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Indice:
IL BANDO
Giorgio Leone
Alberto Tivoli
Massimo Tivoli
Mirtalastrega
Gabriele Ludovici
Ilariajo
Eliseo Palumbo
una produzione


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Gara 60
Metropolis
Agosto/Ottobre 2016
antologia per BraviAutori.it
trasformazione digitale MiCla Multimedia
da un’idea di Lodovico
illustrazioni allegate ad ogni racconto di: autori vari
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto e gli Autori di questa raccolta per la
partecipazione.
Nota: l’antologia impiega l’editing degli autori.

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IL BANDO

Si dovranno scrivere delle storie che si svolgano in città, in un ambiente metropolitano con tanta gente, grattacieli e condomini, metropolitane e tram, smog e traffico.
Non ha importanza se in una città del passato come Sparta o Cartagine, del presente come Milano o New York o del futuro come... beh i nomi inventateli voi in questo caso.
Racconti tipicamente cittadini, ambientati in quegli ambienti urbani dove non si trovano spazi vuoti ma, a volte, si è più soli che altrove.
Insomma, buttatevi nel convulso traffico della megalopoli in cerca di incontri originali, inquietanti, comici, amorosi.
Buon viaggio.
Valgono tutti i generi letterari: romantico, giallo, noir, horror, erotico (andateci leggeri, però) e così via.
Buona lettura!
Lodovico

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Giorgio Leone

(primo classificato, ex aequo)
MISSIONE COMPIUTA
Alla fine, in paese non ce l'avevano più fatta a star zitti e avevano dato l'incarico di dirglielo al barbiere, che nel retro del negozio aveva una postazione internet. L'affittava a tempo a chi voleva inviare e ricevere mail o navigare, quasi sempre su siti porno. Ed era stato proprio così che la faccenda era venuta fuori.
— Devi andare a trovare tua figlia, Frank.
— Ma se non so neanche dove cavolo è! Da quando se n'è andata non mi ha mandato neppure una cartolina.
— Vive a Detroit, guarda un po' qui!
Frank si era avvicinato allo schermo del computer e l'aveva vista. Anche se adesso era biondissima, si trattava sicuramente di lei, colta nello strano atteggiamento di fumare un sigaro con espressione goduta. Poi aveva messo gli occhiali da vista, sporchi, appannati e scheggiati. No, non era un sigaro, e quello era un sito di video hard, come aveva realizzato quando il barbiere aveva cliccato una specie di triangolino e lei aveva iniziato a muoversi e ad ansimare. Poi erano andati su Google e avevano trovato alcuni articoli. "La regina dell'eros!", "La pornostar più sexy del Michigan, tra le venti meglio pagate d'America!", così la definivano. Frank era uscito dal negozio barcollando. Tutti sapevano e lo guardavano con scherno, così la vergogna era avvampata sul suo volto.
Nella sua baracca si era preparato come sempre il pranzo, mettendo però nel pentolino solo fagioli perché il lardo e la pancetta erano finiti e nessuno gli faceva più credito. Non avrebbe potuto comprarli sino al ventisette del mese, quando lo Stato gli avrebbe accreditato la solita elemosina sul conto corrente. Poi era entrato in quella che era stata la cameretta della figlia, cosa che non aveva più fatto da quella mattina quando l'aveva trovata vuota. C'erano polvere e ragnatele ovunque, e sul letto ancora sfatto lo guardava stralunato l'orsacchiotto di peluche. Con gli occhi pieni di lacrime aveva sbattuto la porta ed era uscito dalla stanza per ingollare un robusto sorso di pessimo whisky, del quale non restava mai senza.
Da più di quindici anni non andava in una grande città e non ne aveva affatto voglia, ma doveva. A Detroit faceva un freddo boia, molto diverso da quello secco e pungente del paese che aveva lasciato in autostop quando le cime delle montagne avevano iniziato appena a imbiancarsi. Le strade erano lucide di pioggia e l'atmosfera così schifosa da ricordargli di quando aveva lavorato nella vecchia miniera di carbone beccandosi la silicosi. Era sera e camminava fra sbuffi di vapore che si alzavano dalle grate dei marciapiedi, sotto una selva di grattacieli illuminati che lo opprimevano massicci e minacciosi. I passanti, in maggioranza neri, camminavano silenziosi e ostili mentre il traffico non cessava di scorrere come un orrendo serpente che ammorbava l'aria. La notte precedente alcuni volontari lo avevano indirizzato prima alla mensa dei poveri, poi all'ostello di padre Flanagan dove si era dibattuto insonne nel letto, tormentato dai pensieri, dall'ansia e dalle pulci. Dopo una giornata inutile e interminabile, scesa la notte si era diretto verso la zona dei locali di sesso e prostituzione e adesso era in vista del club di lusso dove la figlia lavorava.
— Proprio non demordi, non è vero, nonnetto? — gli chiese ironico un enorme nero pelato e pieno di orecchini che piantonava la porta del locale.
— Sono suo padre! — rispose adirato Frank indicando l'osceno manifesto che troneggiava all'entrata.
— Ho già visto questo film — sghignazzò l'energumeno — e non credo che avrai un grande successo. Ma se vuoi provarci, accomodati pure!
Esitò solo un attimo dopo aver bussato alla porta del camerino, poi entrò. Lei lo guardò, prima sorpresa, poi palesemente incazzata.
— E tu, che ci fai qui? — gli chiese con astio.
— Quella mattina te ne sei andata senza lasciare neppure una riga e non ti sei mai più fatta viva. Ma sono sempre tuo padre!
— Forse non ricordi che mi avevi violentata tutta la notte, e non era la prima volta. Ero poco più di una bambina… e tu sei solo un maiale schifoso, un maledetto ubriacone. Altro che padre!
— Sei sempre la stessa! Perché non provi mai a guardare il bicchiere mezzo pieno? Se non fosse successo quel che è successo, saresti ancora in quel fottutissimo bar di paese a servire uova strapazzate a cacciatori allupati che ti toccano il sedere. Guarda invece dove sei arrivata, e il giornale dice anche che ti riempi le tasche di dollari.
— Basta con le stronzate, cosa vuoi?
Lui non rispose e abbassò gli occhi.
— Aspetta, lasciami indovinare. A casa tutti ti deridono, ma non certo per quello che faccio. Ti deridono perché sei l'unico la cui figlia, o figlio, ce l'ha fatta, ma non ti manda neppure un centesimo. Ti rode il culo al pensiero dei miei soldi e sai che, se ti aiutassi, allora sì che tutti ti guarderebbero con ammirazione e invidia! Che mi dici, stanno così le cose?
Lui continuò a non rispondere e a torcersi le dita. Lo conosceva troppo bene.
— Potrei anche decidere di farlo, ma devi giurarmi che non ti vedrò mai più. Voglio solo dimenticare te e quel fetido buco da dove sei strisciato fuori per venire qui.
In quel momento qualcuno si affacciò alla porta.
— Fra tre minuti in scena!
Lui alzò lo sguardo e si mise una mano sotto la giacca.
— Grazie, ero certo che avresti capito e non ti infastidirò più! — disse — Questo è per te. Ti ho portato…
Lei si morse le labbra e, nonostante tutto, ebbe un tuffo al cuore. La mano si protese verso qualunque cosa lui volesse darle. Dentro le si accese un barlume di speranza, di quella maledetta speranza che puoi umiliare, picchiare e ferire, ma non riesci mai a uccidere del tutto. Resta sempre viva e cova sotto la cenere, assurda, stupida e irragionevole. Forse un po' d'affetto sopravviveva ancora in lui.
— Ti ho portato l'Iban della banca — concluse l'uomo tirando fuori un pezzetto di carta, mentre la mano di lei ricadeva inerte.
— Lascialo sul tavolino e sparisci.
Mentre fendeva la folla volgare ed eccitata, lei entrò in scena iniziando a spogliarsi. Seguiva voluttuosamente le note di una musica lenta e ossessiva e lo guardava negli occhi, odiandolo e provocandolo.
— Che gnocca incredibile, e che tette! — commentò con gli amici un uomo che stava tra lui e l'uscita del locale.
— Quella è mia figlia! — annunziò lui orgogliosamente, e loro lo guardarono stupiti. Poi uscì nella notte e si fece inghiottire dalla città andando verso l'ostello di padre Flanagan. L'indomani mattina avrebbe iniziato il lungo viaggio di ritorno verso casa.
La missione era compiuta.
(fine)

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Alberto Tivoli

(primo classificato, ex aequo)
VENTO E ACQUA
Il piede nudo penzola nel vuoto. L'aura che lo avvolge si addensa e si dirada, come una sequenza di sospiri, e nasconde i dettagli anatomici in un gioco di evanescenze. Il chiarore incornicia le dita, abbraccia il polpaccio e bacia il ginocchio, carezza la coscia e diffrange le luci della città che da decine e decine di metri più in basso si slanciano verso di lei.
Mazu gioca a eclissare dietro l'aura lampioni, finestre, scritte pubblicitarie, i mille riflessi sulle acque della baia. Le immagini appaiono affette da aberrazione cromatica, la luce scomposta in arcobaleni dopo un fuggevole bacio con i rilucenti grani della sua anima.
Si alza in piedi, in equilibrio sulla punta del piede posato sull'estremo flesso e oscillante di un'antenna infissa a sbalzo in una cornice di cemento armato, che corona la testa di una torre rastremata che sovrasta l'intera città, poco più bassa della montagna più bassa, nel rispetto del Feng Shui: del vento e dell'acqua.
Il piede libero, teso a esplorare il vuoto, le trasmette il sapore e il profumo dell'acqua della baia, un aerosol trascinato dalla brezza salmastra e labile come un fantasma affacciato sul confine di due dimensioni. Yang e Yin, equilibrio di due mondi in uno: quello degli uomini, della terra e della ex colonia accovacciata tra le poderose zampe della famelica repubblica del nord; e l'altro, immortale, a cui appartiene.
Allarga le braccia e cessa qualsiasi oscillazione. Contempla il profilo delle propaggini dei monti del Guangdong, che scivolano a meridione e solleticano Hong Kong. Sono le schiene dei draghi che ammiccano con pupille di fiamma, protettori per i quali gli architetti del porto profumato hanno provveduto a lasciare libero il passaggio verso il mare.
Mazu spicca un balzo nella notte. Il suo corpo segue un arco balistico al termine del quale picchia e sibila, sfiorando il vetro e l'acciaio della ICC Tower.
Daji sbuffa, i pugni puntellati sui fianchi. Tutti hanno smesso di fotografare. Il ponte del sampan è popolato da gruppetti di persone che confabulano tra loro e la guardano rivolgendole una muta domanda: e quindi, dov'è la meraviglia?
Mazu non è sempre puntuale ma stanotte è in clamoroso ritardo.
Daji ha orientato le vele in modo che il battello galleggi in cappa al centro della baia. La posizione è perfetta, a dritta si staglia lo skyline di Hong Kong Island, i palazzi sembrano slanciate stalagmiti multicolori. La ruota panoramica, accanto al molo dello star ferry, ruota e sbrilluccica.
Qualcuno accende una sigaretta e Daji, esasperata, raggiunge l'albero centrale per manovrare la vela e riprendere a scivolare sulle acque verso l'isola. Cosa può inventare per giustificare una sosta così anacronistica in una città che è sempre di fretta? I delfini! Sì, ai passeggeri dirà che si è fermata per mostrare loro i delfini bianchi, anche se hanno la pelle nera, e al massimo avrebbero potuto sbirciare le creste di spuma nell'acqua.
La vela trapezoidale si tende sotto la spinta del vento. Un uomo le sorride, prolungando l'ispezione del suo corpo. Daji è consapevole delle gocce di mare e condensa che le scivolano lungo le braccia nude e nell'incavo sotto la gola che le canalizza tra due seni acerbi coronati dai capezzoli che spingono contro l'esile trama della maglietta. Sorride all'uomo e sente i suoi piccoli canini scivolare a ridosso delle labbra, affacciandosi maliziosi. Approva il torace villoso del suo ammiratore e immagina di fare le fusa contro di lui e scintille statiche scoccheranno.
Il pizzicore sotto il naso interrompe le sue fantasie. Prima che i passeggeri allunghino il collo e puntino i loro occhi sgranati, prima ancora che l'acqua si organizzi in un moto ondoso coerente spinta da un fronte di tifone, Daji tira un sospiro di sollievo e si gira ad ammirare la meraviglia della serata salutata dai fuochi di artificio che deflagrano dalla cima del Victoria Peak: Mazu sfiora il mare e alza mulinelli argentati ai lati della sua scia. Le spirali di incenso pendenti dai pali verticali del sampan si accendono generando una nebbia mistica, pesante e persistente. La dea del mare benedice chi ama Hong Kong.
Xiong corre, corre da sempre: da ragazzino tra le strade che a sera si lordano di verdure e pelli di pesce essiccate avanzate nei ristoranti; da giovane, in equilibrio sul monopattino elettrico, fila sui sovrapassaggi che lambiscono le cime delle alte hall dei palazzi, colmi di alberghi e uffici, e che alla stregua di dendriti urbani collegano le stazioni della metro, assoni neurali della città; e da vecchio, si augura, correrà in taxi verso la baia dalla sua sognata villetta in un tranquillo angolo dei new territories.
E corre lungo la promenade della banchina nord, alle spalle lascia la cupola del planetario e giunge alla torre dell'orologio salutato da una cascata pirotecnica nel cielo che si chiude con un boato che risuona come un colpo di gong. Xiong ride felice seguendo la scia della dea del mare, carica sulle spalle il monopattino e salta da un gradone all'altro del molo fino all'attracco del sampan della donna volpe.
Gli ultimi turisti hanno lasciato il molo, il mare sciaborda placido contro la murata e il ponte dell'imbarcazione è silenzioso e buio. Da una finestrella della coperta filtra un bagliore attinico.
Xiong estrae dallo zainetto le bacchette di incenso, la ciotola e un sacchetto di sabbia fine e grigia. Si inginocchia sul calcestruzzo sbreccato e trattiene il respiro finché la murata del sampan non si accosta alla banchina e lui può guardare tra le ante schiuse: in un bagliore da acquario, Mazu, indistruttibile nella sua forma di bronzo, siede su un trono in oro drappeggiato di seta rossa; una volpe dal pelo ramato salta sulle ginocchia della dea e si accovaccia proteggendo il muso tra le zampe, il pelo brilla di gocce di mare e condensa.
Lo spirito della città riposa e medita.
Xiong da fuoco all'incenso e si inchina e sillaba le preghiere del sentiero del Tao.
(fine)

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Massimo Tivoli

(primo classificato, ex aequo)
SECONDA OCCASIONE
I suoni dell'alba mi svegliano, la città si rianima e io con lei. Sono parte della città e lei è parte di me. Un principio di dualità che governa la mia nuova esistenza.
Regna la calma. Il rombo dei motori è attutito, persino le automobili sono ancora un po' dormienti.
Dalla finestra aperta non entra ancora l'odore di hot-dog e bagel. Invece, l'olezzo della strada è sempre presente. Ma, a quest'ora, è vestito di fresco, rischiarato dai getti d'acqua sparati sui lati delle strade, non ancora imputridite dal tran tran quotidiano.
Tra poco, il necessario caos cittadino. Un mix di suoni e odori in cui la mia vita si fonde, mescolandosi con le vite dei tanti perfetti sconosciuti, senza i quali mi sentirei perso. La quiete è buona per farsi coccolare sotto le lenzuola ma, per vivere, mi serve quel mix.
Il mio "gong biologico" mi avverte che devo alzarmi. È un'abitudine che ancora mi porto dietro: sollevarmi entro dieci secondi. È la prima cosa che mi insegnarono alla Gleason's Gym.
La sera del grande incontro mi ritorna alla mente. Mike, il mio allenatore, mi venne a prendere a casa. Tirammo giù per la Columbus, fino a incrociare la 7a, per poi tirare dritto al Garden. Luci, folla e striscioni. Io e il portoricano Lucio non eravamo i soli protagonisti: la locandina di Alien, formato gigante, sovrastava l'ingresso della Penn. Per un attimo, entrare al Garden mi sembrò come venir inghiottito da quel mostro. C'era in palio il titolo mondiale dei pesi welter e io ero lo sfidante. L'occasione di una vita. È raro che il pugilato offra una seconda occasione e, infatti, con me non l'ha fatto.
Ricordo il buio mentre ero nella mia stanza al Lenox Hill, il dolore e l'angoscia, la voglia di farla finita. Mike entrò, lo riconobbi dalla puzza di aglio. Quell'italo-americano l'avrebbe messo anche nel latte della mattina. Buttò il culo su una sedia che, evidentemente, si trovava accanto al letto e mi disse: — Bill, quel bastardo di un portoricano ha tolto l'imbottitura dai guantoni. Le sue mani erano pietre scagliate contro il tuo volto.
— Mike, non ti sforzare di consolarmi. Tu non sei portato per 'ste stronzate.
— Verrà indagato. Quel fottuto bastardo è già sotto processo.
— E sai che me ne frega. Ho parlato col dottore, il danno è irreversibile e degenererà fino a… — ebbi persino paura a dirlo — be', lo sai anche tu. Ho chiuso, è come se fossi morto.
— Figliolo, ci siamo sempre rialzati e ci rialzeremo anche questa volta.
Era un grand'uomo, Mike. Dicono che anche la vita non offra seconde occasioni. Allora, oggi, io me la vado a riprendere, la mia occasione, con tutta la rabbia di quella volta. Sono un atleta nell'anima. Che si fottano, i dottori. Senza la sfida non posso vivere e, dopo quella sera, non è solo un modo di dire.
Dopo una lenta e lunga preparazione, esco dalla mia casa sulla 125a. Insieme a un nuovo inseparabile allenatore, il mio cane Pongo, attraverso il quartiere nero. Qui, tutto odora come la mia pelle.
Percorro Manhattan in direzione di Times Square. Tony, il figlio di Mike, mi aspetta lì. Un buon riscaldamento è quello che mi ci vuole e Pongo si merita una bella passeggiata. L'aria di Harlem è diversa da quella di Manhattan, e non è colpa dei "profumi" importati dagli ispanici. Harlem ha sempre odorato di "diverso". Invece, Manhattan odora di consumismo impomatato e di chi pensa che la città sia tutta qui. Come se il resto fosse solo un'incidente di percorso nella storia senza identità della città. Insomma, non ci sono mura o frontiere, ma il passaggio tra i due quartieri è netto, anche per uno come me.
Un altro confine sensoriale mi suggerisce che sto costeggiando Central Park. L'aroma dei suoi alberi mi inebria. Si può respirare aria pulita anche in questa babele di città.
Arrivo a Times Square: un concerto di suoni e odori. Negli ultimi anni, la prostituzione ha lasciato spazio al turismo super chic, ma rimane sempre un gran bordello. Pongo ci si muove bene, ma io ancora non mi ci abituo, però prima o poi… per adesso c'è Tony e questo mi basta.
— Ehi, campione, eccomi qua.
— Tony! Anche oggi mi hai ripescato.
— Avevi dubbi? Guarda che non passate inosservati.
— Andiamo, non voglio fare tardi.
Con i gomiti sfioro gli altri. Siamo tutti tesi, pronti a esplodere appena dopo lo start della Run-Up. Prima, l'atrio dell'Empire era un caos, solo un continuo rumore destabilizzante. Se non fosse stato per Tony, non avrei resistito cinque minuti. Adesso è puro silenzio, la concentrazione prima della battaglia. Da bravo allenatore, Pongo mi aspetta insieme a Tony. La partenza è il momento più difficile, ma l'ho studiata bene. Due falcate ampie e, poi, svolto a sinistra. Un altro paio di falcate e incontro il primo scalino. La strategia è semplice: mi faccio trasportare dall'ondata di corridori.
La sirena urla, parto come pianificato e arrivo al primo scalino. A tastoni, riesco ad afferrare il corrimano alla mia sinistra. Percepisco un fiume di corridori che scorre alla mia destra, ma non importa. A me interessa solo arrivare in cima. Sarei il primo, un esempio per tutti.
La salita è fattibile. Ogni piano è strutturato sempre allo stesso modo. Una scala a L, col primo tratto separato dal secondo tramite un piccolo pianerottolo. Poi, un pianerottolo lungo e si ricomincia. Tradotto in passi, facendo due scalini alla volta, significa: due passi per il primo tratto, due per il piccolo pianerottolo, sette per la seconda rampa e sei per il secondo pianerottolo, prima della prossima scala. 1462 passi in totale. Devo solo contare e tenere duro.
Le gambe sature di sangue. Ormai ogni passo è una lancia infuocata che mi penetra il quadricipite. Il cuore sta per esplodere. Ho perso il conto a 1224 passi, ma sento che ci sono.
Lo speaker annuncia il mio arrivo: 32 minuti e rotti, ma chi se ne frega. Intorno a me è un'ovazione di umanità, pacche sulle spalle, abbracci e lacrime. L'odore degli uomini è più acre di quello delle donne.
Mentre ascolto gli altri godersi il panorama, come se potessi, io vorrei solamente lanciare uno sguardo di rivincita al Garden. Un corridore commenta la vista verso Lower Manhattan: Brooklyn, i ponti e Lady Liberty. Gli chiedo di portarmi sulla vista verso la Penn, quella che guarda il Garden. L'ultimo ricordo risale a quella sera in cui mi sono sentito come inghiottito dal mostro di Alien, dilaniato dalle sue fauci una volta finito l'incontro. Adesso, se il mostro potesse guardarmi, si sentirebbe piccolo e mi vedrebbe troneggiare su di lui.
— Quella sera ti sei preso i miei occhi e oggi, io, mi sono ripreso la mia cazzo di occasione!
(fine)

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Mirtalastrega

LE MARGHERITE SUI VETRI
— Questo monolocale è perfetto per lei — dice l'agente immobiliare scrutandomi. È un bell'uomo ma io non lo guardo neanche in faccia, i miei occhi scorrono sulle pareti un po' scrostate, sul bagno che è un bugigattolo e sull'arredamento di fortuna. Del resto è tutto quello che posso permettermi al momento. La mia casa precedente non era certo una reggia, ma aveva una bella sala da pranzo, un salotto di tutto rispetto, una cucina spaziosa… Max e io avevamo scelto insieme tutto quanto, dal colore della carta da parati al più piccolo dettaglio, come quegli stupidi asciugamani personalizzati.
Le mie amiche dicono che la parte più brutta del divorzio sia il matrimonio che lo precede. Mia madre afferma che la parte più triste è spartirsi le cose che un tempo sono appartenute a qualcuno che si faceva chiamare "noi". Mia sorella invece sostiene che il momento peggiore sia il giorno in cui metti la firma in fondo a quel documento che sancisce che c'è rimedio all'errore che quei due che si spacciavano per "noi", hanno commesso.
Io non so chi di loro abbia ragione, ma al momento la parte peggiore mi pare quella di cercarmi una nuova casa. Una casa in cui vivrò da sola e vorrei aggiungere al contempo finalmente e anche purtroppo. Forse finaltroppo.
Sì lo so: sono un po' confusa.
È che anche se decidi di divorziare e sai che è la cosa giusta da fare resta sempre una piccola parte di te ancorata al ricordo di quei due che una volta erano un noi. La cosa peggiore è che quando svanisce la rabbia e si dissipa il rancore ti tornano in mente i ricordi migliori. I ricordi sono bastardi: non li puoi sempre scegliere. Basta un profumo, una parola, la pubblicità di un film. Vai a sapere come decidono di tormentarti. Sono un po' come i numeri del superenalotto: sai bene quali vorresti che uscissero, sono facili, sono solo numeri. Però poi ti toccano sempre quelli sbagliati. Un po' come mi è successo con gli uomini.
Mi tergo una lacrima con il dorso della mano sperando che l'agente immobiliare non se ne accorga.
— Tutto bene signora?
Beccata!
— Certo, deve essere lo smog… non ci sono abituata.
Sì, certo, va tutto benissimo! Mi devo trasferire a Milano perché ho trovato lavoro solo qui e non posso restare nel negozio del mio ex marito insieme a lui, qui non conosco nessuno, ho sempre vissuto solo in un paesino e tutti i miei amici sono lì. Sono praticamente un'estranea fra estranei, forse sono anche esaurita perché mi viene da piangere ogni cinque minuti, ho ventotto anni e me ne sento settanta. Mi sento esausta. E mi scoccia che questo tizio mi guardi così. Cosa guardi? Fino a qualche mese fa ero più carina sai? Mi vestivo bene, curavo il mio aspetto ed ero una bella donna. Uhm… forse non tanto bella da impedire a Max di trovarsene una più giovane però.
Dannazione un'altra lacrima! A furia di piangere ci si può disidratare? Non è per lui… quell'infedele, è per… per quel noi.
— Scusi — balbetto sentendomi una perfetta idiota. — È che sto divorziando… è tutto così difficile.
Lui annuisce comprensivo.
— L'appartamento è intimo ma sono sicuro che con un tocco femminile potrebbe avere delle buone potenzialità — mormora continuando a guardarmi. Accenna anche un sorriso, per un istante mi ricorda qualcosa che poi mi sfugge. Niente, questo numero non vuole uscire, l'ombra di quella sorta di ricordo si dilegua e lui torna a essere un estraneo. Forse era solo un dèjà vu.
— Sì. Io… credo che vada bene — mormoro imbarazzata per averlo fissato troppo intensamente.
— Forse la vista non è un granché — mi spiega lui con una strana luce negli occhi. — Però, guardi che è una bella zona, non è malfamata. Vede quel palazzo lì di fronte?
Annuisco. Certo che lo vedo, si vede solo quello, c'è solo un vicoletto a separarlo dalla mia finestra, non si scorge nemmeno uno stralcio di cielo. Solo asfalto e muri, tutto grigiastro. Mi sento così anche io. Dentro. Ma non alla cinquanta sfumature… proprio grigio nel senso di incolore. Stinta. Tutti i miei colori sono andati via e anche un po' la voglia di vivere.
— Io abito proprio in quel palazzone, dodicesimo piano, tende azzurre. Quella è la mia finestra — dice indicandola.
A essere sincera non me ne può fregare di meno. Tuttavia fingo un sorriso stinto.
Una settimana dopo mi trasferisco nell'appartamento.
La mia prima sera da sola a Milano. Sono circondata da scatoloni. Mi guardano come quei palazzoni di cemento che sorgono tutto attorno a me, del resto lo è anche il caseggiato dove abito. Mi pare d'essere una naufraga. Vorrei avere il coraggio di scendere al bar e prendermi la prima sbronza solitaria della mia vita. Invece rimango qui a fare da bersaglio ai ricordi. Io sono sempre stata quella che si prendeva le cotte. Mai nessuno se le prendeva per me. Me ne ero presa una anche per Max, il classico playboy della scuola, così forte da sposarlo.
Scaccio le lacrime che sottolineano quanto io sia sciocca.
No, fermi tutti. Una volta uno s'era preso una cotta inspiegabile per me. Avevo quindici anni e lui era il nipote della signora con la casetta proprio dinanzi a quella dei miei genitori. Dalla finestra della mia stanza potevo vedere la sua. Ci separava solo il giardino. Era venuto dalla zia per le vacanze di Natale. Ogni tanto mi guardava ma non mi aveva mai rivolto la parola. Però ogni sera disegnava delle margherite sulla condensa del vetro. Sapeva che le vedevo. E io sapevo che erano per me. L'ultima sera aveva aggiunto anche un cuoricino e poi mi aveva sorriso. Io ero troppo presa dalle mie cotte per i bellocci della scuola per curarmene, chissà perché stasera l'estrazione ha sorteggiato proprio quel ricordo. Forse perché le margherite disegnate sui vetri non durano, proprio come la felicità.
Sbuffo e guardo fuori dalla finestra senza quasi rendermene conto. Il mio sguardo corre al dodicesimo piano, alle tende azzurre… là dove sui vetri ci sono disegnate delle margherite stilizzate fra la condensa. Trasalisco, allibita.
Possibile che quell'uomo sia lo stesso ragazzino che un tempo mi corteggiava timidamente? L'estrazione forse non è sempre così casuale.
Lui si affaccia alla finestra e sorride. Ora ricordo quel sorriso. È pazzesco ma deve essere proprio lui. In qualche modo non sono più così sola. Forse non tutti i ricordi sono bastardi e questa sera per la prima volta mi viene spontaneo sperare che non lo siano nemmeno tutti gli uomini. Magari le margherite sui vetri possono scomparire, ma puoi sempre disegnarne delle altre, proprio come sto per fare.
(fine)

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Gabriele Ludovici

LA SCHIENA SULL'ASFALTO
— Mamma, guarda!
— Andiamo via. Se lo tocchi, ti attacca qualcosa.
A ferirmi non è l'insinuazione di quella donnetta. È che la bambina mi stava facendo ombra, mentre ora sono di nuovo sotto lo scoppio del sole. Chissà se passerà altro tempo o se finalmente qualcuno mi aiuterà a tornare in piedi. Semmai potrò rialzarmi. Quando la buonanima di zio Agostino si ruppe il femore nei campi, rimase a letto qualche mese. Poi spirò per eccesso di inattività. E aveva dieci anni di meno della mia età attuale.
Adesso mi limito a tastare il manto d'asfalto che ha accolto il mio corpo dopo la caduta. Riesco a muovere solo il braccio sinistro, sto cercando la bicicletta, ma inizio a credere che me l'abbiano portata via. Ricordo il volto di un ragazzetto chinato, che s'era tolto le cuffiette e m'aveva chiesto cos'era successo. Prima che potessi rispondergli è svanito dal mio raggio visivo, e poco dopo credo di aver udito il rumore delle ruote della mia bici. Credo eh, perché ormai non ci sento più molto bene.
Posso dire che questo non è di certo il miglior posto della città dove finire schiena a terra. Stamattina ero uscito presto per recarmi nella pescheria di questo quartiere, lontanuccia da casa mia ma sempre ben fornita. Nonostante il divieto di mia moglie, avevo deciso di inforcare la due ruote a distanza di sicurezza dal gelo invernale e dagli spifferi primaverili: è agosto! In questo periodo la città diventa a misura d'uomo. Niente code, nessuno che mi travolge uscendo dalla metropolitana, niente turisti perché vanno nella zona costiera.
Ma non ho fatto i conti con altri aspetti come la carenza di mezzi pubblici — non ho preso la bici solo per fare una gita di piacere — e il fatto che, come dice il giornale, quest'anno a causa della crisi molti rinunciano alle vacanze. L'ho notato quando m'ero già immerso nella pista ciclabile, dove ho visto persino circolare dei motorini e strani aggeggi elettrici simili a monopattini.
Ero pronto per attraversare la strada, stavo solo scegliendo il momento giusto. C'era questa Punto che procedeva lentamente, il guidatore era al telefono, ne sono sicuro. Metto piede sul pedale e quello che fa? Accelera, senza nemmeno vedermi. Mi manca di poco, mi sporgo dal sellino per gridargli qualche improprio e poi… un lieve mancamento.
È bello il mondo, visto da quaggiù. Quando una nube mi permette di aprire gli occhi, noto che il cielo è di un mirabile color azzurro. La cervicale mi impedisce di alzare il collo per troppo tempo, ma ora non posso far altro che contemplare il panorama soprastante.
— Oh! Si sente bene? Cos'è successo?
Finalmente! Ecco questa donna, con le buste della spesa e il volto madido di sudore. La sua voce stridula attira un capannello di persone annoiate, che si avvicinano per alcuni secondi e poi tirano dritto. Un cane mi punta il muso in faccia e mi carezza con la sua lingua ruvida.
— Per carità, non si muova. Come si chiama?
— …
Rimango muto. Non ricordo il mio nome, a dire il vero sono confuso.
— Hai capito il nonno ubriacone! — mormora una ragazzina, che poco dopo inizia a riprendermi con una specie di telefono di quelli che fanno le foto. La signora le dà una sonora pacca sulle natiche per allontanarla. Poi sento che questa buona samaritana fruga nelle mie tasche. Spero non sia un atto di sciacallaggio. Vedo che estrae il mio di telefono.
— Le leggo i nomi sulla rubrica per rintracciare qualche parente. Qualcun altro qui può chiamare il soccorso?
— Non so il numero — replica un tizio.
— Centotredici!
— Ma è un numero verde? Ho finito i minuti.
— Se ne vada che è meglio!
La signora, pazientemente, mi elenca una sfilza di nomi che non ricordo affatto.
— Iris, Milù, Nando casa…
Niente. Le comunico che mia moglie forse si chiama Adelina, ma non riesce a trovare nulla.
Nel frattempo odo il rumore della sirena dell'ambulanza.
— Eccone un altro! — esclama un infermiere dall'aria distratta.
Fanno scendere la barella e mi caricano su. Non ho modo di esprimere il mio ringraziamento alla signora, visto che appena finisco nelle mani di questi individui in camice… beh, sparisce.
A bordo l'aria è viziata, gli infermieri iniziano a parlare del fatto che sono esausti e che la prossima volta che gli propongono due notti di fila fanno un casino che il caposala manco se lo immagina.
— Che poi, dico io, dobbiamo scarrozzare questi anziani che escono quando ci sono quaranta gradi all'ombra. Ma non la guardano la televisione? Non sanno che rischiano la pelle?
Teoricamente dovrei replicare, ma non ne ho alcuna voglia. Penso ad Adelina, al fatto che quest'ambulanza mi sta portando lontanissimo da casa e lei sarà in pensiero. Mi sembra di percepire il peso dell'impatto delle ruote sulla strada, come una via crucis velocizzata esponenzialmente.
— Che poi questo manco si ricorda come si chiama e non ha il portafogli. Come funziona in questi casi?
Diamine, ha ragione. Era nel marsupio che tenevo nel cestino della bicicletta. È che oggi ho i pantaloni marroni, quelli con la tasca posteriore usurata.
Che ne sarà di me?
Improvvisamente, sento un violento impatto. Il veicolo ha urtato qualcosa. In un baleno le portiere posteriori si spalancano e vengo catapultato fuori, sono ancora tenuto stretto alla barella e di conseguenza mi ritrovo a pattinare in mezzo alle macchine che inchiodano e strepitano.
Sorrido. Conobbi Adelina proprio sulla pista di pattinaggio comunale, che da adolescente frequentavo la domenica pomeriggio. Avevo capito che la maggior parte delle ragazze si ritrovava lì, ma non fatevi una cattiva impressione di me.
Mentre scivolo tra le auto in corsa — che siano benedette finché non mi schiacciano, visto che al loro passaggio si solleva una fresca brezza — ripenso a quegli anni, a quando i palazzi non sovrastavano il cielo e potevamo goderne le sfumature senza alcun ostacolo. Adesso, perdonatemi, non so davvero immaginare cosa ne sarà di me. Facciamo che chiudo gli occhi, e magari stavolta al mio risveglio non mi ritroverò i telefonini-fotografici puntati addosso.
(fine)

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Ilariajo

UN LAST-MINUTE A VOLTE TI CAMBIA LA VITA
Erano settimane che piangevo dopo essere stata lasciata con un bigliettino dal mio uomo, uomo poi, uno che non aveva neanche avuto il coraggio di dirmelo in faccia che si era innamorato di un'altra donna. Non so cosa mi portò una mattina a prendere una drastica decisione. Volevo cambiare vita, volevo andare lontano da qui. Presi il computer e cercai un last minute.
— Londra! Ma sì!
Comprai solo il biglietto di andata, il volo era nel pomeriggio, preparai in fretta e furia il bagaglio a mano. Mentre ero in treno, chiamai mia madre per dirle che partivo per andare a trovare un'amica, che avevo comprato il biglietto mesi prima, ma avevo dimenticato di avvisarla. Non mi andava che pensasse che mi fossi ammattita, o che si preoccupasse che andassi in un luogo dove non conoscevo assolutamente nessuno, nemmeno la lingua. Avevo bisogno di tutto questo, avevo bisogno del caos per riempire di nuovo le mie giornate, per ritornare a vivere.
Al momento di scendere dall'aereo ero ancora intrappolata nel mio posto.
— Ci fosse qualcuno che si fermasse per farmi passare — pensai.
OK, io non avevo fretta, però che cavolo! Non finii neanche di pensare questa cosa che un ragazzo dallo sguardo magnetico si fermò per lasciarmi passare. Quegli occhi verdi mi fecero sentire per un attimo spaesata, poi ritornai in me e passai ringraziandolo con un sorriso.
— Parlerà sicuramente inglese, meglio evitare di fare figuracce — dissi tra me e me. In realtà avevo completamente perso l'uso della parola.
Quel sorriso mi fu ricambiato poco dopo, quando lo incontrai mentre stavo per salire sul mio taxi, lui mi sorrise e salì nel suo.
— Hello, I don't speak english, sorry — dissi al tassista, poi senza aggiungere altro gli diedi un bigliettino con l'indirizzo dell'hotel.
Durante il tragitto mi accorsi di quanto fosse enorme questa città, il tassista passò accanto al Big Ben di cui potei notare la straordinaria bellezza, promettendomi che ci sarei tornata di persona. Era la prima volta che salivo su un taxi nero, trovavo che tutti questi taxi che vedevo durante il cammino dessero un tocco di eleganza alla città.
Appena arrivata in hotel, presentai la prenotazione e poi, più a gesti che a parole, chiesi la chiave della stanza. Salii per lasciare la valigia, diedi una rapida occhiata alla camera e scesi per la mia prima visita alla città.
Non avevo mai visto così tante persone tutte insieme. Armata di macchina fotografica cominciai a scattare foto un po' ovunque. Una leggera pioggia cominciò a scendere, guardai l'ora e mi decisi a entrare in un piccolo ristorantino per cenare. Ovviamente non capivo quasi nulla di quello che c'era scritto sul menù, così mi aiutai con una delle poche figure che c'erano, che indicai al cameriere una volta arrivato al mio tavolo.
— Oh, fish and chips, good idea! — almeno questo l'avevo capito, riuscii anche a chiedere una birra.
Dopo aver consumato la mia deliziosa cena decisi di ritornare in hotel, per fortuna riuscivo sempre a destreggiarmi con una cartina tra le mani. Appena arrivata in camera, chiamai mia madre.
— Carla! Sei arrivata? Stai bene? Ho provato a chiamarti e non mi hai risposto — mia mamma era un fiume in piena, del resto aveva ragione, mi ero completamente dimenticata di chiamarla prima.
— Sto bene mamma, tranquilla, sono uscita a fare una passeggiata.
— Da sola? In una città così grande? E se ti succede qualcosa? — sapevo che non si era bevuta la scusa dell'amica.
— Mamma, ho ventinove anni, cosa vuoi che mi succeda?
Dopo averla tranquillizzata, le promisi che l'avrei richiamata il giorno dopo, poi presi il mio computer e cominciai a passarvi le foto, appena fatto questo cominciai a guardarle. Una cosa attirò subito la mia attenzione.
— No, non è possibile! Non ci credo! — esclamai a voce alta, e invece sì, il ragazzo che in aereo mi aveva lasciato passare, era in una delle foto, bello come il sole.
L'avevo fotografato senza rendermene conto all'entrata del Regent's Park. Continuai a guardare quella foto per non so quanto tempo, era così strano che qualcuno dopo Pietro mi facesse un tal effetto, credevo che non sarebbe più successo. Mi addormentai pensando a questo.
Il mattino dopo mi recai in un centro per iscrivermi a un corso d'inglese, scelsi quello della durata di sei mesi, avevo deciso che volevo fermarmi lì, del resto non avevo comprato il biglietto di ritorno.
Presi la metropolitana, che trovai molto organizzata, nonostante ci fossero almeno un centinaio di persone a ogni fermata. Londra mi stava già conquistando, mi piaceva incontrare persone di tutte le etnie, persone dall'abbigliamento bizzarro o dai capelli dai mille colori, tutto questo mi faceva sentire libera di essere me stessa. Comprai un giornale con gli annunci per le case e me ne andai dritta dritta al Regent's Park.
Mi sedetti su una panchina e cominciai a guardare gli annunci, per fortuna ne trovai qualcuno anche in italiano.
All'improvviso qualcuno mi rivolse la parola, proprio nella mia lingua.
— Salve, ma lei non è la ragazza dell'aereo? Che bella coincidenza.
Non poteva essere, quella meraviglia era davanti a me e parlava anche la mia lingua.
— Ciao, io sono Carla, dammi pure del tu — dissi porgendogli la mano. — Hai ragione, è davvero una bella coincidenza! Credevo fossi inglese, pensa un po'— aggiunsi sorridendogli.
— No, vivo qui solo da un anno, posso sedermi? Ah! Io sono Davide.
— Certo che puoi.
Poi diede un'occhiata al mio giornale. — Vedo che stai cercando casa, hai trovato lavoro qui a Londra?
— No, anzi, proprio stamattina mi sono iscritta a un corso d'inglese, ho deciso di cambiare aria, ho trovato un last minute proprio ieri ed eccomi qui — Senza rendercene conto parlammo per tutta la mattinata. Sembrava ci conoscessimo da una vita. C'era una strana magia tra di noi.
A un certo punto mi cadde il giornale a terra, nel prenderlo ci abbassammo entrambi battendo la testa, lui imbarazzato mi chiese subito scusa. Non so cosa scoppiò in entrambi, ma ci baciammo. Fu un'emozione indescrivibile.
— Sono contento che la fortuna ti abbia portato a Londra.
— Anch'io sono felice.
E fu così che Davide entrò a far parte della mia nuova vita.
(fine)

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Eliseo Palumbo

(fuori Gara, ma incluso per aver comunque commentato i testi degli altri)
LIBERO
La U-Bahn è arrivata più veloce del solito alla fermata di Marienplatz, Monaco di Baviera. Il rumore dei freni fanno storcere il naso alle poche persone presenti in questa calda, afosa e lunga notte d'estate.
— Bitte einsteigen — gracchia la voce automatica — zuruck bleiben.
Quelle poche persone salgono velocemente sul vagone. Jakob no. Lui rimane seduto a fissare il vuoto sulla panchina. Sorseggia la sua Augustiner. Sorso dopo sorso manda giù lentamente come ha ingollato le delusioni susseguitesi in quella settimana. Prima ha perso Stephie, poi, causa il nervosismo, è venuto alle mani con il direttore del market dove lavorava, in fine quella lettera dall'ospedale, la quale diagnosticava un tumore alla trachea.
Accende una Gauloises rossa nonostante sia severamente vietato. Poco importa, non c'è nessuno a fargli compagnia o dargli fastidio, solo due piccoli topi che si rincorrono vicendevolmente senza tregua.
Jakob sorride osservandoli. Vorrebbe essere come loro. Alza lo sguardo verso il monitor. Mancano ancora cinque minuti all'arrivo della prossima U-Bahn, si avvicina ai topi, uno dei due gli sale sulla scarpa e Jakob continua a sorridere. Si sposta verso la spazzatura, getta la bottiglia vuota, stringe in mano la lettera dell'ospedale. La vita è comica pensa. Ha sempre aiutato il prossimo, ha sempre lavorato, ha sempre amato e rispettato la sua donna ma in cambio la vita gli ha dato sempre solitudine, il padre morto quando aveva cinque anni, madre morta per la disperazione poco dopo, nessun parente che si prendesse cura di lui, l'orfanotrofio fino a 18 anni, poi la svolta, il lavoro, Stephie, adesso stava andando tutto per il verso giusto. Stava. Adesso a 20 anni deve lottare con una malattia più grande di lui, solo per l'ennesima volta. Almeno quei topi hanno un compagno di giochi pensa.
La voce gracchiante annuncia l'arrivo della U5, la folata di vento provocata dalla velocità del mezzo lo pervade, gli da un momentaneo senso di libertà, come un uccello in volo ma Jakob vuole essere libero per sempre, non vuole più accontentarsi.
Jakob salta in avanti.
Adesso la sua anima vola libera, non sappiamo se fra angeli o i demoni, ma, sicuramente, vola libera.
(fine)

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