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Indice:
LASCIATE OGNI SPERANZA…
Prefazione
MONDI
GUERRA DI BANDE
UN PICCOLO REGALO
SQUOLE CON LA C E SC…
LA PROF DEGLI ALTRI
RITROVARSI
RITORNO AL LICEO
UNO STRANO PROFESSORE
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Una produzione

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LASCIATE OGNI SPERANZA OH VOI CH'ENTRATE

 
Antologia di racconti
selezionati da Gara 21 di Braviautori.it
 
Giugno 2011
 
Edizione e prefazione:
Conrad
 
Supervisione e aggiustamenti:
 
 
 
 


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Prefazione

Falsi saluti a voi, insignificanti lettori dalle menti avide e dai ridicoli sogni. Quello che mi appresto a presentarvi è l'Ebook di Gara 21. La pazza che ha ideato questo bando, altro non è che l'implume Exlex, vincitrice della Gara precedente, probabilmente ossessionata da qualche esame o interrogazione imminente.
La Gara ha avuto scarsa partecipazione a causa dello scisma interno a Braviautori. Cose che neanche il Sacro Romano Impero ha visto. Ma 'sti rompi-gonadi di scrittori si sono rimboccati le maniche e hanno ricominciato a scrivere dando vita a una combattuta e sentita Gara.
Alla fine l'ha spuntata quel gran volpone di Roberto Guarnieri, ma Mastronxo ha chiesto (come tra l'altro fa sempre quando arriva nelle prime posizioni) un ulteriore conteggio dei voti e si è rivolto al TAR. Ardito Eufemismo veleggiava, come sempre, leggero sulle parole, riportando alla luce vecchi istinti sessuali repressi tra i banchi. Ser Stefano si lanciava in assurde sperimentazioni (fallendo in tutte) ed è stato pubblicamente dichiarato incapace di intendere. Aleeee76, intanto, dava i primi segnali di esaurimento nervoso e di rabbia repressa verso il mondo e se stesso. Angela Di Salvo giocava in casa, con un pallone ha rotto un vaso e si è dovuta sgridare da sola. Feffone si è rivoltato contro il sistema e le istituzioni a suon di coltellate. Johan Razev era una new entry ma non si è più fatto vedere, che sia rimasto favorevolmente colpito dalla vostra bravura? Non credo proprio.
Leggete e commentate, insulse amebe, 'ché alcune di queste penne potrebbe essere il “Stephen King” di domani. (Sì, e io potrei essere Barbapapà!)
Disinteressati saluti e ossequi svogliati.
Mai vostro, Conrad.
PS: Visto che le immagini postate dagli autori sono andate per la maggior parte perdute, ho deciso di sostituirle con l'avatar dell'autore stesso. Nel caso che questa cosa vi metta a disagio o che leda la vostra già disastrata immagine di pseudo-scrittore, basta contattarmi e saranno immediatamente tolte.


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MONDI

di Mastronxo
«Sei veramente bellissima» spernacchiò il culo di Mario.
«Anche tu…» le chiappe cellulitiche di Luigina avvamparono, come colpite da una trave di legno. Annoiato da quella scena, il viso di Riccardo si voltò dall’altra parte e il suo proprietario si incamminò lungo il corridoio gremito di studenti.

***

Riccardo, una ragazza che gli dicesse quelle cose, non l’avrebbe avuta mai. Neanche quel cesso immondo di Luigina, che mostrava orgogliosa un fondo schiena butterato manco fosse stato dipinto a imitazione della luna, gli avrebbe potuto dare una simile soddisfazione. Il motivo era semplice: Riccardo era un ragazzo bruttissimo.
Ma no, no, la verità non era tutta lì. La verità non stava neanche nel mezzo, come continuamente gli ripeteva sua nonna chiamandolo sederino bello. Anche se sua nonna, il coraggio di allungare un artiglio rachitico per accarezzargli una guancia, doveva ancora effettivamente trovarlo. Aveva solo la forza di alzare il gomito, sorbire generose sorsate di grappa da quel suo ano rugoso e mezzo prolassato e dirgli: «Vuoi un po’ anche tu, sederino bello?». Pazienza, di lei poco gli importava.
La verissima verità era che, se fosse stato solamente brutto, o anche orribile, oppure sfigurato, menomato, incidentato, deformato, ustionato, scorticato e via dicendo, la possibilità di essere accettato da un’altra forma di vita non gli sarebbe sembrata poi così irraggiungibile.
La verissima verità, ormai l’aveva capito, consisteva nel fatto che lui fosse un diverso.
Riccardo Valvassori, sedici anni, un metro e ottantadue senza le scarpe, capelli nerissimi, lunghi e leggeri come seta, labbra sottili, lineamenti regolari scolpiti nell’ebano di una pelle abbronzata anche in inverno, era talmente disgustoso e diverso da non avere neanche il coraggio di masturbarsi al buio.
Riccardo Valvassori, al posto di quelle due rotondità definite “natiche”, che secondo natura dovevano essere sorrette da quel cilindro muscoloso definito “collo”, aveva una terribile fisionomia per nulla tondeggiante che i più avevano classificato come “volto”.
Le cosiddette “natiche” lui ce le aveva spostate più in basso, gli sormontavano le cosce e, come neanche bastasse, erano rivolte all’indietro. Le doveva tenere coperte coi pantaloni, e a poco serviva il fatto che fosse l’unico essere vivente e vissuto a potersi sedere comodamente su un prato fiorito. A tutti gli altri faceva parecchio male il naso, se si arrischiavano ad assumere una postura come quella.
«Riccardo! Riccardo!» il diverso non si girò. Continuò ad avanzare in direzione del laboratorio di musica, accompagnato da bisbigli trattenuti, risate meno trattenute, battimani, gesti osceni in cui le dita andavano a infilarsi negli sfinteri dei giovani omologati.
«Riccardoooooo! PRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR!» e giù a ragliare scoregge al vento, quei simpaticoni.
Nessuna importanza, ci aveva fatto il callo, il diverso. Oh, e non erano lacrime, quelle che gli scendevano giù, giù lungo la pelle liscia e perfetta. Non potevano esserlo, perché le lacrime di tutti erano nascoste come i loro “volti”, ben celati dal tessuto in jeans dei pantaloni, protetti sotto gli elastici delle mutande, che impedivano alle loro emozioni di palesarsi al mondo.
Non erano lacrime, anche se Riccardo ci vedeva sempre meno e tuttavia sempre abbastanza. Abbastanza da scorgere mani schiaffeggiare sederi per imitare al meglio il suo rossore, accompagnando i movimenti con versi gutturali da scimmioni ingabbiati. Li odiava, quei maledetti, li avrebbe uccisi tutti, ma quanto avrebbe dato per essere come loro…
«Riccardoooooo!»
«EEEEEEE... PPPPPPPRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR!»
Riccardo si fiondò in bagno. La porta colpì la parete, rimbalzò all’indietro e si chiuse alle sue spalle, sancendo il silenzio.
Il diverso andò al lavandino, aprì l’acqua gelida e si infradiciò il “volto”. Passavano i secondi e lui non la smetteva, passavano i minuti e lui continuava, pareva volersi staccare di dosso tutta la faccia, quell’orripilante faccia da scemo che la genetica o Dio o chi per lui aveva deciso di affibbiargli.
E mentre il diverso si graffiava, si bagnava, si asciugava, si bagnava e si graffiava e si riasciugava per lavarsi poi di nuovo, qualcuno si precipitò dentro la stanza con foga furibonda, gemendo di stupore e panico trattenuto.
«Oh, capperi… Ma che diavolo… Oh!» l’ometto si bloccò, fermo come una scultura. Aveva uno strano colore di capelli, pettinati all’insù manco fosse stato uno spazzolino lercio.
Ma, soprattutto, meraviglia e libidine, libidine e meraviglia… Aveva una faccia pure lui, pure lui dove non avrebbe dovuta essere!
I diversi, ora, erano due, e quando si è in due non si è più tanto diversi, giusto?
«Oh! E tu chi sei?» Riccardo non sapeva se essere felice, se correre ad abbracciare il suo gemello di sventure, se portarlo fuori in braccio come un trofeo per farlo vedere a tutti quei culi di fuori. Il nanerottolo dai capelli bicolore incrociò le braccia, atteggiò la bocca a un sorriso squadrato e lo guardò di sbieco. Sì, aveva un atteggiamento proprio strano, ma chi se ne fregava, chi?
«Ma che bel ragazzo… Be’, complimenti, caro. Io sono Cristiano, Cristiano Malgioglio. Piacere immenso fare la tua conoscenza. Mi puoi dire dove sono capitato?»
«Malgioglio! Il piacere è tutto mio, sapessi che gioia vedere uno come… Come noi!» Riccardo non poteva fare molto per trattenersi, le emozioni lo soverchiavano come onde incontrollabili.
«Anche io sono felice di vederti» rispose Cristiano. «Comunque, che mi dici di quei bei sederotti là fuori?»
«Be’, quelli sono i miei compagni… Cavolo, ma ci credi, sei come me! Da dove vieni?»
«I tuoi compagni? Strana roba» Malgioglio si toccò il mento e arricciò le labbra, come volesse baciare l’aria. «Da dove vengo io, nessuno è così… Sono tutti come te e me. Però, caro, non chiedermi in che modo sono arrivato qua, perché proprio, ma prooooprio non ne ho la più pallida idea.»
Riccardo era scioccato. Il suo gemello veniva da un mondo dove tutti avevano il culo al posto sbagliato? Oppure era al posto giusto? Chi mai poteva deciderlo, cosa fosse il giusto e lo sbagliato, dopo una tale rivelazione?
Immerso nelle sue elucubrazioni, neanche si accorse che il visitatore dell’altro mondo stava già uscendo senza salutare.
«Ehi! Malgioglio, dove vai?»
L’altro lo guardò da sopra la spalla, un risolino furbetto aleggiò nell’aria.
«Ti dirò, caro Riccardo. Sarai anche tanto bello, ma io qui ho trovato ben altro e di ben altra portata» e, zampettando con grazia, si gettò tra gli studenti che lo additavano, curiosi.
Allargò le braccine e urlò in falsetto:« Amori, amorini miei! Sono morto e in Paradiso, sono morto e questo è il Paradisoooo.»
A Riccardo, Malgioglio dava l’idea di aspettare da una vita un’occasione come quella.
Riprese a piangere e non fece nulla per fermarsi.
Era stupendo.


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GUERRA DI BANDE

di Feffone
Guardando il tetro portone del liceo Michele si sentiva semplicemente esterrefatto.
Adocchiò il suo orologio per vedere che ora fosse, mancavano una manciata di minuti alle 16:00, era ora di entrare. Di solito non indossava orologi, ma l’ordine tassativo era di non portare cellulari o aggeggi simili. Tutta la classe era in punizione e sarebbe dovuta presentarsi a scuola ogni pomeriggio per un mese. Due notti prima qualcuno aveva imbrattato di vernice l’aula e, non contento, si era anche fatto una rilassante pisciata sotto la cattedra. Il nome del colpevole non era ancora venuto fuori.
“Tutta la classe sarà punita.” Aveva tuonato la preside. Era stata di parola.
“Proprio una bella cazzata!” Mormorò tra i denti il ragazzo entrando. Per fortuna non aveva detto a nessuno che era lui l’artefice dell’impresa, vista la punizione i suoi compagni l’avrebbero linciato.
“È l’ultima volta che mi ubriaco con quello stronzo di Matteo. Vaffanculo alla vodka, vaffanculo lui e le idee che mi mette in testa e vaffanculo anche a me!”
“Ciao. Hai detto qualcosa?” Era Giorgia, una specie di hobbit che abitava al primo banco. Sembrava felice di essere li quel pomeriggio. Dio quanto la odiava.
“No niente parlavo da solo. Sono arrivati tutti?”
“Si sei l’ultimo.” Gli disse con fare canzonatorio “Sono gli altri che mancano.”
“Guarda che gli unici puniti siamo noi.”
“No, intendevo i professori, i bidelli… quelli che ci devono controllare insomma.”
Michele sorrise, avrebbe voluto chiederle se la cosa le dispiaceva. Certo che si, visto che l’ultima volta che la classe era rimasta sola per più di un quarto d’ora, Gianmarco aveva provato a bruciarle i capelli con l’accendino.
Non le chiese nulla ed entrò in classe.
Non aveva mentito, erano tutti li ma neanche l’ombra di un adulto. Meglio così, qualcuno aveva di sicuro portato la birra, forse sarebbero apparse, come per magia, un paio di cannette, magari ci scappava anche qualche palpatina a tradimento.
“Ciao bello!” Lo salutarono Gianmarco e Ivan. “Giretto al cesso?” Michele rispose al saluto e annuì con decisione. Da che mondo è mondo, in ogni scuola rispettabile, il giretto al cesso voleva dire una sola cosa. Se proprio dovevano stare in punizione almeno avrebbero potuto farlo un po’ più rilassati.
Ivan fu il primo a uscire dalla classe, non fece in tempo a fare due passi che si fermò immobile. Gli altri due si guardarono un po’ preoccupati, forse stava arrivando qualcuno. Dopo qualche secondo che sembrò interminabile, videro il ragazzo cadere a terra, aveva un coltello conficcato nel petto.
Tutti i ragazzi dentro la classe urlarono quasi all’unisono. Michele non mosse un muscolo, non riusciva neanche a parlare, continuava a guardare il corpo dell’amico ormai esanime, poi i suoi occhi si spostarono sulla porta. Carlo, il vecchio bidello zoppo della scuola era sulla soglia e lo stava osservando con un’espressione che gli sembrò di disgustata felicità.
“Carlo, cazzo chiama un’ambulanza!” Disse Gianmarco con le lacrime agli occhi cercando di estrarre la lama dal petto di Ivan.
“Non mi sporcare il pavimento.” Fu lo svagato commento del bidello che sembrava non aver neanche sentito la richiesta del ragazzo. Si avvicinò al cadavere ed estrasse il coltello, non prima di aver dato un calcio al povero corpo senza vita.
“Che cazzo fai?” Gianmarco era sempre più sbalordito. Per tutta risposta il bidello lo colpì alla gola. Cercò di sottrarsi ma il colpo mortale lo aveva beccato in pieno.
In classe regnava il caos, erano più di venti e avrebbero potuto bloccarlo senza difficoltà ma la paura e la sorpresa li avevano resi isterici. Si erano ammassati tutti nell’angolo più lontano dell’aula e Carlo si stava avvicinando a loro zoppicando e pulendo il sangue sulla lama con la manica della divisa. Michele gli era invece rimasto alle spalle, stringeva in mano il suo coltellino svizzero. Una goccia di sudore gli cadde sugli occhi, le mani gli tremavano ma colpì senza esitazione. Il bidello si girò verso di lui, lo guardò con stupore e cadde a terra.
“Ma che succede Michele?” Piagnucolò Giorgia. Lui la guardò senza sapere che dire.
Cosa diavolo ne sapeva?
“Dobbiamo scappare! Dai andiamo dalla polizia!” Disse Giulia, era sempre stata la più tosta della classe, dopo un momento di shock, aveva ritrovato il consueto sangue freddo.
“Ok!” Le piaceva proprio quella ragazza, non ce n’erano tante così, non nella sua scuola almeno. Avrebbe voluto provarci già da tempo ma gli era mancato il coraggio.
Uscirono per il corridoio facendo attenzione a non calpestare i corpi e le pozze di sangue che ormai ricoprivano un terzo del pavimento dell’aula, una ragazza vomitò la colazione sulla faccia stupita del bidello agonizzante.
Dopo una decina di metri percorsi in silenzio totale, uno strano ruggito metallico li sorprese. Le porte delle classi si aprirono all’unisono e iniziarono a uscire tutti i loro professori che, in pochi secondi, li circondarono. Erano muniti di ogni genere di arma, li fissavano con un’odiosa smorfia beffarda. Dietro a loro apparve la preside armata di sega elettrica che ruggiva, famelica di sangue fresco.
“Siete in punizione! Non potete stare per i corridoi!” Urlò la preside. “Forse vi serve una punizione più creativa!” Disse ridendo. Lei e gli altri professori iniziarono ad avvicinarsi pronti a colpire.
Michele strinse con forza la mano di Giulia passandole il pugnale del bidello, con l’altra mano impugnava il suo fedele coltellino svizzero. Non si chiese il perché di quella follia generale, non ne aveva il tempo, e certamente non ne avrebbe avuto per i prossimi minuti.
Gli altri sarebbero morti di sicuro ma non lui. Neanche Giulia sarebbe morta, erano troppo tosti loro due. Anticipando i professori e quella strega della preside, Michele e Giulia attaccarono.


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UN PICCOLO REGALO

di Aleee76
“Posso prendere la parola?”.
I docenti si guardano sorpresi. Non capita spesso che uno studente chieda di poter parlare alla fine dell’Esame. È la Biazzi, quella di Italiano, che rompe il silenzio e autorizza Emilio a parlare, con un gesto scocciato della mano.
Lo studente china la testa e inizia a parlare sottovoce ai docenti, trincerati dietro una barriera di cattedre.
“Ho pensato molto a questo momento, negli ultimi mesi. Avevo paura. Beh, chi non l’avrebbe avuta con la mia situazione scolastica?”. Alza lo sguardo giusto il tempo per vedere Rossetti, quello di Matematica e Fisica, sogghignare.
“Avevo paura di perdermi, di non riuscire più a capire chi realmente fossi, di diventare qualcun altro per mera piaggeria o vile conformismo. Non è successo, ed è proprio per questo che volevo ringraziarvi”.
L’alunno si china ed estrae dallo zaino ai suoi piedi un piccolo pacco cubico. Carta ruvida, nastro rosso con tanto di fiocco. Lo posa con delicatezza sulla cattedra centrale, proprio di fronte all’insegnante di Greco e Latino.
La Giannantoni, sorpresa per quel gesto, sorride compiaciuta. E pensare che non le era mai stato simpatico quello studente, troppo timido per legare con i compagni e troppo saccente per diventare il cocco dei professori.
“Ho pensato a voi mentre preparavo questo” continua il ragazzo, parlando ora con voce più sicura “a come ciascuno abbia contribuito con le proprie competenze alla realizzazione di questo regalo”.
Don Zanchi, l’insegnante di Storia dell’Arte, alza lo sguardo al cielo. Mai si sarebbe aspettato un regalo da uno studente. Cresciuto dai Gesuiti nel rigoroso rispetto delle regole, aveva passato gli anni di insegnamento a demolire l’amore degli studenti per l’Arte, da lui segretamente considerata un frivolo passatempo per scapestrati e sovversivi.
“Ci tengo però a spiegarvi” continua Emilio “il vostro specifico apporto a questo progetto, che spero degno del vostro interesse”.
I docenti si rilassano sulle sedie scomode, pronti a fare incetta di gratificazioni professionali.
“Devo innanzitutto a lei, Don Zanchi, l’idea fondamentale, mutuata da un progetto apocrifo di Leonardo da Vinci. Studiando i suoi disegni e la sua immensa cultura, non ho potuto che assimilarne alcune idee e tradurle in questo dono”.
L’insegnante non parla. In realtà non si ricorda nemmeno di aver inserito Leonardo nel programma. L’alunno sposta lo sguardo sull’insegnante di Italiano.
“A lei, Professoressa Biazzi, devo l’amore per il grande Niccolò Machiavelli, genio sottovalutato che tanto ha influito sul mio modo di pensare e di agire”.
La Biazzi strizza gli occhi diffidente, non comprendendo affatto le parole dello studente.
“A lei, professor Rozzani, devo la lezione più grande, quella che la Storia ci insegna fin dall’albore dei tempi, e cioè che Giustizia e Verità hanno strade tortuose e quasi mai parallele, che solo in rari e preziosi momenti vengono a incrociarsi. Il pensiero di Eraclito mi ha del resto aiutato a capire l’importanza del presente e l’unicità dell’attimo, cosa che ha sicuramente determinato il mio essere qui oggi davanti a voi”.
Il vecchio professore sorride e beve dal bicchierino di carta un sorso di quella che tutti credono Coca Cola e che invece è un mix tossico di chinotto, vino rosso e Gin. E chi ci sperava più, alla sua età, che qualcuno lo stesse ancora a sentire?
L’alunno passa oltre e si rivolge con garbo all’insegnante di Greco e Latino.
“A lei devo molto. E non mi riferisco solo alla possibilità di comprendere il dolore, studiandolo nelle liriche dei poeti antichi, ma anche e soprattutto alla consapevolezza che tale sentimento può essere espresso in modo creativo, venendo ad alimentare l’arte stessa, a beneficio di tutti. Questo regalo non sarebbe qui oggi se non fossi riuscito a imbrigliare in esso la mia rabbia e il mio dolore”.
Una smorfia incurva le labbra della Giannantoni, che ha la strana sensazione di qualcosa fuori posto. Forse è per via del tono pacato dell’alunno, accostato a quelle due parole, rabbia e dolore, racchiuse in una frase e contemporaneamente in un regalo. Ma non ha tempo di intervenire poiché lo studente sta già rivolgendo il suo ringraziamento all’insegnante di Matematica e Fisica.
“Professor Rossetti, le sue lezioni mi hanno fornito le competenze necessarie per fabbricare il mio regalo. Senza la conoscenza delle leggi della Fisica, tutte quelle esercitazioni sul moto dei corpi e quei calcoli infiniti che allora credevo sterili torture, questo regalo sarebbe rimasto semplicemente un bel progetto sulla carta”.
Rossetti nasconde il suo stupore dietro un sorriso freddo e calcolato.
“E veniamo a lei, cara professoressa Visigoti, che ha dato un’anima al mio progetto. Cosa sarebbe infatti il mondo senza la Chimica? Come un alchimista ho distillato l’essenza stessa dei miei sentimenti e l’ho racchiusa, in forma liquida, in questo piccolo oggetto”.
La Visigoti si dondola sulla sedia. Alchimisti? Distillare? Ma di che sta parlando?
“E per finire, un ringraziamento anche a lei, Don Pedrotti”. Il prete si desta di colpo dalla consueta sonnolenza pseudo meditativa. Un ringraziamento all’insegnante di Religione?
“Grazie per avermi insegnato che nulla è eterno agli occhi di Dio e che a tutti è concessa un’ultima occasione di redenzione”.
Emilio fa una breve pausa prima di concludere.
“Vi chiedo di accettare questo regalo per quello che è: un pensiero di commiato dopo cinque anni trascorsi insieme. Vi prego, per evitarmi l’imbarazzo dei ringraziamenti, di aprirlo dopo che sono uscito e di nasconderlo prima che entri Fringuelli, che deve sostenere l’Esame dopo di me”.
Gli insegnanti tacciono. È la Biazzi, ancora una volta, a rompere il silenzio.
“Vai, vai Emilio. Grazie per il pensiero. E non sperare che ti alziamo la media, eh?”.
L’alunno esce in silenzio dall’aula e si richiude accuratamente la porta alle spalle.
Nessuno lo può vedere in faccia mentre finge di allacciarsi una stringa.
Il ghigno che gli tende gli angoli della bocca è qualcosa di solo vagamente umano.


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SQUOLE CON LA C E SCUOLE CON LA Q

di Ser Stefano
Un caldo sole estivo pare voglia schiantare tutta la sua energia sui tetti e sulle pareti della scuola. Nell'aula le luci sono spente e risuona solo la voce alta dell'insegnante,

mentre un proiettore colora il muro stringe nella mano una pietra di bianco di fronte alle file ordinate gesso e scrive su una logora lavagna
di studenti. Immagini vi scorrono, che per l'usura è ormai grigia. La luce
fornendo un'informazione visiva filtra da diversi buchi e crepe del muro
oltre a quella uditiva che giunge dal e del soffitto. Non ci sono banchi.
docente. Un diverso e innovativo Qualcuno ha una sedia in legno o uno
metodo di apprendimento. I banchi sgabello, altri siedono su bidoni.
non sono vecchi ma risultano quasi Scrivono appunti su quaderni usati
distrutti da troppi colpi subiti, tagli, o blocchi di fogli tenuti insieme da
incisioni e da quanto altro si possa una graffetta. Se li appoggiano sulle
pensare di infliggere. Agende piene ginocchia, per scrivere. La maggior
di cuoricini e T.V.B., pile di costosi parte è seduta sul pavimento, a
libri, zaini e astucci firmati. gambe incrociate e schiena curva.
L'aula è molto grande, esageratamente ampia per gli studenti presenti. Probabilmente era destinata ad altri utilizzi e trasformata per necessità in classe. Al suo interno, trovano posto una ventina di studenti e
sono tutti annoiati e distratti. Uno pendono dalle labbra dell'insegnante.
pensa di chiedere ai suoi genitori Tutto quel che dice è nuovo, e diverso
la nuova PS3, un altro allunga il dalla loro vita abituale. Affascinante.
collo per sbirciare l'elastico bianco Sono coscienti che queste nozioni
delle mutandine che esce dai jeans potrebbero servire, per abbandonare
della ragazza seduta davanti, uno finalmente questo devastato paese, e
ha l'auricolare e ascolta di nascosto permettere loro di iniziare a vivere
l'ultima hit di Beyoncè. Pochi decentemente. Tutte queste informazioni
ascoltano con interesse la lezione. potrebbero salvare loro la vita. Chi
Quasi tutti hanno lo sguardo perso possiede quaderni e fogli scrive di
nel vuoto, assorti in mille problemi continuo appunti; Gli altri ascoltano
giovanili, aspettando impazienti attenti, sforzandosi di assimilare più
che questa agonia di lezione finisca. possibile. L'insegnante spiega con
Anche l'insegnate guarda spesso passione, scherzando e cercando di
l'orologio sperando di sentire presto rendere la lezione interessante e
la campanella di fine lavoro. divertente, in modo da catturare l'attenzione.

Un uomo, con un atteggiamento a dir poco sospetto, si accende una sigaretta nei pressi della scuola. Poi si allontana. Dopo pochi minuti la tranquillità dell'aula viene bruscamente interrotta da dei rumori. Tutti gli studenti si girano di scatto verso le finestre,
strappati dalle loro giovani ma le pupille dilatate dalla paura. I colpi
importantissime preoccupazioni. di pistola e di mitragliatrice, sono
Un'auto ha fatto stridere le gomme lontani. Importante è che rimangano
sull'asfalto, innalzando un ululato tali e non si avvicinino. L'insegnante,
dalla strada lì vicino. Qualche corre verso la finestra e scruta fuori.
studente sogghigna, alcuni discutono Sa bene che le scuole sono sempre
se sia stata una Bmw o una Mercedes. importanti bersagli. Non sarebbe
L'insegnante, stizzito, urla di fare la prima volta che succede. A un suo
silenzio e riprende la monotona cenno gli studenti sono pronti a fuggire
lezione. Ha perso il filo e sta in tutte le direzione ma per fortuna, le armi
spiegando una cosa già detta dieci tacciono. L'insegnante attende un paio
minuti prima. Nessuno se ne accorge, di minuti, coi sensi all'erta, poi
gli studenti sono tornati ai loro riprende la lezione con un sorriso forzato.
stravaganti pensieri, fatti di nuovissime Gli studenti, un po' sollevati,
play station, orli di bianche mutandine tornano ad ascoltare, per il tempo
e ubriacanti canzoncine Pop. che resta prima della prossima fuga.


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LA PROF DEGLI ALTRI

di Ardito Eufemismo
L'aula di fisica nella quale si trovavano si diceva essere stata frequentata da Alessandro Volta. Il legno antico e scuro rendeva austero l'ambiente, ma gli scranni ripidi donavano all'osservatore un punto di vista dominante.
La professoressa Francesca Zoratti era proprio carina. Minuta nel fisico ma perfetta nelle proporzioni. Avrà avuto trentacinque anni, forse quaranta. Era un vero peccato che insegnasse nella sezione C. Però quella vacanza studio in Inghilterra era stata l'occasione perfetta per vederla da vicino e per parlarle. Le aveva chiesto ogni possibile ragguaglio fino a sfinirla. Nonostante la pedanteria, la prof era stata, comunque, gentilissima. Aveva risposto sempre col sorriso sulle labbra anche alle domande più sciocche e banali. La Zoratti aveva un accento del sud molto sensuale. Se la immaginò, prona sulla cattedra, offrire lasciva le terga scoperte. Ricacciò con veemenza l'immagine della docente semi nuda dalla sua mente.
La professoressa continuava a informarli delle schede telefoniche internazionali e del cambio euro sterline. Le osservò le labbra tumide, umettate di saliva dall'enfasi oratoria. Come sarebbe stato poggiare la sua bocca su quella di Francesca? Che sapore avrebbe avuto un bacio della professoressa? No, non doveva pensarci. Non era una cosa normale. Quanto meno, era del tutto immorale. Ma era maledettamente difficile rimanere impassibile davanti a quel seno che premeva a ogni respiro e pareva volesse scoppiare fuori dai bottoni tirati, di una sottile camicetta bianca.
Chissà se la Zoratti aveva un compagno, un marito, una famiglia? Chissà se aveva un amante che sapeva farla sentire veramente donna nel profondo dei sensi? Che sapeva toccarla sapiente nei punti giusti? La sua mente la immaginò fuori dalle mura scolastiche, nell'intimità del suo bagno. La vide caricare la lavatrice, gettandoci dentro il reggiseno e il perizoma appena sfilati. Ma insomma! Si doveva concentrare. Prendere appunti. Il volo, il programma, l'abbigliamento più consono per il clima britannico. Ma come faceva con quella prof così sexy che spiegava con la voce flautata? La Zoratti guardò dritta dalla sua parte. Per qualche secondo che parve infinito i loro sguardi si incrociarono. Poi la professoressa sorrise. Si sentì le guance avvampare di rossore. Pregò che nessuno se ne accorgesse. Che nessuno intuisse i pensieri osceni che si erano impadroniti del suo cervello ormai da un'ora.
Come Dio volle, la campanella suonò. Uno dopo l'altro, tutti lasciarono la classe, mentre la professoressa rimetteva in ordine le carte nella sua borsa. A quel punto, un'idea balenò maliziosa nella mente. Quando anche l'ultimo dei presenti fu uscito, si avvicinò all'oggetto del suo desiderio. Da vicino, qualche piccola ruga tradiva la freschezza dell'affascinante docente, ma il profumo conturbante che emanava confermava prepotente l'attrazione che sapeva esercitare. Si decise. Giocò il tutto per tutto. Le tese la mano sfoderando il suo sorriso più sensuale:
— Sono Marica Andreolli, la mamma di Davide della terza D. Posso avere il suo numero di cellulare, professoressa? Prometto di non disturbarla. Non sono una madre apprensiva, ma mi farebbe piacere sapere di poterla sentire… per ogni evenienza… lei è una persona talmente carina.


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RITROVARSI

di JohanRazev
L'automatismo del risveglio è frutto di anni da tirocinante: ben dopo la sveglia, i passi pencolanti e la pisciata mattutina che solo per miracolo finisce tutta dove deve finire, so di esser vivo solo al quarto colpo di spazzolino.
Mettendo a fuoco l'immagine nello specchio, quel mondo di dolce tepore uterino sotto le coperte torna a presentarsi come una attraente alternativa, che però poi si scioglie, dalla testa al lavandino, con saliva, dentifricio e sangue. Infine riprogrammo il "Controllo dei P.V." e, in questo modo, la mia vita riparte da 00.00'.00''.oo.
Maria aveva già aperto la finestra, quando tornai in camera. Il cielo era cianotico.
– Ben svegliato – disse lei, – Hai preparato ieri sera la roba per la scuola?
Ammisi che tale impiego si era smarrito fra Canale8 e il romanzo di Lamberto Narciso. Le lessi in fronte una certa disapprovazione, ma non disse nulla: lo considerai il mio regalo per il 9 nel compito di Tanatologia.
Superandola, raggiunsi la libreria, dalla quale pendevano come tagliole i testi scolastici e ai cui piedi, invece, era stata gettata la borsa a tracolla.
Da una cartellina sfilai gli orari delle lezioni:
Martedì: 8.00 - 8.50/8.50 - 9.40 Psicologia; 9.40 - 10.30 Letteratura di Supporto; 10.30 - 10.40 Intervallo; 10.40 - 11.30/11.30 - 12.20 Filosofia; 12.20 - 13.10 Stage di lettura.
Seguendo l'ordine, svuotai la borsa dal vecchio contenuto e la ingolfai con il nuovo. Punto però dal dubbio, presi il diario: "ore 16.00, Foro della Colonia: dottor Paolo Scabrini".
– Il saggio di Ariès? – domandò Maria, con finta noncuranza e sempre aggiornata sul mio programma.
– Non credo verrò interrogato. – Mi difesi blandamente, infilando i pantaloni.
Di lì a un quarto d'ora raggiunsi la fermata del bus, con il quotidiano sotto braccio.
Bagnato dal sole e con il cappotto gonfio di vento, mentre assaporavo la primavera che si avvicinava all'estate con passo incrollabile, le urla di un bambino attirarono la mia attenzione: lo vidi puntare i piedi, testardo, mentre la madre tentava di convincerlo con un banale "guarda che ti lascio qui!".
Ma fu allora che lo stridore dei freni dell'autobus chiamarono e lo sbuffare degli ammortizzatori delle porte mi invitarono ad entrare. Salendo, però, pensai a mia madre.
All'interno, cercai Giorgio e Marco ma non li vidi. A quel punto immaginai per entrambi un malanno artefatto, esasperato a tal punto da convincere chiunque circa la necessità di dormire ancora e che senza dubbio domani si sarebbe tornati a scuola, perché comunque "oggi non c'era niente di particolare".
Sorridendo, mi sedetti accanto al finestrino. Lasciai saltellare la mia attenzione da un palazzo all'altro; facendo però fatica a vedere con nitidezza, a causa del lerciume del vetro, finii per ripensare al bambino di poco prima: uno degli studenti del nuovo programma di riforme. A distanza di quarant'anni avevano deciso di anticipare l'età minima del C.M.M.D.
Fermata dopo fermata, la maggior parte della gente stava ormai in piedi. Solo quando la testa aveva preso a ciondolare, nel display accanto al conducente lessi: “Cornello - Istituto C.M.M.D. Ugo Foscolo"
Quando il bus si fermò e le porte si aprirono, la serqua di vecchi insetti sciamò fuori. Io mi diressi verso la cancellata, dove Marco attendeva, appoggiato al bastone da passeggio. Sempre elegante, con il doppiopetto e il cappello calato fin sopra gli occhi.
– Pensavo non saresti venuto. – A quelle parole mi schioccò un mezzo sorriso ma non disse altro. Gli chiesi se avesse visto Giorgio.
– Non è stato bene. Lo hanno trasportato all'Ospedale San Bartolomeo.
– Più tardi andremo a trovarlo, allora.
– Dopo l'incontro con Scabrini. – specificò, con indifferenza.
Ci avviammo all'ingresso, mentre gruppi di bulletti si squadravano a vicenda e il bidello – chiamato Coyote, per chissà quale ragione – osservava con occhi truci chiunque non si piegasse ai tempi della campanella.
Quando entrammo nell'atrio, fissai la bacheca degli studenti notabili. Giorgio vi figurava: Primo Premio nelle Olimpiadi della Motivazione, anno 2050; Primo Premio nei Giochi della Memoria, anno 2051 ed anno 2053; Secondo Premio nelle Gare Ospedaliere, anno 2051.
Il suo sorriso era impostato, quasi una sfida, anche se nessuno pensava ragionevolmente di poter competere con un genio e del resto in quella scuola nemmeno erano previste vere e proprie gare, ma solo adeguate preparazioni. La sua soddisfazione, allora, si poteva reinterpretare come l'apice della carriera scolastica in vista dell'Esame Finale.

Conoscevo Giorgio dai tempi dell'Ugo Foscolo, prima dell'introduzione del Programma e delle succursali per l'istruzione indirizzata alla conoscenza e accettazione del decesso, o "Passaggio" o, più ufficialmente, appunto, Esame Finale.
I licei erano nominalmente i medesimi, standardizzati secondo gli Statuti del 2013. Dai loro elenchi venivano riselezionati gli studenti a cui si spedivano le Lettere di Richiamo.
Io e Giorgio non ci eravamo mai davvero persi di vista e fummo felici di riallacciare i rapporti anche con Marco, che spesso propose serate davanti a una vecchia console per commemorare i tempi andati.
Appena passata la bacheca, disse infatti:
– Potremmo portargli la EvoGame3 che ho in mansarda.
Il sorriso che gli rivolsi si interruppe unicamente nel vedere il Professore di Psicologia già in aula. La lavagna digitale alle sue spalle annunciava: Giorgio Pederiali,
Il suo Passaggio e la nostra Reazione.
Giorgio.
Era passato.
Quando ci fummo sistemati ai banchi, il professore alzò lo sguardo con quella pienezza, mi dissi, di chi conosce a menadito le reazioni, i tempi di lutto, i coaguli mentali immobilizzanti.
"E' passato.” ripetei. Non riuscivo a farmene una ragione, e questo rappresentava il mio personalissimo fallimento del quadrimestre.
Il professore distribuì un malloppo di fogli: la traccia per un tema.
– Compito in classe a sorpresa.
Quando tutto fu pronto, alle sue spalle venne proiettato un filmato dei soliti dieci minuti, con biografia del deceduto e cause del decesso. Nel caso presente: attacco apoplettico.
Tutti, Marco compreso, facevano cenno di sì con la testa: una sfida impegnativa, dovettero considerare. Il deceduto era nominalmente molto importante e le ripercussioni profonde. Il tetra gamma di Marrey non era adatto; meglio approntare una critica Deadleyana; et cetera...

Io nemmeno ricordavo più come andasse sviluppato un tema dedicatorio. Soffocato dalla desolazione, decisi di fare per conto mio, mandando al diavolo le istituzionalizzazioni scolastiche, pur di metter giù qualcosa.
“Giorgio era il mio migliore amico e oggi avrebbe potuto giocare con la EvoGame3.”

Quando presi il mio 4+, del tema ricordavo solo quella frase.
Bevendo un sorso di vino con Marco, al bar, parlai di mia figlia Maria – intendevo nasconderle il voto – e della gita all'obitorio della settimana successiva.
– In concomitanza con il tuo 73esimo compleanno – notò Marco.
(Racconto vincitore)


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RITORNO AL LICEO

di Roberto Guarnieri
Il vecchio liceo è esattamente come lo ricordavo. Sarà la solita frase stupida che dicono tutti, ma è la prima che mi viene in mente.
Gli edifici a un piano, bianchi e cotti dal sole, la siepe mal curata cresciuta a dismisura per impedire la vista sul cortile, le finestre spalancate con i ragazzi seduti sul davanzale a guardare la spiaggia di Maggio che inizia a popolarsi. E, come al solito, il piccolo parcheggio riservato agli insegnanti, con le auto un po’ vecchiotte parcheggiate alla rinfusa, e gli scooter, esclusi, buttati in lunghe file sulla strada. Nessuno era mai riuscito a estorcere a un Preside il permesso di farli parcheggiare all’interno.
Scendo dalla macchina con un po’ di emozione, mi aggiusto la giacca nera e infilo gli occhiali da sole. Era sempre stato così luminoso, in primavera. Potevi criticare tutto al Leonardo Da Vinci, ma la sua posizione in riva al mare lo rendeva unico, allegro e solare. Entro dal cancello, aperto e incustodito. Mi immagino i pochi bidelli, vista l’ora, accanirsi sulle pizze bianche al rosmarino arrivate calde nella scatola di cartone.
La rete di corridoi, dove le matricole si perdevano nei primi mesi, non è un ostacolo. Ricordo tutto. L’ingresso della palestra degli uomini, rigidamente separato da quella femminile, la macchinetta del caffè, da prendere a calci per farle sputare qualche cioccolata in più, il cortile esterno della ricreazione dove i più audaci riuscivano a infilare la vespa o il motorino, per poi vederselo smontare dai compagni di classe. Poche trasgressioni, ai miei tempi, al massimo qualche canna nei bagni. Pillole, tatuaggi, sbronze in classe o video chat porno non sapevamo nemmeno cosa fossero. Meglio ancora, non c’erano proprio.
Le insegnanti stronze, invece, quelle si. A iosa.
Ero proprio curioso di incontrare la Marchetti. Acida professoressa di matematica, sterminatrice di alunni e specializzata in animi spezzati. Nonché permalosa e vendicativa, tanto da far bocciare in quarta la mia ragazza perché il fratello le aveva risposto male a lezione.
— Non hai nessuna idea di cosa sia la matematica — mi sibilava sempre a ogni interrogazione. Per non parlare della ironica, offensiva risata sbattuta in faccia quando seppe che io e il mio migliore amico volevamo iscriverci a fisica.
Me ne fregai, ma Luigi no. Era un genio, timido e un po’ imbranato. Lo costrinse a segnarsi a Lettere solo perché a suo giudizio scriveva bene e non capiva nulla di analisi matematica. Divenne un insegnante svogliato e fallito in uno squallido Istituto professionale di periferia, carico di rimorsi e mezzo morto di fame. Si è ucciso tre mesi fa. La settimana successiva il suo articolo sulla teoria gravitazionale alternativa, scritto di notte nei ritagli di tempo tra la correzione di un tema e la sistemazione di un registro, era stata pubblicato con successo.
Alla mia ragazza non andò meglio. Lasciò gli studi e finì a pulire uffici nei centri commerciali. Proprio per questo sono tornato qui. Per chiudere questa questione una volta per tutte. Cerco l’aula al secondo piano, salgo le scale sfiorando i muri e le piccole scritte in maniera quasi religiosa. Magari c’è ancora qualcosa di mio da qualche parte. Arrivo davanti alla porta verde con la maniglia ottone consumata. Il cuore salta un battito. Quanti ricordi. Uscite di corsa a ricreazione, voli verso la vespa, ripassi nel bagno prima del compito di Analisi. e l’odore. Quello lo avevo dimenticato.
Sospiro a lungo e mi faccio coraggio. Busso due volte, entro deciso. Come ricordavo la cattedra è sul lato opposto dell’ingresso. La Marchetti, capelli castani arruffati, occhiali oro appesi con una cordina verde e camicia a fiori troppo austera persino per una della sua età, è seduta con la penna in mano e ripassa nomi su registro di classe. Sono arrivato giusto prima di una interrogazione.
Alza gli occhi e si rabbuia subito.
— Lei cosa desidera? — chiede in maniera sgarbata.
Non mi fermo, arrivo piano davanti alla cattedra, estraggo la pistola col silenziatore e sparo due colpi. Il primo le apre un buco nel petto, facendola sussultare. Il secondo la centra in fronte. La testa frusta l’aria e lei finisce a gambe all’aria rotolando all’indietro con tutta la sedia, senza nemmeno un grido di dolore. Sulla parete un'aureola rossa di schizzi di sangue.
In aula il silenzio è assoluto. I ragazzi sono paralizzati dal terrore, cristallizzati in una serie di espressioni assurde.
Li guado bene, prima di uscire calmo come sono entrato. Francesca, la più carina della classe, con la sua coda di cavallo sempre curata e la matita in mano ferma sul diario. Quanto l’ho amata. Rocco e Matteo, imboscati a testa bassa nell’ultima fila a ricopiare la versione per l'ora successiva. Luigi con gli occhi persi al soffitto, immerso in una delle sue strambe teorie. Poi ci sono io, con i capelli a caschetto, lunghi e disordinati, la spilletta dei Ramones sui pantaloni e un penoso gilet senza maniche anni settanta.
Guardo l’orologio. Ancora tre minuti e la crono macchina si riavvierà in maniera automatica, portandomi avanti nel tempo, nel mio laboratorio del CERN di Ginevra. Da qualche parte, penso allegro, si sta creando una linea temporale alternativa. Io non potrà mai vederla, ma Luigi e Francesca ne saranno protagonisti.
Il Whisky mi attende per un brindisi solitario. L’esperimento è riuscito.
La vendetta anche.


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UNO STRANO PROFESSORE

di Angela Di Salvo
Giovanni Gioberti faceva il collaboratore scolastico nell’istituto tecnico statale “ Deledda” da vent’anni.
Il mondo della scuola era tutto per lui e amava quel mestiere con tutto se stesso.
Quegli adolescenti così fragili e così esuberanti, ciarlieri e sorridenti, era come se fossero tutti creature sue, dato che non aveva avuto figli e non aveva potuto sperimentare il ruolo di un vero padre.
Da quando sua moglie era morta ed era rimasto solo, sentiva maggiormente rafforzato questo attaccamento alla realtà della scuola e soprattutto aveva sviluppato un’attenzione quasi morbosa per tutto quello che succedeva dentro le mura dell’istituto.
Gli pareva che le sue orecchie avvertissero con maggiore acuità ogni rumore, ogni vocio, ogni chiacchiera e lamentela e che i suoi occhi fossero diventati capaci di osservare tutti quei dettagli che magari, un tempo, gli erano sfuggiti o su cui aveva sorvolato per amore del quieto vivere.
Anche quell’anno era iniziato nel consueto modo; parecchi ragazzi si erano diplomati e altri erano subentrati, mentre il corpo docente si era rinnovato a seguito di alcuni pensionamenti e trasferimenti.
Fra tutti lo incuriosiva particolarmente Adolfo Morosi, il nuovo insegnante di matematica e fisica. Aveva circa quarant’anni, moro con gli occhi verdi, fisico asciutto e atletico, capelli lunghi e brizzolati. Vestiva in modo bizzarro e teneva un atteggiamento scostante. Il suo sguardo, gelido e inespressivo, gli incuteva una soggezione mai provata.
Il professore Cutelli, che lo aveva preceduto, si era preso un esaurimento nervoso a causa dei conflitti insanabili che erano sorti con gli studenti della terza F.
Già, la terza F. Una classe difficile, piena di ragazzi ribelli e svogliati. Il poveretto ci aveva messo l’anima per recuperarli, ma alla fine, stanco e amareggiato, si era trasferito in un’altra scuola.
“Questo Morosi troverà filo da torcere”- pensava Giovanni, convinto della difficile impresa che avrebbe dovuto affrontare il nuovo aitante professore.
Ma ben presto dovette ricredersi.
Dopo appena un mese dal suo arrivo, fra l’incredulità generale, la scolaresca si trasformò completamente. Gli studenti si mostravano entusiasti della sua eccezionale preparazione unita a una competenza didattica innovativa e stimolante.
Li ascoltava parlare di lui nei corridoi, li vedeva entrare docili e contenti nell’aula e quando vi si recava per consegnare qualche circolare, notava il silenzio irreale che vi regnava e l’espressione estatica dei volti dei giovani che guardavano il loro professore con adorazione. Non si spiegava come potessero amare a tal punto una persona che invece a lui risultava odiosa e insensibile.
C’era qualcosa che non quadrava e questo lo riempiva di inquietudine. Ci pensava giorno e notte, senza potersi più sottrarre a quella che era diventata per lui una specie di ossessione.
Doveva saperne di più. Ma come? Un bidello, come chiunque altro, non poteva diventare invisibile per osservare cosa facesse o dicesse il professore in classe dopo che si chiudeva la porta alle spalle e iniziava la lezione.
Chissà perché, ma sentiva che per il bene dei suoi ragazzi doveva fare qualche indagine.
Così comprò una minuscola telecamera e una mattina, prima del suono della campana, la piazzò sopra l’armadio in fondo all’aula, proprio di fronte alla cattedra, perfettamente mimetizzata in mezzo a un manufatto artistico che riproduceva una struttura agricola in miniatura. Sapeva che spiare era una cosa scorretta ma non se ne preoccupava affatto. Doveva vederci chiaro, a qualsiasi costo.
La mattinata passò velocemente e al termine delle lezioni, quando a scuola non c’era più nessuno, dopo aver fatto il solito giro di pulizie, l’uomo prelevò indisturbato la sua apparecchiatura e si recò trepidante a casa per visionare la registrazione.
Tutto avrebbe immaginato tranne quello che si mostrò ai suoi occhi esterrefatti.
Nel video si vedeva il professore che entrava, chiudeva la porta e si accingeva ad abbassare le serrande delle finestre facendo piombare l’ambiente in penombra. Dopo aver proferito delle parole incomprensibili con una voce metallica, si metteva a centro dell’aula e fissava a lungo gli alunni che rimanevano silenti e paralizzati.
Poi i suoi occhi si dilatavano, lampeggiavano ed emettevano una luce verde che si ramificava in tanti raggi e raggiungeva gli studenti presenti. I giovani sussultavano, si accasciavano sui banchi per qualche secondo, infine rialzavano il capo.
Quindi il docente faceva entrare nuovamente la luce dalle finestre e cominciava a scrivere formule incomprensibili alla lavagna con una velocità strabiliante, mentre gli allievi prendevano appunti e riempivano in pochi secondi pagine e pagine di quadernoni. Ogni tanto riprendeva a parlare in quella lingua sconosciuta e faceva gesti insoliti, come toccarsi le orecchie e battere la mano sullo stomaco all’altezza dell’ombelico.
Giovanni era così sconvolto che fu costretto a interrompere la registrazione. Temeva di impazzire. Ma gli risultava evidente che Morosi non era un professore “normale” e che venisse da chissà dove per eseguire un piano oscuro. Forse era un mostro alieno dalle sembianze umane venuto sulla terra con il fine di mettere in atto un progetto diabolico di manipolazione mentale.
Dopo una notte trascorsa sveglio e in ansia, la mattina successiva si recò deciso dal dirigente scolastico.
- Gioberti, che c’è? - gli chiese appena lo vide entrare nella sua stanza, colpito dal suo sguardo spiritato.
- Le ho portato una registrazione di qualcosa di terribile che sta accadendo nella nostra scuola – riuscì a farfugliare il bidello – La guardi e poi… agisca di conseguenza.
Non gli diede il tempo di ribattere e uscì di fretta. Non aveva il coraggio di restare lì e rivedere quelle immagini da film di fantascienza.
Ma non se la sentiva di fermarsi a scuola e attendere che succedesse il finimondo, così si allontanò con la scusa di un malessere improvviso.
Arrivato a casa, si distese sul letto e attese. Finalmente squillò il cellulare.
- Pronto – biascicò con la voce tremante.
- Gioberti – rispose il Preside con tono irritato - Non sapevo che amasse gli scherzi. Mi vuole spiegare perché mi ha consegnato una registrazione dove non c’era un bel nulla?
- Come, nulla? Ma non è possibile – obiettò frastornato Giovanni.
- Domani venga da me che ne riparliamo. Forse quello che è successo a sua moglie lo ha lasciato troppo scosso. Credo che debba prendersi un periodo di riposo – la voce del preside si era fatta morbida e persino pietosa. Poi interruppe la comunicazione senza nemmeno un saluto.
Ma cosa era accaduto? Come mai di quel video non era rimasta traccia?
Il brav’uomo si rodeva, tormentato dal fatto che non poteva raccontare quello che aveva visto perché nessuno gli avrebbe creduto senza alcuna prova.
Rimase a lungo sconsolato in balia delle sue angosciose domande.
Ma di una cosa era certo. Non sarebbe stato in grado di fare più niente per salvare quei poveri ragazzi.



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