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Indice:
La gara
La prima presentazio…
…e la seconda
Il Futuro mi corre alle
Il triangolo della m…
Un quadro grigio
È questo il punto
L’indecorosa fine di…
L’artista
La fotografia
Sergej, il guerriero
Il Maestro e l’Allievo
Non avrei mai creduto
Sono libero
Il paziente
Luci e Ombre
Sostieni la nostra p…
Copyright
Una produzione

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La gara

Gara 6
UN RACCONTO IN UNA FOTOGRAFIA
LUGLIO 2009
 
antologia per BraviAutori.it
 
A cura di Alessandro Napolitano e Dafank
 
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
 
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
 
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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La prima presentazione…

 
Le fotografie di Dafank le ho scoperte al tempo di "Nebbia Rossa". Scrivevamo insieme (ad altri anche) i capitoli del nostro romanzo non-scritto e di tanto in tanto mi affacciavo sul suo sito (www.dafank.it). Ci siete mai stati? Andate a fare un giro tra le sue fotografie, resterete a bocca aperta come me.
Poi è arrivata l’ora di un improbabile "007" e della mia prima Gara da vincitore. Dato che chi vince una Gara poi deve occuparsi dell'organizzazione della successiva, ho cercato qualcosa per essere originale e mi sono ricordato di Dafank e dei suoi scatti. È nata così l’idea di Gara 7. "Un racconto dentro una fotografia", recita il tema dell’e-book, e così è stato per tutti voi.
 
Grazie per aver partecipato!
 
Ale


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…e la seconda

      

"Un giorno una signora mi telefonò e mi disse: - Signor Escher, sono affascinata dai suoi lavori. Nella sua composizione "Rettili" ha raffigurato in maniera convincente la reincarnazione. - Le risposi: - Se Lei crede di trovarvi ciò, sarà davvero così. -"
 
Maurits Cornelis Escher aveva semplificato così, in poche parole, un concetto ben più complesso, come la soggettività nell’interpretazione di un opera d’arte. Per quanto un artista possa essere consapevole o meno del messaggio insito nella sua opera, gli occhi sensibili dei suoi molteplici fruitori scopriranno nuovi significati, reconditi persino all’autore stesso. Sì, perché un opera d’arte è capace di evocare immagini, suoni, voci e storie diverse: è sempre artefice di una macchinosa sinestesia sensoriale in grado di dar vita a nuove forme di pensiero, e (perché no) a nuove creazioni artistiche.
 Così i nostri abili concorrenti alla sesta edizione della Gara di scrittura creativa di BraviAutori.it si sono lasciati ispirare da una fotografia in bianco e nero che di artistico aveva ben poco, ma che è stata in grado comunque di suggerire nuovi spunti per tredici bellissimi racconti. Io stesso che ho compiuto lo scatto non avrei saputo inventarmi di meglio. Il merito senza dubbio non è nella capacità comunicativa della foto, ma nelle algide menti dei nostri abilissimi autori, nonché nelle loro talentose penne.
Tra tutti i racconti inviati, però, abbiamo avuto il difficilissimo compito di dover sceglierne uno. Per l'ottima interpretazione della fotografia tema del concorso, per l'originalità dimostrata nello sviluppo della storia e per la qualità della stessa, la giuria ha decretato vincitore della Gara 6 di BraviAutori.it Cmt con il suo racconto “Luci e Ombre”. Complimenti Cmt!
E’ giunta l’ora, quindi, di lasciarvi gustare questo nuovo e intrigante ebook, sperando che sia di vostro gradimento, e di ringraziare tutti i partecipanti per essersi prestati anche stavolta a questo divertentissimo gioco.
 
Alla prossima Gara.
Dafank.


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Il Futuro mi corre alle spalle

di Carlo Celenza
 
Alle mie spalle si addensa il futuro, scuro e minaccioso come una stanza buia. A nulla vale a rischiarala la luce del mio passato, ordinato e luminoso nella mia memoria.
So che vagare tra i ricordi cercando le ragioni del mio domani è inutile, ma voglio farlo ancora una volta, perché tu resti con me quando il futuro mi coglierà. Non mi toglieranno il tuo odore di grano scaldato dal sole, il calore del tuo petto, la calma che sapevi darmi. Ora lo so, della mia vita ordinata e metodica, restano solo una fila di logore scatole cui solo tu potevi dar valore. Assieme a te le aprivo e guardavamo in ognuna. Non eri mai sazia e della tua meraviglia mi stupivo.
Non credevo di avere tanto dentro di me, ma tu chiedevi e io tiravo fuori da quei polverosi contenitori vecchie immagini in bianco e nero che mentre parlavo prendevano colore. Ogni giorno era più bello e l'ansia di rivederti più grande. Quelle scatole grigie presero man mano un senso e per te gli diedi nome e colore. Sembravano agitarsi e scuotersi per farsi notare da te, per invogliarti a chiedermi di aprirle.
Giorno dopo giorno la vita entrava in quei ricordi e usciva dalle mie labbra a colorarmi gli occhi e il viso. Ma il futuro vigliacco era in agguato alle mie spalle. Spiava furtivo, rimandando l'occasione finché fossi stato tanto vivo da poter ben soffrire e solo allora ha colpito sguinzagliando i suoi sicari. Doveva prendersi me, con la mia lunga vita senza scopo e non lasciarmi qui, libero di vendicarmi. Aveva un nome quel futuro e un cognome.
Il giorno dopo ero io il suo futuro e come lui ho atteso che fosse ben vivo e in buona salute, che avesse molto sangue nel suo corpo e molti desideri da soddisfare. Uno a uno glieli ho tolti. L'indice destro vedi? Gli dicevo agitandoglielo davanti agli occhi. Con questo non indicherai più nessuno, ma prima di farti sprofondare nel buio, perché anche gli occhi ti toglierò, vedrai i tuoi desideri svanire a uno a uno. Ma gli ho crudelmente lasciato una speranza, chiamando la polizia per dire, mentre lui ascoltava, chi ero e cosa stavo facendo. Forse arriveranno prima che io abbia finito, gli dissi sorridendo, mentre continuavo a togliergli pezzo per pezzo il suo futuro.
Alla fine gli lasciai l'occhio destro, per vedere in bell'ordine sul pavimento tutto quel che gli avevo tolto.
Ora che sai di non avere più un futuro, gli dissi, guarda la lama che ti ucciderà e lentamente gliela infilai dritta in quell'occhio premendo bene con le mani a coppa sul manico. Anche quel ricordo ora è in una scatola grigia tra le tante ordinatamente allineate nelle stinte stanze della mia vita.
Ora le guardo ma ricordo solo le tue domande, una per una. Le rimescolo come un mazzo di carte quelle domande, poi torno a guardarle una per una. Niente ha maggior valore per me ormai e di quel che sta arrivando alle mie spalle nulla mi importa, davanti a me solo il mio passato con te.
Silenzioso e tranquillo mi allontano da quel futuro incombente che non troverà di me che la mia ombra.

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Il triangolo della morte

di Dino Licci
 
Seduto in strada, James faceva scorrere la matita sul blocco che reggeva con la mano destra, sollevando di quando in quando lo sguardo verso i portici che stava disegnando.
Ciò che lo attraeva non era tanto l'architettura, pur degna di nota, quanto il gioco di luci e ombre creato dagli archi, che sperava di riuscire a riprodurre lasciandone inalterato il fascino.
Scurì una parte del foglio con un sapiente tratteggio, poi tornò a osservare il suo soggetto e si accorse di una figura che non aveva notato arrivare. Camminava in una delle zone in ombra e appariva a sua volta poco più di un'ombra, impossibile distinguerne i lineamenti. Il passo era spavaldo e misurato, i pugni stretti, e si muoveva lentamente verso la sua posizione, causandogli un lieve moto di inquietudine, trasmettendogli un indistinto senso di minaccia.
La vide muovere due lenti passi in sequenza e attese che giungesse nella zona illuminata, nella speranza di poterlo identificare e comprendere se davvero ci fosse motivo di temerlo. Ma non vi giunse mai.
James trasalì. Scattando in piedi rovesciò lo sgabello ma neppure se ne accorse, concentrato com'era a cercare di conciliare la realtà di ciò che aveva visto con quello che stava vedendo in quel momento.
Sapeva di non essersi sbagliato, che la figura in movimento era esistita davvero e non era stata solo un gioco di luce, eppure ora i portici apparivano deserti così come lo erano stati quando aveva iniziato il suo lavoro.
Si strofinò gli occhi col dorso delle mani, segnandosi la fronte con la matita che aveva dimenticato di tenere in pugno. Oltre a far comparire delle danzanti macchioline colorate nella sua visione, non ottenne nulla, né mutamenti né spiegazioni.
La curiosità vinse la paura e lo spinse ad attraversare la distanza che lo separava dal porticato. Subito avvertì un lieve calo della temperatura, di certo dovuto al fatto di essere entrato in una zona d'ombra, pensò.
Stava per inoltrarsi nell'area coperta quando si irrigidì: la figura che aveva visto era ricomparsa. Di nuovo si trovava nell'ombra, ma ora era più vicina, quasi fosse scomparsa solo per il tempo necessario a oltrepassare la luce tra un'ombra e l'altra.
Nonostante la ridotta distanza, l'essere - si ritrovò a etichettarlo così, non riuscendo a usare altri termini - continuava a non avere un aspetto discernibile al di là della sagoma. Già dire se fosse un uomo o una donna sarebbe risultato difficile, ma qualunque cosa fosse vi era una certezza: era malvagio.
James non sapeva come potesse asserire qualcosa del genere, ma non gli importava, lo sentiva e questo era sufficiente. In un altro momento, in un altro luogo, avrebbe riso della sua stessa irrazionalità, ma era lì, in quell'istante, e non sarebbe riuscito neppure a sorridere.
La figura accelerò il passo, dirigendosi senza dubbio alcuno verso di lui. Ancora due passi e poi svanì come già aveva fatto, ma questa volta James sapeva che sarebbe riapparsa appena superata la chiazza di luce.
E così fu.
Se la ritrovò quasi di fronte. Avrebbe potuto sentire il suo respiro, se ve ne fosse stato uno. Invece sentì solo il silenzio, accompagnato da un gelo che raggiungeva le ossa, o meglio che sembrava irradiarsi da esse verso l'esterno. Ancora non vedeva alcun dettaglio, alcun volto, alcun lineamento, ma vide le braccia sollevarsi e le mani aprirsi puntando verso la sua gola.
Indietreggiò, chiudendo gli occhi d'istinto e aspettandosi di sentire la pressione di dita spettrali attorno al suo collo, a togliergli il respiro. Non accade nulla.
Riaprì gli occhi. L'essere era ancora davanti a lui, a pochi centimetri. Aveva le braccia tese ma non poteva raggiungerlo, non aveva nulla con cui afferrarlo: le sue mani avrebbero dovuto essere nella luce, e non c'erano, quasi fossero state cancellate con un unico passaggio di gomma.
James trasse un profondo respiro. Finché restava nella luce era al sicuro. Avrebbe avuto il tempo di allontanarsi da lì e dimenticare quella storia, archiviarla come qualcosa di mai accaduto.
Fece un altro passo indietro, senza distogliere lo sguardo dall'ombra davanti a sé. Poi il respiro gli si mozzò di colpo. Dita gelide gli premettero la gola fin quasi a penetrarvi, e sentì la vita che gli sfuggiva dal corpo più rapidamente di quanto avrebbe creduto possibile.
Gli occhi gli si rovesciarono all'indietro e, prima che l'oblio lo avvolgesse del tutto, gli concessero un ultimo sguardo al cielo e all'unica nube che in quell'istante oscurava il sole.
 
 
 
 


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Un quadro grigio

di Manuela Costantini
 
Si sedette su una panchina appena fuori della galleria, dopo aver percorso con passo sicuro un lungo porticato, e stracciò la carta che ricopriva il quadro. Voleva vedere se, alla luce del sole, i colori erano gli stessi. Era un quadro grigio. Anche se fuori c'era il sole. In fondo aveva fatto la scelta giusta, si disse, prima di uscire dalla galleria.
Scegliere quel quadro non era stato facile. Ce n'erano così tanti che facevano girare la testa. Tutti quei colori, quelle linee, quei segni fermati su una tela senza nessun motivo apparente.
Era arrivato lì dopo aver passeggiato nel parco e aver visto una locandina che pubblicizzava la mostra di un pittore che aveva sentito nominare, da qualche parte. O forse non l'aveva mai sentito nominare, ma non aveva niente da fare e doveva aspettare che arrivassero le otto di sera. Doveva, in qualche modo, ammazzare il tempo. Non poteva tornare a casa prima del previsto. Non avrebbe avuto la pazienza necessaria a sopportare tutte le domande e le chiacchiere della moglie, stanchissima e instancabile, che non la smetteva mai di parlare e di lamentarsi di niente. Era stato al parco, aveva fatto il giro del laghetto nel parco, si era fermato a guardare la giostra con i cavalli che girava e girava e portava nei suoi giri fantastici i bambini sorridenti e felici di partire per un altro pianeta, quando salivano lì sopra. Era stato alla stazione, con l'intenzione di prendere un treno senza destinazione, ma poi non aveva preso niente. È uno di quei pensieri che hanno tutti, almeno una volta nella vita, si disse. Ma nessuno prende il treno. E poi le stazioni hanno un odore immediatamente riconoscibile. Come gli ospedali. Per quanto ogni stazione sia diversa da un'altra, per quanto una grande stazione sia sempre piena di gente e una piccola stazione di provincia sia invece vuota, deserta, con tre binari soltanto, su cui si fermano pochissimi treni, l'odore è sempre lo stesso. Così come quello di un ospedale. Quindi non era partito. Perché poi il treno sarebbe arrivato da qualche parte e lui sarebbe sceso da qualche parte e avrebbe, di nuovo, sentito quell'odore. Non era andato in ufficio quella mattina. Seppure sapeva di avere almeno mezza giornata per lavorare, non ne aveva voglia. Non aveva voglia di concentrarsi su niente. Pensava insistentemente al quadro che avrebbe voluto comprare. Era come se qualcosa dentro di lui stesse prendendo il sopravvento e stesse schiacciando tutto il resto. Forse era l'idea del grigio che lo schiacciava, forse cercava e voleva un colore che non vedeva davanti ai suoi occhi. Non trovava posto e non trovava spazio per concentrarsi. Era andato dal suo medico, aveva fatto la fila, c'erano persone davanti a lui, aveva aspettato pazientemente e si era messo a pensare ad altro. Ai colori che mancavano in casa sua. Guardava quella sala d'attesa grigia e pensava a casa sua. Lui e sua moglie si erano trasferiti lì da poco e dovevano ancora arredarla per bene. C'erano gli scatoloni da svuotare, tutte le cose da sistemare, l'armadio nuovo da riempire e i quadri che mancavano. Lo avrebbe comprato appena avesse trovato quello giusto, abbastanza colorato da coprire tutto il grigio da cui era circondato. Non appena lo avesse trovato, lo avrebbe comprato senz'altro. Fu il suo turno. Entrò e diede al dottore quella busta bianca. Il dottore aprì la busta. Guardò il contenuto e con un'espressione stralunata e senza nessuna intonazione, gli disse che soffriva di una strana malattia, molto rara, causata dallo sforzo per vedere, dalla mancanza del naturale rilassamento mentale che presiede la buona salute. Così gli aveva detto il suo medico. Una strana malattia, molto rara.
- Proviamo con un piccolo esperimento - disse il dottore - metta le mani davanti agli occhi chiusi senza toccarli e resti così per qualche minuto. Provi. Così, come faccio io.
Fece questo giochino. E non è che non vedeva più niente. Quel velo grigio era sempre presente, lì, davanti ai suoi occhi.
- Cosa vede? - gli chiese il medico.
- Grigio.
- Infatti. Sa, il velo grigio che vede è un fatto puramente mentale, è lo sforzo inconscio per vedere e non ci sono cure, mi spiace. Sostanzialmente si tratta di mancanza di rilassamento mentale o mancanza di riposo. Non ci sono cure. Qualcosa di sperimentale, studi che parlano di imparare a "rimirare il sole". Se vuole le darò il nome di qualche specialista, può provare, ma non posso darle una cura adeguata e risolutiva.
- La ringrazio dottore, ci penserò.
Si sentì condannato e libero allo stesso tempo. Era come se finalmente avesse avuto la spiegazione della sua vita grigia. Di giorno il lavoro e la vita sempre uguali sembravano attutire quel grigiore. Ma di notte, invece, tutto sembrava magicamente sparire come nascosto dietro un velo che era impossibile da penetrare. Ma tanto lui lo sapeva già. E pensava fosse stanchezza, solo stanchezza. Forse era davvero solo stanchezza. Veniva dall'ospedale, uno di quei posti che, seppure diversi l'uno dall'altro, hanno sempre lo stesso odore. Come le stazioni. E lo stesso colore. Grigio. O verdino, o bianco, o celeste, ma sempre grigio era. Era andato lì per ritirare gli esami fatti qualche giorno prima. Non si sentiva molto bene da qualche tempo. Era stanco e aveva uno strano e leggero, ma persistente, dolore all'occhio destro. Non ricordava di aver ricevuto colpi all'occhio ma continuava ad avere dolore. In più gli capitava di avere, di notte, una visione distorta delle cose. Non riusciva a mettere a fuoco e doveva girare gli occhi da una parte, per riuscire a vedere le cose che erano davanti a sé, con uno sforzo assolutamente innaturale. Ne aveva parlato con il medico che gli aveva prescritto una serie di esami per controllare lo stato generale di salute. Gli esami fatti però richiedevano qualche altro accertamento. Non capiva perché ma aveva fatto anche quello. Senza dire niente a nessuno, neppure a sua moglie. E aveva anche visto, quella mattina, mentre ritirava il risultato dell'ultimo esame, la faccia del dottore. Grigia. E triste. Ma era mattina presto. Si era svegliato presto quella mattina. Prima del solito anche se era sempre stato un mattiniero. Amava il sole e amava avere del tempo per sé, in casa, prima di uscire e affrontare la lunga giornata sempre uguale, fra traffico e rumori e lavoro e bolle di accompagnamento e scatoloni pronti da spedire in qualche parte del mondo. Si era svegliato presto, aveva messo il caffè sul fuoco, lo aveva portato a sua moglie che gli aveva sorriso dolcemente, prima di cominciare con il suo brontolio. Lui adorava quel silenzio così breve, che però gli bastava per arrivare contento a fine giornata. Poi si era fatto una doccia, si era guardato allo specchio e aveva deciso che la barba poteva aspettare il giorno dopo. Si era vestito. Con il suo completo preferito. E si era fermato un attimo. Sua moglie si stava per alzare e lui sarebbe dovuto andare al lavoro. Aveva guardato con attenzione il suo nuovo salone e gli piaceva. Era contento di quella nuova casa, ancora da arredare, da vivere. Sapeva che avrebbe dovuto mettere almeno un quadro, su quella grande parete grigia che faceva angolo con la vetrata che dava sul giardino. C'era il sole fuori, quella mattina, oltre tutto quel grigio.

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È questo il punto

di Macripa
 
Io sono colui che vive al buio, in uno stretto tunnel. Sto sempre qui, da solo. A volte qualche passante frettoloso mi sfiora, non accorgendosi di me, che sono invisibile e silenzioso. Io sono il Mito, la creatura misteriosa, quella che tutti sanno che esiste, ma solo in pochi sanno dov'è. Eppure io vorrei tanto che qualcuno si fermasse un po' con me; non credo di peccare di presunzione, ma so che, se qualcuno mi trovasse, sarei in grado di cambiare la sua vita.
Come dite? Mi chiedete perché non cerco di attirare l'attenzione su di me? Semplice, perché io so che intorno a me sono nate mille leggende e so che per alcuni potrei rappresentare un pericolo, persino di morte!
Non posso mostrarmi, devo attendere che qualcuno si accorga di me e allora eccomi, sempre vigile. Non posso abbassare la guardia, devo essere pronto a ricevere eventuali interlocutori e cercare di capire se sono amici o nemici.
Qualcuno mi demonizza, credono che io sia l'incarnazione del Male. Credono che io possa condurre alle peggiori aberrazioni, annullando la volontà delle persone. Qualcun altro, invece, mi idolatra, credendo che attraverso di me si possa giungere al collegamento col Supremo.
Io sono qui da sempre, dalla notte dei tempi e, se non fossi triste, sorriderei di questo passare da un estremo all'altro, quando si parla di me. Tra l'altro, di me si fa un gran parlare solo da poco. Ho vissuto per millenni senza che nessuno si rendesse conto di nulla. Lo giuro, io son sempre stato qua! Non è che prima ero altrove e poi sono venuto qua!
Io ho visto foglie di fico diventare pelli di animali e queste ultime trasformarsi in tessuti via via sempre più preziosi. C'ero prima che ci foste voi e ci sarò quando non ci sarete più.
Bella sfiga, non poter neanche suicidarmi, nei momenti di peggiore sconforto! Credetemi, le giornate sono interminabili! Qui dove sono io è sempre notte. La luce del giorno la vedo solo se strizzo forte forte gli occhi e guardo in fondo al tunnel. Ma vedo solo del chiarore, non distinguo quello che avviene fuori. Che palle non potersi neanche muovere!
Come dicevo prima, di tanto in tanto passa qualcuno, ma sono passaggi fugaci, la gente ormai ha sempre più fretta. Non rallenta neanche per assaporare il gusto di qualcosa di piacevole. Vanno tutti tanto di corsa che, anche se ci inciampassero, contro di me, non se ne accorgerebbero!
A volte rimpiango quei periodi in cui a qualcuno salta in mente che DEVONO trovarmi e allora qua è tutto un andirivieni di gente! Ogni tanto senti qualcuno che fa "L'HO TROVATO!" e allora tutti si affollano lì da lui… ma non è mai dove sono io!
Uffa… insomma, lo avrete capito, no, che sono un tipetto parecchio insofferente?
Non so cosa augurarmi. Non se sperare di diventare visibile e accessibile a tutti, o continuare a essere il mistero.
Il punto è che sono stufo di stare sempre nascosto.
Ecco, è questo il punto!
Anzi, il punto sono io…
Sono il Punto G…

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L’indecorosa fine di un computer

di Gio
 
L'attesa pareva essere interminabile in quella sala d'aspetto, ormai erano andati via tutti, ero rimasta da sola.
Ripensavo alla mattinata trascorsa, solita sveglia alle 7, solito caffè macchiato, l'unica cosa insolita era la Voglia di alzarmi presto, da quanto tempo aspettavo quel giorno? Mi sembrava una eternità, e ora, finalmente il momento era arrivato!
Ripercorrevo con la mente gli ultimi mesi, l'avevo conosciuto in una community, leggerlo ed esserne incuriosita era stato tutt'uno, nemmeno sapevo il suo nome e già volevo conoscerlo. "Come è possibile" mi dicevo "queste cose non accadono davvero, o almeno non accadono a me, io sono razionale!". La prima cosa che feci fu uscire da quella cazzo di community e decidere di non entrarvi più.
I primi giorni furono semplici, ero contenta: "Le community, come le chat, sono per gli sfigati" continuavo a ripetermi "Io ho una vita piena, fatta di persone reali". Ma poi si sa che la curiosità è femmina, l'omicida torna sempre sulla scena del delitto… ecc… ecc…
Non avevo cancellato il mio account, e naturalmente dopo qualche giorno rientrai, ma solo per mera curiosità, null'altro! Andai a controllare il suo profilo e i suoi amici (amiche sgrunt). Come la prima e unica volta lo trovai attorniato da donne, qualunque cazzata scrivesse loro lo commentavano, con sorrisi e occhiolini.
"Poverette, si sa che questi luoghi sono frequentati da persone sole che cercano una sola cosa!" Mi facevano pena! Mica erano come me che non cercavo nulla (tsè), che ero spinta solo dalla mera curiosità. Null'altro!".
Presa da questi pensieri non mi ero accorta che LUI mi aveva lasciato un saluto, e dire che non avevo fatto nulla per farmi notare, non avevo messo nemmeno la mia foto (ma forse se l'avessi messa non mi avrebbe salutata… uhm…), le altre avevano notato il saluto, lo "Sentivo" e naturalmente leggevo i loro commenti: "rosicavano, ah se rosicavano!"
Risposi al saluto e iniziammo la nostra corrispondenza, mi confessò che la foto che aveva messo non era esattamente lui, ma che gli somigliava parecchio, stesso colore degli occhi, stesso sorriso, stesso fisico.
Caratterialmente non era proprio come me l'ero immaginato, simpatico era simpatico ma, lo confesso, mi sforzavo di ridere alle sue idiozie, in quanto a intelligenza non era quel che si dice una cima, però lo volevano tutte, un motivo, magari nascosto, doveva esserci!
Decidemmo di non vederci in foto, il nostro rapporto non doveva essere inficiato dall'aspetto fisico. (Beh era bello, almeno quello). E poi si era descritto cacchio! L'unica concessione fu sentirci al tel. Mioddio che emozione quel giorno.
 
Ok ok non aveva proprio la voce di De Niro, ma in fondo io di De Niro conoscevo la voce di Amendola, magari in Americano De Niro parla come paperino no?
Ok ok forse parlare di moda e muscoli al telefono non era il massimo, ma non volevo passare per la snob di turno, e poi non volevo giudicare in modo affrettato (in fondo era bello, cazzo, almeno quello!)
Quando decidemmo di vederci, scegliemmo di farlo nella sala d'aspetto di una piccola stazione, un un ambiente spartano e poco impegnativo per entrambi, e poi avremmo dato poco nell'occhio. Per riconoscerci avremmo entrambi portato una rosa rossa (si vabbè anche questo poco originale, ma era bello, cazzo, almeno quello!)
E ora ero lì che lo aspettavo, ero arrivata in anticipo, volevo vederlo scendere dal treno, volevo godermi ogni attimo di quell'incontro. Il treno arrivò con 15 minuti di ritardo ma non ci feci nemmeno caso, stavo per incontrare l'uomo più desiderato della community, cosa volevo di più!
Finalmente il treno arrivò, i passeggeri che scesero erano pochi e tra questi notai un ometto alto un metro e cinquanta vestito con una canottierina a rete, per mettere in risalto i muscoli. Rabbrividii… "Non può essere lui!"
Cavolo, ma che tiene in mano?
Una rosa!
"Dio, fa che non sia rossa…"
Guardai in cielo imprecando: "Dio, io ti ringrazio né!"
Mi passò davanti di corsa, mi cercava!
Non sono mai stata tanta felice di aver trovato il fioraio chiuso!
Mi alzai, tornai a casa e buttai il PC dalla finestra.

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L’artista

di Massimo Baglione
 
Ennesimo appuntamento. La direttrice dell'agenzia dice che questa è la volta buona.
Bene, sarebbe anche ora! Pago 500 euro al mese per trovare la donna giusta! Me ne hanno presentate dodici in sei mesi, comincio proprio a stufarmi. È vero, mi hanno rimborsato un paio di mensilità, ma questo non è sufficiente. E va bene, lo ammetto: con quasi tutte mi ci sono pure divertito, esattamente come mi sarei divertito in un night spendendo forse di meno. È la volta buona dice… così come me l'ha assicurato le altre volte.
Imbocco il porticato che porta diritto al ristorante che hanno prenotato per questo appuntamento.
Nessuno. Deserto. Mi pare chiaro che in questa città non sia usanza riempire i portici con passeggiate spensierate. Che orribile spreco! Da dove vengo io i portici brulicano di gente anche se tira una bufera di neve, senza neppure chiedersi il perché, così come le formiche non si chiedono perché devono fare quel che fanno. Lo fanno e basta, con la differenza che da dove vengo io questo brulicare è quasi un rito, probabilmente radicato nei nostri geni. Forse qui hanno di meglio da fare, o forse qui non sanno che ci sarebbe di meglio da fare. Mi appunto mentalmente che un giorno dovrò analizzare questa faccenda.
Writers! Puah!
Non c'è una muro che sia stato risparmiato, ovunque vedo scritte eseguite con lo spray… "tags", le chiamano. Loro sono convinti di fare arte. Imbrattare i muri con scritte incomprensibili è arte! E io che credevo fosse vandalismo! Mi appunto mentalmente anche questa cosa, non si sa mai che mi venga voglia di fare il "writer punisher" per smaltire la noia.
La direttrice non ha voluto mostrarmi la fotografia della donna che sto per incontrare, dice che questa volta preferisce fare così, una specie di rito scaramantico che si addice perfettamente per il tredicesimo appuntamento. E va bene, accetto pure questo, tanto peggio di così non può andare. Magari c'ha pure ragione.
Ecco il ristorante.
So che lei dovrebbe già essere al tavolo ad attendermi, vestita elegante ma non troppo, truccata bene ma non troppo, alta sì, ma non troppo, come non troppo dovrebbe essere in quasi tutti gli altri dettagli che ti chiedono di compilare nella scheda di iscrizione dell'Agenzia. L'unica cosa che deve essere più del normale è la ricchezza. Sì, perché io sono un artista, e come tale ho bisogno di lavorare in casa, inventare i miei sogni senza pensare a come campare. Quindi mi serve una donna ricca, che accetti di lasciarmi fare il casalingo, che apprezzi la mia cucina, che si accontenti di come pulisco, e che mi lasci lavorare in pace. Cerco quella giusta sì, ma deve essere ricca. Vabè, se non è ricca ricca, mi basta che sia più che indipendente, che possa cioè mantenere una bocca in più in casa senza rinfacciarlo mai. Non mi pare di chiedere troppo, no?
No, non mi pare di chiedere troppo. Io parto dal presupposto che se normalmente un uomo lavora e la sua donna può stare in casa a fare la casalinga, può benissimo accadere il contrario. In fondo a me piace fare i mestieri di casa, adoro cucinare e tante altre cosucce. Io ho proprio bisogno di lavorare a casa, non potrei sopravvivere altrimenti!
Eccola, è lei. Non può essere nessun'altra: è l'unica donna seduta da sola a un tavolo per due. Mi avvicino. Mi raggiunge la signorina che si è occupata del nostro caso. Mi presenta. Me la presenta. Ci lascia soli. Con permesso, mi siedo.
Lei comincia a parlare e parlare e parlare. Dice che il posto è stupendo, che l'Agenzia è fantastica e che spera davvero che questa volta abbiano trovato l'uomo giusto per lei, perché lei dipinge e che ha necessità di stare tranquilla… stanotte vado a caccia di writers!

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La fotografia

di Candido Bottin
 
Avevo appoggiato la fotografia sulla scrivania, proprio di fronte al computer, dopo averla girata e rigirata cento volte cercando di farmi venire un'ispirazione o un' idea qualsiasi. Certo che la commissione d'esame del corso di letteratura italiana aveva avuto proprio una bella pensata per il racconto da proporre all'esame finale. Invece della solita traccia scritta che era sempre stata data negli anni precedenti, quest'anno avevano fornito una fotografia in bianco e nero: un portico ottocentesco con una figura d'uomo in controluce che avanzava. E su questo avremmo dovuto sviluppare la nostra narrazione.
No, non ce l'avrei mai fatta, due anni di corso buttati via senza neppure ottenere il diploma finale, questo era il risultato previsto. Va bene, per oggi poteva bastare, tanto non veniva fuori nulla di accettabile, era meglio andare a dormire sperando che la notte portasse consiglio.
Spensi la luce, e con gli occhi chiusi continuavo a pensare alla fotografia, la mia mente ondeggiava tra il sonno e la veglia e in quella situazione mi sembrò che quell'immagine non mi fosse del tutto nuova, era come se in quel posto, sotto quei portici io ci fossi già stato, perché quella non era per me una fotografia qualsiasi, ma un'immagine che scavava nella mia memoria alla ricerca di un ricordo lontano. E mentre il sonno prendeva il sopravvento ebbi la certezza che, veramente io sotto quel portico c'ero già stato.
 
Avevo otto anni, camminavo assieme a mio padre che mi teneva per la mano, non so quale città fosse, ricordo che la giornata era bella, ma faceva freddo. All'improvviso vedemmo venire verso di noi un uomo che avanzava con passo deciso, il quale, quando ci incrociammo, mi sfiorò con un braccio, poi fatti pochi passi all'improvviso si fermò voltandosi a guardarmi. Anche io mi fermai e mi girai staccandomi da mio padre. La figura che prima mi era sembrata scura e massiccia adesso non lo era più e mi guardava con un sorriso. Poi, senza parlare l'uomo mi tese la mano, invitandomi a seguirlo e non so per quale motivo lo feci, ma lo seguii. Voltammo in una via laterale dove i portici erano scomparsi ed entrammo in un androne che dava accesso a un piccolo cortile delimitato da alti muri in mattoni. Al fondo vi era un piccolo passaggio chiuso da un cancello in ferro, e noi ci avviammo proprio verso quello, con passo deciso: era come se l'uomo sapesse esattamente dove andare; dall'altra parte si intravedeva un giardino denso di alberi e vegetazione. Entrammo nel giardino che visto da fuori non sembrava troppo grande, ma una volta lì pareva che invece fosse molto ampio, anzi addirittura non si intravedevano i confini.
"Dove siamo e dov'è il mio papà?" domandai finalmente anche se con timore.
"Non ti preoccupare, tuo padre lo rivedrai presto" mi disse "ora devi accompagnarmi in un posto."
"Ma tu, chi sei?" insistei ancora.
"Chi sono non ha importanza, poi lo capirai, ora vieni, visitiamo questo giardino."
Non avevo paura perché il tono dell'uomo era particolarmente sereno e poi ero incuriosito da quel luogo così strano, che, ora che lo guardavo meglio, non sembrava neanche più un giardino, ma quasi un bosco, anzi un bosco molto grande. Ma com'era possibile, dato che eravamo in una città? O almeno così credevo?
Ci inoltrammo così nel bosco che era fitto di querce e faggi, attraverso un sentiero sinuoso. Mano a mano che avanzavamo il bosco diveniva sempre più fitto, tanto che non filtravano quasi neppure i raggi del sole. A un certo punto giungemmo al margine di una piccola radura, ormai mi ero convinto di essere finito in una foresta, su un lato si vedeva una piccola costruzione in mattoni, dall'altra parte una casa più grande. L'uomo mi condusse sino a quest'ultima. Era a due piani e sembrava molto antica, un grande roseto si trovava davanti alla facciata e incorniciava due finestre. Entrammo, c'era una grande stanza, con il soffitto piuttosto alto, un tavolo e solo alcuni mobili. Sembrava che l'uomo conoscesse bene quel luogo perché si avviò verso il fondo della stanza e da un mobile trasse una scatola di cartone, tutta rivestita con stoffa rossa.
"Siediti." mi disse "Guardiamo cosa c'è in questa scatola."
La aprì, era ricolma di fotografie molto vecchie e ingiallite. C'erano ritratti di persone, uomini, donne, bambini che non avevo mai visto, tutte vestite con abiti che non si usavano più, altre fotografie di oggetti e abitazioni di qualche luogo che non conoscevo.
Guardavo quelle immagini e non sapevo a cosa pensare, quale significato potevano avere per me, poi mi capitò in mano la fotografia di un bambino.
A vederlo aveva pressappoco la mia età. Anche i capelli erano chiari come i miei e leggermente ondulati. Anzi a osservarlo bene mi somigliava proprio, di più, se non fosse stato per il vestito avrei detto che ero proprio io. Rimasi colpito nel vedere la fotografia di un bambino che mi somigliava così tanto. L'uomo colse lo stupore del mio sguardo e disse:
"Ti piace? Quello sono io da bambino."
"Mi… mi somiglia un po'" dissi balbettando.
"Sì, un po'" confermò l'uomo.
Girai la fotografia e lessi una data: 1912 e poi un nome, Candido.
"Anche io mi chiamo Candido!" esclamai.
L'uomo sorrise, poi si alzò di nuovo e sempre dallo stesso mobile trasse una scatola di biscotti, la aprì e mi invitò a mangiarne:
"Sono buoni." disse.
Ne assaggiai uno, era veramente buono, come non ne avevo mai mangiati, ne presi ancora un altro e un altro ancora, anche l'uomo mangiava e rideva. Quando la scatola fu finita disse:
"Vieni dobbiamo andare, tuo padre ci aspetta."
Ripose la scatola con le fotografie e anche quella dei biscotti, pure se era vuota, poi uscimmo dalla casa e tornammo nella radura, quando ci inoltrammo nel bosco mi sembrava più piccolo di prima, forse perché ci ero già passato, tanto che nello spazio di pochi istanti raggiungemmo il cancello di ferro e uscimmo nel cortile, poi di lì nella via.
 
Quando svoltai l'angolo della strada vidi mio padre sotto i portici che guardava dall'altra parte.
"Ciao." mi sussurrò l'uomo che portava il mio nome "ora va."
"Ciao." risposi.
"Papà."
"Ah Candido, vieni, non ti allontanare, che già quel signore ti ha quasi buttato a terra. Chissà dove andava così di fretta, è già sparito."
"Ma papà non mi hai cercato?" domandai.
"No, perché? Mi sono solo voltato un momento" rispose.
Rimasi colpito dalla risposta, poi realizzai che anche se io credevo di essermi allontanato per molto tempo, per mio padre quel tempo non era affatto trascorso e per lui io ero sempre stato lì. Ma allora, cosa era accaduto?
"Papà ci siamo già stati in questa città?" domandai.
"No è la prima volta che veniamo, ma è molto bella, penso che ritorneremo ancora."
"Papà, senti, ma come mai mi chiamo Candido?"
"Ah che domanda…è una storia strana, pensa che tua nonna aveva un fratello che portava il tuo stesso nome. Per un incidente accadutogli mentre aiutava i suoi nel lavoro dei campi è morto che era ancora bambino, a soli otto anni. Poi nessuno nella famiglia, per un motivo o per l'altro ha dato più questo nome ai suoi figli e solo alla tua nascita, io e mamma, abbiamo pensato che sarebbe stato bello ricordare quel lontano pro-zio."
"Ma quando è morto di preciso lo zio Candido?" domandai ancora.
"Eh non ricordo, ma molti, molti anni fa."
"Nel 1912?"
"Si, nel 1912, giusto, ma tu come fai a saperlo?"
"Niente, niente, ho tirato a indovinare."
Dopo il sonno mi svegliai presto e notai che la fotografia appoggiata alla scrivania era caduta. La sollevai e dandole ancora un'occhiata prima di uscire ebbi la certezza che oggi un'idea per il mio racconto, mi sarebbe certamente venuta.

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Sergej, il guerriero

di Miriam
 
Sergej avanzò verso la guardiola, la spada salda nella mano destra, gli occhi saettanti in ogni direzione. Ciocche scomposte gli ricadevano sulla fronte increspata dai cattivi pensieri.
Osservò il soldato accasciato sulla sedia, il capo reclinato sul petto, un filo di bava a un angolo della bocca e il respiro pesante. Come previsto, non sarebbe stato di ostacolo. Nei paraggi non c'era nessuno e nei corridoi regnava un silenzio di tomba. Sergej allungò la mano libera a recuperare le chiavi sulla scrivania.
"É la mia notte fortunata". Sorrise pensando a quanto fosse stato facile eludere la sorveglianza. Ormai solo pochi passi lo separavano dal portone dell'antica prigione. Armeggiò indisturbato con la serratura e, ancora incredulo per l'inattesa fortuna, si incamminò ciondolante lungo il porticato che gli avrebbe reso la libertà.
"Torna indietro!". Una voce tonante lo colpì alle spalle. Sergej la riconobbe all'istante e un'ondata di terrore lo costrinse a voltarsi di scatto.
Il mago lo scrutava con occhi malevoli mentre si avvicinava. Il suo passo claudicante lo rendeva appena instabile, ma non lo faceva apparire più innocuo per questo. Sergej brandì la spada pronto a difendersi.
L'orribile vegliardo si fermò a pochi passi di distanza, il volto per nulla turbato da quella goffa esibizione, i lunghi capelli ondeggianti come vele al vento. "Restituiscimi il bastone, Sergio, e tornatene al letto!" ordinò.
"Sono Sergej, il guerriero, e ricevo ordini solo dal re!" urlò lui in preda alla collera, la spada sempre puntata contro il nemico.
"Va bene, Sergej" lo assecondò l'uomo. "Adesso restituiscimi il bastone".
L'altro scosse il capo. "Ricevo ordini solo dal re".
"Sono io il re, fa' come ti dico e vedrai che tutto andrà bene. Sono qui per aiutarti e non permetterò a nessuno di farti del male".
Diceva sempre così ostentando un'espressione rassicurante e poi… dieci anni di reclusione all'inferno erano bastati a Sergio perché imparasse che le facili promesse nascondevano sempre e solo dolore.
Si chinò con finto fare arrendevole dando l'impressione di voler riporre l'arma. Invece, con un gesto rapido e imprevisto si risollevò sferrando un colpo all'avversario.
Il vecchio cadde squarciando l'aria con un grido misto di dolore e rabbia.
"Prendetelo!"
Due secondini in camice bianco si materializzarono sul campo di battaglia e in un attimo gli furono addosso. Un terzo infermiere corse a soccorrere il ferito.
"Si è strappato la flebo prima che il Serenase facesse effetto" si giustificò mentre aiutava il professore a rialzarsi.
Intanto Sergej lottava menando calci e fendenti ai suoi aguzzini. Si difese da valoroso combattente mettendo in seria difficoltà i nemici fino a che non avvertì un ago penetrargli nel braccio. Un flusso gelido gli pervase le membra, barcollò, infine cadde cedendo all'impulso di chiudere gli occhi.
"Mettetegli la camicia di forza!". Il comando del professore riecheggiò nel porticato. Si levò come un grido di guerra ma si smorzò in un gemito strozzato poiché ciò che i suoi occhi stavano mettendo a fuoco non poteva essere reale, non per un uomo sano di mente come lui.
Nell'attimo preciso in cui Sergio aveva perso definitivamente i sensi, una sagoma nera si era staccata dal suo corpo inerme. Poteva distinguerla chiaramente adesso, una specie di ombra evanescente dall'incedere fiero e i pugni serrati.
"Sono Sergej, il guerriero e ricevo ordini solo dal re" seguitava a ripetere, intanto marciava verso la luce senza più voltarsi indietro.

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Il Maestro e l’Allievo

di Snuff
 
Il Maestro e l'Allievo vivevano insieme. Anche se vivere è una parola grossa.
Per la maggior parte del tempo si ubriacavano, scoreggiavano, pisciavano in giro per quel cesso di loft e si degradavano più che potevano. A modo loro, c'era comunque fratellanza: si bucavano le vene con lo stesso ago, spacciavano droga insieme, insieme facevano gli scippi, insieme collassavano. Si abbracciavano tremanti quando avevano le crisi di astinenza e i loro sudori freddi puzzavano di morte. Si sostenevano quando vomitavano. Qualche volta si facevano anche le seghe a vicenda. Ma non erano froci. Erano solo dei rifiuti della società.
 
Il Maestro aveva visto tempi migliori, questo è sicuro. In passato aveva scritto libri che lo avevano reso famoso. E ricco. Libri da cui erano stati tratti dei film. Il problema è che quelli come lui non vivono mai bene. Nemmeno quando hanno i soldi. Nemmeno quando la vita li riempie di soddisfazioni.
L'Allievo, di giorni d'oro non ne aveva avuti mai. Aveva vent'anni, si drogava e non voleva lavorare.
 
Il loro monolocale stava in qualche merdoso decumano del centro storico di Napoli. Nel ventre molle. Nella lota. Di tanto in tanto il Maestro, essendo appunto maestro, dispensava utili consigli su come scrivere un perfetto romanzo di "letteratura chimica". Quella corrente letteraria che idealmente fa capo a gente come Welsh ed Ellis.
« Allora», esordiva lui, con le pupille dilatate e preoccupanti tic della mandibola, « per prima cosa devi fare una bella lista di parolacce e di situazioni scabrose. Scegli il peggio che ti salta per la testa. Tutto quello che la gente perbene non sopporterebbe, tutto ciò che li metterebbe in condizione di parlar male di te, del tuo modo di scrivere e del tuo modo di essere!».
L'Allievo faceva sì colla testa, anche se forse erano solo spasmi.
« Fatto questo, sei a metà dell'opera. Devi solo inventarti uno straccio di trama inverosimile che ti permetta di inserirci i fatti scabrosi e le parolacce tremende che hai selezionato in precedenza. Non rileggere mai e non curarti degli errori. Gli editori non devono immaginare che quando scrivi sei sobrio… e poi tu sei l'artista mica un misero operaio. Se dopo il punto ci vuole lo spazio questi non sono cazzi tuoi».
 
Come detto, quei due condividevano tutto. Le donne, quando c'erano, le seghe, quando erano soli e fatti, la droga, i guai, le malattie. Ogni tanto parlavano anche del loro passato. Il Maestro raccontava di quando pippava cocaina prima delle presentazioni dei suoi libri e di come finiva sempre con lo svelare parte del finale del romanzo. Raccontava di come s'incazzavano gli editori.
L'Allievo parlava quasi sempre di sua madre.
« E adesso che fine ha fatto tua madre?», chiedeva il Maestro a un certo punto del discorso.
« Quella bucchina è morta di overdose», rispondeva rabbioso l'Allievo.
In verità le cause della morte cambiavano sempre. Il Maestro lo faceva apposta. Ciclicamente rifaceva quella domanda all'Allievo per vedere un po' come stava messo a fantasia. E la cosa bella è che quel figlio di puttana diceva sempre una cosa diversa. "Quella bucchina è morta di cancro". "Quella bucchina è morta suicida". "Quella bucchina è morta mentre mi partoriva". "Quella bucchina è morta investita da una macchina". Quella bucchina è morta, l'ho uccisa con le mie mani".
Le uniche costanti erano il fatto che era morta e il fatto che era una bucchina. Quando pensava alla buonanima bucchina della madre del suo allievo, al Maestro gli veniva duro, e allora o andava da qualche puttana o si faceva fare una sega dall'Allievo.
 
Di tanto in tanto l'Allievo prendeva appunti. E, quando non era troppo fatto, se li andava addirittura a studiare. Ripeteva a voce alta gli insegnamenti del Maestro.
« Quando si scrive non si racconta mai il male. Si racconta la vita. I cosiddetti "scrittori maledetti" sono solo una banda di rottinculo figli di papà. Da questi è bene prendere le distanze. I testi devono essere rapidi perché gli spot televisivi durano solo trenta secondi e sono il tipo di comunicazione più efficace che la mente umana abbia mai partorito. Quindi, prendi esempio da loro. I testi devono essere brevi, perché la capacità di lettura dell'uomo medio è tarata sui 160 caratteri degli sms. Devono essere nevrotici e muoversi a scatti, perché siamo tutti sottoposti a un'intensa vita nervosa e siamo tutti vittime di uno stile di vita "multitasking". I tuoi testi devono bestemmiare, come se fossi sempre imbottigliato nel traffico del lunedì mattina».
« Smettila di fare i compiti a casa!», tuonò il Maestro, « Dovresti fare le analisi per vedere che merda c'hai nel sangue! Se ce l'hai tu allora ce l'ho pure io!».
 
Un giorno il Maestro entrò in quella fogna in cui vivevano e aveva una strana luce negli occhi. Forse, la luce di un possibile riscatto.
« Mi hanno commissionato un racconto», disse all'Allievo.
« Cazzo! Dici sul serio? E di cosa si tratta?».
E il Maestro tirò fuori dalla tasca una fotografia. Era in bianco e nero e raffigurava la sagoma scura di un uomo che camminava a pugni chiusi. Camminava sotto alcuni portici.
« Beh non è male», disse l'Allievo, « io di fotografia non ci capisco un cazzo, però questa sembra che c'ha le palle. Anche se forse mancano dei cazzi graffitati sui muri… comunque… questo che cazzo c'entra col racconto che devi scrivere?».
« Chi mi ha commissionato il racconto ha detto che devo ispirarmi a questa foto».
« E chi ti ha commissionato il racconto?»
« Braviautori».
« E chi cazzo sono?».
« Che Dio m'inculi se li avevo mai sentiti nominare prima d'ora».
« Beh, però è un bel tema no?».
« Sì…».
« Certo… un bel tema…».
« Già… proprio interessante…».
« Hai una scadenza?».
« Entro domattina».
« Cristo!».
« Esatto!».
« Sono dei tipi esigenti? Sono pignoli?».
« I più grossi scassa palle che abbiamo mai visto».
« E ti pagano?».
« Su questo sono stati un po' vaghi…».
« Pezzi dimmerda!».
« Esatto!».
« Hai qualche idea?».
« C'è rimasta un po' di roba?».
« Sì».
« Preparala… Tu hai ritirato le analisi?».
« Sì».
« Allora?».
« Secondo te?».
« Siamo fottuti?».
« Esatto!».
« Dammi qua, mi buco prima io».
« E il racconto? Guarda che sono già le sette di sera!».
« Il racconto?».
« Sì».
« In culo il racconto!».
« E la foto?».
« In culo anche a lei!».

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Non avrei mai creduto che…

di Jean
 
Chi sei?
Cosa vuoi?
Credi che non mi sia accorto che ti stai nascondendo nel buio?
Allora… Vuoi dirmi cosa vuoi?
Sono due settimane che sento l'eco dei tuoi passi ovunque vada, quando mi addormento sento il tuo fiato sul mio collo e la mattina quando mi sveglio sei ancora lì.
Sei comparsa poco dopo la strage, sei stata tu? È tutta opera tua?
Sono confuso, stanco, non ho voglia di scocciature, voglio solo riposare in pace. Me lo merito, dopo tutto è solo un piccolo risarcimento di tutto quello che ho passato.
Non parli? Non hai nulla da dire?
Avvicinati, cosi che possa vederti meglio. O hai paura che ti riconosca.
Che fai, te ne vai?
Ahhhh, no! Ti nascondi, forse non dovrei sapere che sei qui? Bè, ormai ti ho visto, e comunque è da molto tempo che sento la tua presenza.
Hai visto quello che mi hanno fatto? L' hai visto, vero?
Hanno ucciso mia moglie e mio figlio, e per cosa?
Per una cazzo di fede? Non si uccidono le persone solo perché…
Ma cosa sto facendo, sto diventando paranoico, non so neanche se sei vera o se sei frutto della mia immaginazione.
Questo silenzio mi fa impazzire. Cazzo, vuoi dire qualcosa.
Vuoi aiutarmi. Sei una di loro? Si sei una di loro, vero? Vero?
Vattene, lasciami stare, voglio riposare cazzo, vattene!
Ho freddo, non riesco più a vedere quasi niente, tranne che la tua ombra. Perché? Chi ti ha mandato? Dimmelo.
Non sento più le forze, probabilmente mi hanno drogato, sì, l'acqua aveva un sapore strano. Ma perché? Cosa vogliono che gli dica.!
Hanno distrutto la mia vita. Bastardi.
Riesco a mala pena a tenere gli occhi aperti, vorrei tanto essere a casa, purtroppo mi trovo qui sdraiato su un pavimento di non so quale città.
Sto impazzendo, ne sono sicuro, continuo a parlare con la sagoma di chi sa chi, in un paese di sconosciuti.
Perché mi hanno fatto questo?
Cosa ho fatto a Dio, per meritare tutto ciò, se esiste prima o poi ci troveremo l'uno di fronte all'altro e allora tutti i nodi verranno al pettine. Hai capito! Mi senti grande dio, mi senti, dovrai darmi molte spiegazioni.
Hey tu… Sei credente?
Credi anche tu nella volontà divina? O nel corano o in qualsiasi altra cazzata.
Rispondi, sei muta?
Bè, hai visto cosa succede a essere…
Il cuore sta' rallentando, come mai?
Cerca un medico, mi sto sentendo male. Aiutami.
Non ce la faccio più, ti auguro solo di non provare mai quello che sto provando io. Te lo auguro con tutto il cuore.
Cosa fai ti avvicini? Ora che non posso difendermi, vuoi i miei soldi?
Vattene, non ti avvicinare.
Cos'è quella luce che ti circonda? Sei un angelo?
No, non lo sei, ora ti riconosco, ora è tutto più chiaro. Sono sdraiato sul porticato di casa, mia moglie è qui vicino a me.
Finalmente sei arrivata.
Non credevo che la morte avesse un viso così angelico.

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Sono libero

di Ranz
 
Sono sveglio.
Non ho molta voglia di alzarmi, ma rimanere nel letto sarebbe peggio.
Mi dirigo in soggiorno e osservo come ogni giorno il quadro. Quando lo dipinsi gli diedi il nome LA PAZZIA, ora l'ho cambiato in LA LIBERTÁ.
Ricordo come se fosse ieri Vlad che andava incontro ai raggi del sole, incontro alla fine e le ultime parole che gli rivolsi:
- Sei impazzito? Fermati!
- Il pazzo sei tu, siete tutti voi che accettate questa vita. Io non ci riesco.
- Ma così morirai!
- Meglio morire che vivere in questo modo. Io voglio essere libero, libero di poter decidere di morire con dignità.
Non riuscii a fermarlo e la sua immagine di spalle si impresse nella mia mente come un marchio di fuoco. Ho cercato di esorcizzare il potere di quelle parole dipingendo il momento, ma non è servito a nulla, anzi, mi ritornano in mente e mi martellano con la stessa intensità di un martello pneumatico.
Ho fame.
Ho finito le provviste.
Per la strada sicuramente troverò qualche animale con cui dissetarmi.
Decido di uscire.
È notte fonda.
Passeggio nervosamente.
Ovunque volgo lo sguardo, vedo desolazione e miseria: i miei compagni sbranano cani e gatti per nutrirsi del loro sangue. Il pensiero di dover mordere quegli esseri pieni di pulci, genera in me un disgusto che quasi supera la fame.
Sono tre notti che non mangio, devo nutrirmi o morirò.
Un tempo fame equivaleva andare a caccia di umani, di vittime da uccidere, di trofei da esibire e mangiare.
Ora questi sono solo ricordi. Non ci sono più esseri umani sulla faccia della Terra. Li abbiamo uccisi tutti o sono stati convertiti in vampiri.
Non possiamo mordere un nostro simile, il suo sangue ci ucciderebbe all'istante, quindi siamo costretti a sfamarci degli animali.
Quegli esseri schifosi sono diventati il nostro cibo.
Ma come posso accettare una simile situazione?
Come posso rinunciare alla mia natura?
Sono un cacciatore e voglio le mie prede. Ora che non ci sono più, io stesso non ho motivo di esistere. Vlad l'aveva capito prima di me e per questo aveva deciso di farla finita. Io lo chiamai pazzo, ora invece lo chiamo eroe, per non essersi piegato alla sorte.
Ho fame.
Mi accascio al suolo.
Devo mangiare qualcosa o morirò.
Vicino a me c'è un cane.
Mi lecca una mano.
Mi guarda con occhi carini di affetto.
È un barboncino, un po' piccolo, ma basterebbe a salvarmi.
Ma non ne posso più delle bestie, non ne posso più di questa vita.
"Io voglio essere libero, libero di poter decidere di morire con dignità!".
Quanto avevi ragione amico mio.
Il sole sta per sorgere da dietro le colline. I suoi raggi si incuneano tra i palazzi dei vicoli. Tutti fuggono. Tutti vogliono vivere.
Io no.
Io ho voglia di essere libero.
Ho voglia di vivere con dignità.
Mi alzo e vado incontro al sole.
Sento un fortissimo bruciore sulla pelle, ma è piacevole.
Presto morirò, ma non importa, non importa più.
Presto sarò libero.
Libero!

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Il paziente

di Pia
 
Il medico controllava le ultime cartelle cliniche pregustando il suo ritorno a casa.
- Come sta il paziente n. 16?
Il giovane dottore trasse un profondo respiro, era al suo primo tirocinio, ancora non era avvezzo alle stranezze dei pazienti, ma quella particolarità era davvero inquietante: il paziente descriveva così bene i suoi sintomi che sarebbero potuti sembrare veri se non fosse stato per l'assurdità della situazione.
- Ieri sera gli abbiamo somministrato una dose massiccia di sedativi, ma nemmeno così ha dormito. Di giorno è tranquillissimo, l'unica stramberia è il suo incessante andirivieni sotto al porticato, dice di non riuscire a dormire di notte.
Il suo superiore a stento l'ascoltava, era stanco di alienati mentali, mancava poco alla pensione e non ne poteva più di dissociazioni e patologie psichiche, ma l'altro continuava infervorato nel suo racconto: - É convinto che le sue gambe pulsino come dotate di vita propria e gli si ricoprano di escrescenze carnose e in movimento, sembrano scorrazzare sotto la pelle in una corsa folle e senza meta, in maniera del tutto casuale. Si materializzano all'improvviso immediatamente sotto al ginocchio o appena sopra al tallone, provocandogli un prurito insopportabile e, tanto più si gratta, tanto più le escrescenze si spostano velocemente sfuggendo alla pressione delle sue dita.
- Sì, sì… somministrategli una cura a base di antistaminici e stasera aumentategli la dose di tranquillanti, domani faremo dei prelievi del sangue, così, per scrupolo, ma si tratta senz'altro di un fenomeno psicosomatico.
Spense il computer e, alzandosi, accomiatò il giovane dottore. L'indomani avrebbe visitato il paziente, nonostante le cure non accennava a miglioramenti, anzi, la sera era il momento peggiore della giornata, viveva il momento di andare a letto come un incubo e di notte non faceva altro che fregarsi le gambe fino a farsele sanguinare.
 
L'uomo è a letto da un po', ogni volta spera di essere risparmiato, ma anche quella sera la speranza rimane vana. Inizia con un leggero prurito al quale cerca di resistere disperatamente, alla fine però è costretto a grattarsi, ha le unghie tagliate corte per limitare i danni e paradossalmente è peggio: non riesce a provare nemmeno il sollievo momentaneo.
Un velo di sudore inizia ad avvolgerlo, le voci si ripresentano puntuali nel suo cervello, a tratti è solo un vocio confuso, altre volte invece percepisce distintamente ogni singola parola. Il suo corpo ospita centinaia di piccole creature provenienti da un altro mondo, sono state impiantate al suo interno e lì crescono e si moltiplicano. Durante il giorno il loro ritmo biologico è tanto rallentato da non essere percepibile, ma di notte pretendono rabbiosi che si alzi e cammini.
È solo questione di tempo, non riuscirà a resistere a lungo, li sente dilatarsi nel suo corpo, ora si è aggiunta una tumefazione sotto lo sterno, morbida, appena abbozzata ma pronta a crescere e a muoversi insieme alle altre.
Vorrebbe urlare, strapparsi la pelle di dosso per far uscire i parassiti, emette dei gemiti strozzati quando sente sulla lingua una gobba semovente.
Nel giro di pochi minuti, o sono trascorse ore?, tutto il corpo è scosso da tremiti involontari che presto si trasformano in convulsioni, le creature corrono senza controllo provocandogli spasmi lancinanti. L'uomo riesce a mettersi in piedi, inizia a camminare e tutto sembra quietarsi: le voci non sono più irose, ma hanno un tono cantilenante, i movimenti delle escrescenze sono lenti e delicati, quasi sensuali. Apre silenziosamente la porta e si dirige al porticato, le telecamere a circuito chiuso segnalano la sua uscita ai sorveglianti che lanciano l'allarme.
La luna illumina il porticato. Passo audace, pugni chiusi, la sagoma nera dell'uomo procede sicura avvolta nel mistero avanzando lentamente verso la luce.
Centinaia di minuscole creature provviste di zampette veloci iniziare a fuoriuscire dalla sua pelle riversandosi sul selciato semibuio e confondendosi con esso.
Infermieri e sorveglianti lo seguono per ricondurlo nella sua stanza e non si accorgono dell'orrendo sciamare verso le loro gambe. Lo raggiungono, ma l'uomo perde consistenza davanti ai loro occhi, sembra fatto d'ombra e, come l'ombra, si assottiglia, poi scompare. L'ospite è cambiato, ora ce ne sono di più e ce ne saranno sempre di più.

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Luci e Ombre

di Cmt
 
Seduto in strada, James faceva scorrere la matita sul blocco che reggeva con la mano destra, sollevando di quando in quando lo sguardo verso i portici che stava disegnando.
Ciò che lo attraeva non era tanto l'architettura, pur degna di nota, quanto il gioco di luci e ombre creato dagli archi, che sperava di riuscire a riprodurre lasciandone inalterato il fascino.
Scurì una parte del foglio con un sapiente tratteggio, poi tornò a osservare il suo soggetto e si accorse di una figura che non aveva notato arrivare. Camminava in una delle zone in ombra e appariva a sua volta poco più di un'ombra, impossibile distinguerne i lineamenti. Il passo era spavaldo e misurato, i pugni stretti, e si muoveva lentamente verso la sua posizione, causandogli un lieve moto di inquietudine, trasmettendogli un indistinto senso di minaccia.
La vide muovere due lenti passi in sequenza e attese che giungesse nella zona illuminata, nella speranza di poterlo identificare e comprendere se davvero ci fosse motivo di temerlo. Ma non vi giunse mai.
James trasalì. Scattando in piedi rovesciò lo sgabello ma neppure se ne accorse, concentrato com'era a cercare di conciliare la realtà di ciò che aveva visto con quello che stava vedendo in quel momento.
Sapeva di non essersi sbagliato, che la figura in movimento era esistita davvero e non era stata solo un gioco di luce, eppure ora i portici apparivano deserti così come lo erano stati quando aveva iniziato il suo lavoro.
Si strofinò gli occhi col dorso delle mani, segnandosi la fronte con la matita che aveva dimenticato di tenere in pugno. Oltre a far comparire delle danzanti macchioline colorate nella sua visione, non ottenne nulla, né mutamenti né spiegazioni.
La curiosità vinse la paura e lo spinse ad attraversare la distanza che lo separava dal porticato. Subito avvertì un lieve calo della temperatura, di certo dovuto al fatto di essere entrato in una zona d'ombra, pensò.
Stava per inoltrarsi nell'area coperta quando si irrigidì: la figura che aveva visto era ricomparsa. Di nuovo si trovava nell'ombra, ma ora era più vicina, quasi fosse scomparsa solo per il tempo necessario a oltrepassare la luce tra un'ombra e l'altra.
Nonostante la ridotta distanza, l'essere - si ritrovò a etichettarlo così, non riuscendo a usare altri termini - continuava a non avere un aspetto discernibile al di là della sagoma. Già dire se fosse un uomo o una donna sarebbe risultato difficile, ma qualunque cosa fosse vi era una certezza: era malvagio.
James non sapeva come potesse asserire qualcosa del genere, ma non gli importava, lo sentiva e questo era sufficiente. In un altro momento, in un altro luogo, avrebbe riso della sua stessa irrazionalità, ma era lì, in quell'istante, e non sarebbe riuscito neppure a sorridere.
La figura accelerò il passo, dirigendosi senza dubbio alcuno verso di lui. Ancora due passi e poi svanì come già aveva fatto, ma questa volta James sapeva che sarebbe riapparsa appena superata la chiazza di luce.
E così fu.
Se la ritrovò quasi di fronte. Avrebbe potuto sentire il suo respiro, se ve ne fosse stato uno. Invece sentì solo il silenzio, accompagnato da un gelo che raggiungeva le ossa, o meglio che sembrava irradiarsi da esse verso l'esterno. Ancora non vedeva alcun dettaglio, alcun volto, alcun lineamento, ma vide le braccia sollevarsi e le mani aprirsi puntando verso la sua gola.
Indietreggiò, chiudendo gli occhi d'istinto e aspettandosi di sentire la pressione di dita spettrali attorno al suo collo, a togliergli il respiro. Non accade nulla.
Riaprì gli occhi. L'essere era ancora davanti a lui, a pochi centimetri. Aveva le braccia tese ma non poteva raggiungerlo, non aveva nulla con cui afferrarlo: le sue mani avrebbero dovuto essere nella luce, e non c'erano, quasi fossero state cancellate con un unico passaggio di gomma.
James trasse un profondo respiro. Finché restava nella luce era al sicuro. Avrebbe avuto il tempo di allontanarsi da lì e dimenticare quella storia, archiviarla come qualcosa di mai accaduto.
Fece un altro passo indietro, senza distogliere lo sguardo dall'ombra davanti a sé. Poi il respiro gli si mozzò di colpo. Dita gelide gli premettero la gola fin quasi a penetrarvi, e sentì la vita che gli sfuggiva dal corpo più rapidamente di quanto avrebbe creduto possibile.
Gli occhi gli si rovesciarono all'indietro e, prima che l'oblio lo avvolgesse del tutto, gli concessero un ultimo sguardo al cielo e all'unica nube che in quell'istante oscurava il sole.


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