aprì, come a voler urlare, ma nessun suono ne uscì.
L'uomo balzò in piedi, spaventato. La sedia si rovesciò a terra, di lato.
Sabina agitò la mano verso di lui, come per prenderlo ma non ci arrivò. Gli occhi lo fissavano atterriti ma sembrava non vederlo realmente. Grosse lacrime iniziarono a scavalcare le palpebre, scivolando veloci sulle guance. Il viso tirato: — Tu — disse piano con voce rotta — Non puoi davvero volere che succeda.
L'uomo era indeciso se ascoltare o andarsene, scappare lontano da quella pazza. Era entrato per curiosità, divertimento. Ora aveva paura.
— Non puoi farlo — disse Sabina singhiozzando forte.
L'uomo disse qualcosa nella sua lingua, probabilmente un insulto, e uscì in fretta dalla tenda. Adesso voleva solo allontanarsi il più possibile da lei.
Sabina urlò, con quanto fiato potesse avere un essere umano — Non devi farlo, Conrad!
SOLO UN PIZZICO...
Davide Sax
Spero che quanti leggeranno queste pagine vorranno perdonare la mia forse eccessiva libertà, ma questa è una storia che non riesco a tenere per me. Troppa è l'angoscia… troppi i sensi di colpa. Come ispettore di polizia non dovrei lasciarmi trasportare in questo modo, l'oggettività è un articolo del mestiere. Come la pistola d'ordinanza, o il computer. Ma se abbandonassi gli avvenimenti di quella sera fra le pagine di un freddo verbale, forse non riuscirei più ad alzarmi la mattina.
Giorgia poggiò la teglia sui fornelli e respirò il buon odore di carne e rosmarino, quegli involtini avevano un ottimo aspetto. Samuele li adorava, erano uno dei suoi piatti preferiti, e quella sera aveva deciso di farlo felice.
Ne assaggiò uno, erano ottimi. Canticchiando un motivetto sentito alla radio qualche ora prima si dedicò alla tavola apparecchiata, adagiandovi sopra il rosso appena scaraffato e centrando meglio le scodelle per la crema di funghi.
La porta di casa si aprì e Samuele fece capolino da dietro la porta della cucina.
«Ciao amore» lo salutò, finendo di preparare il tagliere con il formaggio.
«Come sta il mio coniglietto?» chiese lui cingendole la vita e stampandole due morbidi baci sul collo.
Lei si crogiolò per qualche istante nel suo abbraccio. «Benissimo!» disse poi, fingendo di divincolarsi dalla sua presa. «È tutto pronto manca solo un pizzico…» ma la boccetta le scivolò e si ruppe, riversando una miriade di piccoli granellini bianchi sul pavimento.
Il ceffone fu talmente forte da scaraventarla contro una sedia.
«Ti prego, ti prego non l'ho fatto apposta…» strillò lei in preda al panico.
«Stupida!!» Un altro ceffone, e Giorgia finì a strisciare sul pavimento assieme ai granellini bianchi e ai cocci rotti.
Suo marito si chinò su di lei, che cercava inutilmente di ritirarsi in un angolo tra lacrime e singhiozzi disperati. «Queste — cose — non le — devi — mai — fare! Mai!!» Ogni parola di quello sfogo fu accompagnata da una percossa. «E adesso tira tutto su immediatamente! Immediatamente!!»
Giorgia rimase ancora per un secondo ferma con le mani sulla testa, tremando. Un secondo di troppo.
«Ora!!» L'urlo fu talmente forte contro il suo timpano che lei provò dolore. Con la forza della disperazione si tirò su e prese a sistemare il disastro che c'era sul pavimento.
Come era accaduto altre volte, in quel momento la sua mente prese distanza dal corpo. Vide le mani muoversi, dapprima per conto proprio e poi con lo scopettino in mano, mentre le gocce di sangue cadute dalle sue dita andavano a mescolarsi al bianco sparso in giro. Dovette anche pulirsi la camicetta perché nulla vi rimanesse attaccato sopra, e i capelli.
Lui per tutto quel tempo la osservò imperturbabile, battendo i tacchi delle scarpe a ritmo alternato in perfetta simmetria: due volte il destro e due volte il sinistro, due volte il sinistro e due volte il destro; due volte il sinistro e due volte il destro, due volte il destro e due volte il sinistro; e così via.
Quando Giorgia ebbe finito suo marito si sedette a tavola, sulla stessa sedia contro cui l'aveva sbattuta poco prima, servendosi un involtino. Giorgia avrebbe voluto scappare, sarebbe dovuta scappare, magari chiamare la polizia (no, la polizia non poteva chiamarla), invece si sedette a tavola accanto a lui, prendendo un involtino anche per sé. Samuele versò a entrambi un bicchiere di vino e dopo il cin batterono sul tavolo prima di bere. «Allora, com'è andata oggi?» Le chiese.
Quella notte, come molte altre notti, Giorgia pianse in silenzio. Come molte altre notti si disse che avrebbe dovuto andarsene, che poteva andarsene. Se avesse chiamato la polizia… No, la polizia non la poteva proprio chiamare. Ma se fosse andata via, scappata, rifugiata in un qualche ostello dove lui non avrebbe potuto trovarla…
Si alzò piano, per non svegliarlo.
Trovò la bottiglia di amaro ancora aperta sul tavolino, quella che era servita per alleviare il dolore. Se ne versò un altro bicchiere.
A volte la sua mente aveva un accenno di ribellione, di distacco, di ritorno al normale. Aveva solo fatto cadere una boccetta di… dannazione! Non era più capace di pronunciare certe parole, ormai non era quasi più in grado di pensarle, proprio come lui. Per un attimo provò rabbia.
Bevve ancora.
Gli aveva preparato gli involtini che a lui piacevano tanto, e la crema di funghi, ci aveva impiegato tutto il pomeriggio. Si era immaginata la sua espressione felice mentre li guardava e il caldo bacio sulla guancia mentre le diceva quanto erano buoni.
Il tagliacarte era già uscito dal cassetto e lei era già in piedi. Era come quando veniva picchiata, non era veramente dentro al suo corpo. Era lì fuori, che guardava.
Pochi passi per percorrere il corridoio buio, uno per entrare nella stanza. Pensava che avrebbe avuto paura, invece non provava nulla. Sapeva cosa doveva fare e sapeva perché lo stava facendo.
Ora che sono davanti a questa porta incerottata di giallo ripenso a come un semplice errore possa portare a una catastrofe. Ricordo la scena che si presentò agli inquirenti la mattina, con tutto quel sangue a imbrattare i muri della camera matrimoniale, sangue che sapeva di sconfitta.
Ora che vi ho raccontato tutto però mi sento meglio, decisamente meglio. Grazie.
Forse questo sarà bastato ad allontanare la sf… Vi prego ancora di perdonarmi.
Non so perché. Ma io, certe parole, non riesco proprio a dirle.
LA LEGGE DEL TRE
Arianna
Anna piangeva, trascinata nella danza del sussulto dei suoi singhiozzi, e si chiedeva com'era possibile che Luca non l'amasse più. Come poteva amare un'altra donna? L'aveva lasciata, dopo tre anni in cui erano stati felici, insieme. Ma poi lui le disse:
— L'amore finisce. Ora amo un'altra e vado via.
Anna era rimasta pietrificata senza dire nulla, ma poi le lacrime erano iniziate a sgorgare come lava da un vulcano, bruciando, come ardeva il suo cuore in pezzi, diventato ormai un meteorite che avrebbe potuto colpire l'universo intero e distruggerlo. Non provava più amore, ma solo odio.
— Ti maledico, Luca; dovrai provare lo stesso dolore che mi hai lasciato come dono, — urlò, guardando quella porta che lui aveva chiuso dietro di sé.
Le sue amiche le dicevano:
— Calmati, Anna, e non aver pensieri cattivi, tornano tutti indietro e ti farai del male.
Ma lei non ascoltava nessuno, e tutti i suoi pensieri viaggiavano verso la corrente della vendetta.
— Anna, calmati. Il pensiero ha una forza e potenza che avrà degli effetti. Se ti nutri del male, questo tornerà da te, ricorda la legge del tre… l'effetto su di te sarà triplicato.
Ma l'odio rende sordi e ciechi. È una capsula senza fessure, che ingloba il tuo essere. Ti fa respirare con la sua potenza, così sublime da farti sentire invincibile. L'universo intero sembra un tappeto disteso sotto le tue mani, che puoi modificare semplicemente con un delicato tocco, come fosse morbida creta.
Anna preparò il suo rito.
Chiuse la finestra. Mise una tovaglia rossa sul tavolo, dove poggiò un candelabro con una candela rossa.
Ormai, lei aveva attirato attorno a sé presenze invisibili arrivate ad alimentare il suo desiderio di sofferenza, che la guardavano divertite.
— Non male, per una principiante.
— Già, la carica di odio è così forte, che qualche cosa riuscirà a combinare.
Anna seduta, davanti al tavolo, accese la fiamma della candela. Guardò quella lingua luminosa salire e vibrare in alto.
— La forza del fuoco distrugga la tua felicità — invocò.
Prese una foto di Luca e ne poggiò un angolo sulla fiamma che spargeva una sfera luminosa, mentre la cera iniziava a colare. La fiamma lentamente colorava di rosso la foto, che si trasformava in cenere, poi velocemente Anna vide sbriciolarsi quel volto sul quale aveva posato le sue labbra tante volte, e disse:
— Soffrirai Luca, tanto quanto soffro io.
Soffiò sulla candela, che si spense.
Soddisfatta, raccolse le ceneri in un pezzo di carta. Le gettò nel water e scaricò l'acqua. Si sentì più leggera.
— Eh no, no…
— No, infatti. Non ha chiuso bene il rito. Ci sarà un problema.
I compagni invisibili erano ormai una parte inscindibile da Anna, fino a quando non sarebbe giunta una nuova consapevolezza.
La luna slittò nel suo ultimo quarto, mostrando nel cielo la sua sfera completa.
Seguirono giorni in cui Luca percepiva qualcosa di strano. Un inspiegabile malessere gli dava un senso d'insicurezza. La sua nuova donna, Marta, lo guardava come se non lo vedesse.
Erano trascorsi solo due mesi, da quando erano andati a vivere insieme. Eppure, l'ebbrezza del nuovo amore sembrava già discesa in un silenzioso appiattimento.
Un pomeriggio, tornando a casa dal lavoro, per evitare una strada dove le auto erano imbottigliate nel traffico, Luca girò con la sua in un'altra direzione. Al primo semaforo rosso si fermò. Si girò a sinistra e vide Marta, sull'auto vicina, che baciava un altro uomo. Scese dalla sua auto e aprì la portiera chiusa a fianco di Marta. Lei sbiancò; lui la afferrò per un braccio e la trascinò fuori. Il semaforo diventò verde e l'altro fuggì senza esitare.
— Perché, Marta?
— L'amore finisce, Luca…
— Andiamo a casa.
Luca guidò in silenzio senza dire una parola. Marta lo guardava spaventata, perché non sapeva cosa sarebbe accaduto. Sentiva nell'aria una pesantezza che la soffocava. Luca parcheggiò sotto casa e salirono, ancora in silenzio. Aprì la porta di casa e le fece cenno di entrare.
Marta percorse il corridoio, fino alla soglia del soggiorno. Avanzò ancora di qualche passo, poi si girò a guardar Luca, che le disse:
— Che cosa finisce, Marta, cosa?
La colpì con uno schiaffo sulla guancia e lei pianse, inginocchiandosi a terra per il dolore. A Luca girò la testa e s'inginocchiò abbracciandola, piangendo insieme a lei. Le loro lacrime si unirono in una carezza d'amore e Marta sembrò risvegliarsi da un incantesimo.
— Perdonami amore… non so cosa mi sia successo.
In quel momento, Anna sentì un gran calore.
Luca e Marta rimasero abbracciati, a piangere e a baciarsi. Si sentivano più leggeri e finalmente respiravano bene, come se si fossero liberati di qualcosa che li teneva prigionieri e distanti l'uno dall'altra.
L'energia che Anna aveva creato con il suo odio stava per prendere una nuova forma, quella del colpo di ritorno.
— Io, o te? —, Chiese uno dei due.
— Io.
Una delle due presenze soffiò in terra. Anna si voltò, e vide che il tappeto in salotto stava andando a fuoco. Riempì una pentola d'acqua, ma nel frattempo le fiamme avevano già raggiunto il divano.
Il fumo le fece perdere i sensi. Si risvegliò in un letto d'ospedale. Aveva il volto e le mani fasciate. Nessuno capì come il resto del corpo fosse rimasto illeso.
Ma Anna capì. Le sue mani avevano dato fuoco al volto di Luca nella foto. Tutto l'odio le era tornato indietro. Percepì una sensazione lontana di amore, e pianse. Le lacrime le rinfrescarono la pelle arsa protetta dalle bende. Si stava spargendo una sensazione di freschezza e di leggerezza. Forse era vero, che l'amore finisce, e si sarebbe dovuta rassegnare, curandosi con il perdono. A quel pensiero, anche le sue mani non bruciavano più. Stavano per dissolversi anche le presenze che la custodivano nell'odio.
No, Luca non poteva essere felice senza di lei, non se lo meritava… e lei non voleva trascorrere i suoi giorni nella valle dell'abbandono. Meglio morire nel fuoco della passione, che spegnersi nell'ombra. I suoi amici tornarono verso di lei, nel richiamo del sentimento che li aveva creati. Osservarono il fuoco accendersi dalla testa di Anna, si sparse per tutto il corpo, fino a lasciare solo cenere. Poi sparirono.
BACI ALL'ASFALTO
Exlex
"Non capisco perché il destino, ogni volta che inventa
una ***** nuova, la prova subito su di me."
(Giorgio Faletti)
Non sono mai stata superstiziosa.
Sono cresciuta in una famiglia molto cattolica, dunque i miei genitori mi hanno sempre insegnato a non credere a certe baggianate.
Tuttavia, alzi la mano chiunque, al mio posto, non si sarebbe arreso all'evidenza dei fatti.
Io, incredibilmente, non ancora.
C'è chi crede che in certe date o certi giorni della settimana possano succedere disgrazie, di conseguenza bisogna prestare attenzione e premunirsi di qualche oggetto che possa portare bene.
La prima volta non ci ho fatto caso, naturalmente.
Semplicemente attraversai la strada dopo che il pulmino giallo mi aveva depositata sul ciglio di fronte a casa mia.
Plausibilmente stavo dormendo in piedi, come è consono a una ragazzina di dodici anni dopo una stancante giornata di otto ore di scuola. Forse si aggiunge il fatto che ero fissata con Need For Speed Most Wanted, e avevo smania di tornare a giocarci.
Fatto sta che proprio non lo vidi. Tutti si dilettano a superare il limite su quell'invitante, ampio rettilineo scuro.
Il conducente, con molta probabilità, si spaventò più di me quando sentì quel colpo sul paraurti. Mia madre, dal canto suo, sentita la violenta frenata, uscì correndo preoccupata e pregante che non fosse successo niente.
Io invece ero emozionata. Non riuscivo a stare in piedi per il dolore alla caviglia, ma riuscii a guadagnare un'occhiataccia da parte dei presenti a causa del mio incongruo sorriso.
Il giorno dopo diventai il mito dei miei compagni di classe: ero la sopravvissuta a un incidente stradale, avrei potuto lasciarci le penne, avevo guardato in faccia la morte. E la fasciatura alla caviglia lo testimoniava chiaramente.
Tra tutto, ricordo che qualcuno dei miei parenti esclamò: «Oh, proprio il giorno dell'anniversario del nonno!»
Era vero: mio nonno era morto di cuore il 14 novembre 1997. In realtà non lo ricordavo benissimo, avevo solo qualche sporadico flash di lui che mi urlava occasionalmente: «Moeghea de pestarme i raìci so'l campo!»
Dopo due settimane circa la mia caviglia era tornata a posto e non ci pensai più.
Almeno per i due anni seguenti.
Esatto, avete indovinato.
Era il 14 novembre.
E stavo tornando a casa da scuola.
Forse non avrebbero dovuto mettere quella cabina della fermata dell'autobus proprio in quel punto. Ma penso c'entrasse anche il fatto che il tizio non mi aveva minimamente notata mentre tiravo tranquillamente dritta per la mia strada. L'urto fu peggiore del precedente: ci rimisi un ginocchio sbattendolo contro la carrozzeria della vettura e volai sopra il cofano. Caddi faccia in giù sull'asfalto, in un bacio freddo che mi lasciò briciole nere sulle labbra.
Mi rialzai barcollante e cercai di dirigermi verso casa, totalmente confusa dalla situazione.
«Fermati! Ehi! Ferma, dove vai? Guarda che hai ragione tu!» la voce mi riscosse ridandomi un po' di lucidità mentale. Apparteneva a un uomo biondo che guidava un furgoncino blu. Mi voltai, guardando il conducente della macchina con cui avevo appena avuto un incontro anche troppo ravvicinato.
«Trent'anni che guido e mai fatto un incidente. Trent'anni! Mai fatto un incidente!», continuava a ripetere, scioccato. Mi fece salire in macchina per portarmi al pronto soccorso, senza smettere la sua cantilena. Non riuscii a trattenermi e con la mia migliore faccia tosta gli dissi: «Embé? Io ne ho quattordici e questo è già il secondo!»
Scoppiai in una risata, e l'uomo ne fu rincuorato.
Mia mamma e mia nonna mi raggiunsero al pronto soccorso, trovandomi sanguinante e seduta su una sedia a rotelle prima di essere chiamata. Tentarono di abbracciarmi, scostandosi al primo gemito che emisi a causa della compressione delle mie costole livide.
Passai i successivi due mesi e mezzo a gareggiare contro il tempo correndo sulle stampelle e scorticandomi allegramente le mani.
Coincidenze?
Sarebbe bello.
Io personalmente non ci credo molto.
So solamente che questa è una storia troppo assurda per essere vera: tutti i miei interlocutori rimangono basiti a sentirla.
Ma lo è.
Avevo sempre voluto scriverla, in modo da non scordarmi tutti i dettagli, almeno prima del prossimo quattordici novembre.
Manca poco, come potete vedere dalla data del post.
Pochissimo.
Sto partendo: vado a Belluno per un meeting degli animatori. In qualsiasi caso, vi lascio i miei più cari saluti.
Spero di risentirvi lunedì, il quindici.
L'ARUSPICE
Dandyx
Appena sveglio, si precipitò fuori dalla porta in pigiama e babbucce. Lo attendeva una lettera adagiata sullo zerbino. Seduto sul wc a esplicare i suoi bisogni la scartò e iniziò a leggere:
"Si sconsiglia di mettersi alla guida di veicoli a motore poiché il sole disturba la vostra concentrazione e vi fa sentire stanchi e distratti.
L'Aruspice."
— Ora basta! — esclamò Bernardo guardando fuori dalla finestrella del bagno; il cielo mattutino era una sterminata, carica d'acqua, coltre di nubi. Stracciò la lettera e la gettò via con rabbia.
— Come può pretendere che non utilizzi la macchina in un giorno come questo; devo andare al lavoro, gli autisti sono in sciopero, e del Sole non c'è manco l'ombra! Se ci fosse scritto "mangia con i piedi" lo seguirei, ma questo… questo è francamente troppo!
Le lettere dell'Aruspice erano comparse un giorno e, da allora, non avevano mai smesso di arrivare.
Ogni mattina Bernardo sapeva che lo attendevano, pazienti sullo zerbino, le istruzioni su come comportarsi per il resto della giornata. Tutto ciò che conosceva dell'autore era lo pseudonimo. Chi era? Cosa voleva da lui? Era mai possibile che un uomo, nel ventunesimo secolo, leggesse ancora le viscere degli animali per conoscere il futuro?
Altra problematica, di non poco conto, era quella relativa alla pena per un'eventuale defezione. Anch'essa non trovava risposta. Era proprio su questa indeterminatezza che allignavano le paure di Bernardo; si immaginava le sciagure più grandi per qualsiasi atto contrario a quelle istruzioni così incomprensibili. Per questo le osservava scrupolosamente. La mattina in cui trovò la prima lettera, trascorse tutto il giorno in casa per decidere che fare.
Alla fine, stremato dalla valanga di quesiti insoluti che gli opprimevano la mente, si addormentò sul sofà. Destatosi al tramonto si rese conto di aver fatto esattamente ciò che gli era stato prescritto: "rimani a casa e riposa sino al crepuscolo."
Così, quando arrivarono le altre lettere, si convinse di essere tenuto a rispettarle per non incorrere nella mala ventura. Sebbene non fosse superstizioso, preferiva non rischiare.
A meno che, come era appena successo, gli venisse richiesto un impegno così ingente da collidere con la sua pigrizia. Era così pigro da divenire quasi coraggioso nel difendere le sue comodità dall'ingerenza di quel divinatore da strapazzo. La macchina in un giorno di pioggia era irrinunciabile. Ciò comportò una piccola, ma significativa rivoluzione: Bernardo decise di disobbedire.
In ufficio tutti si accorsero che c'era qualcosa di diverso in lui, ma imputarono il cambiamento al taglio di capelli.
Trascorse la pausa pranzo con i suoi colleghi, nonché amici occasionali, Tino e Pino. Loro erano inseparabili come due testicoli; un rapporto di amicizia solido e ammirabile, sebbene si reggesse sulla loro totale idiozia.
Quella volta, mentre condividevano il pasto, provò uno strano piacere a ostentare la sua nuova sicurezza. Il resto della giornata lavorativa trascorse senza particolari sconvolgimenti. Alle sei in punto Bernardo spense il monitor, salutò la segretaria, e filò via indisturbato.
Fermo al semaforo rosso Bernardo guardava la pioggia bussare sul parabrezza e, come sospinti anch'essi dal temporale, riaffiorarono alla mente i comandamenti dell'Aruspice. Sorrise. Aveva infranto il suo vincolo di dipendenza e ne era uscito incolume! Fece un lungo respiro e ripartì a tutto gas non appena scattò il verde.
La Punto prese velocità in un baleno; bastarono sessanta secondi netti per passare da zero a ottanta chilometri orari. A folle andatura si apprestò ad aggredire la prima curva; predispose le mani sulle dieci e dieci, ma un attimo prima di svoltare qualcosa attirò la sua attenzione. I suoi organi prensili rimasero inattivi, inutilmente fermi come le lancette di un orologio rotto, e Bernardo si andò a schiantare contro una fila di macchine. Boom!
Qualche giorno dopo Tino e Pino andarono a trovarlo in ospedale. Lì incontrarono la segretaria, che volle informarli sulle condizioni di Bernardo.
— Bernardo potrebbe apparirvi diverso, — li ammonì e aggiunse.
— Non ha riportato alcun danno fisico; il problema è di altra natura. Da quando è uscito fuori strada vive in uno stato catatonico simile al coma. Sta tutto il giorno con gli occhi sgranati a fissare il vuoto e poi di tanto in tanto farfuglia qualche parola senza senso. Sostiene che l'incidente sia stato causato dal Sole. Capite? Il Sole in un giorno di pioggia; roba da matti! I medici brancolano nel buio; hanno supposto che possa trattarsi di uno stato di shock prolungato, ma la prognosi è riservata.
La segretaria si guardò attorno circospetta e riprese a parlare con un tono di voce sensibilmente più basso.
— Se volete la mia, qui la scienza non c'entra. Si tratta di magia nera: il poveretto è vittima di un sortilegio che gli ha fatto perdere il senno!
Dunque si toccò il seno a mo' di scongiuro.
In quel momento Pino scoppiò in una clamorosa risata. Si rise addosso per cinque minuti buoni, al termine dei quali la segretaria, dopo aver espresso tutto il suo disprezzo con una smorfia arcigna, se ne andò.
I due uomini si accostarono a Bernardo, che giaceva sdraiato con gli occhi spalancati e la faccia impassibile di un morto.
Pino volle verificare che non stesse fingendo, cavò lo stuzzicadenti dalla bocca e prese a punzecchiarlo sotto la pianta dei piedi. Lui non si mosse e Pino si decise a confessare:
— Bernardo, c'è qualcosa che devi sapere: tutta questa storia dell'Aruspice, le premonizioni, le lettere, nulla è reale; è tutta opera nostra. L'idea l'abbiamo copiata da una candid camera. Non credevamo funzionasse davvero, ma soprattutto non immaginavamo che una simpatica burla potesse comportare simili conseguenze; né tanto meno puoi ritenerci responsabili dell'incidente. Ti avevamo avvertito di non prendere la macchina, no? Quindi non pensiamoci più…
Pino si interruppe perché Bernardo aveva iniziato a muovere le labbra convulsamente emettendo degli strani versi. Entrambi si chinarono su di lui per ascoltare meglio, ma lui continuava a biascicare suoni senza forma. D'improvviso li sorprese con un urlo.
— Cade la luce, cade la luce… — gridò.
Pino, che si era spaventato, rimproverò Tino:
— Ti avevo detto che non serviva a nulla dirglielo, lo vedi che è completamente matto.
I due lasciarono la stanza in punta di piedi mentre Bernardo continuava a strillare:
— Cade la luce, cade la luce…
Quando uscirono dall'ospedale avevano l'aria di chi si è liberato dopo essere stato in bagno. Entrarono in macchina e accesero il motore; un lampione pericolante si sradicò dal cemento e si abbatté su di loro. Crash! Morirono come erano vissuti: da testicoli.
TENEBROSI MIAGOLII PER SUPERSTIZIOSI
Titty Terzano
Sin dalle epoche più remote sono stato protagonista di numerose credenze.
Ai tempi dei faraoni d'Egitto ero considerato una divinità simbolo di fecondità. Quando morivo, per la mia famiglia umana cominciava un lungo periodo di lutto: tutti si rasavano le sopracciglia e percuotevano in continuazione gong funebri in segno di dolore. Gli Egizi credevano che anche per me esistesse l'aldilà e perciò venivo mummificato e quindi sepolto, con tanto di funerale.
Nell'antica Roma mi chiudevate in un capiente sacco con il condannato a morte: assieme ci buttavate nel fiume Tevere. Che brutta fine! Annegamento. In quel modo orribile. Per la troppa paura, molto probabilmente graffiavo a sangue il disgraziato di turno, costretto nel sacco con me; e quello, di sicuro, malediva me e tutta la mia razza.
Nel Medioevo mi arrostivate senza pietà! Mi mandavate al rogo con la mia padrona accusata di stregoneria; mi bruciavate nei fuochi di mezza estate per allontanare ogni maleficio e propiziare i raccolti; mi davate alle fiamme credendomi incarnazione del diavolo o di una strega. In ogni caso, arso vivo. Che morte crudele m'infliggevate!
Sapete che, al giorno d'oggi, per i popoli indonesiani sono un vero e proprio signore infernale che sprofonda le anime dannate nelle viscere della terra?
In Italia, se state viaggiando con il vostro mezzo di trasporto e vi taglio di netto la strada da sinistra a destra, fate stupidi scongiuri; poi vi fermate ad aspettare che qualcun altro passi per primo, al vostro posto, assorbendo così tutta la mia presunta negatività; oppure cambiate direttamente strada.
Nel mondo anglosassone sono sempre stato simbolo di positività; tanto che, un tempo, nessuna nave di sua maestà britannica poteva salpare senza uno come me a bordo. Ai giorni nostri, se una sposa m'incontra per strada, è buon segno per le sue imminenti nozze.
Avete presente quello scrittore statunitense di nome Edgar?
Ebbene, egli s'ispirò a me per scrivere un inquietante racconto: al protagonista capitavano gravi disgrazie; tutto a causa del colore buio del suo enorme felino da compagnia. Che esagerazione!
Edgar stesso non volle mai vivere con uno come me. Aveva adottato Cattarina, una femmina dal mantello a squama di tartaruga, superstiziosamente ottimo talismano contro le avverse fatalità.
Vi ricordate della piccola Vincenza?
Anni fa partecipò a una nota gara canora per bambini. Era tanto carina, con quei suoi codini, mentre in tv cantava che voleva diventare mia padroncina.
E che dire di Anna, grandissima attrice romana?
Mi ha sempre difeso da ogni forma di discriminazione scaramantica. Lei sì che era una vera gattara: voleva bene anche a tutte le fosche creaturine come me.
E come ringraziare gli umani dal cuore d'oro che mi hanno dedicato una giornata del calendario?
Da qualche anno il 17 novembre è la mia festa, nata per combattere le superstizioni di cui sono bersaglio da praticamente sempre. Meno male! Che rogna era l'esser celebrato solo come piccola belva satanica, nella notte di Halloween!
È vero, spesso ho un aspetto sinistro a causa del mio mantello scuro che richiama le tenebre, la morte, il male.
È pur vero, però, che voi avete fama di essere gli animali più intelligenti del pianeta. E allora perché non capite che sono soltanto un povero micio?
Il mio pelame è scuro di natura; come voi avete peli e capelli mori, biondi o rossi.
Ragionateci meglio: io non porto né bene né male.
Vi graffio, se siete poco gentili con me; oppure rispondo alle vostre gradite coccole facendovi le fusa. Niente di più.
Il resto è solamente, tutta superstizione.
Non mi credete?
Vedete, sono soltanto un piccolo felino indifeso.
Non infastiditevi né infastiditemi per il mio colore profondamente notturno.
Vi chiedo rispetto e tranquillità.
A coloro che tra di voi continuano a ritenermi una bestiola legata alle forze ostili del caso e del male, miagolerò sempre storie e riflessioni dal mio punto di vista felino.
Con il cuoricino in palmo di zampetta, vi chiedo: volete ancora mostrarvi così creduloni da dar retta a certe assurde dicerie sul mio conto?
DI VENERE E DI MARTE
Pia
Ho un vicino di casa stronzo. Sì, molto stronzo! Maleducato, presuntuoso, arrogante e anche brutto. Brutto dentro e brutto fuori. Tutto gli da fastidio: l'auto parcheggiata non perfettamente allineata, la luce delle scale che si spegne dopo troppo poco tempo, le pulizie non fatte bene… insomma uno di quei rompiballe che non auguro a nessuno di avere come vicino di pianerottolo. Normalmente non gli do importanza, non lo sopporto, so che l'antipatia è reciproca, e quindi me ne tengo ben lontana, né ho l'abitudine di impicciarmi degli affari altrui.
Questa volta però ha esagerato: toccatemi tutto ma non le mie bestioline! Sono una gattara infatti, sotto casa c'è una minuscola colonia felina che conta solo cinque esemplari e cerco di essere attenta a fare in modo che nessuno possa avere da ridire: non lascio piatti in giro, sistemo la scodella con i croccantini sotto la mia auto così che neppure si nota e cose simili. Non lo faccio per me, non avrei nessun problema a litigare con qualcuno, ma preferisco evitare eventuali ritorsioni sui miei amici a quattro zampe. Da qualche giorno però sparisce misteriosamente il contenitore dei croccantini e, dopo qualche appostamento, ho scoperto che era lui a buttarlo via. Il primo impulso è stato quello di scendere e apostrofarlo come solo una "vera signora" quale sono sa fare, poi ho deciso che no, non potevo lasciar esaurire in una semplice litigata la questione. No. Vendetta. Tremenda vendetta! Un simile affronto ai miei amici va lavato se non col sangue almeno in qualche modo ugualmente doloroso…
Il caso vuole che io e la moglie del mio vicino siamo amiche, nemmeno lei lo sopporta più, chissà come mai…, e così, insieme, abbiamo stabilito come punire l'onta e vendicare il sopruso.
A volte le circostanze della vita sono davvero strane: rimuginando davanti a un bel caffè sul come far pagare simile vigliaccheria, disquisendo sui punti deboli dell'avversario senza risparmiarci su sane e sacrosante imprecazioni al suo indirizzo, alla mia amica viene in mente che il soggetto è particolarmente superstizioso, tanto da rasentare il paranoico.
Questa sì che è un'ottima notizia. Restava da capire quando agire, quale fosse il momento più opportuno per arrecare il maggior danno con il minor impiego di energie. Da lì a qualche giorno, il soggetto avrebbe dovuto recarsi a un appuntamento di lavoro molto importante, fuori città. Aveva fatto di tutto per anticipare l'incontro al giovedì 16, vigilia di un giorno che, per i suoi stupidi pregiudizi, è il massimo del calamitoso, tenendo anche fede al detto che recita "di venere e di marte non si sposa e non si parte". Un incontro, dunque, non procrastinabile e di primaria importanza.
Una gattara che si rispetti non può non avere almeno un micio del colore della pece e io ne ho uno stupendo, dolcissimo e tranquillissimo, una palla di pelo che dove la metti lì la trovi, la quintessenza dell'imperturbabilità.
La perfida trappola è pronta a scattare.
Giovedì arriva accompagnato da una sottile e fastidiosa acquerugiola che tanto concilia il sonno dei piccoli felini, fino a indurli in uno stato di semi torpore dal quale difficilmente si riesce a scuoterli. Questo favorisce il mio piano: la cuccetta fuori la mia porta, davanti alla quale bisogna passare per scendere i gradini che conducono all'ascensore, è troppo invitante per colui che farà da inconsapevole esca, niente lo convincerebbe ad alzarsi per spostarsi di un solo millimetro. Io me ne sto allo spioncino, paziente e impaziente di vedere la porta accanto aprirsi. L'attesa dura poco: la sagoma del fetente si staglia corredata di parapioggia color antracite scuro come la sua anima puzzolente.
Apro la mia porta con un malcelato sorriso di soddisfazione.
Lui si blocca, sbianca o è una mia impressione? Sì, è sbiancato.
Mi guarda dal limitare della soglia di casa sua, lo sguardo tutto a un tratto ha perso l'arroganza, sembra smarrito, tanto da farmi quasi pena.
Poi penso alle mie bestioline che restano digiune per colpa sua e mi riprendo, sostengo il suo sguardo, lo sfido a pormi l'odiata domanda. Sì, chiedimelo maledetto bastardo di togliere quella bestiaccia dalla tua strada, godrò nel risponderti di no. Ma lo schifoso si ferma, aspetta che io passi oltre, invece no, non sarò io a passare per prima: mi accomodo sulla sedia preventivamente posta a portata di mano e alle spalle del mio piccolo amico, la cena è già pronta e oggi mi hanno consegnato la nuova antologia di BraviAutori. Non vado di fretta, io non ho nessun appuntamento…
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